5350ISSN 2611-0954
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Anno 29 (Nuova Serie) – n. 5
- Maggio 2021 -
N° 5 della Serie online
CORRADO CALABRÒ QUINTA DIMENSIONE di Elio Andriuoli RA i libri di poesia apparsi presso l’Editrice Mondadori negli ultimi anni un posto di rilievo lo occupa Quinta dimensione, un volume antologico che raccoglie le poesie scelte di Corrado Calabrò dal 1958 al 2028. È questo certamente un libro di notevole pregio per il suo contenuto, ma che si presenta anche in un’elegante veste tipografica, che lo rende gradevole alla vista. Esso si apre con un poemetto intitolato Roaming (termine che riguarda le comunicazioni telefoniche tra stati diversi) il quale e nato nell’autore da profonde meditazioni sul significato del nostro vivere e del mondo in cui siamo nati, perduto in un universo sconfinato.
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All’interno: Mario Scognamiglio, di Giuseppe Leone, pag. 5 La poesia di Michela Zanarella, di Lorenzo Spurio, pag. 8 “Torneremo a guardare il mare”, di Franca Alaimo, pag. 14 Domenico Defelice: Non circola l’aria, di Carmine Chiodo, pag. 16 Gozzano e Corazzini, di Antonia Izzi Rufo, pag. 19 Tito Cauchi, Isola di cielo, di Anna Aita, pag. 21 Isabella Michela Affinito, di Antonio Crecchia, pag. 23 Imperia Tognacci e Il prigioniero di Ushuaia, di Tito Cauchi, pag. 26 Emanuele Banfi e il latino di Dante, di Giuseppe Leone, pag. 28 Animali domestici, di Antonia Izzi Rufo, pag. 30 Sentimenti e cultura in Francesco De Napoli, di Leonardo Selvaggi, pag. 31 Dediche, a cura di Domenico Defelice, pag. 34 Notizie, pag. 46 Libri ricevuti, pag. 49 Tra le riviste, pag. 51 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Vincenzo Rosi, di Antonio Crecchia, pag. 36); Tito Cauchi (Autori contemporanei nella critica, di Isabella Michela Affinito, pag. 37); Salvatore D’Ambrosio (Domenico Antonio Tripodi pittore dell’anima, di Domenico Defelice, pag. 39); Elisabetta Di Iaconi (Il prigioniero di Ushuaia, di Imperia Tognacci, pag. 40); Manuela Mazzola (Domenico Antonio Tripodi pittore dell’anima, di Domenico Defelice, pag. 41); Manuela Mazzola (Il prigioniero di Ushuaia, di Imperia Tognacci, pag. 42); Manuela Mazzola (Torneremo a guardare il mare, di Maria Teresa Infante, pag. 42); Liliana Porro Andriuoli (Domenico Antonio Tripodi pittore dell’anima, di Domenico Defelice, pag. 43). Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Francesco Fiumara, Antonia Izzi Rufo, Wilma Minotti Cerini, Gianni Rescigno, Carlo Sebastiani Questo poemetto, dice l’autore che gli è nato di getto e che l’ha scritto come in trance, essendosi aperti in lui dei vertiginosi abissi, nei quali ha visto l’uomo navigare negli spazi sull’astronave Terra, compiendo un viaggio nel quale presente, passato e futuro si confondono come in un unico sogno. Calabrò nei versi di Roaming descrive delle catastrofi: da quella del terremoto di Messina del 1908, del quale ancora oggi è viva la memoria, a quella di una possibile catastrofe cosmica, causata da un asteroide che si abbatte sulla luna, provocando lo spostamento dell’asse terrestre. Lucidissima è la visione del poeta, che descrive queste catastrofi come se vi assistesse e ne fosse partecipe, con un linguaggio esatto e con rigore scientifico. La visione diviene così
estremamente suggestiva, anche perché Calabrò fa uso della sua una vasta cultura per descriverla in maniera quanto mai efficace. Ne scaturisce un forte sentimento della precarietà del nostro vivere, e quindi del nostro futuro, legato all’imprevisto; ma anche un sentimento drammatico dell’avventura della Terra nello spazio e della prevedibile sua tragica fine. Gli effetti di quell’impatto sono devastanti e noi che vi assistiamo attraverso i versi intensi del poeta, ci sentiamo partecipi del terribile evento. Presente, passato e futuro si sono così incrociati per un attimo in un unico istante, che ci ha resi consapevoli della nostra finitudine. Seguono le poesie trascelte dall’autore in un arco temporale molto vasto (1958-2018), nel quale tuttavia conservano coerenza e unitarietà di stile, a cominciare da quelle che egli, con
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sottile ironia ha raccolto sotto il titolo Autoritratto? Certo, ma è il mio? Scaturiscono queste poesie da un forte sentimento della natura e da un’intima sapienza del vivere, fermati nel giro veloce del verso. “Fila liscia la barca / e segue la rotta col muso / come i pesci. / Apre l’occhio di quarzo la lampara” (Sirena); “Trent’anni, oggi, che siamo in questa casa; / trent’anni, quanti ne hanno il cedro qui / e l’ultimo dei nostri figli altrove” (Coppe carnose di camelie). Quello di Calabrò è comunque un linguaggio moderno, privo di arcaismi, che subito avvertiamo prossimo a noi. Certo, un linguaggio nel quale si sente palpitare la vita, dalla cui diretta esperienza scaturisce. “Svegliarsi è sapere che mi pensi… / pensarti e non poter dormire…” (Dormiveglia); “Ma la mia casa s’affaccia sui colli / con un’enorme terrazza. / Da lì riesco a scorgere al mattino, / a cappello sull’urbe, il cupolone” (Praticamente non serve il cannocchiale); “Soffitto che sbianca su di me, / supino nel mondo che si sveglia” (Circuito
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chiuso). Una poesia, quella di Calabrò, nella quale prevale la tematica amorosa, presente un po’ dovunque nei suoi libri, ma che in Quinta dimensione trova un particolare rilievo in sezioni quali Scuote l’anima mia Eros, che ci conduce direttamente a Saffo. “Entra negli occhi senza farmi male / fammi specchiare – una volta! – la tua anima / fammi varcare la linea sfuggente / tra il bisogno di credere e l’amore” (Entra negli occhi senza farmi male); “Sulla mia spalla stanca la tua guancia / su su su / sbianca il giorno sbiancano le labbra” (Sbianca il giorno); “Accorre improvvisa al mio petto / la tua giovinezza / e lo gonfia / come la terra a primavera” (Accorre improvvisa); “M’agguanti l’anima ancora / come un falcone il pugno” (Stanca le ali). È questa una poesia che si contraddistingue, oltre che per la sua immediatezza e per la freschezza dell’invenzione, anche per l’uso di vocaboli moderni, quali password, essemmesse, bypass, unitamente a citazioni di natura classica, quali labentia signa e Humilemque videmus Italiam. C’è pure in queste poesie qualcosa di magico e di stregonesco, che trova le sue radici in epoche antichissime della storia umana, come avviene ne L’esorcismo dell’Arcilussurgiu, compiuto da una fattucchiera che pare essere piuttosto una strega. Calabrò sembra possedere la passionalità dell’anima meridionale, che troviamo in poesie quali quella dedicata a Silvia: “Silvia, che troppo grandi / apri alla notte gli occhi / Silvia, che troppo grandi / apri gli occhi al risveglio” o a Jessica: “Jessica, che alzandoti / sulle lunghissime gambe / meravigli il mattino”. Sempre vivo è inoltre in lui il gioco delle immagini e sicuro il ritmo del verso: “Amore che alla gola mi sorprendi / come si scopre d’essere feriti / dalla macchia di sangue che s’espande” (Alla moviola); “T’amo di due amori // eppure è a senso unico la freccia / che oscuramente segna la mia via” (T’amo di due amori). Poeta dalla ricca vena e capace di sempre rinnovarsi, Calabrò ogni volta ci sorprende per
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la novità delle sue invenzioni, che assumono a volte un più ampio respiro, come è di Marelungo, vera e propria comunione con la vasta distesa marina o Il vento di Miconos, in cui, sul ritmo veloce del vento che soffia, Calabrò ripercorre le tappe fondamentali della propria vita, che si rifanno presenti, in un giro infinito di pensieri. E si veda anche Colpo di luna, dall’immediato incipit: “È vasto il cielo sulla spiaggia tiepida, / vasto di stelle alitanti leggere / sul regolare respiro del mare”: e anche qui la comunione con la natura sortisce effetti di notevole efficacia. Ugualmente efficaci sono però le poesie più brevi che qui si incontrano e che appaiono il frutto di rapide sintesi, quali quelle della sezione Presente anteriore, dove troviamo testi come Né ramo né radice, dal quale emerge la figura della figlia del poeta, o Equazioni, efficace recupero del tempo perduto, o ancora Ho schiumato la patina del sogno, descrizione di un momento magico, che viene così fermato nel tempo o infine Ecce tibi filius, sofferta testimonianza di una feroce guerra e così via. E si legga pure la sezione Ancora Telestupefatti, nella quale si affaccia pienamente la vena civile di Calabrò in poesie quali Dei caduti a Nassiria. Il libro si chiude con un lungo scritto in prosa, nel quale Corrado Calabrò parla di sé e del suo costante rapporto con la poesia e del significato che essa assume anche per noi, uomini del terzo Millennio. Elio Andriuoli CORRADO CALABRO’: QUINTA DIMENSIONE (Mondadori Editrice, Milano, 2018, € 18,00)
___________________________________ È IN TRADUZIONE NEGLI STATI UNITI D’AMERICA la silloge di poesie
12 MESI CON LA RAGAZZA di Domenico Defelice A tradurla è la dottoressa scrittrice e poetessa
Aida Pedrina-Soto Ecco, di seguito, un brano nell’originale e
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nella bella traduzione:
NEMICO DI ME STESSO Sei partita come tutti gli anni, Guanciadipesca, te ne fuggisti al Nord ove l’agosto ha palpiti più lievi, sulla laguna smeraldina le cui città si nutrono di sogni e di riflessi, nella pianura sterminata ove l’aurore vestono di nebbie come le antiche fate. Io son rimasto qui nello stridore delle cicale con ansia e desiderio che ritorni. Nemica del tuo Sud cerchi pretesti a vivere la vita a cui tu aspiri; nemico di me stesso pur avendo pretesti non mi uccido.
ENEMY OF MYSELF You left like every year, peachy cheeks, you run away to the North, where August has softer quiverings, on the emerald lagoon where cities are nourished by dreams and reflections, in the boundless rains where dawns dress with fog like ancient fairies. I've remained here in the screeching of cicadas with trepidation and yearning for you to come back. Enemy of your South you are looking for lame reasons to live the life you really want; enemy of myself although I have reasons, I don't kill myself.
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MARIO SCOGNAMIGLIO L’uomo, il maestro, l’intellettuale di Giuseppe Leone ON un’avvertenza del curatore Maurizio Nocera che spiega genesi e finalità dell’opera; una presentazione di Oliviero Diliberto, Per Mario, per Umberto, in cui si sofferma sul ricordo di Mario Scognamiglio e Umberto Eco, sforzandosi di immaginare come, in questo tempo di coronavirus, avrebbero fatto in riunione telematica, in assenza delle cene pantagrueliche, delle affabulazioni libresche, delle visite in biblioteche…” (9); nonché, interventi di Eco e, a seguire, Gianni Cervetti, Gianfranco Dioguardi, Oliviero Diliberto, Matteo Collura, Cesare Fabozzi, Luigi Marino e, ultimo, ancora Nocera, è uscito, per conto della Cmyk Stampa e Grafica, Alezio-Lecce, allo scadere del 2020, Mario Scognamiglio e le riviste “L’Esopo” 1979-2012 “Almanacco del Bibliofilo” 19902012. Indici. Un elegante volume di formato grande, stampato in 160 esemplari non venali, in carta Modigliani 120 gr/m² della Cartiera Cordenons.
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Il tutto per una rievocazione del valente bibliofilo scomparso il 4 gennaio 2014 e per non disperdere i lunghi anni di attività delle riviste e dell’Aldus Club, da lui animati con la sua infaticabile e geniale capacità di attrarre altri bibliofili, lettori da ogni parte del mondo, su progetti di ricerca e di cultura di alto livello editoriale e sociale. Da Umberto Eco, che ci tiene a precisare, nel suo scritto intitolato semplicemente Mario, che Scognamiglio non è stato solo un libraioantiquario, né soltanto amava svisceratamente il libro… . Lui amava anche i collezionisti e questo spiega perché negli ultimi decenni avesse dato vita all’Aldus Club, un’associazione di bibliofilia in cui confluirono molti appassionati bibliofili, inventando con fantasia inesausta i modi per mettere insieme chi amava il libro come lui … (13); a Gianni Cervetti, che lo ricorda, oltre che per le sue riviste e la fondazione del Club, soprattutto per “il suo titolo più meritato che è stato quello di amico, amico del libro, certo” (17). Da Gianfranco Dioguardi, riconoscente a Scognamiglio per la sua libreria di via Rovello a Milano “destinata a diventare una sorta di agorà, ovvero di piazza-circolo culturale dove insieme a tanti amici si incontravano anche personaggi illustri della cultura italiana, da Leonardo Sciascia a Umberto Eco, e molti altri ancora (17); a Oliviero Diliberto, che ricorda l’umanista-bibliofilo, la sua naturale signorilità. E non solo, anche il giornalista, corrispondente de L’Unità a Mosca negli anni ’50, la sua amatissima Capri, i tantissimi personaggi illustri con i quali aveva sorprendenti rapporti di amicizia, il presidente Napolitano. Ma soprattutto, quello che era ai suoi occhi: un uomo dall’incredibile generosità intellettuale e materiale … Amava perdutamente i libri. Non li viveva come una semplice merce. Così per lui il commercio diventava condivisione, sodalizio. (19-20). Da Matteo Collura, che riconduce i fotogrammi di tutta una vita a una sola, icastica immagine: “Quando Mario vide approssimarsi per lui la fine, socraticamente volle riunire attorno a sé i suoi amici bibliofili, per dare loro
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un ultimo saluto. Per farlo scelse una sala appartata di un caffè milanese. Ebbi il privilegio di essere tra gli invitati. Mario volle concludere l’incontro con una richiesta a Umberto Eco, nostro presidente, che lì per lì sembrò impertinente: che leggesse il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. Mario allungò un foglietto. Eco lo prese, comprese il perché di quella richiesta, e lesse. E fu una meravigliosa, struggente musica di parole, impeccabilmente pronunciate, grazie alla conoscenza medievale di quell’imprevedibile lettore. Mario salutò così tutti i presenti a quell’incontro, gli occhi umidi e il cuore rinfrancato” (21); a Cesare Fabozzi, che lo definisce “ironico, estroso, imprevedibile” (22). Da Luigi Marino, infine, che ritorna - dopo aver ricordato che Mario era nato a Resina (Ercolano) il 20 luglio 1930 - agli anni dal ’57 al ’60, al tempo della fondazione del Circolo Italia-Russia a Napoli, con sede, a partire dal ’59, in via Depretis nel sontuoso salone, dato in affitto a prezzo irrisorio da una cara amica borghese di sinistra socia dell’Italia-Urss, “dove Mario svolgeva un’attività culturale ad alto livello, libera dall’ingerenza del Pci” (23); a Maurizio Nocera, che apre il suo intervento, Il bibliofilo Mario Scognamiglio e le sue riviste, con la notizia della morte dell’amico, per poi ripercorrere i momenti più significativi della sua attività editoriale e della loro personale amicizia, che è stata “sincera e lunga” (32); la sua stima verso un intellettuale che ha trasferito la nozione del dubbio dalla filosofia alla storia scrivendo che essa, soprattutto in questi ultimi tempi, “non è limpida acqua di fonte da bere a garganella, ma spesso, molto spesso, è un torbido intruglio, una bevanda adulterata, venefica, propinata ai popoli da inquietanti alchimisti, servi e complici dei tiranni di turno” (28). Quello che colpisce, allora, sfogliando le 192 pagine di questo volume - corredato all’interno di prime di copertina de “L’Esopo” e dell’ “Almanacco del Bibliofilo”, di pagine di giornali, degli Indici delle riviste e di un album fotografico che ritrae Mario in vari momenti della sua vita, ora, in compagnia di sua moglie
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Francesca; ora, di personaggi del mondo della politica e della cultura: da Vittorio Sgarbi, a Ferruccio De Bortoli, il presidente Napolitano, Umberto Eco, e via via tutti i bibliofili soci dell’Aldus Club - è l’allegria con la quale un gruppo di amici, bibliofili anch’essi, innalzano a Mario Scognamiglio questo “monumento”, riconoscenti per quei “trentatré anni fertili di iniziative, legate a due pubblicazioni che … hanno avuto il merito di promuovere non soltanto importanti mostre librarie ed eventi culturali, ma soprattutto incontri … proficui al dialogo, all’amicizia, a una maggiore comprensione tra la gente, educando nuovi bibliofili e risvegliando sentimenti di amore verso il più nobile prodotto dell’intelligenza e della fantasia umana: il Libro” (43). Un’allegria ungarettiana, si direbbe, che essi fanno sentire, e a ragione, grati come sono a questo loro amico, per essere scampati alla banalità del vivere quotidiano e per aver condiviso, assieme a lui, un sogno bellissimo che li catapultava in un rinascimento, peraltro, ideale, senza più il pregiudizio nei riguardi del finitimo medioevo, se, a Umberto Eco, che al medioevo aveva già dedicato tempo e studi
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scrivendo Il nome della rosa, Mario chiede di leggergli il Cantico delle creature. Racconteranno, ciascuno, il proprio Mario, e quello che più stupisce è che la narrazione di uno porta alle conclusioni della narrazione dell’altro, all’unica e sola immagine di Mario quale si specchiava nell’ammirazione degli amici-bibliofili e dei molti altri lettori comuni che passavano a trovarlo per dialogare con lui. Un compagno di viaggio, un maestro, amico di molti lettori e dei libri, che pure vendeva - ricorda Diliberto - ma non era quello il solo suo fine. I suoi scopi erano soprattutto quelli dell’amicizia, della socialità, della convivialità, nei quali si condensa la preziosa saggezza di chi è andato oltre le passioni e sa vedere il gioco sociale dall’alto. Insomma, una sorta di Filippo Ottonieri, immaginario filosofo e raffigurazione ideale del “saggio” leopardiano. Come lui, socratico ed epicureo a un tempo, mezzo filosofo e mezzo poeta, anche Mario, a cui non sfuggiva, fra le tante altre cose, soprattutto l’aspetto di ammaestramento dei lettori. Solo un testo, allora, questo libro? Non solo, direi anche una performance, illuminante e generosa insieme; una prova, nata dall’ottimismo della volontà di questa “allegra” brigata, che, mentre mostra di celebrare un mito, addita ad altri come rinascerne domani, una volta fuori dalla pandemia. Giuseppe Leone Maurizio Nocera - Mario Scognamiglio e le riviste “L’Esopo” 1979-2012 “Almanacco del Bibliofilo” 1990-2012. Indici. Cmyk Stampa e Grafica, AlezioLecce, Italia, 2020. Pp. 192.
IL TORRENTE Siamo tornati alle limpide rive del fervido torrente d'Anterselva. Sempre il fondo traspare, sempre i sassi fan gorgo dove giocano le trote ed è tenero il verde delle sponde. Il torrente non muta: noi mutiamo. Se indietro ritorniamo col pensiero negli anni ci par sia lungi dal vero che tanti son volati. Stessa è l'ora, stessa la luce, stessa la dimora
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di montagne e di cieli, stesso il volto della stanza del mondo, stesso il suono che all'orecchio ci mormora dell'acque, se a raccoglierlo assorti ci curviamo. Torna la mente ove serena nacque a un più dolce stupore. Noi viviamo come nel cerchio di un'antica favola. L'evento è qui che da sempre attendiamo. Elio Andriuoli Napoli
VERDI Per me sei anche l’infanzia e il sorriso sereno, la mano grande di un mitico nonno. Ricordo: per il Santo d’Argento archi di luce sulla gran via del Borgo, fuochi di stelle ad assalire il cielo, cavalli giganteschi sul turbine musicale delle giostre. Una bambina dall’abito bello dava la mano al nonno che amava la terra e recitava Omero e raccontava di Orlando e di Sigfrido. Mille risposte a mille perché, silenzi tramati di sincroni pensieri, intese d’occhi, congiure di risate. Il nonno amava Verdi. La festa patronale trionfava al padiglione magico della Lirica. Eden luminoso, fatato tempio dove un Gran Maestro officiava, solenne! La bimba aleggiava nelle pieghe prodigiose dell’Opera. Musica e luce. Luce e tormenti di Aida, ardori di Manrico, sospiri di Violetta… Verdi, nella mia infanzia sei l’attimo puro, l’arabesco lucente di quel ricordo. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni La Nuova Mezzina, 2017
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Dare confidenza alle nuvole: LA POESIA DI MICHELA ZANARELLA di Lorenzo Spurio VERE l’opportunità di leggere la più recente produzione letteraria della poetessa Michela Zanarella, oltre che un gran privilegio, è occasione di una continua scoperta. Essa, infatti, proviene da una meraviglia mai doma e da un senso d’investigazione dei reconditi legami tra uomo e ambiente (sarebbe più opportuno parlare di cosmo, data la sua natura inserita in un contesto che è ben più che terrestre) che non può portare il lettore a sentirsi come avvolto – piacevolmente s’intende – da versi così vividi e magici al contempo, concreti e aeriformi, intimi e corali, personali e collettivi, così profondamente imbevuti di vita. I temi sono, appunto, le questioni dell’ordinario di ciascuno di noi che risultano, però, vagliate da una mente scaltra la
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cui forza creativa non conosce steccati. L’io lirico si trova spesso a riflettere, leggiamo versi che apparentemente fanno pensare a un ripiegamento dell’animo interiore quando, in realtà, ogni elemento ha vita propria e riluce di un bagliore istintivo e primordiale. È una luce atavica, che ha del misterioso e che promana da una fiamma ardente, da un sentire numinoso, è poesia che si fa cosmologia, il verbo è arnese quanto mai efficace per rivelare presenze, istituire legami, sondare pensieri, interloquire anche con le stelle. Il titolo stesso della raccolta – La filosofia del sole – la dice lunga e credo che non si debba scavare attorno a queste parole (e alla loro curiosa correlazione) per cercare di far emergere un vero risultato: un senso. Il campo d’indagine dell’attività critica – come ben delineava Charles Du Bos parlando della “approssimazione” – non dovrebbe essere rappresentato da un vero scavo all’interno della materia, semmai da una circumnavigazione attorno a quel mondo, alla costruzione di periferie, quali zone di trasparenza e di avvicinamento nei confronti, appunto, dei contenuti. Si dovrebbe – in altri termini – per eludere scelte che potrebbero essere banali o scantonare il ridicolo, andar a vedere la composizione e la nervatura del mallo, piuttosto che vivisezionare con lama affilatissima la noce che vi riposa dentro. Questo libro di Michela Zanarella, edito dalla romana Ensemble, si preannuncia un’opera di vera letteratura se si tiene in considerazione non solo la breve ma significativa nota di prefazione di un gigante della poesia contemporanea, quale è Dante Maffia, ma soprattutto il suo lungo e ricco percorso letterario. Alcuni versi debbono essere citati necessariamente, per poter compiere un’idea di percorso di lettura attorno ai suoi componimenti vergati dal tocco felice della penna, da un’ispirazione nutriente e da una composizione fluida, a tratti d’altri tempi, pregnante e mai, comunque, configurabile in una possibile “tendenza”. Alla base della poesia della Nostra c’è un disincanto e una permanenza affettiva, tanto nel ricordo che nell’emotività ordinaria,
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verso la vita intesa lato sensu: “Nominare tutte le cose / anche le più dolorose / luce / e chiamare nettare la vita / a ogni respiro” (10). Molti in effetti sono i passaggi che sono innervati su un sentimento panico, di condivisione di intenti e di forte spiritualità, nei quali il bene e le ragioni del bene vengono viste e ricercate non tanto – come spesso viene fatto mediante una logica privativa nell’enucleare l’assenza di bene – ma negli approcci con la natura, nel saper dialogare col cielo: “Se fossimo capaci di capire / che il bene non è la parte minima / dell’amore / ma è una forza antica che proviene / dalle arterie del cielo” (10) – continua la Zanarella nella medesima lirica – ed è come se, pur in un campo restio alla razionalità, iscrivesse la fantasmagoria delle possibilità. L’immagine, bisognerebbe dire il focus, ricorrente è proprio quello della luce. Ce ne rendiamo conto dal numero delle volte che essa viene richiamata: “Chiedersi cosa contiene la luce / e se è sufficiente vederla con gli occhi / o è necessario conoscerla con tutto il corpo” (12) non può che far pensare a una celeberrima chiosa di Antoine de Saint-Exupéry1. Altre ricorrenze risultano significative: “La memoria / l’unica terra che può giustificare una luce compatta / negli occhi” (13). Talora il tono si fa elevato e assume un velato intendimento profetico: “Aspettate che la luce purifichi il tempo / e che la terra veda meglio l’orizzonte / dalle sue ampiezze. / Fermatevi a parlare con le stelle / […] / nella pelle è il segno del destino” (19). La luce è chiaramente anche fonte
di conoscenza: “lo sanno anche le pietre / che senza luce / si fa fatica a riconoscere la radice / di un fiore o la polvere” (42), oltre che di fuoco ispirativo (“sento il fuoco nelle mani” disse Federico García Lorca). Altro ambito e immagine alla quale la Nostra ritorna con ricorrenza è l’universo sonoro del silenzio2 – che già era un trait d’union delle precedenti raccolte – che in tale opera riaffiora quale elemento trainante di un rapporto, quale situazione di raccoglimento e, dunque, non ha propriamente i connotati di un’assenza né assume i contorni melanconici propriamente detti. È, al contrario, un silenzio che la Zanarella sa riconoscere e al quale spesso si vota, ne conosce le rune di decifrazione, esso è ingrediente insondabile eppure necessario: “Dirsi disarmati che l’amore / è aria silenzio e viaggio / di un respiro accennato / alla sera” (16). Tuttavia l’amore è camaleontico e, di volta in volta, assume le sembianze più diversificate come quando, nella poesia successiva (tutte sono prive di titolo) scrive “l’amore / è acqua e fuoco e meraviglia” (17). Dopotutto il silenzio è riparatore: “prestami quel silenzio / che riordina la vita” (67) annota in una poesia di Infinito celeste (2021). È qualcosa di necessario e che necessita di un’appropriata valutazione: non va annullato o evitato, esso può essere foriero di riflessione e di ritrovamento di se stessi. Addirittura esso è percepito quale deus-ex-machina, riparatore, dunque salvifico, ricostruttore, monito e soglia per una fase nuova, dopo il momento di riflessione, che è un restauro, si
1 In effetti se pensiamo alla famosa chiosa dove si parla di “essenzialità”, questa ritorna nell’opera della Nostra quando scrive: “l’essenziale cresce nella corteccia / degli alberi” (20)
2 Altro riferimento: “quel silenzio / che ti ha messo in salvo dalla notte” (32).
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potrà contribuire all’erezione di quel baluardo architettonico che è l’esistenza. Architetti unici: noi stessi. Si diceva, appunto, dei quesiti canonici attorno alle questioni della vita, la Nostra non manca di riflettere, con un atteggiamento speculativo e un tono che non rasentano mai la velleità di risposte sicure verso le quali trovare abbordaggio (semmai il contrario: “mi aggrappo alla verità dell’aria”, in Infinito celeste, 77), sui misteri primordiali che ci riguardano tutti in quanto gruppo umano: “Siamo davvero certi che la vita / sia soltanto nel respiro / e se fosse invece nell’infinito / che prosegue oltre le spalle del tempo?” (23). Non è forse questa una riflessione che potrebbe addirsi a un animo credente, fortemente restio nell’affidarsi a un’idea di morte quale fine totale di possibilità, di indiscutibile compimento di un’esistenza? Eppure credo che una lettura prettamente cattolica3 – diremmo addirittura biblica – non necessariamente eluda altre possibilità di vedute, quali filosofie animiste, religioni altre, credenze diffuse di rincarnazione (idea questa che possiamo trarre da alcuni versi: “ha conosciuto le nostre vite precedenti / sa che siamo stati il tiglio e la quercia”, 30) e di rinascita in contesti e forme differenti. Ciò che, invece, sta alla base di considerazioni come questa è la fede in un’alterità non fisica, non preventivabile né conoscibile, che la Nostra non delinea come un vero e proprio aldilà, semmai preferisce richiamare come una dimensione invisibile. “La verità è che temiamo / che dare confidenza alle nuvole / significhi raccontarsi troppo agli orizzonti” (27). È una poesia in movimento e in trasformazione, assimilabile al passaggio delle nuvole ma riconducibile anche alle trasformazioni degli stati di materia, alle trasmutazioni mitologiche che rendono evidente la fascinazione e
la competenza della Nostra anche nella letteratura classica, con sorvoli attenti su metamorfosi di varia natura. Ed è tutto un percorso sulla difficoltà di afferrare l’istante, imperituro e mutevole, rappresentato da quel cambiamento irrefrenabile in ogni cosa: la natura, con i suoi colori e i suoi cicli, è senz’altro la testimone e la rivelatrice più attenta di questa linfa che scorre, si rigenera, si addormenta e torna poi a sbocciare. È un riconoscersi nell’altro, quello
3 Se prendiamo questa pista le varie connotazioni e riferimento al cielo potrebbero in realtà svelare la presenza di una divinità, nell’alto dei cieli. Il dialogo che la Poetessa stabilisce con l’universo dell’ invisibile, infatti, non è tanto tra lei e uno spazio aeriforme ma non di rado prende la forma di un vero
e proprio interloquire, una necessità di appello, di voler richiamare, domandare, trovare un qualche riscontro come quando, ad esempio, annota: “Non si stanca mai di noi il cielo / protegge e consola / come una madre che crede al perdono” (27).
della Zanarella, non tanto l’altro inteso quanto singolo o gruppo umano che condivide inquietudini e problematiche diffuse, com’è tipico della poesia solidaristica e sociale, ma in un altro in quanto alterità, anche e soprattutto extraumana: “Ci riconosceremo alla maniera / delle nuvole” (31) annota in una poesia. È un riconoscersi per abbagli, rimandi, evocazioni, possibilità. Non è un riconoscersi empirico,
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scientista, razionale, frutto della relazione cognitiva, semmai per immagini, associazioni, echi, sfruttando quella componente creativa e inconscia che alberga in ciascuno di noi. Ed è proprio in questo atteggiamento speculativo che non intende mai sondare la verità assoluta e dare risposte inequivocabili (cosa, per altro, tendenzialmente impossibile e paradossale) ma ragionare, piuttosto, in sintonia con gli elementi dell’ambiente, che si realizza il percorso introspettivo della Nostra. Una poesia che aggruma in sé, in maniera pregnante e mai scontata, tendenze olistiche e istinti rigenerativi, filosofie possibiliste, linguaggi empatici senz’altro molto più affini a una cultura orientale. Leggendo alcuni passi viene a mente Lucrezio, Ovidio delle Metamorfosi, ma anche Rumi, testi della tradizione buddhista, forme aforistiche e haiku del Maestro Basho, un mondo sapienziale che nella quotidianità rumorosa dell’oggi ci appare assai distante e irraggiungibile ma nel quale la Nostra è riuscita a riconoscere un antro di benessere e a localizzare pensieri e speranze. La Zanarella lo dice in maniera molto chiara: “Non ci resta che stare / dalla parte del cielo / e accettare che il mare sia la verità” (41). Un accenno, infine, ad alcune poesie pubblicate nel volume bilingue italo-arabo Infinito celeste, con traduzione di Noureldeen A. M. Abdallah edito da Universitalia di Roma nel 20214. Una raccolta corposa, questa, che relaziona la poetessa al contesto internazionale. Non si tratta della prima opera poetica della Zanarella in una lingua straniera dal momento che in precedenza ha pubblicato nel 2015 Imensele coincidenţe (in rumeno) e nel 2018 Meditations in the Femine (in inglese). Qui trovano posto alcune poesie già pubblicate in precedenti sillogi della Nostra e, tra di esse, mi piace richiamarne alcune (in questo caso hanno il titolo). La poesia “Amazzonia” che si trova nelle prime pagine apre a un problema
globale dai contorni drammatici, quello dell’impoverimento e dello sfruttamento ambientale; la Nostra così scrive: “Tutto il mondo sa dell’onda di fuoco Amazzonia” (9) rimembrando i tragici momenti quando, nel 2019, alcune ampie aree del Polmone del mondo vennero intaccate duramente da vasti incendi. Il linguaggio della Nostra si fa ora ispido e inclemente dinanzi a tanta barbarie: “strappo di polmoni”, “martirio di rami”, “Ora la terra respira a stento”: tutto trasmette l’idea di un acre fumo, di asfissia, di legno vivo che arde e di grande disperazione. D’altro canto l’immedesimazione arborea della Nostra con l’universo del mondo vegetale non è qualcosa di nuovo, qualcosa di analogo è contenuto in “Vengo a respirare”: “Ti sento radice che indossa le mie vene / meta che ho lasciato troppo presto / sperando di trovare altrove / il senso del mio canto” (17)5. Infinito celeste segue il percorso intrapreso con La filosofia del sole, ce ne rendiamo conto da alcuni versi, cito ad esempio dalla poesia “È un rito quest’alba”: “Trascino nel mio inchiostro / il tragitto della luce, / […] / La perfezione dell’azzurro / sazia la forma delle nuvole” (41). Ci sono appassionate liriche che tratteggiano un amore importante: “Non sono stata capace / di gridare a cuore aperto / quanto manca la tua voce / al mio respiro” (51). Si diceva anche del senso e della forza conturbante del cambiamento, temi nevralgici nella produzione lirica della Zanarella. Si ritrovano riflessioni di questo tipo anche in Infinito celeste come quando leggiamo: “Così impari a fuggire / tra i fiori del tempo / succhiando a memoria il destino / inciampando, inciampando ancora / senza capire / che a volte il buio non capita / ma è cucito sulla pelle / […] / La vita ti cambia / come un fiume che si adegua alla corrente / ed è chiaro / che non sei più lo stesso / neppure nelle cellule / una volta
4 A partire da questa parte del saggio i riferimenti alle poesie richiamate e le relative citazioni si riferiscono al volume Infinito celeste (2021). 5 La natura è ancora per sentirsi ancora legata e dipendente dalla sua memoria storica: “Non ho
dimenticato / l’edera cresciuta nella ruggine / e nemmeno l’aria / che sa di polline e giochi del passato” (24).
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che ti perdi / fino a calpestare la notte / fino a nutrirla di lacrime” (60-61). Di particolare interesse e pregio è la sezione conclusiva del volume dove si ritrovano epicedi, canti in lode, poesie dedicate, veri e propri omaggi e commemorazioni, finanche messaggi d’affetto e documenti di riconoscenza che la Nostra dedica ad alcuni tra i più insigni intellettuali nostrani (Giacomo Leopardi, Elsa Morante, Isabella Morra, Ada Negri, Pier Paolo Pasolini, Mario Luzi, Aldo Palazzeschi, Alda Merini e Dino Campana) e stranieri (Jack Kerouac, Sergej Esenin, Paul Verlaine, Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud). Sono, in alcuni casi, testi che la Zanarella ha elaborato nel corso degli ultimi tempi per progetti specifici, antologie e volumi monografici su determinati autori quali ad esempio la poesia ad Aldo Palazzeschi pubblicata in Stile Euterpe vol. 2, Aldo Palazzeschi, il crepuscolare, l’avanguardista, l’ironico a cura di Lorenzo Spurio, Martino Ciano e Luigi Pio Carmina, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016; quella dedicata a Isabella Morra contenuta in Dossier per Isabella Morra. Poetessa del XVI secolo di Giuseppe Lorin edito da Bibliotheka Edizioni nel 2019; finanche la poesia dedicata a Pier Paolo Pasolini – del quale la Zanarella è grande amante e studiosa6 – confluita nel volume tematico curato da lei stessa in compagnia del sottoscritto: Pier Paolo Pasolini, il poeta civile delle borgate. A quaranta anni dalla sua morte, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, con il prezioso patrocinio del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia. La vastità dei riferimenti a intellettuali così tanto distanti, non solo per età e geografia, ma per esistenze, tematiche, stilemi e archetipi letterari (si pensi, solo per citare uno tra i più curiosi avvicinamenti, quello di Leopardi e Kerouac) pongono in risalto la grande conoscenza della Nostra della letteratura mondiale, una conoscenza che non è nozionistica e, per-
6 Su Pasolini ha pubblicato anche un saggio: MICHELA ZANARELLA, Com’erano i ragazzi di vita, EuroMED University, 2017.
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tanto, didascalica quanto inutile e manualistica, ma approfondita all’interno dei relativi contesti in cui gli autori hanno prodotto e nei nuclei concettuali di maggior caratterizzazione degli stessi. Pertanto questa è sì una corona di omaggi, un’antologia minima che tributa riconoscenza ad alcuni grandi, ma è anche, visto con altre lenti, un agile repertorio tra le pagine della storia della poesia, una trattazione attenta e variegata attorno a intellettuali disparati eppure tutti così importanti con voci inequivocabili e irriproducibili, vagliati dalla conoscenza attenta e dall’approfondimento e la sensibilità della Nostra. Porto alcuni esempi: vediamo come parla, e quali parole dona, ad alcuni di questi grandi poeti. Nella lirica dedicata a Kerouac, per lo più noto come narratore, ma anch’egli poeta, la Zanarella parla delle “strade del mondo”, di “vita avida / e dannata”, di “tuoni isterici del tempo”, di “alba senza poesia / che guarda l’istinto fuggire” (117); all’infelice Isabella Morra scrive: “Valsinni sa che scrivevi piangendo / […] / E fu il sangue del tuo sangue / a darti la morte”, ricalcando i tristi accadimenti della breve esistenza della poetessa lucana aggiungendo: “Ma cantavi alle acque / e alle gemme verdi / il mondo vivo / chiuso nel tuo infelice silenzio” (123). Di Pasolini la Nostra ben ricama in pochi versi la triste vicenda di uno dei più grandi intellettuali del Secolo scorso, grande rivelatore e analista della società, imbrigliato dalle fosche trame del pregiudizio e dal bigottismo dilagante, caduto in un vischioso clima di condanne e di atroce violenza, parla di lui, l’uomo che mai ha reclinato il capo o si è risparmiato: “Le parole escono sfrontate. / […] / Ed io che sono partecipe / di una tempesta ancora accesa / dico che non è giusto / quel dolore che ti hanno imposto / nella sera più cupa” (130). Tra le poesie dedicate ai “maledetti” a me pare che risaltino soprattutto quella diretta a Verlaine, “Dove l’aria
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è troppo densa” nella quale la Nostra, con rispetto e riconoscenza, ne descrive il piglio artistico, ammorbato dal delirio psicotico: “Ambiguo quel canto / che nutri di sfumature impure / e d’immensità opache” (134) e al nostrano Campana, autore dei Canti orfici, una delle più apprezzate e dibattute prose poetiche della prima metà del Secolo scorso. Si ritrovano alcuni dei campi semantici e dei motivi introspettivi del poeta di Marradi: dal viaggio al mistero, dalla solitudine al senso di desolazione interiore, dal sogno alla veglia, finanche i riferimenti alla toponomastica toscana dove condusse la tribolata esistenza. In un articolato saggio del gesuita e critico letterario Antonio Spadaro, in un capitolo dedicato alla “Letteratura come vita”, a sua volta vengono citati due intellettuali che in merito al tema dei rapporti tra vita e letteratura (su cui Carlo Bo molto ebbe da dire) dissero: “La letteratura? È un’esplorazione dell’abisso: quello dell’autore, e anche il nostro” scrisse Andre Blanchet mentre Robert Pogue Harrison annotò “La letteratura permette l’ingresso in questo abisso, discernendo “sensi sotterranei”7. Mi sembrano considerazioni senz’altro condivisibili nella misura in cui si consideri per “abisso” la sua implicazione etimologica di partenza vale a dire la sua connotazione di profondità. Nell’accezione comune, invece, la parola “abisso” viene spesso impiegata per descrivere in maniera soverchiante una condizione di asperità e depressione, una voragine di cui non si vede il fondo e, comunque, viene impiegata a contesti nei quali si sottolineano tanto la gravità, la durezza, la difficoltà di scappatoia, la desolazione e l’impraticabilità del contesto. L’abisso della Zanarella, questo suo scavare nella sua interiorità per leggersi (e per consentire a noi stessi di approcciarci con tale modo di auto-lettura) è forse più in linea con quello dell’omonima lirica di Fernando Pessoa nella quale scrisse: “Il mio ascoltare è diventato il mio vedere / quel sommerso fiume senza luogo. / […] / Io sento il non visto fiume 7 ANTONIO SPADARO, Abitare nella possibilità, Jaca Books, Milano, 2008, p. 71.
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trasportare / verso dove non va tutte le cose / di cui è fatto il mio pensiero”. Lorenzo Spurio Jesi, 23/02/2021 Bibliografia SPADARO ANTONIO, Abitare nella possibilità, Jaca Books, Milano, 2008. ZANARELLA MICHELA, Com’erano i ragazzi di vita, EuroMED University, 2017. ZANARELLA MICHELA, Infinito celeste, Universitalia, Roma, 2021. ZANARELLA MICHELA, La filosofia del sole, Ensemble, Roma, 2020.
PER RODOLFO VETTORELLO Prima che fra di noi si interponga quel muro inesorabile, quel velo che non permette scambi di parole che gli umani pensieri esprimono, vorrei poterti dir, caro Rodolfo, quanto mi piace la tua poesia. Le tue parole mai non sono astruse, né le tue idee, che tutte giungono chiare al cuore ed alla mente, e sorprendentemente a volte al mio sentir si adattan totalmente, mentre altre volte meravigliosamente in campi nuovi mi conducono. Ma sempre rivelando un comune sentimento che scende dolce in chi ti legge e sente come se fosse suo ciò che tu provi. Ed ogni piccola cosa od evento brilla di nuova luce se la tocchi con i tuoi versi. Questo volevo dirti mentre gli occhi ancor mi lasciano godere la lettura della tua limpida e armoniosa poesia. 15-16 aprile 2021 Mariagina Bonciani Milano
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La Speranza come parola finale in
TORNEREMO A GUARDARE IL MARE DI MARIA TERESA INFANTE di Franca Alaimo
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CCADE che la notte non si riesca o non si voglia dormire. E che tutti i pensieri viaggino nella mente, invadenti, inarrestabili. Dolorosi. Maria Teresa Infante decide di metterli per iscritto indirizzando ad un'amica, lontana ma amata, delle lettere, investendo quel “tu”, a cui si confessa, di un ruolo assai più complesso di quanto possa sembrare, ché in esso innanzitutto si cela la necessità di guardarsi allo specchio, per chiarire a sé stessa un groviglio emozionale che non sopporta di rimanere all'interno di una solitudine, nella convinzione che dire ad un altro/a sia il modo migliore di sentirsi ancora viva e necessaria all'interno di una più vasta comunità. Soprattutto in un momento storico come quello che viviamo ormai da un anno, durante il quale, a causa dell'epidemia, la sensazione più diffusa è quella di una separazione dagli affetti, di una chiusura non solo spaziale ma anche mentale e spirituale. C'è da aggiungere che la situazione contingente finisce con il divenire una cassa di risonanza a molte domande di varia natura: esistenziali (come il margine tra follia e normalità, se la prima diventa fermento e la seconda acquiescenza), socio-economiche (come la crepa tra l'innocenza di un passato non solo individuale ma anche storico, secondo quello che fu lo scomodo pensiero di Pasolini), e perfino ecologiche, se è vero che un problema su cui l'autrice più insiste è il degrado delle coste e delle acque del Sud Italia
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così inquinate dalle ecomafie da minare la salute di varie generazioni. Il mare, che “torneremo a guardare” come si legge nel titolo di questo libro, diventa l'emblema della bellezza, che bisogna recuperare per risorgere da una situazione di degrado generale, intendendo l'esigenza estetica non come qualcosa di avulso dal tessuto della realtà, ma come un'esigenza etica, che possa ricostruire l'Uomo, inteso sia come persona che come essere sociale. La struttura del libro è variegata: prosa e poesia si alternano e quasi si sovrappongono, se è vero che la prima adotta della poesia non solo un certo ritmo, se non anche le rime, e la seconda spesso si colora di un timbro prosastico, dovendosi adattare ad un linguaggio quasi giornalistico di denuncia. Al diario epistolare si aggiungono
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un racconto ispirato alla cronaca (con tanto di dati e nomi e date) e una “confessione” autobiografica, in cui l'autrice evoca non solo il suo passato e i suoi affetti perduti, ma si riappropria della Speranza, affidandosi al sentimento della fede e allo strumento della preghiera come ponte fra umano e divino per ritrovare una nuova fratellanza “senza frontiere, senza mezzerie/ senza nessuno a dirci di andar via/ senza la striscia che divide il sangue/senza il coltello al posto della mano”. Il disordine apparente del diario epistolare mima molto bene la libertà del flusso dei pensieri (ita docet Joyce) che si susseguono zampillando l'uno dall'altro e che bene restituiscono lo stato di agitazione e di disagio provocato dalle proibizioni dettate dal rischio del contagio, che hanno limitato libertà di movimento, progettualità e, soprattutto affettività, mettendo lacci a gesti, comportamenti, urgenze del corpo e dell'anima. Molti degli stati d'animo descritti dall'Infante coincidono con quelli provati da ciascuno, e tale somiglianza si traduce in una forte corrente d'empatia che lega la scrittrice e i suoi lettori grazie anche ad un nitido uso della lingua, ricca, incalzante, esatta, nonostante la
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tensione drammatica che l'attraversa, ben concretata in un quotidiano interrogarsi. Del resto Maria Teresa Infante ci ha abituati da tempo ad una scrittura di forte partecipazione alla realtà e alle sue molteplici storture che la allontana dal rischio del sentimentalismo, così come il realismo e l'impegno non la fanno cadere nell'algidità. perché corretti da una prodigalità di compassione e, non di rado, da un sincero lirismo. È un dono a sé stessi leggere questo libro, poiché identificarsi vuol dire oggettivare le proprie paure e liberarsene nominandole, per fare, infine, propria la resilienza dell'amore, a cui ci invita l'autrice. La scrittura sa essere spesso taumaturgica. Franca Alaimo 24 marzo 2021 Maria Teresa Infante, Torneremo a guardare il mare, Oceano Edizioni, 2021. ___________________________________ * Lontano, ancora adiós, gli ultimi, le ultime mani protese come preghiere, gli ultimi saluti dei marinai chimerici e colombe sui moli e sull’acque gracchiare di uccelli marini. Il mattino ormai si sgombera del bigio, ma di più s’arrossano gli occhi sul ponte della nave, tremula, colma di distacchi Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983
IRONIA Se l'uomo non sapesse della sua fine, andrebbe avanti sereno, nella vita, nella convinzione di cui ignorerebbe l'ironia.Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo IS)
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DOMENICO DEFELICE NON CIRCOLA L’ARIA di Carmine Chiodo
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L titolo degli stupendi racconti è metaforico e vuol mettere in evidenza come l’uomo reagisce davanti a certe situazioni, come si comporta verso gli altri specie quando si manifestano dissensi, e rapporti litigiosi, magari per quotidiani e banali opinioni, ad esempio, ciò che succede tra moglie e marito. L’opera si configura come condizione dell’essere vista nelle sue diverse estrinsecazioni. Quando l’aria non circola, bisogna, per esempio, cambiare lavoro, e Defelice lo sa benissimo in quanto ha avuto una vita non facile, ma gratificante da un punto di vista artistico e poetico. Molto forte, in lui, la volontà di diventare qualcuno, come poi è riuscito nel campo poetico, letterario e artistico; fin da giovanissimo prediligeva lo studio, amava la lettura dei classici per imparare a scrivere, come ci è dato leggere in uno dei suoi racconti del volume che contiene una varietà tematica e anche linguistica nel senso che continuamente i temi cambiano e pure lo stile, sempre fluido, limpido, talvolta icastico, ironico, sdegnato, forte idillico e sereno che, dunque, ben s’attaglia alle situazioni che vengono rappresentate e ai vari personaggi che, di volta in volta, sono presentati. Nei racconti si riflette pienamente la vita dello scrittore, da quando era bambino fino all’età adulta, e ne vien fuori il suo carattere, la sua personalità, il suo modo di guardare alla vita e di mettere a fuoco i ricordi, molti ricordi, e scene che son mostrati nei racconti che sono strettamente collegati tra di loro fino a darci una storia di un uomo e di
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uno scrittore che sa leggere nella vita sua e degli altri, espressa con un linguaggio provvisto di varie articolazioni che affascinano il lettore che viene cosi invogliato a procedere sempre di più nella lettura e, al riguardo, faccio delle citazioni. <<Questo cornuto (parla un mafioso di un giornalista) butta fango su di noi, vuole far credere all’opinione pubblica che noi siamo vigliacchi, vuol spingere la gente a non avere timore di noi. Merita una punizione, sentenziò Facciadibronzo>> (<<Il pesce (g)rosso>>, p. 20); <<Ero duro e cinico (parla di se stesso e di come si comporta in una certa situazione), quanto ridicolo, retorico, borioso. Gli altri impiegati, che mai avrebbero avuto il coraggio di fare un simile discorso al commendatore, mi guardavano con gli occhi fuori dalle orbite. Pepè, imprudente come sempre sbottò <<Mamma mia, come gliele sta cantando!>> (v, <<Una lettera di addio>>, p. 33; ed ecco, ancora, con quanta accuratezza viene descritto il suo nuovo lavorio nel pastificio di Crotone e come viene ritratto l’ambiente e la città di Pitagora. <<Giunsi a Crotone nel tardo pomeriggio del 15 giugno, dopo più di dodici ore di viaggio. Portavo con me solo una piccola valigia con pochi indumenti personali e due paia di lenzuola […] Il Pastificio era una brutta costruzione di colore rosso cupo, di tre piani […], diedi uno sguardo alle vasche nelle quali si preparava la pasta e gli stenditoi per asciugarla […] L’impasto sembrava una cacca gialla, sulla quale si riversavano nugoli di mosche, […] Un autentico schifo>> (pp. 40 - 45). Una città non tanto tranquilla, teatro di sparatorie tra clan rivali e qui, in questo infernale ambiente, nacquero <<terribili e amarissimi versi>>: << […] Pitagora /insegnò ma in altri tempi, Adesso / inorridita l’ombra sua
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fugge/questi barbari nuovi e del pugno e del senno; Adesso Alcmeone /in veste nera somministrar veleni /si vedrebbe e il buon Milone, neghittoso,/giacere sul campo. Addio Crotone, / Mi rimarranno in pena di ricordi /i tuoi sudici calli/ove sbaglia la fogna/e maschere di donne paurose/tessono cabale e ridono sguaiate>> (p. 46). Molte scene, molti uomini e donne di questi racconti sono stati effettivamente visti dallo scrittore che parla pure di se stesso ragazzo, per esempio, dedito ai lavori della campagna ma con grande voglia di frequentare la scuola, di istruirsi, di leggere libri anche se talvolta i suoi mastri non erano all’altezza dei loro compiti. Tutto è ben impresso nella sua memoria e i suoi occhi hanno visto tante e tante scene, egli stesso ha vissuto molti momenti felici e tristi. Tutto ciò che è nella sua mente viene travasato nella linda pagina dei racconti espressi con un linguaggio non solo fluidamente descrittici, ma pure lirico che ci fa sentire, poniamo, la bellezza varia della natura, la vita splendida e bella che talvolta vi si vive, ma in campagna si passano pure momenti tristi e pieni di paura: i bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra mondiale. Bombe che, spesso, non cadevano sui tedeschi nascosti nelle campagne, ma sui poveri contadini, sulle bestie e case, producendo dappertutto morte e paura. Scene alle quali il ragazzo Defelice assiste nella campagna di Baldes ove si era rifugiata la sua famiglia con altri contadini. E qui i tedeschi uccidono il cane a cui il ragazzo era molto affezionato e poi ancora le razzie dei tedeschi; un cane bello, il più bel cane che il ragazzo aveva avuto. Il suo nome era Cupo, una <<bestia enorme sulla cui groppa spesso sono andato a cavalcioni>>; fucilato, come detto, dai tedeschi. << Dannati! Tutti avevano mirato al cane. Cupo mi giaceva accanto in una pozza di sangue, le carni letteralmente maciullate. Quelle boccacce d’inquilini dell’Inferno finalmente si aprirono in una lunga e sarcastica risata>> (p. 66. <<La banda tedesca>>). Ancora in altri racconti appare sempre lo scrittore che ora lavora, per esempio, alla SIOP, altro lavoro diverso da quello
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di Crotone. Lavora in un cantiere e qui appare il carattere fermo e fiero, non certo pieghevole dell’uomo. <<In me, carissima, hanno sempre convissuto e convivono due io. Uno arrendevole e l’altro rigido venato di paura. È questo, quasi sempre, a dominare>>. Alla SIOP, al cantiere si presenta un tizio che vuole roba e l’uomo Defelice si oppone al tipo violento e avvisa l’ingegnere del fatto. Ma quando comprende, lo scrittore, l’impiegato Defelice, che nessuno lo protegge, subito si licenzia e si dirige verso Roma, sempre agognata e desiderata e quindi lascia la Calabria per vivere e lavorare a Roma dapprima e poi a Pomezia attualmente. Altre volte, si leggono poetiche -lo ribadisco - descrizioni del paese. << Il paese era in cima alla collina, e le calcine delle case brillavano come scaglie, A destra il castello merlato imprendibile anche per le aquile>> (p. 52. <<Fagiolini giallosè>>) e, poi, ecco uno strano venditore di <<fagiolini giallosé>>. Il venditore si chiama Svampa, che dopo tanti sudori, riesce a vendere le sue fagioline giallosè, che son fagioline dell’amore; <<Giallosè>> è il nome che una donna dà a questo prodotto, fraintendo le parole di Svampa che, per fargliele comprare, le loda ampiamente. Diverso un altro personaggio, il carabiniere Pellegrino, che vuole vendicare la morte del padre ucciso da un mafioso che cade sotto il suo mitra: eccolo in azione l’eroico e perseverante carabiniere che irrompe nella sala ove erano riuniti i mafiosi e Facciadibronzo, alla vista dei carabinieri <<diede un balzo da dietro il tavolo come un pesce che salti fuori dall’acquario e fa il gesto d’estrarre la pistola. Pellegrino lo prevenne con una scarica di mitra, <<C’è in conto anche mio padre>>, disse calmo, mentre i carabinieri ammanettavano i presenti >> (p. 21, <<Il pesce (G)rosso>>). Ecco ancora il ducetto, il dittatore del paese che cambia all’arrivo degli alleati (<<La banda tedesca>>) e qui ecco come viene delineato il ducetto, appunto, del paese che invita gli abitanti a lasciare il paese e portarsi con le loro cose in campagna. E allora <<Lasciato l’abitato, ci incamminammo per una discesa acciottolata, soffocata da folte
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siepi di spine e, dopo un crocicchio, ci toccò una salita che si apriva tra due bianche pareti arenose, picchiettate qua e là da macchie argentate di ficodindia. Il fondo della strada era tutto sabbia finissima, nella quale affondavamo fino alle ginocchia. Si avanzava a stento e faticosamente: neppure mezzo metro dopo cinque o sei passi>> (p. 60). Lo scrittore ci presenta momenti di vita, determinati avvenimenti, e non mancano i bombardamenti durante i quali la gente vuol stare unita e cosi si possono superare più facilmente paure, ostacoli, pericoli, e poi, scampato il pericolo, gli uomini si abbracciano, e son contenti di vivere, di essere usciti illesi dai bombardamenti degli alleati. Secondo me, questi racconti di Defelice si possono leggere in vari modi data la loro plurima tematica che presenta momenti autobiografici e situazioni e personaggi vari e diversi; insomma, l’essere con i suoi drammi, le sue sofferenze, il suo carattere, le sue gioie e dolori. In sostanza, viene osservata e ben descritta la loro psicologia e si pensi a Lilly, alla sua storia oppure, ancora, alla situazione, all’essere di Babel West e della moglie Evelina, e, ancora, si veda il racconto che presenta momenti drammatici dal titolo <<Naufragio>>, e ancor alla storia di Aneba che diventa <<boss senza volerlo>> allontanando i mafiosi dell’omonimo racconto. Non vanno taciuti altri affascinanti racconti, come quello che si intitola <<Lampi nella notte>> e qui si notano descrizioni di paesaggi e si mostrano momenti autobiografici: il ragazzo che per frequentare la scuola, molto distante dal paese, e nel tempo invernale deve attraversare fiumi e strade pericolose e magari giunto a scuola in ritardo per questa causa viene preso a bacchettate dal maestro, ma l’allora giovanissimo scrittore esponeva senza alcuna paura le ragioni del ritardo e al maestro, che spesso dava calci e pugni agli alunni. Si leggono storie di bambini e bambine (vedi il racconto dal titolo <<Il rosso succo dei sicomori>>) come pure si presentano uomini particolari e una ragazza, Prunella, chiamata così dai genitori contadini. Lei vuol sapere se esista
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o meno una Santa Prunella e fa una ricerca, ma non la trova. Donna seria, che si sposa e fa una vita tranquilla e serena, come poi muore serenamente; altro personaggio particolare, quel proprietario terriero sempre triste, solitario, amante appunto della solitudine (v. <<La fonte canora>>), ma che poi si abbandona al canto presso la fonte gorgogliante limpida acqua in mezzo a un bel luogo verde e fiorito della campagna, e poi ancora la storia legata alle rose dell’atletico Daniele, che diventa l’amante della moglie (Silvana) dello stempiato Paolino che non coltiva alcun orto. Ora Silvana, una volta soddisfatta da Daniele, non istiga più il marito a impedire di coltivare le rose a Daniele: miracolo dell’amore! Le coltiva lei stessa. Superfluo dire che ben caratterizzati sono altri personaggi, uomini e donne affezionati a cani in quanto non hanno figli. Ecco i due cani, Romolo e Pecorino, il primo cane è quello del marito (Lampa), il secondo della moglie; due cani diversi, che si comportano in modo diverso, e ciò determina discussioni e malintesi tra i due coniugi (v. <<Umanali>>). E qui si nota una lotta tra animali: il mastodontico, il colosso Romolo, che viene dilaniato dalla gatta Camilla. Leggendo ancora si incontrano altri personaggi ben disegnati; ancora c’è lo stesso Defelice con i suoi amori per le donne e per la mitica Cinquecento Fiat, macchina anche della <<poesia>> e di artisti vari nel senso che lo scrittore, spesso, faceva viaggi con poeti, amici e artisti vari, appunto, con questa macchina oltre che viaggi con figli e moglie in Calabria. Il viaggio nella memoria si conclude con la ricerca su Google sul paese natio, ovviamente, è una ricerca tecnica che manca di molte cose e queste, però, son richiamate non dal mezzo telematico, ma dall’occhio umano, e dalla memoria dello scrittore e del poeta. Anche con questi racconti Domenico Defelice si riconferma scrittore di pregio, di sostanza e che mostra sempre di più di possedere veri doni artistici, per cui mantiene sempre un posto di rilievo nella letteratura contemporanea. Carmine Chiodo Domenico Defelice, Non circola l’aria, Genesi Editrice, Torino, 2020, pp. 207, euro 12,00.
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Due crepuscolari:
GOZZANO E CORAZZINI di Antonia Izzi Rufo LLA fine dell’ottocento e all’inizio del novecento, ancora non si curava la tubercolosi, anche se Robert Koch (1843-1910) aveva scoperto il ‘bacillo di Koch’ (1882), il bacillo della tubercolosi. Moriva tanta gente. Ricordiamo, fra gli altri, Guido Gozzano e Sergio Corazzini, morti entrambi della terribile malattia. Guido Gozzano Guido Gozzano fa parte del crepuscolarismo, il movimento che si diffuse nella poesia minore del 900 insieme al futurismo e all’ermetismo. I poeti crepuscolari presero il nome dal crepuscolo, quel momento della giornata che invita alla malinconia. Furono chiamati crepuscolari da Borgese perché ai miti di conquista, di attivismo, agli ideali di umanità, azione, opposero l’intimismo della piccola vita quotidiana non eroica e non eccezionale. Ripiegarono sulla vita di paese e di campagna, sulle cose di poca importanza, verso un mondo
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preindustriale, derisore del presente dal quale si sentivano alienati, su un linguaggio semplice, su persone modeste che esulavano dall’ambiente aristocratico. Caposcuola dei crepuscolari, un gruppo di poeti che era contro la civiltà industriale e contro la letteratura altisonante di D’Annunzio, fu Guido Gozzano. Nacque ad Agliè Canavese nel 1883 e morì a Torino, dove aveva sempre vissuto, nel 1916, minato dalla tubercolosi. Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza senza, però, condurre a termine gli studi. Preferì frequentare le lezioni della facoltà di lettere dove insegnava letteratura italiana, nel 1882, Arturo Graf. Tra gli studenti Gozzano primeggiò e divenne il più rappresentativo fra i giovani scrittori torinesi. Si formò, così, una larga educazione letteraria sugli autori dei primi secoli (Dante e Petrarca) e sui più significativi scrittori e pensatori stranieri contemporanei (da Zola a Nietsche). Nel 1907 uscì la prima raccolta di versi, “La via del rifugio” e nel 1911 seguirono “Colloqui” che lo resero famoso come poeta, anche se non ebbe lo stesso successo dell’opera d’esordio. In quegli stessi anni intrattiene un rapporto sentimentale, sofferto e difficile, con Amalia Guglielmetti, poetessa di gusto dannunziano e autrice di racconti di successo. Testimone di questo tormentato rapporto sono le “Lettere d’amore”, pubblicate postume nel 1951. Colpito dalla Tubercolosi, come Corazzini, risiede un po’ a Torino, un po’ in Liguria dove stringe amicizia con alcuni scrittori, in particolare con Carlo Verdini, e un po’ ad Agliè. Nel 1912 intraprende un viaggio in India, per trovare sollievo alla sua malattia, e di lì invia una serie di articoli a “La Stampa”, i quali descrivono, alcuni, località effettivamente visitate, altri, invece, parlano di reminiscenze letterarie. In “Verso la cuna del mondo” sono raccolti tutti questi articoli. Per sopperire ad esigenze economiche, collabora a riviste e a quotidiani. Scrive anche delle fiabe, soprattutto per il “Corriere dei piccoli”, le quali poi saranno riunite nei volumi “I due talismani” e “La principessa si sposa”. Egli ripiega sulle “piccole e serene cose” e si rifugia nel passato per creare un contrasto con il presente, per salvarsi dalla
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realtà. Isolato dalla società, che vede corrotta e meschina e contro la quale non sa lottare, si rifugia nel sogno. Anche se nei suoi scritti c’è tanto dannunzianesimo, egli arriva a sottovalutare gli uomini (Chi sono?). Dissacra miti, eroi, figure, storia; invece delle meravigliose donne dannunziane, troviamo la domestica, la Signorina Felicita; al posto delle attrici e delle principesse la ‘cocotte’, vinta dalla vita e dagli anni. Il passato d’oro è per lui quello della dinastia sabauda, di tutto ciò che è finito. L’ultimo Gozzano giunge al ripudio della scienza e della ragione. Anche la storia (definita nei “Colloqui” <<favola mentita>>) si svuota di ogni contenuto e finisce per risolversi in una complessa metafora della morte. Il presente gli appare come <<il regno del non essere più, del non essere ancora>>. “Toto Merùmeni” è la controfigura del poeta. Negli ultimi anni Gozzano iniziò a lavorare a “Le farfalle”, un poema in endecasillabi sciolti che mira alla proiezione di un itinerario spirituale, nella proiezione che trasforma l’insetto a farfalla (nella mitologia greca la farfalla accompagnava le anime nel regno dei morti). Così A.
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Rinaldi: <<L’arte del Gozzano non è l’espressione di un secolo, non nasce da una rivoluzione politica, non sorge da una folata di combustione religiosa, non dalla coscienza nazionale di un popolo, no; è tutta individuale, è tutta soggettiva, è coscienza di sé, è meditazione, è pensiero assillante del morto passato, del presente che sfugge, dell’avvenire oscuro>>. Sergio Corazzini Nacque a Roma nel 1887 ed ivi morì nel 1907. Apparteneva ad una famiglia borghese, caduta quasi in miseria. Giovanissimo, perciò, per vivere, dovette adattarsi a fare lavori umili. La malinconia con cui sopportava le vicende della vita si ritrova nelle sue liriche. Strinse rapporti di amicizia con altri giovani poeti suoi coetanei, Palazzeschi, Govoni, Moretti, con i quali formò il gruppo dei “crepuscolari”. Fra le sue poesie ricordiamo “Desolazione del povero poeta sentimentale“ (<<Perché mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange>>). Antonia Izzi Rufo
L'AQUILA E sempre in alto l'aquila reale che vola sopra i picchi nel mattino e ritorna veloce a quando a quando, rapita dalla luce (un segno forse incerto del destino). E sempre l'ora che s'arresta stupita, rimirando la splendente avventura di quel volo. Si fa tenero il cielo, si fa solo nell'inseguire il battito dell'ale che fulminee discendono e risalgono nello scatto veloce. - Tra gli artigli dell'aquila la preda è ancora viva e palpitante -. Di purpurei gigli si tingono le rocce, mentre torna al suo nido il rapace, in un baleno (una nube si perde nel sereno) sulle creste azzurrine volteggiando. Elio Andriuoli Napoli
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TITO CAUCHI ISOLA DI CIELO di Anna Aita
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L primo sguardo, forse un po' distratto, ai versi di Tito Cauchi, mi sono perduta. Poi, di colpo è caduto il velo ... ho recepito tutto: alla base della scrittura poetica del noto Autore, una grande sensibilità, un turbamento senza posa che lo costringe a patire per i mali del mondo, fino a porsi tante domande sul perché della sofferenza umana. La prefazione al libro, dello stesso Autore, ben ci racconta la motivazione di questa raccolta e le ragioni per cui egli abbia scelto di pubblicare poesie, scritte così lontano nel tempo. Gli anni, '70, chiarisce, sono stati, per lui, un periodo di riflessione sulle ragioni del suo essere al mondo, una ricerca, in fondo, di se stesso, ma anche una evoluzione, una maturazione del proprio pensiero e uno studio attento "... dell'altra umanità". Sbarcato, ormai, negli anni duemila, egli ha ritenuto giusto rendere pubbliche queste scritture del passato, nella certezza che "il vecchio può costituire una base ben cementata per proseguire o da tramandare a chi ci segue". Raccolte, dunque, in un libricino traboccante amore, esse rappresentano il tentativo di continuare quella ricerca che, in lui, non si è mai
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esaurita e, nel contempo, la speranza che il mondo possa cambiare: non più povertà, non più natura violentata né altri orrori, purtroppo, ancora dominanti. È così che incontriamo, tra i versi, un bimbo trasandato, tra le braccia di una mendicante: "Da poco mia moglie m'ha reso padre ..." rammenta il Poeta, “Ho pensato a quell'altro bimbo in braccio / lercio e bavoso, e a sua madre / al loro sguardo smarrito, / ... / La mia spiaggia è lontana”, conclude desolatamente, "e le onde non mi cullano più". Una raccolta poetica che sconvolge, scuote, costringe a vedere ciò che non si è saputo vedere o, meglio, ciò che non si è voluto vedere, per non soffrire. La lettura dei testi, come già rilevato, muove a delle riflessioni e lascia, nel cuore del lettore, tanta malinconia, ma anche tanta emozione per la grande, coinvolgente, sensibilità del Poeta: “... non so scrivere parole d'amore / dalla vita non ho potuto imparare ...", versi terribili che mettono un'ombra sulle nostre anime. E, nella poesia "Amore come mondo", Tito Cauchi lamenta che si parli tanto, utilizzando la parola "Amore", per rimanere poi chiusi nel proprio egoismo: "Chi non s'avvede che altri soffre / chi non ha la fame del denutrito / chi non ha freddo dell'assiderato / ... / non sa cosa significa amore ...". Il pessimismo dilaga nei versi, una persona giovane, che si ribella a tutto quanto di indegno riscontra intorno a sé. Non riesce a comprendere e ad accettare i risvolti negativi dell'esistenza. Ed ecco, riferendosi alla biblica storia di Caino e Abele, il suo tormentato grido: "Dov'è mio fratello?": "È forse nel compagno di lavoro / nel mendico che mi stende la mano / è forse in ogni uomo che mi circonda? / Dov'è che posso piangere?". Non si riconosce in questo mondo, Tito Cauchi: "Se io fossi un altro / chiederei chi sono io". Egli sente talmente forte l'incertezza, il dubbio sulla sua natura vera di essere umano e sulla capacità, insieme agli altri, di porre rimedio all'assenza di amore, che ancora si interroga, in lingua francese: "Quesqu'est mai?". In "Vita come preghiera", leggiamo: "Signore io non so chi siete voi / ho tanto bisogno
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di un tozzo di pane / ho tanto freddo, vorrei scaldarmi". Ma non perde, il nostro Autore, "incredulo spettatore", la speranza. E, dunque, invita: "Se vuoi vedere felice il mondo / rendi il mare ai pesci / lo terra agli alberi ai fiori l'aria agli uccelli". Incredulo spettatore, sì, Tito Cauchi, ma fiducioso. Permane, in lui, il sogno che possa ritrovarsi finalmente in un mondo all'insegna dell'amore, in un' “isola di cielo", come titola la trepidante raccolta. Anna Aita Tito Cauchi, Isola di Cielo, U.M.E. Anzio (Roma), 2005, Pagg. 64, € 7,00.
VOGLIO ESSERTI FIGLIA ANCORA Padre, torniamo al tempo che fu nostro, la mia piccola mano fidénte alla tua. Osserviamo il tramonto scendere adagio sul biondo maturo del grano, dove ai miei occhi sgranati, occhieggiano fiordalisi e papaveri di quest’Oltrepo’ che incanta. Restiamo un poco lì, assaporiamo l’ora che sposta il suo travaglio di luce sull’ombra, e il crepuscolo che adombra i pampini delle vigne distese sul dorso del monte Non avere premura, lascia che il passo si arresti , e guarda attraverso i miei occhi l’emozione della sera, quell’apparire di luci lontane che rinfranca illusioni spezzate Voglio esserti figlia ancora voglio conoscere, amare il tempo immaginato, sulla manciata di ricordi. Non ci rimane che la notte, l’ora, l’oltre. Ciò che passa e non tratteniamo, ti porta dove la Sicherheit attende al Ponte Merlino di S. Damiano al Colle
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E la terra rimossa conosce, padre, il rosso più rosso dei papaveri, il dolore del gigante piegato, la tua invocazione estrema Ed io su quelle orme, con malinconia ritrovo una lapide in tua memoria. Wilma Minotti Cerini Pallanza, VB
LEONARDO A MILANO Anche Leonardo un giorno ha camminato lungo la Ripa di questo Naviglio Grande che dalla Darsena conduce a San Cristoforo, chiesetta antica gradita allo Sforza. Anche Leonardo un giorno ha camminato proprio sotto queste finestre mie ancora “in fieri”. guardando i campi e misurando i passi. Forse Leonardo un giorno avrà potuto, senza tutti i presenti caseggiati, ammirare, stagliato all’orizzonte, sul verde campo, il grigio delle Alpi. Mariagina Bonciani Milano
RICORDATI CHE HO AMATO CAINO Tu che mi desti in prestito una spanna di terra e un’altra di cielo e mi facesti volare il pensiero sulle ali del vento tu che mi ascolti in silenzio fulminandomi gli occhi con spettacoli di stelle ricordati che sempre ho amato Caino il fratello che trafisse il cuore del fratello. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
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ISABELLA AFFINITO COLTA E RAFFINATA OPERATRICE CULTURALE di Antonio Crecchia
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I giungono, sempre graditi, altri tre volumi pubblicati da Michela Isabella Affinito. Il primo si presenta come “IV volume della collana Autori Contemporanei nella Critica di Isabella Michela Affinito”, Casa Editrice Menna – Avellino, 2020, pagg. 248, indice compreso. Dedicato “alla memoria di Carmine Manzi, affinché il suo verbo continui a circolare in mezzo a noi!”, contiene settantatré impressioni di lettura ricavate dall’attenta disamina di altrettante opere letterarie di autori contemporanei. L’ho sfogliato, e letto alcune pagine riservate a personaggi maggiormente rappresentativi della cultura italiana tra fine Novecento e inizio Duemila, alcuni dei quali a me ben noti per averli beneficiati di monografie o saggi critici. Di altri leggo i nomi per la prima volta. Dal mio dilettantistico punto di vista, Isabella si riconferma appassionata lettrice di opere altrui e generosa esegeta disponibile a dedicare attenzione e ricchezza intellettiva/ valutativa a quanti le fanno “dono della loro materia per l’analisi della stessa”. Un sostanzioso lavoro ermeneutico, questo di Isabella, che lascia prevedere altri eloquenti studi e iniziative per dar corpo a nuove pubblicazioni del genere; e non
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c’è da dubitare, conoscendo ormai la sua implacabile attività di operatrice culturale a tutto campo e… a tempo pieno. La mia attenzione, però, da subito è stata attratta dalla pubblicazione “minore”: un tascabile formato 14 x 10, sulla cui copertina spiccano due piumati elmi dell’antica Grecia: “riproduzione di un’opera artistica dell’autrice, eseguita con tecnica mista su carta” (pag. 4). Ma si sa: i gioielli sono sempre di modesta taglia. Infatti, dentro questo scrigno di carta luccicano i versi più sonori uscita dalla penna di Isabella. I grandi maestri dell’epica antica, Omero, Esiodo, Virgilio sono stati visitati e il loro verbo, fiorito nel mito, offre frutti delicati, dolci e in abbondanza alla poetessa di Fiuggi, che lo accoglie e lo rivitalizza, nel suo animo assetato di luci albali e aurorali dei primordi della storia umana, con espressioni di ammirata simpatia per il grande “regno di sole” che fu la Grecia antica. LA TERRA DI NIKE. Questo minuscolo e snello libretto – un tascabile tutt’altro che appariscente se non per l’illustrazione di copertina – raccoglie versi davvero portentosi. A suggerirli, a ispirarli, è quell’antico crogiuolo di civiltà che fu la Grecia precristiana. Isabella Affinito ha dato, fino ad oggi, non poche robuste prove del suo amore per la cultura, sia antica che moderna. Qui il suo acume intellettuale mette le ali e compete con le Muse, portandosi nella loro “terra” d’origine e, nel transito con esse nei luoghi ove fiorirono il mito, la religione, l’arte, la filosofia, il logos, la libertà “morale”, ha elevato un canto lirico che a me pare di indiscutibile risonanza nell’animo del lettore. A monte di questi bei versi c’è, indubbiamente, una penetrazione in profondità della storia della civiltà greca; una operazione culturale invasiva, perlustrativa dell’anima di un popolo che seppe distinguersi per il culto della “bellezza”, della “perfezione” in tutti gli ambiti delle attività umane, intellettuali, inventive e pratiche. Terra di
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“miti, anzitutto, di esaltazione, del sublime che si annida nella coscienza del singolo e della collettività; terra d’eroi, celebrati non soltanto dai poeti epici Omero, ma anche da storici illustri, tra cui Erodoto (484-430), il padre della storiografia, che eternò le gesta, il genio militare e il valore dei Greci manifestati nelle battaglie delle Termopili, di Maratona, di Platea, Salamina e Micale contro il nemico persiano; poi l’epopea di Alessandro Magno, che estese la cultura greca in tutto il bacino del Mediterraneo, e da cui prese avvio una nuova era storica, conosciuta come Civiltà alessandrina. Già l’elencazione degli argomenti – legati a divinità e personaggi del mito, a manifestazioni, usi e costumi di quel mondo classico rivela la determinazione dell’autrice a confrontarsi con “una civiltà /che vive dentro/la sua storia”, ridando vigore a “quegli eroi” nel “ricomporre/con le loro stesse mani/i pezzi adesso sfusi / che appartengono / alle Architetture/che non si piegano al sole/e nemmeno ai venti”… Vale a dire: la civiltà greca, unitaria e granitica , vista nell’insieme delle plurime manifestazioni, dà l’impressione di una saldezza che nulla al mondo potrà mai sfaldare. Nike è il simbolo della vittoria, degno coronamento delle virtù eroiche, dell’affermazione degli ideali che sono alla base delle vocazioni umane, coltivate dai Greci quali valori irrinunciabili nella promozione dell’educazione dei giovani, nell’esercizio della politica, dell’arte e della filosofia. Essa, sempre “in equilibrio / dopo il volo”, tornava a camminare spedita sulla “sua terra / dove ogni giorno / maturava un mito”. Chi ha dimestichezza con i “Dialoghi” di Platone, sa che in essi sono racchiusi ben venticinque miti, con funzioni essenzialmente esplicative/educative, intenzionali cioè alla formazione dell’ anima nella scelta del bene e ripudio del male. Isabella riscrive in versi e reinterpreta alcuni di miti dell’età arcaica, omerici, che hanno infiammato, in passato, la fantasia di generazioni di adolescenti, compresa la mia. Oggi, di essi, si avverte una debolissima eco, che difficilmente riesce a penetrare le spesse pareti degli
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edifici scolastici. Un mondo, quello attuale, senza mitologia? Forse sì. I prodotti della fantasia, le costruzioni irreali non sono merce di consumo in un mondo “reale”, dove anche l’idea deve assumere una “forma” materiale, sostanziarsi per poter trovare accoglienza tra gli umani. Testi di alta poesia che ripropongono una lettura nuova, aggiornata, non soltanto di luoghi e figure mitiche del mondo greco, ma anche della sublime arte e di artisti che ad essi si sono ispirati per creare opere immortali, capaci di parlare agli uomini di ogni epoca e cultura. Da aggiungere che l’autrice, in omaggio alla civiltà greca, aveva realizzato in precedenza, tra il 1999 e il 2003, altri quattro libri: “La natura e il mito” I e II volume; A come Arte, G come Greca-Arte Greca”. Una concreta e significativa attestazione di “una vera e propria passione per il mondo Classico costellato di arte, teorie e miti”. Il terzo volume, sotto il titolo “Il dubbio futuribile nell’arte pittorica di Michele Alemanno” (pubblicato a cura dell’Accademia Internazionale dei Micenei – Reggio Calabria, 2015 – Edizione fuori commercio), dedicato “A chi crede che dopo questa vita ci sarà una festa infinita!”, si apre con una poesia di Isabella, “L’uomo smarrito”, quale “omaggio alle opere pittoriche di Michele Alemanno”. A seguire una puntuale “Prefazione dell’Autrice” in cui l’opera di Alemanno, pur prendendo spunti dal Surrealismo, “facendo suoi alcuni punti” di questa dottrina pittorica, appartiene alla corrente “verista, in quanto trattasi pur sempre di rappresentazioni riconducibili alla realtà, ma rivestite di usberghi inventivi che hanno alterato il loro raziocinio fino a far parte della follia creativa”. Quindi, modulazioni intime “dell’inaspettato e del non coerente”, vale a dire oniriche, scaturite dai meandri oscuri della mente e fissate nel quadro con stile chiaro, evanescente, dilagante con il supporto di due elementi essenziali: l’oscurità e la luminosità, l’ombra e la luce. Il mondo reale si manifesta in una vicinanza luminosa e una lontananza oscura, appena percepibile, ma pur sempre reale.
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La fonte luminosa (quasi sempre un sole abbagliante, che gli occhi non possono guardare, ma percepire nella sua luce accecante), posta sempre a sinistra, in basso, indica la limitatezza delle nostre facoltà sensitive, l’impossibilità, cioè, di cogliere la realtà oltre quel circolo delimitativo che chiamiamo “orizzonte”. Isabella Affinito, da consumata artista e di esperta nella tecnica esaminativa delle opere pittoriche, analizza la riproduzione di undici dipinti di Alemanno apparsi sulle copertine di altrettanti libri editi dall’Accademia dei Micenei, e ne coglie ampiamente il senso compositivo diffuso “all’interno della rappresentazione pittorica”. Una ulteriore prova della vastità delle passioni, conoscenze e impegni di questa vulcanica figura di intellettuale, i cui interessi culturali, creativi e esaminativi pare non abbiano limiti e si manifestano come testimonianze qualificate e qualificanti di questa tumultuosa epoca, alla quale ella è determinata a dare il più e meglio di se stessa. Antonio Crecchia
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se i diavoli disturbi in casa loro! Francesco Fiumara Da: La rima e la raspa, La Procellaria Editrice, 2006
SUL MIO CORPO Sul mio corpo le tue carezze, sulle labbra i baci transitati con sussurri e parole spezzate. Ciò accadeva quando i giorni si presentavano ai vetri con il sole e di sera la luna fuggendo ricamava la sua falce sul tuo maglione. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
L’ESORCISTA AMMONITO Frate Aldo, l’esorcista di Milano, s’era fatto famoso in tal mestiere, e la gente invasata, da lontano, accorreva al suo magico potere.
SOLSTIZIO D'INVERNO
Oggi ove approdi mai? Sei tu impazzito? Non scorgi ancora in ogni capo assolto i cornetti d’un diavolo incallito?
Dura a notte la pioggia sul tuo volto, mentre rincasi e sogni il caldo bene dell'amica dimora che ti attende, dov'è dolce ripetere i pensieri e le parole d'ogni giorno. È tardi ormai in questo solstizio dell'inverno che gelido s'approssima e cancella gli ultimi avanzi dell'autunno. - Solo quell'attesa ti resta e la speranza del nuovo anno che s'appressa. Forse sarà a te più propizio e dal suo avvento te ne verrà più luce. Quella luce di già s'accende sopra la tua via, mentre dura la pioggia sul tuo volto gelida scende e tutto il mondo opprime.
Quand’anche tu lo faccia a fin di bene, bada: sarai condotto al concistoro e condannato come si conviene,
Tu l'accogli, rapito nell'ascolto. Elio Andriuoli Napoli
E il frate esorcizzava a tutto spiano i diavoli cacciando a fitte schiere, proprio come un apostolo cristiano che i prodigi alternava alle preghiere. Ma il vescovo lo seppe e disse: Stolto! Se ai tempi degli Apostoli era un rito cacciar demoni, il campo era men folto.
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IMPERIA TOGNACCI IL PRIGIONIERO DI USHUAIA di Tito Cauchi
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L poemetto Il prigioniero di Ushuaia di Imperia Tognacci (edito nel 2008) ha ricevuto un tale consenso che l’Autrice ha pubblicato una seconda edizione (2021), stavolta anche con traduzione in altra lingua, a cura di Angela Pansardi, così da potersi diffon-
dere pure presso i parlanti di lingua ispanica e in particolare presso i nativi dell’Argentina, teatro di riferimento dell’opera. So di dire cosa ovvia, nondimeno credo che una seconda lettura torni utile, non solo perché ne ravviva il ricordo, sia pure attenuato dal tempo trascorso dalla prima lettura, ma perché rivela aspetti sfuggiti in precedenza. Se poi consideriamo la nota critica dell’editore Sandro GrosPietro che, da par suo, fa accostamenti dotti stimolanti, allora ci sentiamo più arricchiti e siamo spronati ad approfondirne gli aspetti. Inoltre ci prepara il giudizio di Mario Esposito
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che afferma trattarsi di: “Un dialogo continuo con la sofferenza, con le ombre e con gli spazi più segreti dell’anima” (espresso nella motivazione assegnata del Premio Penisola Sorrentina, nel 2008). Non vorrei ripetere quanto scrissi in precedenza (Pomezia-Notizie, settembre 2011, p. 35), tuttavia, per chi non ne avesse contezza, mi pare giovi dare una sintesi del poemetto e richiamare alcuni punti, soprattutto facendomi accompagnare dal sopranominato critico editore. Ushuaia è territorio facente parte dell’arcipelago situato nell’estrema appendice dell’ America Meridionale. In quei luoghi le coste sono frastagliate e pericolose, percosse continuamente da onde vorticose, prodotte dallo scontro delle acque del Pacifico e dell’Atlantico; così i nativi, per segnalare ai naviganti il pericolo, al calare delle ombre, accendevano grandi cataste di legna. Perciò, come un ossimoro, l’intera regione gelida, fu soprannominata Terra dei Fuochi. Lì confinano Cile e Argentina. Ebbene Ushuaia è la capitale della porzione appartenente all’Argentina ed è sede di una antico penitenziario; da questo carcere prende l’abbrivio la verosimile storia sul prigioniero di Ushuaia ovvero la finzione letteraria narrata da Imperia Tognacci sul prigioniero che non ha possibilità alcuna di scampo (Mi ricorda il carcere di Alcatraz negli USA da cui, si dice, che non sia mai fuggito nessuno). Intanto osserviamo che presenza costante è il paesaggio che offre una natura che ‘cattura’ per la selvaggia e inesplicabile bellezza, che ti suggestiona fantasia creatrice. Ciò premesso il poemetto si articola in venti sequenze ed è preannunciato dalla dichiarazione del ritrovamento di un manoscritto ad opera di un anonimo “prigioniero di Ushuaia” rassegnato ad attendere i suoi ultimi giorni, in quel luogo che la Poetessa definisce la Fine del Mondo come “il tempio dell’infinito” conclusivo dell’intera storia. Per quello che valga desidero precisare che in questa seconda edizione alcune sequenze o stanze sono diversamente ricomposte rispetto alla prima edizione; per esempio qui abbiamo meno interruzioni di
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versi (l’enjambement) e inoltre l’attuale poemetto chiude con quella che era la XII stanza. La lettura impone una certa attenzione (ovviamente questo vale per tutti gli scritti), perciò mettendo in successione quelle che mi sembrano parole chiave, immagino quanto segue. Le prime sequenze presentano istantanee domestiche di comune consuetudine con salti estemporanei dall’abitazione di città ad un altrove. Il nuovo paesaggio non è solo luogo dell’anima, in senso elevato, gioioso, tenero, bensì diventa carne soggetta alle asperità delle rocce, delle guglie dei faraglioni, soggetto alle sferzate del vento, ai rigori climatici e ad ogni altra avversità; sostanzialmente, non vorrei esagerare, la Poetessa è una sopravvissuta come la natura del luogo, rimasta prigioniera tra la sua casa e le “mura di carne” (sequenza I). La Poetessa nella vita ordinaria si interroga (sequenza II) e guardandosi allo specchio osserva i segni del tempo trascorso, così commenta che non può sfuggire da se stessa (seq. III). È cosciente che quando ci si rifugia dentro si rimane prigionieri di se stessi (seq. IV), fin quando incontra un uomo con catena al piede, con barba, “impietrito” (seq. VII), dal quale riceve un “foglio macchiato col sangue” (seq. VIII), con il quale avvia un dialogo. Da qui in poi le voci si moltiplicano con l’intervento indiretto degli elementi della natura, fino alla
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conclusione della sequenza finale che, mi sembra, apra alla speranza: “Tace la boria del vento. / … / Tu sola, Croce del Sud, / tu sola hai visto, tra l’essere / e il non essere, la poesia / mutare la sua rotta e nelle mie / mani depositare un desolato / canto,” (seq. XX). Ushuaia è l’identificazione della Poetessa: è il transfert madre-figlia, è il ritrovamento casuale o vero che sia, di un soggetto, o l’invenzione letteraria, mentre la madre è intenta alle faccende domestiche. Ushuaia è la donna sposa, è l’essere imprigionata dalle circostanze, vinta ma non rinunciataria. I vari oggetti che troviamo assurgono a simboli come il bastone, il fiume che si associano alla figura del pellegrino, come si autodefinisce l’ergastolano “impietrito”. Così altre voci assumono un significato simbolico come le sferzate del vento, il suolo inaridito e infertile. In questa atmosfera si creano echi le cui parole rimbalzano rispondendosi l’un l’altra, assumendo diverse identità. Così ritorniamo al transfert madre-figlia, recluso-poetessa, natura-donna; e infine a una coralità rimasta inascoltata, una sorta di monumento ai senza voce, ai caduti, ove il protagonista prigioniero rappresenta il milite ignoto (suggestione, questa, che mi proviene dalla prefazione). Imperia Tognacci, ne Il prigioniero di Ushuaia, al contrario di altre opere precedenti, non richiama il mito classico, ma si inoltra in uno scavo interiore del personaggio creato, dove è possibile intravvedere un transfert appena dissimulato nella natura non antropomorfa che tuttavia diventa espressione della Poetessa, luogo dell’anima. Inutile sottolineare che traspare una sorta di autoanalisi nei tre stadi immateriali della persona, il Conscio, l’Inconscio, l’Io Superiore. Una sorta di antroposofia sotterranea; ma questa e altre dottrine e citazioni letterarie, ci porterebbero lontano. L’opera lascia spazio a molteplici considerazioni solo se ci si soffermi; perciò, a questo proposito, rimandiamo ai lettori che possono vederci mille facce e altrettante voci a seconda della propria sensibilità, cultura e suggestione. Tito Cauchi Imperia Tognacci, Il prigioniero di Ushuaia, Genesi Editrice, Torino 2021, Pagg. 104, € 15,00.
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“IL LATINO DI DANTE”. Una lingua
per i posteri nella conferenza online di EMANUELE BANFI di Giuseppe Leone
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NA serata decisamente anti-Covid, quella di venerdì 9 aprile alle 21 di Emanuele Banfi, su proposta della delegazione di Lecco dell’associazione italiana di cultura classica. E non solo, perché in collegamento telematico, ma perché il professore per una settantina di intensissimi minuti ha letteralmente catturato l’attenzione dell’uditorio, distogliendolo dall’angoscia della pandemia. Lo ha fatto, citando personaggi, versi della “Commedia” e non solo, in un andirivieni di espressioni latine e in “volgare”, volte, ora, a evocare il passato della Firenze antica; ora, a predire il futuro della “città partita”, attraverso un’elegante e chiara esposizione, ricca di richiami storici e suggestioni letterarie.
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A presentarlo, la presidente Marca Mutti Garimberti, che ha ringraziato l’illustre ospite - oltre che caro amico e ex allievo del Liceo “Manzoni”, anche accademico della Crusca, glottologo, già docente universitario prima a Trento e poi per anni all’Università di Milano Bicocca - per avere accettato di onorare la prima edizione della “Giornata Mondiale della Lingua Latina”, promossa dalla Aicc nazionale, con “Il Latino di Dante”: un tema e un autore, così ricchi di spunti e di suggerimenti da far pensare, in quest’anno dantesco per eccellenza, che nessun altro argomento, al di là del filtro della “Commedia”, e nessun altro poeta, avrebbero potuto meglio far riflettere sul ruolo del Latino come grande lingua di riferimento culturale. Ne è venuto fuori un intellettuale calato nel grande fiume della cultura latina; un Dante, impegnato a ricercare nel “Volgare” una lingua nuova (utile e necessaria) per la conversazione quotidiana, in una realtà medievale in cui il Latino era ancora la lingua delle istituzioni, del diritto, della mercatura, della chiesa, dell’alta formazione scolastica, della cultura; mentre, il “volgare” era solo uno strumento variabile, instabile, mutevole, difficilmente utilizzabile per opere che potessero gareggiare con la tradizione.
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Un Dante, mai solitario, mai chiuso nel suo sdegno di esule, questo di Banfi, ma “homo faber”, che fiuta già il rinascimento, che si adopera affinché da Firenze parta l’ispirazione di una lingua unica (il volgare illustre), frutto di un lessico polimorfo, in cui si mescolano forestierismi, settentrionalismi, sicilianismi, prestiti dal greco, termini dal francese antico dell’area provenzale, di ceppo germanico, longobardo; e, del latino, come serbatoio che sopperisca alla variabilità, alla polimorfia dei volgari; come grammatica, lingua stabilizzata. E non solo, anche come solennità, valore di umanità e sapienza, di “bello stilo”, insomma, di tutte quelle norme morfo-sintattiche, che Dante pensava di trasferire nelle composizioni volgari e nel
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membro dell’Accademia dei Lincei, che lo definisce “Padre”; e poi, Tullio De Mauro, linguista ed ex ministro della pubblica istruzione, che scrive che la stragrande maggioranza degli italiani parlano ancora la lingua di Dante. Alla fine gli applausi dell’uditorio per una di quelle serate degne d’un pieno teatro, da cui, l’insigne accademico prende congedo con una dedica alla professoressa Giovanna Faranda, meritevole di avere istillato nei giovani leucensi l’amore per i classici. Giuseppe Leone
HUMAN DESTINY Come vedete, amici, qui sprofondano intere civiltà sotto la polvere dei secoli.
Poema, riuscendovi anche. Come di fatto si verificherà nella “Commedia”, se il poeta farà parlare Virgilio, Catone, Stazio e Giustiniano, in “volgare”, mentre Cacciaguida, medievale e trisavolo di Dante, in latino; quasi a imitazione di una sorta di Giuramento di Strasburgo, allo scopo di far comprendere il latino ai medievali e il “volgare” ai dotti che parlavano e scrivevano in latino. Dante fondatore della civiltà italiana? Il professore non lo dice espressamente, nonostante abbia titolo e competenza e la sua esposizione sembri portare proprio in quella direzione. Lo fa dire, però, in chiusura, a due grandi studiosi della contemporaneità, citando, prima, Ignazio Baldelli, linguista e
Meglio non agitarci troppo, meglio essere tolleranti fra noi, e dedicarci a questo pianeta ed a questa esistenza, per renderli più equi, godere sanamente della bellezza, dell’arte e dei sogni, senza bramare strani incontri ravvicinati con alieni troppo più intelligenti di noi, troppo pericolosi per la vita terrestre. D’altronde, anche io sparirò, per certo, un giorno, mentre forse mi starete leggendo. Forse qualcuno si ricorderà di me, nell’assemblea settimanale del circolo letterario. Solo chi mi avrà amato veramente continuerà ad amarmi. Lasceremo pezzi di ferro e di plastica a rotolare nello Spazio infinito Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi editrice, 2013
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ANIMALI DOMESTICI di Antonia Izzi Rufo
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ONO considerati animali domestici le pecore, le capre, i maiali, le galline, i piccioni, il cane e il gatto. Questi due ultimi, però, sono amici fedeli dell'uomo, il cane in particolare. Le pecore e le capre, erbivore, si conducono al pascolo ogni giorno, in campagna, dove esse soddisfano la loro fame cibandosi di erbe e rami verdi. Sono docili (un po' meno le capre, più ribelli). Si lasciano guidare. Infatti c'è un proverbio che dice: <<Docile come una pecora>>. Durante l'inverno e nei periodi di pioggia ininterrotta, si trattengono nell'ovile, si danno loro frasche secche che sono state messe da parte per i periodi critici. Nei paesi le capre si tengono per il latte e i caprettini la cui carne è squisita e molto commestibile. Le pecore si allevano per la lana, molto calda, utilizzata per i materassi, i vestiti invernali, il formaggio e per gli agnellini che si possono equiparare ai caprettini. Le galline si allevano per le uova, anche per la loro carne, molto adatta per il brodo (alle donne appena partorite si dà, come minestra, il brodo di gallina, perché produce latte) con la pastina o i tagliolini. I piccioni (o colombi) si tengono per la loro carne, e perché son allegri, anche se sporcano l'ambiente. Il cane e il gatto sono i privilegiati; stanno quasi sempre in casa dove hanno la loro cuccia. Il gatto è meno fedele del cane, ma più tenero: ti salta in grembo per ricevere coccole, sta, di solito, quando è freddo, presso il camino, però è traditore: se vede qualcosa di suo
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gusto, subito salta e lo va a mangiare. Molto educato è invece il cane: non tocca nulla, in casa, se non riceve l'ordine del padrone. Vi sono molte specie di cani. In paese si tiene il cane da guardia e il cane da caccia. I cani, di solito, non sono aggressivi: giocano con i piccoli e con i grandi, si lasciano accarezzare, giocano col pallone, sono molto fedeli. Se si ammalano, di solito, di rabbia, diventano pericolosi e bisogna stare lontani da essi. I maiali non aiutano l'uomo nei suoi lavori, pensano solo a mangiare e ad ingrassare. Quando si uccidono, però, verso la fine o l'inizio dell'anno, per lo più in gennaio, danno tutto: prosciutti, lardo, carne per le salsicce e i salami, sangue per i sanguinacci. Di essi non si butta nulla. Antonia Izzi Rufo
GIARDINO LIGURE DOPO LA PIOGGIA Anche gli steli più trasparenti godono, tremando, della frescura che ha intriso la terra, moscerini impazziti danzano a mezz’aria, sullo sfondo celeste del cielo che si abbraccia, laggiù, col mare, chiocciole misteriose spuntano sui muri gocciolanti, rorido muschio, lombrichi, foglie di fico a marcire al suolo dopo i giorni dell’opulenza, fiori inconsciamente felici di esistere… E io, alla tastiera del computer tra un mare di carte e di libri, rimango consciamente affascinato, ancora e sempre, ad ammirare questo caleidoscopio infinito della Natura. E penso al perché di tutto questo, ed a me, a noi tuti, agli infiniti Universi… Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013
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SENTIMENTI DI CULTURA NELLA POESIA DI FRANCESCO DE NAPOLI di Leonardo Selvaggi I ON la scomparsa dei grandi affetti che facevano tanta nostra appartenenza, uno sfinimento. Radici feraci e viride si sono spezzate. Comincia un processo di confronto fra noi e l’origine dei nostri giorni: tutta la sostanza che ci tiene e l’ambiente attorno sono fermentanti. Nel volume “L’attesa”, edito nel 1987 dal Centro culturale “Paideia” di Cassino, il poeta Francesco De Napoli, alla morte del padre, avverte il proprio essere in piena rivelazione, nella sua essenzialità. “Sento il profumo della mia terra:/ulivi e granone, arance e cicoria”. Tutto vivificato con l’amore ai luoghi natii, con il passato che “sanguina” come “seme della memoria”. Tutti i ricordi dei primi anni rinverditi riemergono. Momenti straordinari, fuggiti, che diventano amarezze, sconforto: non abbiamo saputo dare tutto, l’assenza affligge, perso un bene che forse non abbiamo capito e saputo tenere. Per Francesco De Napoli, scrittore, saggista, intellettuale il dissidio tra il sogno e la realtà che non può essere che una triste continua trasformazione: aspirazioni, gioie intraviste, aspri monotoni giorni ci trasportano senza accorgercene; un moto di deformazione che dissolve, rende irriconoscibili figure che ci hanno incantato, affetti che ci hanno sostenuto con la dedizione, le cure assidue.
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II La vita e la morte in un intreccio, la consumazione attraverso la fuga del tempo. La vita nel suo trascorrere lungo i passaggi di tradizioni si arricchisce tra accidentalità e rimeditazioni. Tutto appartiene, amplificandoci con i sentimenti. La lontananza è non un esistere, ma la persona o le immagini andate via riempiono la psicologia. È una più intensa presenza che avvertiamo. La sentiamo fremere dentro la dolcezza del tempo trascorso. L’appartenenza
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ce l’abbiamo addosso, fra le mani, si inserisce nel flusso delle vene, negli organi vitali. “come la fine/che giunge improvvisa,/e si riposa nell’indifferenza,/così l’amore”. Sogni che brillano, per la loro inafferrabile bellezza non si prendono. L’amore domina come la vita che automatica passa sopra di noi. Per il direttore di “Paideia” Francesco De Napoli, la terra di Lucania si apre nel cuore con sommessi sospiri di malinconia: si riconosce dalle asprezze ombreggiate da “soavi frondose acacie”, da arcaicità di presenze, evanescenti nei roventi meriggi, che paiono emergere da “candidi abissi di pietra”. La propria terra, una specie di manto che ci avvolge, linfa feconda che passa per tutto il corpo. “In questo notturno lucano/ombre e silenzi lunari/sanno tutto di noi”. In un insieme rappreso cogliamo antichi affetti rimasti incarnati, costumi, voci, tutte le naturalezze, spontaneità fatte di vicinanze, di legami, di amore materno, di ambiente naturale. III Il poeta Francesco De Napoli, noto animatore di cultura, esperto conoscitore di letterature straniere, nella raccolta “L’attesa” ha versi elegiaci e realistici, esprime verità che condensano tormenti nostalgici. Completezza di contenuti, memorie di infanzia in stretto rapporto sentimentale con il presente, compenetrazione con tutto quello che si sente accanto, riflessioni attraverso processi dinamici di ripensamenti, ritorni su meditazioni stratificate: “ora bevo alla gelida fonte d’un tempo,/perenne come puro spirito”. Un ritrovarsi in interezze, un rinnovarsi alla fonte del proprio io. La secchezza dei greti torrentizi, coperti di fango accartocciato, con piante palustri negli angoli umidi. Bocche arse, voci sotterranee, sottili lamenti. Sofferenze e latenti ferite: aridità nei calanchi e negli avvallamenti argillosi. La Lucania, terra di luci e di boschi, come persona vive nella freschezza della sua natura, rimasta in gran parte incontaminata, in un’atmosfera primigenia. Francesco De Napoli gli anni trascorsi in Lucania li rivive con profondità di sentimenti, li ha nella pienezza di sé, risonanti nell’intimo, animati da presenze, splendenti di
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ricordi e di visioni, in amplitudini affettive, inestricabili vicinanze. La terra di Lucania estesa in lontananze di echi impercettibili, con una sua forza panica diffusa in tutte le parti. Il poeta tiene forti e immutabili nella mente le memorie di infanzia, ravvivate da splendidezza di luoghi, da senso di libertà, da sensazioni esaltanti. Lo tormenta il moto evolutivo che porta croste e toglie forza, generando tristezza. I grandi beni che non si vedono, incrostati dentro il cuore si sgretolano. “Già sentivo, in quegli anni trasognati,/che la strada percorsa ogni giorno,/in realtà, non è mai la stessa”. IV La raccolta “L’attesa” colma di trepidazione, ha vuoti interiori e smarrimento, non si sa a che cosa afferrarsi. L’espressione poetica riproduce il passato facendo vibrare la vita di Francesco De Napoli nella sua tenuità di dolcezze sentimentali: “Per anni avevo desiderato/assaporare le dolci pannocchie/del paese di mamma mia/almeno una volta insieme,/insieme con loro”. Il passato narrato è gravido di ansia, immiserito. Il poeta è sotto una morsa di compressione psicologica, sentendo parlare di nazisti e di Siberia. A distanza di tempo ancora attuale quel triste periodo di atrocità. “Respiro il silenzio di quei giorni,/miracolo di memoria”. La fantasia si affatica, quando si parla di Americani, appaiono fantasmi incomprensibili, “…sperduti/in angoli opposti del mondo”. Sono altri spadroneggiatori che hanno seminato distruzioni in nome della libertà democratica. Attesa, come esagitata esasperazione, lacerazione interiore che sa di abbattimento, dilaniato da senso di fine. Le poesie sono narrative, hanno armonia e versi che tengono in sospensione, non si sanno capire le ragioni dei fatti di guerra. I sentimenti di amore, di tenerezza vibrante nel nido di famiglia sono intoccabili, non si concepiscono violenze barbariche. Tempi felici che si incontrano con i natii, genuini modi di essere del poeta Francesco De Napoli. L’uomo e la Natura in simbiosi, in corrispondenze di vitalità. Un ricambio di energie, processi di antropomorfosi nei contatti
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con il mondo delle piante. Consistente base di naturalezze, sostanze vere ai momenti della vita, ansie ed entusiasmo. Giocondità e pienezza nei giorni dell’infanzia. Sono stati quei tempi a dare fondamenta e robustezza di struttura: fonte di ricchezza morale e di sicurezza che nelle avversità ha stimolato ad andare avanti, ad avere cambiamenti e vie nuove di superamento. Gli insegnamenti avuti hanno trasmesso “La saggezza antica come misura/per affrontare” realtà diverse, le amarezze portate dal “lungo peregrinare senza requie”. V Tante lacerazioni, quasi non ci si sentiva di appartenere a se stessi. Sradicamenti e turbamenti psicologici che nell’animo di Francesco De Napoli sono rimasti. I versi si articolano di realismo e di slanci in una discorsività che emerge da profondità di sentire. “Ora rimpiango quegli orti dorati/che sapevano di muffa e di letame…”. Si rimuovono, senza mai cancellarsi, tracce di vita che nei tempi venuti dopo hanno fatto rilevare la loro forza, le prime inestirpabili esperienze. La vita della Lucania per il poeta ha una sua realtà di durezze che ha reso maturazioni in mezzo a gente umile e semplice, dalla cultura vera, fattasi nelle fatiche dei campi e con le ristrettezze economiche. Dalla Lucania si arriva alla “martoriata Cassino”. I luoghi di nascita e la nuova residenza hanno originato altro “sangue e vigore”. Francesco De Napoli, interprete di se stesso, attingendo alle proprie connaturate capacità. I primi anni hanno messo in moto sviluppi subitanei nell’animo avido di “ricerca di vero”, “stupito”, “ansante” con la sua natura vivace. Un pessimismo preme da sempre sui pensieri che paiono incatenati in opposte considerazioni. Le realtà crudeli della storia umana, le circostanze infauste cadono addosso. Incertezze conturbano riflettendo sulle nefandezze dell’uomo quando è conquistato dal senso di predominio con stermini di innocenti, inermi e umili. Le poesie de “L’attesa” fermentano di principi di razionalità in momenti di tormentazione interiore che si fanno colloquio continuo. “Forse c’è in noi
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una predestinazione/un fato che non è caso,/una necessità di cui siamo esecutori/inconsapevoli”. Si vogliono movimenti che conducono a riequilibri, a vitalizzazioni di sentimenti e legami di solidarietà umana. VI Speranze e propositi si illuminano, portandosi lontano dalle depressioni e dai modi improntati a stoicismo. Antiche radici, trasformazioni che articolano tradizionali culture fanno un linguaggio debordante, un sapere assimilato, penetrante, tolte le sovrastrutture di pura formalistica letteratura. Si ama la solitudine per le discussioni che soddisfano la curiosità di notizie. Tutta la vicinanza affettiva e la saggezza fatta di “fierezza” di “fermo disincanto” che distilla con dignità e coerenza convinzioni ed espressioni di saldo giudizio morale. Versi costruiti con mano di cesellatore, chiari e completi, in mezzo a minuti racconti di fatti familiari. “Nella quiete estiva della città deserta,/soffocata ogni voglia d’evadere,/rincorrevamo insieme il fresco ristoro,/rifugi adatti al dialogare sommesso”. L’incontro con le esperienze paterne al poeta crea gioia e orgoglio che lo fanno essere sempre pronto alle riflessioni, cauto, nemico delle facili demagogiche illusioni. La vita non si realizza come si vorrebbe, sempre le idealità si prefigurano “stagioni inesistenti”, forme di esistenza innalzate a grandi principi. La vita del proprio genitore una parte di sé, una simbiosi. Non si vuole la cruda realtà della morte. Ci si ostina a nascondere ogni sogno di caduta, ci si danna nel trovare significati di ripresa. Di certo la necessità della morte non può essere rifiutata, “vana è la fuga”, è una verità fatale che va accettata, si sente il dolore che frantuma dentro di sé, si ha “…voglia/di sparire”…,/ad ogni delusione/seguiva una volontà nuova, ferma”… Non si vuole credere. Si pensa impossibile la perdita di un grande affetto. VII Sentimenti e cultura, una trasmissione inarrestabile di ragionamenti. Francesco De Na-
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poli si porta, quasi trascinandolo, con le braccia il corpo stanco, malato di suo padre per illudersi sulla sua ancora forte presenza all’aria aperta, sulla partecipazione alla vita. La raccolta “L’attesa” ha drammaticità, espressioni di tormento, di orgoglio, una psicologia battagliata. Si vuole la vita sempre nostra, senza essere presa dalle maglie dello sperdimento. L’orgoglio è incredulo e impavido, con ostinatezza “…prosciuga le vene/come i campi d’estate”: vuole fermo il proprio essere, come fatto di sostanza incorruttibile. La poesia di Francesco De Napoli è morale e filosofica, legata in modo inestricabile agli istinti e alla razionalità, è lirica, elevata dai sentimenti, dai rapporti affettivi che creano continuità attraverso cultura ed esperienze. “Siamo soli,/fantocci senza scopo,/nulla/nel buio cosmico,/ nell’eterno silenzio dell’universo”. Tra memorie d’infanzia e tempi di evoluta conoscenza. Poesia di meditazioni, sempre sofferta, rinverdita dai ricordi e dalla fede nell’eternità degli afflati spirituali in spazi estesi, mai finiti, in immensità senza tempo. Leonardo Selvaggi Domenico Defelice: Il vecchio forno ↓
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“UNA VERA ARTE” (Matteo Collura) - 14 -
DEDICHE a cura di Domenico Defelice NOVEMBRE 2019/Al gentilissimo Direttore/Domenico Defelice, con/rinnovata amicizia e stima, da/Isabella Michela Affinito” (volume: Nella Terra degli Angeli, a cura di Gianni Ianuale, Iris edizioni, 2019). *** “OTTOBRE 2019/Al Gentilissimo Direttore/Domenico Defelice, con/immensa stima e simpatia da/Isabella Michela/Affinito” (suo volume: Una raccolta di stili, XVII volume, Carta e Penna editore, 2019). *** “Cordialissimi auguri di/Buona Pasqua!/ Elena Milesi/Bergamo, 16 aprile 2011.” (volume: Milesi, Ed. GAM e C, 2011). *** “Per te caro amico/Domenico Defelice/con grande stima ed/amicizia/Salvatore D’Ambrosio/Caserta 28.04.2016” (suo volume: Dieci x Dieci Sillabe incise a fuoco sulla pietra, Brignoli Edizioni, 2016). *** “Al caro amico/Domenico Defelice,/con stima profonda/Maria Teresa Epifani Furno/ Sorrento, marzo 2015” (volume: Leonardo Selvaggi - Sui sentieri del cuore di Maria Teresa Epifani Furno, Casa Editrice Menna,
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2004). *** “To, 15.XI.2015/All’illustre professore,/ Scrittore, Saggista/Domenico Defelice,/con gratitudine/ed eterna/amicizia/Selvaggi” (spillato: Il grande pittore impressionista Ottavio Carboni, I tascabili di Cronache Italiane, 2015). *** “Amicizia/poetica/I. Bonfillon/Vi autorizzo a pubblicare queste poesie con les illustrazioni” (spillato: Irma Bonfillon - Variations zoologiques, Alex Editor). *** “Al caro Poeta e amico/Domenico Defelice/con i vivi sensi della/mia profonda stima./Andrea Bonanno -/Sacile, 5/01/3015.” (suo volume: Il romanzo e la verifica trascendentale, Edizioni dell’Archivio “L. Pirandello”, 2011). *** “Al Direttore De Felice/con stima/Fabio Dainotti” (suo volume: Requiem For Gina’s Death and Other Poems, Gradiva, 2016). *** “Al prof. Domenico/De Felice, giornalista/e scrittore di valore,/questo mio lavoro in/difesa della nostra splen/dida lingua con/fraterna amicizia/affso Fortunato Aloi/lì 26/1/ 2019” (suo volume: La valorizzazione della lingua italiana, Luigi Pellegrini Editore, 2006). *** “Cordialmente./AMarzi/Roma 19/03/2019” (volume: Aldo Marzi - La mia Roma futurista, Aletti Editore, 2012). *** “Al prof. Domenico/De Felice questo/lavoro antico (ma/sempre attuale) sui/”Guardiani della/Immortalità” con/stima e sincera/amicizia affso/Fortunato Aloi/lì 28/3/2019” (so volume: I Guerrieri di Riace Un antico messaggio d’avvenire, Caruso edizioni, 2018). *** “Termoli, ‘.4.2019/A Domenico/con stima, amicizia e/i più sentiti auguri di/Buona Pasqua/Antonio” (volume: Antonio Crecchia Aforismi, volume I, Ed.ac, 2019).
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*** “Al prof./Domenico Defelice/ottimo giornalista/e eccellente letterato/questo mio intervento/di trent’anni fa (ora/quanto mai attuale!)/con sincera fraterna/amicizia affso/Fortunato Aloi/lì 7/1/2016” (suo spillato: La Questione Meridionale: radici, inadempienze e speranze, Camera dei Deputati, 30 luglio 1985). *** “Al prof. Domenico/De Felice queste mie/riflessioni su una/”vexata questio” di/venticinque anni fa/con sincera stima/ed amicizia affso/Fortunato Aloi/lì 5/10/2015” (suo spillato: Questione Mafia, Nuovo Domani Sud). *** “Al prof./Domenico Defelice/scrittore serio/e qualificato queste/mie antiche (ma/sempre attuali) note/sulla Questione meridionale/con stima ed amicizia affso/Fortunato Aloi/lì 20/1/2017” (suo spillato: La Questione Meridionale: radici, inadempienze e speranze, Camera dei Deputati 30 luglio 2985). *** “Al Direttore/illustre di “Pomezia-Notizie”/Domenico Defelice con/stima e tanta amicizia/da Isabella Michela/Affinito” (suo spillato: Una raccolta di stili, XV volume, Carta e Penna, 2014). *** “Alla Redazione di/”Pomezia-Notizie”/e al Suo Direttore/con stima/Isabella Michela Affinito” (suo volume: Da Cassandra a Dora Maar, Edizioni EVA, 2006). *** “Al Direttore/stimatissimo,/Domenico Defelice/con grande amicizia/da Isabella Michela/Affinito” (suo volume: Dalle radici alle foglie alla poesia, Edizioni EVA, 2015). *** “Dono al caro Amico/Domenico Defelice/col desiderio di poter realizzare/un incontro poetico e per farne/un libro insieme, Cordialità/Pasquale Montalto/Acri 25/9/’15” (volume: Pasquale Montalto - Domenico Tucci - Il Dialetto Della Vita Il Sogno La Vita La Bellezza, Apollo Edizioni, 2015).
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*** “lì 10/12/2018/Al prof./in dono scaramantico/questo volumetto/di un segmento della mia -/e non solo mia -/storia liceale con/fraterna amicizia/affso Natino Aloi” (Fortunato Aloi: Ricordi Liceali, Diaco, 2001). *** Luglio 2018/Al Gentilissimo Direttore/Domenico Defelice,/con immensa stima ed amicizia/da Isabella Michela/Affinito” (volume: Gianni Ianuale - Nella Volta dell’Anima, GF Grafica Srl, 2018). *** “All’amico Poeta e Scrittore/Domenico Defelice e famiglia/questi versi antichi/recuperati/per dare un sapore poetico/al Natale che verrà,/con l’affettuoso augurio/di bene, amore e serenità./Antonio” (Antonio Crecchia: Natale in versi, Ed. ac, 2018). *** “Al prof. Domenico Defelice,/valido intellettuale e/scrittore di livello,/questi miei versi -/”frammenti d’animo” -/con stima e sincera/amicizia affso/Fortunato Aloi/lì 4/ 10/2018” (suo volume: Vaganti… frammenti di io, Luigi Pellegrini Editore, 2017). *** “Un caro saluto/al professore Domenico Defelice, Scrittore,/poeta, illustre direttore della grandiosa/rivista Pomezia-Notizie,/tanto affetto e apprezzamento a uno/dei maggiori organizzatori di idee/della nuova cultura degli anni/che vanno dal dopoguerra a oggi./LSelvaggi/Torino, 7.1.2020.” (volume: Leonardo Selvaggi - Poesie in due tempi, Edizioni Cronache Italiane, 1996). *** “A Domenico Defelice, alla sua rivista e alla sua ammirevole attività letteraria. Cordialmente. Leonello Rabatti (suo volumetto: Parole deposte sulla carta, La Linea dell’Equatore, Editore, 2019). Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!
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Recensioni ANTONIO CRECCHIA VINCENZO ROSSI Un talento creativo al servizio della cultura Ediemme – Cronache Italiane Salerno, Anno 2014, Euro 20,00, pagg. 190. Erano state già largamente onorate sia l’ammirazione sia l’amicizia, da parte del professore traduttore dal francese saggista ricercatore storico poeta, Antonio Crecchia, verso il letterato suo corregionale, Vincenzo Rossi, attraverso il precedente lavoro di trattazione del 2006, La folle ispirazione – Coscienza etica e fondamenti estetici nelle opere letterarie di Vincenzo Rossi. Ma, sopraggiunta, dopo mesi di patimento, la morte dello stesso Rossi nel novembre 2013, l’autore Crecchia non solo ha aderito al cordoglio col suo discorso celebrativo (il cui testo è stato inserito nella Parte Terza del libro in questione) nel giorno dell’ultimo addio all’amico letterato, ma ha portato in breve tempo a compimento un altro suo importante lavoro esegetico, contenente finanche
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le riproduzioni delle lettere autografe pervenutegli da Vincenzo Rossi tra gli inizi degli anni ’90, del secolo scorso, fino a qualche mese della sua dipartita nel 2013, a testimonianza della positiva affinità intercorsa fra i due noti intellettuali molisani. Avendolo conosciuto molto da vicino – il saggista Antonio Crecchia è stato a trovarlo nella sua casa a Cerro al Volturno, dove il professor Rossi aveva deciso di tornare dopo il pensionamento perché «[…] insofferente della “Stracittà” colma di veleni morali e fisici, incapace di adeguarsi ai falsi idoli della “incivile civiltà” dei consumi, della violenza e della tecnologia, torna allo “Strapaese”, alla sua buona terra, ai suoi monti, ai suoi alberi, al suo “silenzio verde”, con la sua gente da cui non si staccherà mai più» (pag. 14) – ebbene, non poteva l’acume dell’autore non incrementare ciò che era vieppiù incrementabile nei confronti del vecchio amico, sul suo profilo di uomo rimasto integro e umile fino alla fine; figlio di contadini iniziò a studiare molto tardi raggiungendo uno dopo l’altro i traguardi della cultura scolastica con la ‘sudata’ Laurea in Lettere e il ruolo ambito di preside nelle scuole Medie a Napoli. Intanto pubblicava volumi di crestomazie poetiche e racconti, fin dal 1961 con il libro di poesie In cantiere, Dove i monti ascoltano del 1973, il romanzo Conto alla rovescia dello stesso anno e via di seguito. Da ragazzo Vincenzo Rossi si abituò a respirare a pieni polmoni, fino a diventare quasi tutt’uno con essa, la libertà regnante ovunque sui monti dove lui dapprincipio portava al pascolo il gregge, custodendolo anche di notte quando dormiva nei pagliai; altresì imbracciò i vari strumenti agricoli per portare avanti i vigneti del padre e lo spazio aperto per lui rappresentava tutto, era la vita! Del Segno d’Aria zodiacale dei Gemelli, nato il 7 giugno 1924, Vincenzo Rossi aveva in sé il binomio della complementarietà di derivazione mitologica in riferimento ai famosi Dioscuri, Castore e Polluce, lo yin e lo yang – nonché delle rispettive peculiarità appartenenti al governatore del Segno, Mercurio-Hermes, con le passioni per le lingue, gli studi approfonditi, le pubbliche relazioni, l’oratoria, i viaggi, l’arte della diplomazia, la versatilità e quant’altro è riconducibile alla comunicativa – gli opposti che insieme si completano per cui l’immobilità diventa azione, lo stare in solitudine si volge ai contatti multipli, la trascendenza alla razionalità, la spericolatezza alla rettitudine, l’insieme al particolare, la superficialità al metodo, l’idea alla dialettica, la vita terrena alla vita spirituale, la vita alla morte. «[…] Due poli opposti (quest’ultimi) su cui si è fermata spesso la riflessione del Nostro. Vincenzo Rossi ha amato la vita, l’ha coltivata e resa fertile con l’intelligenza del suo
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pensiero e l’azione creatrice della sua fantasia. Vita operosa ed esemplare con innalzamento verticale della propria individualità a mete difficilmente raggiungibili da chi non ha solide prerogative d’artista atte ad imporre il proprio talento e le virtù razionali, sentimentali e operative per “vincere il silenzio”, cioè il “grande vuoto”, quello che segue la morte.» (Pag. 65). Il professore Antonio Crecchia ha disquisito con liberale estrinsecazione su quella che è stata l’imponente produzione letteraria di Vincenzo Rossi, prendendo in esame anche più ravvicinato alcune pubblicazioni tra cui il poemetto Valentina del 2010, introdotto dalla poetessa artista scrittrice sarda, Lycia Santos do Castilla; il pamphlet narrativo Io sono Achille: vi racconto la mia storia del 2012, a proposito del quale risalta la caratteristica, di cui dicevamo sopra, del letterato Rossi-Gemelli capace di destare parola e pensiero persino agli esseri animali, in suddetta opera al suo amatissimo gattone Achille che nel mirabolante racconto svela di possedere una propria vita interiore fatta di dubbi, segreti, giustificati ragionamenti filosofici provenienti dall’universo letterario del proprio padrone. «[…] un rapporto che esclude uguaglianza e similitudine e sfocia in un dualismo fisico-immaginativo con le parti invertite: non è l’uomo a condurre il discorso ma il gatto che narra di se stesso e del suo rapporto con quell’essere che, per differenza di grandezza, corporale e cerebrale, gli appare gigante in tutta la sua figura, fisica, morale, intellettuale e culturale.» (Pag. 49). L’ultima fatica letteraria del Rossi, uscita dalle stampe nel giugno 2013 ossia cinque mesi prima della sua dipartita, è stata Annotazioni di una vita, lascito testamentario spirituale fatto di appunti, commenti, massime, idee e riflessioni fissate su carta a partire dalla metà del secolo scorso, con un’infinità di nomi di personaggi della letteratura, ma anche teologi, uomini di diversa collocazione, drammaturghi, storici, d’ogni epoca per un totale di 130 nominativi. Un archivio costantemente aggiornato dal professor Rossi che non ha mai smesso di essere tale, perché la ricerca e lo studio per lui erano il ‘pane’, così come lo fu lo spazio aperto naturale col suo amato monte Cimerone ben visibile dalla sua casa di Cerro al Volturno, la cui Amministrazione Comunale sei mesi dopo la sua scomparsa, il 17 maggio 2014, ha voluto destinare una piazza a suo nome durante una cerimonia collettiva di densa commemorazione. «[…]Tra letture, meditazioni, riflessioni, recuperi memoriali e voli alti di poesia si è consumata gran parte della sua esistenza all’ombra del Cimerone, affacciato al balcone dei “giorni dell’anima”, tutto intento a produrre materiale raffinato e inossi-
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dabile per la costruzione del suo pantheon letterario, il suo elevato monumento da consegnare all’ammirazione dei posteri. […] Egli ha cantato “su cetra antica” l’eterna bellezza della sua terra e del mondo.» (Pag. 82). Isabella Michela Affinito
ISABELLA MICHELA AFFINITO AUTORI CONTEMPORANEI NELLA CRITICA, PERCORSI DI CRITICA MODERNA IV volume - Casa Editrice Menna, Avellino 2022, Pagg. 248, € 20,00 Isabella Michela Affinito, fine poetessa frusinate avente una preparazione enciclopedica, è scrittrice di ampio ventaglio esplorativo, e ancora una volta ci offre occasione di navigare fra opere e persone valide con questo quarto volume di Percorsi di critica moderna. Trattasi di una raccolta di 73 note critiche riguardanti argomenti vari di oltre 50 autori (anche se non è necessario, tuttavia rimarchiamo di riferirci a uomini e a donne). Fra gli autori figura il compianto Carmine Manzi, fondatore della rivista salernitana Fiorisce un cenacolo, dedicatario della presente fatica, “affinché il Suo verbo continui a circolare in mezzo a noi!”. La Nostra, sicuramente, “continua” il dialogo con l’Anziano Maestro del quale riproduce una tenera dedica autografa del 19 febbraio 2005; e con il quale apre la raccolta con la recensione a Poesie di gioventù 1938-1951. L’Autrice definisce queste sue “esperienze interpretative come degli ‘illuminanti incontri’ con personalità ben distinte” che l’hanno accompagnata nel proprio percorso letterario aiutandola nella crescita interiore. E facendo leva su due nomi illustri, Primo Levi (1919-1987) e Charles Augustin Sainte Beuve (1804-1869), spiega che una disanima comporta “compenetrazione” e “semi-metamorfosi”. Fin da questa apertura notiamo taglio colto e pedagogico che non guasta. Le ampie citazioni rendono merito agli Autori esaminati nel testo e mostrano un segno di umiltà in chi le adopera, almeno in questo caso, tanto che la Nostra ringrazia gli autori che le hanno ‘donato’ “la loro materia per l’analisi”; costituiscono una vera ricchezza ampliando gli orizzonti sui singoli argomenti. È riuscita a scansare il rischio di farne uso eccessivo e senza prevalere sui singoli testi oggetto di critica. Tutto ciò comprova la sua competenza eclettica, di cui non può fare a meno: è la sua seconda natura. Non renderei utilità né all’Autrice, né ai lettori, se mi limitassi a uno sguardo dalla soglia senza
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entrare nella ossatura e anima della sua opera, almeno un minimo. E non si creda che voglia approvare l’Autrice solo per compiacerla, semplicemente trovo condivisibile le sue iniziative. La Nostra, come afferma sopra, sostiene che recensire implica compenetrarsi nei testi altrui ed io aggiungo che ciò comporta pure rivelare se stessi, entro certi limiti; da alcune chiose è possibile tracciarne un profilo letterario e umano. Lei ha assunto l’onere di diffondere i nomi, le opere altrui e il loro vissuto; e noi non vogliamo disperderne la fatica. Quasi tutti, autori e autrici, mi sono noti perché fanno parte del mio percorso letterario e questo mi accomuna all’Autrice. *** Isabella Michela Affinito, come si è appena accennato, ha dedicato il presente lavoro allo scrittore di Mercato San Severino, che si è posto al servizio della cultura; nel caso specifico l’opera presa in esame, si colloca in un periodo storico che ha segnato la storia del nostro Paese e del mondo intero. Ebbene quella parentesi non poteva non lasciare segni sull’animo sensibile del giovane Carmine Manzi, perciò la Nostra, esperta di storia dell’arte, ne equipara l’arco temporale all’espressione pittorica di Pablo Picasso, paragonando nel Poeta, i primi anni al Periodo blu (periodo nero razziale e dell’avventura bellica, ansie e timori esistenziali) e i successivi al Periodo rosa (la speranza nell’immediato dopoguerra, il risveglio della natura con la primavera e l’amore). Segue un altro noto personaggio, Antonio Angelone, fondatore e direttore della rivista Sentieri molisani e fondatore della Accademia intitolata alla moglie Lucia Mazzocco. Maestro elementare, dall’adolescenza fatta di sacrifici, si porta dentro, pur nel rispetto del legame coniugale, un sentimento legato a un grandissimo tenero amore della prima giovinezza non coronato per traversie familiari. Il fato ha voluto che dopo quarant’anni di mancate notizie, e dopo la vedovanza, ha incontrato la sua soprannominata Reginella, anche lei vedova e senza figli, risvegliando nel Poeta l’antico amore mai sopito, che gli ha ispirato vari scritti di “vaghezza leopardiana”. Nella critica di Isabella Michela Affinito figurano poeti-ingegneri come Francesco Terrone (destinatario di due recensioni), scrittore salernitano di Mercato San Severino, capace di “indossare” le ali e di fare rivivere la Via crucis, sua opera magistrale. Poeti-musicisti come Pietro Nigro (tre recensioni), siciliano, autodidatta; nell’occasione la Nostra esprime un concetto generale molto valido e cioè che nelle arti i progressi non avvengono per settori separati ed esclusivi, ma si espandono e si influenzano vicendevolmente, come del resto in ogni ambito della cultura. Ed è così che si giunge a comprendere che è già fin dagli esordi che in un artista, poeta o
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pensatore, si trovi in nuce l’albero. Poeti-letterati come Sandro Allegrini; il ligure Luigi De Rosa campano d’origine; Pantaleo Mastrodonato; Ernesto Papandrea. Poeti- pittori come il friulano Vittorio “Nino” Martin. Mi ritrovo pure nel campano Gianni Ianuale, recensito tre volte, in una delle quali insieme a Piera Zangara; il primo è un operatore culturale che si prende particolare cura delle opere a lui affidate ed è volto a sani principi religiosi e la seconda è poetessa palermitana di fine sensibilità. Così pure riconosco la collaudata Imperia Tognacci, l’esordiente Claudia Trimarchi. Abbiamo un ventaglio di temi che vengono approfonditi, di riflessioni esistenziali, filosofiche, commenti vari che tornano utili; commenti di storia dell’arte che prendono spunto dalle copertine con espresso riferimento a pittori; commenti sulla storia della letteratura e su altri ambiti del mondo della cultura, cinema compreso. Mi compiaccio del padovano Francesco Salvador, insegnante di scuola primaria, che nei fanciulli proietta il senso dell’eternità, aspirazione di tutti i poeti. Le associazioni di pensieri portano la Nostra sui propri passi, come per esempio quando trattando di Antonio Vanni e della drammaticità della vita, va al film La morte a Venezia di Visconti del 1971 e alla propria raccolta Dedicato a Venezia del 2005. E troviamo persone che non stanno più fra noi come Amerigo Iannacone, fondatore e direttore de Il foglio volante, di Venafro (Isernia) nella versione italiano-esperanto, che non viene più pubblicata; ma anche la trasgressiva Maria Grazia Lenisa, friulana trasferitasi a Terni; Maria Teresa Epifani Furno, pugliese di origine, sorrentina di adozione. Persone che meritano di essere ricordate a dimostrazione della grande famiglia che si riunisce intorno ad un cenacolo e delle vite che si incrociano. In particolare a ciascuno dei seguenti autori, miei amici personali, ho dedicato una monografia: il siciliano Alfio Arcifa, fondatore e direttore de Il Tizzone, di Rieti, non più stampata; il calabrese Domenico Defelice, fondatore e direttore di Pomezia-Notizie, in Pomezia (Roma); il bolzanino Silvano Demarchi, firma prestigiosa de La Gazzetta di Bolzano e della rivista Latmag, entrambe di Bolzano; la sarda Giovanna Maria Muzzu, il lucano Leonardo Selvaggi, l’ultimo dei romantici trasferitosi a Torino; come pure ho dedicato una monografia ai primi due autori d’apertura (Manzi e Angelone di cui s’è detto). Inoltre sono presenti la stessa autrice (Isabella Michela Affinito) con due proprie presentazioni e il sottoscritto (Tito Cauchi) con ben sei recensioni su cui, in questa sede, non mi sembra opportuno soffermarmi. Abbiamo una Antologia poetica e una pubblicazione collettanea di Ricordi da ricordare.
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Da tutti ho attinto qualcosa, anche se non mi sono soffermato su alcuni di essi come i seguenti, le cui firme riempiono le riviste culturali del settore. Michele Albanese, Roberto Barbari, Giuseppe Blandino, Giovanna Bono Marchetti, Loretta Bonucci, Marina Caracciolo, Edvige Cuccarese, Lina D’Incecco, Pasquale Francischetti, Giulio Giliberti, Antonia Izzi Rufo, Salvatore Lagravanese, Stella Laudadio Celentano, Luigi Leone, Evelina Lunardi e Aldo Marchetto, Dario Maraviglia, Vilma Menghini Lomoro, Giuseppe Napolitano, Adriana Panza, Susanna Pelizza e Vito Sorrenti, Cosmo Giacomo Sallustio Salvemini, Siham Sfar, Maria Squeglia, Vittorio Verducci, Giancarlo Zedda (spero di non avere dimenticato nessuno). Percorsi di critica moderna, di Isabella Michela Affinito, offrono molto di più di una buona lettura. Non affermo nulla di nuovo se dico che leggere è come viaggiare, è come vivere più vite, e per quello che intendo dire, ci si arricchisce di un patrimonio esperienziale come se fosse effettivamente vissuto; perciò vale la pena non disperderne i semi e, anzi, “continuare” nell’opera. Leggere questo genere di libri è come incontrare persone note e fare nuovi incontri. Abbiamo una rete di relazioni in cui molti lettori, scrittori e scrittrici, si possono ritrovare. Senza avere avuto l’intenzione di essere preclusivo ho dato indicazioni in maniera esemplificativa; autori tutti meritevoli di essere conosciuti, ribadendo di ritrovarmi in loro che fanno parte anche del mio percorso letterario. Tito Cauchi
DOMENICO DEFELICE DOMENICO ANTONIO TRIPODI Pittore dell’anima Gangeni editore 2020 Ricevo con piacere la bella monografia sul pittore e poeta calabrese Domenico A. Tripodi, realizzata dal direttore Domenico Defelice. Circa cento pagine in una bella veste editoriale. Carta patinata e grande uso di immagini a colore, che hanno il pregio di restituire alla riproduzione delle opere pittoriche del Maestro Tripodi, il giusto valore visivo. Il lavoro del Defelice è stato, mi pare dalla lettura della monografia, un’esigenza dell’animo; e questo perché è nota la grande passione che avvicina il Direttore all’espressività mediata attraverso il disegno e la pittura. Abbiamo conosciuto le sue capacità rappresentative in più occasioni, tramite la pubblicazione di suoi lavori all’interno della rivista Pomezia
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Notizie. Inoltre la sua è passione antica, come dichiara nella prima parte della sua monografia su Tripodi. E questa prima parte, è anche un saggio della sua affabulazione. Il Defelice descrive tutto minuziosamente: dal primo approccio telefonico con l’amico Tripodi per annunciargli la sua visita a Roma, alla prima colazione, al viaggio quasi disagevole non ostante la modernità di metrò, autobus e altre diavolerie moderne che spesso non accelerano, ma rallentano i nostri spostamenti. Il viaggio e l’arrivo gli restituiscono ricordi di tempi migliori, di strade più pulite, di gente più educata, di umanità interessata ad altra umanità e non a schermi bluastri di cellulari che ipnotizzano e silenziano giovani e anche meno giovani. Questa sottaciuta insofferenza si spegne appena giunge a casa ed entra nello studio dell’amico Tripodi. Qui respira tra i tanti quadri alle pareti quell’aria che tanto gli piace, fino a portarlo nel suo vero mondo fatto di miti, di filosofia, di letteratura. Di quello stesso mondo di cui si impregna l’artista Antonio Tripodi. Ci parla allora il Defelice del suo amico pittore, della sua nascita calabrese, del suo percorso di studi, delle sue prime esperienze nella bottega d’arte del padre. Della sua crescita artistica e professionale, che lo fanno diventare oggetto della critica più accreditata.
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E ci parla, soprattutto, della semantica dell’artista, il quale ama rappresentare con matita e colori tutto ciò che è natura. Ama in modo particolare gli animali, disegnandoli in varie pose, in varie prospettive. È uomo Tripodi, che si porta dentro il calore della sua terra e che trasferisce nei dipinti. Basta guardare i caldi toni della tempera “Cormorano”(pag. 43); dell’olio “Rapaci nel cielo dell’ Aspromonte (pag. 41). O ancora la tempera di pagina 59 “Famiglia di gatti”. Per non parlare dell’olio “Paesaggio umbro a (pag. 69), di chiara impronta “fattorina”. Ed è così che pian piano la pittura diventa poesia, e la poesia stessa si fa pittura. Non a caso l’artista calabrese realizza, molti disegni e pitture, ispirato dal divino Dante e dalla sua opera universale ed eterna: La Divina Commedia. Ma c’è ancora un’altra cosa da dire, sottolinea Defelice, ed è quella che Tripodi è pittore dell’anima. Questo perché tutto ciò che realizza con semplici strumenti come matite, penne, pennelli, una volta sulla carta o sulla tela sembrano vivere; ritornano ad animarsi. Sembrano che parlino, hanno una vita, un’anima, quella stessa anima dell’artista che è stata messa a disposizione nella realizzazione del quadro. Le teste come quella del Filosofo, del Guerriero Antico, dello stesso Dante, osservate con attenzione sembra ci vengano incontro, ci leggano dentro, ci osservino e come nel caso dell’Ulisse ci chiedano aiuto. O come la serenità appena accigliata di Manfredi, sembra voglia chiedere scusa se non è riuscito nella sua impresa. E poi la forza del cavallo, del cormorano, del gallo cedrone. C’è infine, nella pubblicazione, il resoconto di quel colloquio tra i due amici, che il Defelice ha raccontato come un’intervista. Riporta infatti le risposte di Tripodi alle sue domande, che sono le sue curiosità, i suoi perché, il suo stesso concetto di arte. E qui, con le risposte del Tripodi, si comprende l’animo dell’artista, del poeta, che è uomo gentile, pacato, classico nella modernità, ma forte e sereno come la sua pittura. E come tutti gli artisti che hanno lasciato qualcosa, sa che la morte non significa fine definitiva, perché ci sarà sempre nel tempo qualcuno che si soffermerà davanti a una sua opera e ne godrà della sua bellezza. Ma la cosa sostanziale è che si abbasserà a leggere il nome messo in calce, e pronunciando quel nome sarà rinnovata la sua presenza anche tra i posteri. Defelice lascia anche con questo lavoro, un segno tangibile della sua maestria. Salvatore D’Ambrosio
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IMPERIA TOGNACCI IL PRIGIONIERO DI USHUAIA Genesi Editore, Euro 15 Rileggo con grande entusiasmo questo suggestivo poemetto di Imperia Tognacci, che ha vinto il Premio Penisola Sorrentina 2008. La splendida prefazione di Sandro Gros-Pietro e la traduzione di lingua spagnola a fronte, aggiungono pregi al testo di indiscutibile fascino. Il viaggio della poetessa nella città di Ushuaia (appartenente alla Terra del Fuoco sullo Stretto di Magellano, sede di una colonia penale tra i ghiacci dell’Antartide) ha ispirato questa favola introspettiva dalle valenze filosofiche. L’espediente del ritrovamento di un manoscritto con la poesia del prigioniero dà soltanto il via al testo tutto da meditare. Già dai primi versi, osserviamo la coincidenza tra i pensieri del prigioniero e quelli dell’autrice. È una sorta di simbiosi, durante la quale vengono espresse, in versi raffinatissimi, meditazioni sulla vita e sulla morte che portano avanti un discorso coinvolgente. Si erge maestosa nel suo silenzio glaciale, una natura fredda, drammaticamente silenziosa. “Non una voce,/ non un sussurro, non una movenza/ sull’ombra che riveste le cose”. Lentamente si instaura un dialogo tra l’uomo e la poetessa: “Non puoi fuggire da te stessa,/ affronta, combatti i tuoi limiti,/ scava più a fondo”. Una vera e propria prigione chiude tutta l’umanità: “in tane, grotte, dimore”; perciò occorre fuggire e afferrare “il bastone del viandante”, anche se poi bisogna tornare alla propria terra, “tra aromi e fragranze di zagare”, ma “percorsa/ da venature di egoismi”. Si abbandona il “cielo morso dal gelo”, dove ci si può immedesimare nel grande dolore del carcerato. L’uomo sembra aspettare da tanto tempo e desidera donare la sua poesia “sul foglio/ macchiato di sangue” dei suoi delitti. È stata proprio la poesia a riscattarlo, a fargli sentire “il soffio del Verbo”. In questo continuo gioco di rispecchiamenti, la poetessa si chiude in sé stessa, vinta dalla solitudine di quel paesaggio estremo”; ma “veterana di uragani/ viva per solidali radici” che l’hanno persuasa alla fede. Imperia sente il dolore di tutte le epoche e sarà la Croce del Sud, vista come “luminosa croce piantata/ un giorno su un colle d’ombra” a indurla alla speranza. Il viso del carcerato le appare “tra impervie scogliere di tempo” che hanno visto amori, trionfi e sconfitte in tutta la storia dell’umanità. Il lungo percorso della poetessa si conclude nella meraviglia degli ultimi quattro versi: “Oltre il buio del pensiero/ onde misteriose ci sospingono,/ mentre da lontano ci chiama/ il tempio dell’infinito.” L’illustre prefatore del poemetto rinviene in questo
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testo “un’atmosfera poetica di marca simbolista”, mentre l’indagine “si muove sempre in un radicato territorio di analisi psicologica”. Al di là dei significati, credo che il fruitore si lasci avvolgere completamente da questa poesia armoniosa, da questa avventura umana, vissuta in un ambiente spettacolare, anche se duro e difficile. Inoltre dalla colta, significativa poesia di Imperia Tognacci ognuno di noi riceve un profondo messaggio da meditare, perché coinvolge l’esistenza umana. Elisabetta Di Iaconi DOMENICO DEFELICE DOMENICO ANTONIO TRIPODI. Pittore dell’anima Gangemi Editore International, 2020 - Pagg 96, € 20,00 Un’altra opera del nostro infaticabile Domenico Defelice, che, questa volta, ci presenta un saggio d’arte sull’artista calabrese conosciuto in tutto il mondo, Domenico Antonio Tripodi. Tripodi è pittore, disegnatore, restauratore, poeta e musicista, fra i più completi a livello mondiale; è nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Le sue opere sono state esposte in Asia, in America e in Europa. “I temi della mia pittura – varia nei modi, nei luo-
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ghi e nei tempi – si sono svolti tra due poli apparentemente diversi, ma sempre orientati verso una visione unitaria e piena della Natura creata”. Così comincia l’introduzione di Tripodi a cui segue il saggio e l’intervista ad opera di Defelice e poi il catalogo di cinquanta opere create con tecniche diverse dall’olio, all’acquerello, alla china. I soggetti vann o dai cormorani, ai rapaci, al gallo cedrone, ai gabbiani, ai gatti per arrivare poi alle nature morte, ai paesaggi e ai ritratti come quello del poeta Antonino Martino. Una parte fondamentale delle opere è dedicata al Sommo Poeta e ai personaggi della Divina Commedia. L’amore di Tripodi verso Dante è infinito, scrive infatti: “Caro Domenico, quando mi accinsi a lavorare per Dante con Dante, ero cosciente di ciò che facevo. Avevo la fede, la percezione precisa della mia perizia pitturale e avevo, non ultimo, quel senso di devozione umile che è stato d’animo propizio e fertile nel rapporto tra discepolo e maestro”. Defelice, in particolare, analizza le opere “Manfredi”, “Ulisse”, “La fine di Ulisse” e “Beatrice”. “A Beatrice – ripetiamo -, a Ulisse, a Manfredi, al Filosofo e ai tantissimi personaggi, Tripodi dà solo il volto; braccia e mani, tronco, gambe e piedi occorre che vengano dati loro dalla nostra immaginazione, perché raramente il pittore scende oltre il collo”. Al centro del volume è posto il dipinto “Il Filosofo”, opera che è anche stata scelta per la copertina; è messa al centro quale immagine suggestiva ed evocativa di un passato culturalmente glorioso e anche rappresentativa di questo nostro presente. Infatti, nel saggio Defelice crea un racconto in cui snocciola il suo pensiero sull’artista, sulla vita, la carriera e crea, quasi, una telecronaca del viaggio che ha affrontato per andare a casa del pittore da Pomezia a Roma. Ed è proprio durante il tragitto che il Nostro incontra un ragazzo di nazionalità indiana con barba e turbante, dai tratti somatici molto simili a quelli del dipinto di Tripodi, ma incontra anche tante Beatrici, giovani e belle. In altre parole, durante il percorso che lo condurrà a Roma, in una banalissima giornata, il poeta si accorge che nei volti delle comuni persone si disvelano quelli dei grandi personaggi del passato e dell’arte. Tutto ciò perché Defelice ritiene che l’arte sia calata nella realtà, nella quotidianità, nelle azioni e nei gesti che sempre ci accompagnano. Gli artisti come Tripodi si lasciano ispirare dalla vita reale, dall’osservazione del volo degli uccelli o dalla lettura di grandi opere come la Divina Commedia poiché il mondo e le sue creature sono arte pura. Manuela Mazzola
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IMPERIA TOGNACCI IL PRIGIONIERO DI USHUAIA Genesi Editore, 2021 – Pagg. 99, € 15,00 “Oltre il buio del pensiero/onde misteriose ci sospingono,/ mentre da lontano ci chiama/ il tempio dell’infinito”, così chiude la silloge Imperia Tognacci. Il prigioniero di Ushuaia, un viaggio nella Patagonia argentina, dove si incontrano meravigliosi paesaggi: il deserto, l’oceano, il ghiaccio del Polo Sud e su cui domina la Croce del Sud, che osserva, dall’inizio dei tempi, lo svolgersi delle esistenze umane. Il poemetto è composto da venti testi poetici in lingua italiana e tradotti in lingua spagnola da Angela Pansardi, per onorare la poesia anonima del prigioniero, la quale apre il volume e a cui si è ispirata la poetessa. Nella prefazione Sandro Gros-Pietro scrive: “E’, invece, un viaggio dentro l’analisi psicologica individuale; è una sorta di autoanalisi o se vogliamo una proiezione psicologica della verità cui può condurre la finzione e la metafora letteraria”. La Natura viene descritta abilmente, ricreando la suggestione di quella terra così misteriosa, in cui il ghiaccio si scioglie e arriva fin nella steppa arida: “Rughe di polvere/ nell’impietosa steppa/ ancorata a silenzi di radici/ sotto le ostili sassaie”. Si apre una breccia e la scrittrice incontra il suo prigioniero: lo avverte, lo sente, le loro anime comunicano nel momento in cui sfiorano gli stessi luoghi e i loro piedi calpestano la stessa terra. Avviene così il contatto e la Tognacci comincia a pensare che, forse, il prigioniero non ha commesso solo nefandezze e omicidi. Sembra che la Nostra sia rapita e travolta da una sorta di pietas verso quest’anima infernale e che senta su di sé la malinconia e la disperazione del prigioniero: “Tu sola, Croce del Sud,/ tu sola hai visto, tra l’essere/ e il non essere, la poesia/ mutare la sua rotta/ e nelle mie mani depositare/ un desolato canto,/ onda che indietro è tornata/ dall’ultima scogliera”. La saggista Marina Caracciolo nel suo studio “Verso lontani orizzonti” afferma: “Un messaggio struggente, colmo di disperazione e rassegnazione insieme, che pare lanciato nel vento o fra le onde del mare dentro una bottiglia, perché un viaggiatore di passaggio possa trovarlo, leggere fra le righe la storia di un infelice recluso che ha pagato duramente la sua colpa, e proverà pietà per lui”. La poesia, lasciata dall’anonimo quale mezzo per redimersi, è finalmente giunta tra le mani della scrittrice, la quale è stata quell’ombra che (egli
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aspettava dicendo) verrà dal tramonto mi incontrerà seduto sul sentiero. La Tognacci nasce a San Mauro Pascoli, si diploma all’Istituto Magistrale di Rimini e dopo aver vinto il Concorso Magistrale del Ministero della Pubblica Istruzione, si trasferisce a Roma e comincia la sua attività d’insegnante. Nel 1996 comincia a collaborare come poetessa e saggista alla rivista culturale “La Procellaria” di Reggio Calabria, diretta da Francesco Fiumara. Manuela Mazzola
MARIA TERESA INFANTE TORNEREMO A GUARDARE IL MARE Pensieri riversi, posizione fetale Oceano Edizioni, 2021, Pagg 107, € 12,00 È un dialogo con un’amica lontana che muta in un delicato soliloquio, in cui la poetessa cerca se stessa poiché si è persa tra le stanze della sua casa, le quali le paiono anfratti della mente. Ha perso il sonno, la libertà e la mente non trova più i suoi confini, dunque il pensiero viaggia sperando di rivedere presto il suo adorato mare. È una sorta di taccuino in cui ha annotato le sensazioni, i pensieri e ha tirato le fila della vita che conduceva prima della pandemia e pensa a quello che, forse, un giorno tornerà a fare. Il volume è stato scritto da Maria Teresa Infante durante il lockdown del 2020. Sono pensieri che molti di noi hanno avuto, idee confuse di smarrimento, di paura, di precarietà: “Fino a ieri - a te posso dirlo – non lo sapevo neanch’io. Io che a casa non ci ho mai abitato. […] Insomma, essere fuori è semplice. Il problema è rimanere dentro”. I giorni passano tutti uguali, ogni angolo della casa offre nuovi punti di vista; l’isolamento sociale fa nascere dubbi e domande. Il volume comprende ventinove poesie e sei dipinti in acrilico di Marika Grassano, di cui uno è in copertina “Come in cielo così in terra”. Con la consapevolezza del tempo che passa e che non potrà più afferrare: “Ogni giorno/ il tempo/ uccide gli anni in spalla”, la Nostra cerca di dare una forma alle emozioni contrastanti e come fossero creta, cerca di modellarle creando un’opera che rimanga nel tempo quale simbolo dei giorni vissuti tra le mura di una casa, in cui non riesce proprio a riconoscersi. Il volume si conclude con la lirica “L’inizio”, in cui afferma: “Finisce qui/ dove l’Inizio ha ancora una speranza/ dove la fine non avrà radici/ tra le
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borgate dell’umanità/ e se il dolore ci verrà a cercare/ noi non avremo pianto invano”. Sono pensieri rovesciati che franano sotto una montagna di insicurezze, pensieri caduti in posizione fetale, la quale ricorda quella, appunto, del feto ed è dunque associata a uno stato in cui la Infante riesce a sentirsi, forse, più protetta e al sicuro da tutto ciò che c'è fuori. Fuori/dentro; Comprendere/Capirsi. Avviene una lotta tra ciò che agisce all’esterno e ciò che agisce all’interno: “E’ presto per cercare di comprendere. Prima devo capirmi”. Comprendi quello che succede fuori, capisci quello che avviene dentro di te. Ma nulla è perso o è stato vissuto invano. Ogni cosa è utile per Maria Teresa nel rapporto con se stessa e il suo nuovo inizio è pieno di gioia e speranze. Manuela Mazzola
DOMENICO DEFELICE DOMENICO ANTONIO TRIPODI, PITTORE DELL’ANIMA (Gangemi Editore, Roma, 2020) Poeta e uomo di vasta cultura, Domenico Antonio Tripodi è specialmente conosciuto come pittore di successo. Di lui si è recentemente occupato Domenico Defelice con un libro dal titolo Domenico Antonio Tripodi, pittore dell’anima che ce lo presenta in maniera quanto mai compiuta. Apprendiamo così che Tripodi è nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte, sesto di otto figli, da Carmelo Tripodi, anch’egli pittore di talento; ed apprendiamo che, dopo aver compiuto i suoi primi studi nel paese natale, si trasferì in Toscana, dove completò la sua preparazione e dove in seguito ha lungamente operato. La sua pittura, dalle tinte forti e intense, s’ispira essenzialmente ad animali e nature morte, oltre che espressivi volti umani. Compaiono così in questo libro gabbiani, cormorani, rapaci nel cielo d’Aspromonte, un gallo cedrone, un pavone morto, un’allodola che canta nell’alto del cielo, un cavallo al galoppo; e poi i gabbiani e i gatti, i carciofi e le aringhe; cui fanno seguito alcuni paesaggi, come quello di Scilla e della Torre Marrana, dell’Umbria, di Lugagnano, dei Piani dell’Aspromonte, della rupe e della fortezza di Leo, di Capo Vaticano e della Lombardia. Ciò che però maggiormente colpisce nella pittura di Domenico Tripodi sono le teste umane, come quella del poeta Antonio Martino, dall’espressione tormentata o quella di Manfredi, caduto al suolo
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nella battaglia di Benevento e morto nel suo sangue. Su tutti emerge però il volto del Filosofo, dalla lunga barba e dagli occhi fissi innanzi a sé, nel tentativo di penetrare l’ignoto. Dice Defelice nel commentare questi quadri: «Il pittore si mette dalla parte degli animali, insomma, si immedesima in loro, li fa parlare. O, meglio, è lui che presta loro il pensiero e la voce». E, sempre a proposito di animali, soggiunge: «Vengono a salutarlo, a ricordagli il tempo della giovinezza spesa nell’amore per loro, nel dar loro anima, a spronarlo a riprendere quel tema». L’opera più nota di Domenico Tripodi è però Il Filosofo, a proposito della quale Defelice osserva: «Del Filosofo abbiamo solo testa, volto, capelli e barba fluenti. Il resto dell’opera è esplosione di colori dominanti dal rosso, quasi fuoco che circonda la figura, riverberandole fronte e guance, spandendosi sull’intera superficie, per dar risalto all’accenno – attraverso pennellate di bianco cinerino – del frontale di un tempio, delle sue colonne». Altrove poi, commentando il quadro di Tripodi che raffigura il volto di Ulisse, Defelice scrive: «Ulisse viene raffigurato nel mentre contempla Troia che brucia; i suoi occhi sono sbarrati e la sua bocca semiaperta nello stupore di un avvenimento atteso da dieci lunghi anni. Vivide le fiamme a consumare ogni cosa; fumo intenso che vortica. Il suo volto è illuminato da una luce intensissima…». Studioso assiduo di Dante, Tripodi ci ha inoltre dato circa centocinquanta acquerelli ispirati dalla Divina Commedia, di varia dimensione, tra i quali eccelle il Manfredi surricordato, travolto dalla drammaticità dell’evento, che è quello della morte che l’ha colto in battaglia. Il libro di Defelice contiene anche un’intervista da lui fatta a Domenico Tripodi, dalla quale la figura di questo pittore emerge netta in quelle che sono state le sue scelte tematiche e gli indirizzi della sua attività artistica. Di particolare interesse ci sono apparse a tale proposito le parole con le quali l’intervista si chiude, con la risposta del pittore alla domanda di Defelice, che gli chiedeva: «So che oggi a dominarti è Dante, Mostro Sacro che, se ti afferra, non ti abbandona mai. Ma, prima di lui, quali sono state le fasi salienti del tuo corso pittorico?». La risposta di Tripodi ci rivela un altro campo di non piccola importanza dell’attività di questo versatile artista, dandoci una visione più compiuta della sua opera: «Mentre facevo queste ottime e utili cose con la pittura, attendevo anche al restauro di opere d’arte: in Lombardia e principalmente a Milano, dove sono stato per oltre trent’anni. Anche in Piemonte e in Calabria ho fatto tanti recuperi di antiche e importanti opere d’arte».
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Un libro di molto pregio questo nuovo di Domenico Defelice, che dimostra ancora una volta la sua acutezza di sguardo nel valutare l’arte altrui, in ciò facilitato dal fatto che anch’egli è un valente pittore, dallo stile personale e fortemente espressivo. Liliana Porro Andriuoli
21 marzo 2021 COVIDDE RAP Che il cinese sia vorace e magar se ne compiace è ‘na cosa ormai assodata che però va regolata; sì alla scimmia, sì agli insetti, questo ormai glielo permetti, ma, perdiana, i pipistrelli! non mangiate pure quelli, ché il Covid diciannove esce fuori, non ci piove! Pur Corona è definito ma ‘l perché non l’ho capito. Su di esso dopo un anno gli scienziati poco sanno: si trasmette per contatto? sembra non con cane o gatto, ma toccando la maniglia è sicuro che ti piglia, come, se non stai a distanza, o ti sfiori con la panza; coi decreti poi non sbagli, entran pure nei dettagli: la distanza da tenere quando parli col portiere; sì, la maschera protegge, va tenuta ormai per legge, ma può essere riusata? dopo quanto va cambiata? Son diverse, sono tante, efficienti tutte quante? E ci sta pure la coda per comprar quelle di moda. Sembra che questo malanno ai bambini non dia danno: senza sintomi lo ignori ma lo passan ai genitori, mentre poi chi è guarito non è certo garantito,
ché l’effetto della cura non si sa per quanto dura. Certo è ormai che si trasmetta molto molto molt’in fretta e da ciò le decisioni prese dalle Istituzioni! Tutt’è ormai tabula rasa si lavora solo in casa, niente scuola, niente viaggi, sol due passi nei paraggi, il commercio va fermato tranne nel supermercato e, va beh! la farmacia con la fila nella via, dove stanno ad aspettare il lor turno per entrare. Siamo ormai in confusione, non si vede soluzione ma il ministro Speranza tira fuori la SPERANZA! I dottori e gli scienziati par si siano superati: sembra che si avvicini già l’arrivo dei vaccini! E’ passato manco un anno e i vaccini già ci stanno e se poi l’AstraZenèca qualche dubbio ce l’arreca non si può procrastinare: CI DOBBIAMO VACCINARE! E dovunque ormai si legge dell'immunità di gregge. Che il vaccino sia da fare non si può certo negare: sì, va beh, ne ammazza venti ma ne salva mille e venti! Col vaccino hai poi risolto? Qualche cosa, ma non molto. Non si sa se dura un anno o se dopo lo rifanno, non si sa se il vaccinato può infettare il vicinato! Ma il virùs è prepotente, contro questo inconveniente non s’arrende, testa dura, e sfruttando la natura che si inventa all’istante? Lui s'inventa la VARIANTE!
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POMEZIA-NOTIZIE Il vaccino è poi garante, se arriva la variante? Se sei stato vaccinato gira sempre mascherato, ché in realtà di sicurezza non esiste la certezza! Già di suo, senza varianti di problemi ne crea tanti: di varianti in settimana n’è fiorita ’na fiumana ed ormai ogni nazione vuole aver la sua versione! La variante c’è di Cuba che contagia sol chi ruba, la variante delle Azzorre che s’attacca a chi non corre, la variante portoghese che t'infetta entro un mese, la variante Lussemburgo che sparisce se mi purgo, mentre quella siberiana non c’è cura che la stana, la variante del Giappone non risponde al tampone, la variante argentina ti contagia la mattina, la variante dell’Egitto te la prendi e stai zitto, quella della Danimarca te la prendi se vai in barca. Sono poi anche arrivate quelle personalizzate! La variante Zingaretti funge sol se ti dimetti, la variante Berlusconi che contagia la Meloni, la variante dalla Spagna che contagia la Carfagna, la variante Gianni Letta stai sicuro che t’infetta, la variante del Piemonte che colpisce solo Conte, la variante Garavaglia stai sicuro che non sbaglia, la variante, poi, di Fico che combina non lo dico, la variante di Salvini che t’infetta i clandestini,
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ce ne sono almeno un paio di varianti per Di Maio, a quella di Italia Viva non si sa chi sopravviva, la variante Casaleggio sembra poi che sia la peggio. Carlo Sebastiani Roma
UN GIORNO Un giorno come tanti sulla terra, nello scorrere lento dei millenni, nel fresco susseguirsi delle aurore. E noi, presi nel giro della vita, che lottiamo ed amiamo, rinascendo ogni volta nel volgere degli anni sempre uguali e diversi; noi che tutto abbiamo conosciuto e vinto e perso e sognato e sperato e disperato, come agli uomini accade, ora qui soli ci siamo ritrovati, in questo volo sempiterno dei cieli, sulla strada delle costellazioni; ed alle labbra spontanee son salite le parole che ci hanno salvati. Fu ventura incontrarsi, portento fu il cammino. Un fulgore più vivo oggi nell'alto s'accende, dentro l'attimo che dura. Si fa lieve il destino, si fa pura l'anima ed un più grande Evento attende, oltre il breve trascorrere dell'ora che la conduce e legata la tiene. In quello trova il sole del suo bene. Elio Andriuoli Napoli
La fabbrica del futuro avrà due soli operai: un uomo e un cane. Il lavoro dell’uomo sarà quello di dare da mangiare al cane. Il cane servirà, invece, per controllare che l’uomo non tocchi la macchina che produrrà tutto. Warren Bennis
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE MENZIONE SPECIALE A LUCIANA VASILE - A “trenta righe al giorno”, di Luciana Vasile, da noi pubblicato sul numero di febbraio 2021, è stata assegnata la “Menzione speciale” alla IX Edizione 2020 del Premio Nazionale di Poesia e Narrativa “Francesco Graziano. *** PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA “DANILO MASINI”, 14a Edizione - I lettori che ci hanno chiesto notizie sulla nuova Edizione del Premio organizzato dalla rivista L’Eracliano di Scandicci (Firenze) e tutti coloro ai quali dovesse interessare, sono pregati di rivolgersi a e-mail: accademia_de_nobili@libero.it *** Concorso Letterario “Una piazza, un racconto” XXIII edizione – 2021 - Scadenza 30 giugno 2021. La Comunità Evangelica di Napoli indice ed organizza la ventitreesima edizione del Concorso Letterario “Una piazza, un racconto”. Al Concorso possono partecipare dilettanti e professionisti, italiani e stranieri, senza limiti di età. –Tema: Il concorrente è chiamato a creare una storia in cui
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la montagna è protagonista con i suoi valori, il suo fascino, i suoi misteri. La forma letteraria presa in esame è quella di un racconto, massimo 18.000 caratteri inclusi gli spazi, pena l’esclusione dal Concorso. Si può partecipare con un solo racconto in lingua italiana e deve essere necessariamente inedito. La partecipazione al Concorso è gratuita. Per poter partecipare ogni concorrente dovrà inviare, per posta ordinaria, a Riccardo Bachrach – segreteria del concorso letterario – via Vicinale Canosa, 44 – 80078 Pozzuoli (NA) cinque copie del proprio lavoro assolutamente anonime e contrassegnate solo da uno pseudonimo. Chiedere regolamento completo a: lucianarenzetti@gmail.com *** Premio Internazionale Poesia, Prosa e Arti figurative Il Convivio 2021 - Scadenza 31 maggio 2021. L’Accademia Internazionale Il Convivio e l’omonima rivista, in collaborazione con “Il Convivio Editore”, bandiscono la XX edizione del Premio Poesia, Prosa e Arti figurative - Il Convivio 2021, cui possono partecipare scrittori e artisti sia italiani che stranieri con opere scritte nella propria lingua. Per i partecipanti che non sono di lingua neolatina è da aggiungere una traduzione italiana, francese, spagnola o portoghese. Il premio è diviso in 3 parti e 8 sezioni: A) EDITO 1) Libro di poesia edito a partire dal 2017 (3 copie); 2) Libro di narrativa edito a partire dal 2017 (3 copie); 3) Libro di saggistica edito a partire dal 2017 (3 copie); 4) Libro edito in lingua straniera con volume pubblicato a partire dal 2017 (due copie). B) INEDITO 5) Una poesia inedita a tema libero in lingua italiana (5 copie); 6) Narrativa inedita. Si partecipa con Romanzo o una Raccolta di racconti (minimo 25 cartelle, A4, corpo 12, interlinea singola) (3 copie); è da inviare obbligatoriamente una sinossi dell’opera (max 20 righe), pena l’esclusione. 7) Silloge di Poesie inedite, minimo 30 liriche, fascicolate e spillate (diversamente le opere saranno escluse) (3 copie); C) ARTI FIGURATIVE 8) (Pittura e scultura): si partecipa inviando due foto
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chiare e leggibili di un’opera pittorica o scultorea. Per le sezioni n. 5, 6, 7 e 8 è possibile inviare le opere per e-mail in duplice copia, una con dati personali ed una anonima, agl’indirizzi: manittaagelo@gmail.com; angelo.manitta@tin.it oppure enzaconti@ilconvivio.org; le sillogi di poesie o di racconti vanno inviate in un solo file, in duplice copia (una anonima e una con dati). Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Per le tre edizioni successive del Premio, l’autore primo classificato non potrà partecipare alla sezione nella quale è risultato vincitore. Non si può inoltre ripresentare lo stesso libro edito proposto nelle edizioni precedenti del Premio né partecipare con opere pubblicate da Il Convivio Editore. Saranno considerati editi solo i testi forniti di codice ISBN regolarmente registrato. Delle copie inviate, una deve essere corredata di generalità, indirizzo, numero telefonico ed e-mail, le altre copie, se inedite, devono essere anonime. Il tutto è da inviare entro il 31 maggio (per cui fa fede il timbro postale o la data di invio dell’e-mail) a Il Convivio: Premio “Poesia, Prosa e Arti figurative”, Via Pietramarina Verzella, 66 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. È necessario allegare un breve curriculum. Sarà data comunicazione personale solo ed esclusivamente ai vincitori, i cui nomi saranno resi pubblici sul sito www.ilconvivio.org . Il verdetto della giuria è insindacabile. I premi devono essere ritirati personalmente, pena il decadimento del premio stesso (pubblicazione, premio in denaro, coppe o targhe), e non si accettano deleghe per la giornata di premiazione. Le opere inedite devono restare inedite e libere da contratto o da accordi di pubblicazione, fino al giorno della premiazione, diversamente saranno escluse. Premiazione: Giardini Naxos (ME): 24 ottobre 2021. Premi: 1- 2 -3) Libro edito nelle sezioni poesia, narrativa, saggistica: € 300,00 per il primo classificato di ciascuna sezione + targa e diploma; 4) Sez. Libro edito stranieri:
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Primo classificato € 300. Per gli altri premiati targhe e diplomi. 5) Poesia inedita: Primo Classificato: € 100 + targa e diploma; 6) Narrativa inedita: per il primo classificato pubblicazione dell’opera con 30 copie omaggio + targa e diploma; 7) Silloge di Poesie inedite: per il primo classificato pubblicazione dell’opera con 30 copie omaggio + targa e diploma; 8) Sez. Pittura: per il primo classificato pubblicazione gratuita dell’opera in prima di copertina della rivista Il Convivio + targa e diploma. Non è previsto rimborso di viaggio, vitto e alloggio. Sono previsti Premi speciali. La partecipazione prevede un contributo complessivo di euro 15,00 per spese di segreteria, indipendentemente dal numero delle sezioni cui si partecipa. Per i soci dell’Accademia Il Convivio il contributo è di euro 5,00. Da inviare o in contanti o con bonifico Iban: IT 30 M 07601 16500 000093035210 oppure ccp n. 93035210. Intestazione: Accademia Internazionale Il Convivio, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT); causale: Premio Il Convivio 2021. È obbligatorio inviare copia di attestazione di versamento e scheda di adesione al premio, pena l’esclusione. Partecipando al concorso si dà automaticamente il consenso di ricevere, sia per email che cartaceo, informative relative al Concorso e alle iniziative dell’Associazione. Tutela dei dati personali ai sensi del Regolamento UE 679/2016 e del D. Lgs. 196/2003 e s.m. Per invio opere partecipanti e ulteriori informazioni: Premio Il Convivio 2020, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) Italia, tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, e-mail: manittaangelo@gmail.com; angelo.manitta@tin.it.; enzaconti@ilconvivio.org; sito: www.ilconvivio.org Il presidente del Premio Angelo Manitta Chiedere, comunque, agli indirizzi sopra indicati, il regolamento completo e la scheda di adesione.
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*** ADDIO A MILVA – Il 23 aprile 2021 è morta Ilvia Maria Biolcati, in arte MILVA; cantante, attrice; aveva 81 anni, essendo nata a Goro (Ferrara) il 17 luglio del 1939. Personaggio amato e stimato della nostra giovinezza; la “Pantera di Goro”, la Pantera rossa” per la sua chioma, ma ancor più per il suo carattere, solare,
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umano, istintivo quanto irruente. La sua voce squillante e flessibile nei toni, era in grado di sposare il classico con la canzonetta, di unire l’alto e il basso, purché lievitati entrambi dall’armonia e dal sentimento. Versatile, se si pensa che, in teatro, ha recitato, negli anni settanta, Brecht con Giorgio Strehler, opera e contenuto ben lontani da toni e contenuti delle sue belle e indimenticabili canzoni. Nel cinema ha interpretato molte parti e a fianco di tanti bravi attori, anche se qui ricordiamo solo “La bellezza di Ippolita”, del 1962. Legata d’amicizia per anni al compositore argentino Astor Piazzolla, con il quale girò mezzo mondo. Ha partecipato al Festival di San Remo, la prima volta, nel 1961, con la canzone “Tango italiano” e, poi, altre 15 volte, l’ultima nel 2007. Ha registrato più di 170 dischi, per più di 80 milioni di copie; tra le sue canzoni più celebri: “La filanda”, “Alexander Platz”. Esuberante quasi in tutto e anche in amore: nel 1963 sposa Maurizio Corgnati; si accompagna per 4 anni con Domenico Serughetti –
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attore, in arte Mario Piave, trovato ucciso, poi, nel 1979; per altri 15 anni rimane legata a Massimo Gallerani, filoso ed è, infine, la volta dei 5 anni con Luigi Pistilli, un attore che si suicida nel 1996. Insomma, una figura dai contorni marcati e intensi, Milva, che merita, perciò, di essere ricordata e approfondita nel lato umano e non soltanto in quello artistico. Domenico Defelice
LIBRI RICEVUTI IMPERIA TOGNACCI – Il prigioniero di Ushuaia/El prisionero de Ushuaia – Seconda edizione, traduzione di Angela Pansardi; Prefazione di Sandro Gros-Pietro – Genesi Editrice, 2021 – Pagg. 100, € 15,00. Imperia TOGNACCI è nata a San Mauro Pascoli. Vive a Roma, dove si è dedicata all’insegnamento. Sempre lusinghieri gli apprezzamenti sulle sue opere da parte di critici di chiara fama. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e premi nazionali ed internazionali. È inserita in testi di storia della letteratura, di critica letteraria e in numerose antologie, ed è stata recensita su Riviste letterarie, quotidiani e periodici. Ha pubblicato, tra poesia, romanzi, saggi: “Traiettoria di una stelo” (2001), “Giovanni Pascoli, la strada della memoria” (2002), “Non dire mai cosa sarà domani” (2002), “La notte di Getsemani” (2004), “Natale a Zollara” (2005), “Odissea pascoliana” (2006), “La porta socchiusa” (2007), “Il prigioniero di Ushuaia” (2008), “L’ombra della madre” (2009), “Il lago e il tempo” (2010), “Il richiamo di Orfeo” (2011), “Nel bosco, sulle orme del pastore” (2012), “Là, dove pioveva la manna” (2015), Anime al bivio (2017). Nel 2014, Luigi De Rosa pubblica il volume “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa. Saggio monografico sull’opera della poetessa e narratrice di San Mauro Pascoli”. È presente in Antologie, Dizionari ontologici, Rassegne di critica e Storie della letteratura contemporanea. Numerosissimi e importanti i Premi.
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** ISABELLA MICHELA AFFINITO – Autori contemporanei nella critica di Isabella Michela Affinito (Percorsi di critica moderna) IV volume – In copertina, a colori, disegno dell’Autrice realizzato a collage e pennarelli colorati – Casa Editrice Menna – Avellino, 2020 – Pagg. 248, € 20,00. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, l’astrologia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 60 raccolte di poesie e volumi di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005), Vittorio Martin: Storia di un pittore del nostro tempo (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol. VIII
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(2015), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015), “Percorsi di critica moderna - Autori contemporanei” (2016), Mi interrogarono le muse… (2018), “Luoghi Personali e Impersonali” (2018), “Autori contemporanei nella critica (Percorsi di critica moderna)” (2019), “Una raccolta di stili” (17° volume, 2019), “Una raccolta di stili (18° volume, 2020), “Lettera a…” (2020). ** MANUELA MAZZOLA – Enzo Andreoli e la shock art – Introduzione di Maria Teresa Infante, postfazione (“Uno sguardo critico”), di Carolina Campanelli – Tra copertina e interno, riproduzioni a colori di 42 opere dell’Artista – Oceano Edizioni, 2021 – Pagg. 114, € 15,00. Manuela MAZZOLA è nata a Roma il 2 luglio 1972 e risiede a Pomezia (RM). Laureata in Lettere all’Università La Sapienza, collabora con riviste e periodici (L’Attualità, Il Convivio, Il Pontino nuovo, The world poets quarterly, Oceano New, L’Eracliano, Pomezia-Notizie) ed è stata inserita in varie antologie. Ha pubblicato: Sensazioni di una fanciulla (parte prima, 2019), Sensazione di una fanciulla (parte seconda, 2020), Frammenti di vita (2020). ** ROBERTO SCEVOLA – Winston Churchill – Ed. La Gazzetta dello Sport, 2021 – Pagg. 160. Roberto SCEVOLA è laureato in Scienze politiche, Giurisprudenza e Storia e insegna Diritto romano presso l’Università di Padova. Collaboratore di quotidiani (Il Corriere della Sera) e riviste, ha pubblicato, tra l’altro: Le deliberazioni senatorie nella prima pentade liviana (2017), Norimberga. Il male sotto accusa (2018), Mandela. Dall’ombra del patibolo alla luce della giustizia (2019), Norimberga. Il processo (2020). ** TITO CAUCHI – Carmelo Rosario Viola. Vita, Politica, Sociologia (22 settembre 1928 – 4 gennaio 2012) – In prima di copertina, a colori, “Il mondo in culla”, foto dell’Autore; in quarta, foto dell’Autore e di Carmelo Viola – Editrice Totem, 2021, pagg. 214, € 15,00. Tito
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CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015), “Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche” (2015), “Ettore Molosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate” (2016), “Carmine Manzi Una vita per la cultura” (2016), “Leonardo Selvaggi, Panoramica sulle opere” (2016), “Alfio Arcifa Con Poeti del Tizzone” (2018), “Giovanna Maria Muzzu La violetta diventata colomba” (2018), “Domenico Defelice Operatore culturale mite e feroce” (2018), Graziano Giudetti, Il senso della poesia (2019), Profili Critici 2012. Premio Nazionale Poesia Edita Leandro Polverini, Anzio. 163 Recensioni (2020), Pasquale Montalto. Sogni e ideali di vita nella sua poesia (2020), Angelo Manitta e Il Convivio (2020), Lucia Tumino una vita riscattata (2020), Silvano Demarchi Fine letterato e poeta (2020). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. È incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013), in “World Poetry Yearbook 2014” (di Zhang Zhi & Lai Tingjie) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di
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Poesia Edita Leandro Polverini, giunto alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’estero. ** AMEDEO GIULIANI – Acqua e terra – Racconto lungo – Campanotto Narrativa Editore, 2019 – Pagg. 144, € 15. Amedeo GIULIANI è nato a Foggia nel 1961. Dopo il liceo, ha trascorso a L’Aquila gli anni della formazione universitaria, quindi si è trasferito a Roma, dove attualmente vive e lavora. Tra le sue opere: Gattusia (2010), La Farfalla (2011). ** EDWARD LEAR - Poems nonsense & Songs – a cura di Virginio Gracci – Campanotto Internazionale Editore, 2020 – Pagg. 158, € 16,00. Virginio GRACCI, ex-docente di Lingua e Civiltà Inglese, è autore di articoli e saggi di didattica e letteratura apparsi in riviste e giornali italiani e stranieri. Ha curato, tra l’altro, per la Loescher di Torino un testo di Mary Shelley, Maurice, or the Fisher’s Cot, con un saggio in inglese sull’autrice. Fin da ragazzo ha composto poesie (in italiano e in dialetto veneto), alcune delle quali sono state premiate o segnalate nei concorsi e inserite in varie antologie e raccolte. Nel 2015 ha pubblicato L’Urlo di Munch, e altre Storie (nel 2016 finalista al Premio Acqui Terme). Nello stesso anno, con il breve saggio, Ernest Hemingway: dal Tagliamento all’Isola di Torcello, passando per Caorle, ha vinto il Primo Premio del “Salotto Letterario – Sotto il Campanile” di Caorle (Venezia). Compone haiku, una trentina dei quali, nel 2018, sono stati inseriti in Fiori di Menacao 2018, Antologia Brentana, a cura dell’Associazione “La Pentola dei Nodi”, di Dolo, Venezia. Nelle ultime edizioni della stessa antologia sono contenuti anche dei suoi racconti brevi. Tra i riconoscimenti più recenti in poesia: Primo Premio nel concorso “La Poesia del 2019”, dalla rivista LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA; Primo Premio Internazionale di Poesia in Lingua Straniera (Inglese), promosso da SCRIPTURA, nel 2020; 2° Premio per il saggio critico al Premio Internazionale Il Croco 2020, organizzato da Pomezia-Notizie.
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TRA LE RIVISTE FIORISCE UN CENACOLO – Mensile internazionale di Lettere e Arti fondato nel 1940 da Carmine Manzi, diretto da Anna Manzi – 84085 Mercato S. Severino (Salerno) – Email: manzi.annamaria@tiscali.it – Riceviamo il n. 1-3, gennaio-marzo 2021, nel quale incontriamo, tra le altre, le firme di: Maria Teresa Infante, Anna Aita (“In vacanza a Sharm el Sheikh”), Antonia Izzi Rufo (“Il nostro “Padre Dante” e la sua “Commedia””), Isabella Michela Affinito, Aldo Marzi eccetera. * PALOMAR – I quaderni on line de La Nuova Tribuna Letteraria, direttore Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone – via Chiesa 27 – 35034 Lozzo Atestino (PD) – E-mail: nuovatribuna@yahoo.it – Riceviamo il n. 23, marzo 2021: Antonio Tabucchi, di Fabiola Spagnolo; Romain Gary, di Natale Luzzagni; Valeria Palumbo, di Maria Nivea Zagarella; Luigi Pirandello, di Valerio Musumeci e Annamaria Sigalotti; Federico De Roberto, di Dario Malini; John Keats, di Francesca Cloce; Antonella Ferrari, di Nadia Lisanti. * L’ATTUALITÀ – mensile di società e cultura fondato e diretto da Cosimo Giacomo Sallustio Salvemini – via Lorenzo il Magnifico 25 – 00013 Fonte Nuova (RM) – e-mail: lattualita@yahoo.it – Riceviamo il n. 4-5, aprilemaggio 2021, nel quale troviamo le firme anche delle nostre collaboratrici Manuela Mazzola (ben otto pezzi!) e Isabella Michela Affinito, che cura la rubrica “Io e i pianeti dello zodiaco”.
SALMO 132 Ricordati di me, Signore, che per te non feci quasi niente. Non sempre aprii il tempio del mio cuore e non lo inghirlandai di rose e biancospini; non lo
POMEZIA-NOTIZIE
Maggio 2021
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incensai quasi mai con resina di perdono, né accolsi il fratello povero con il grido della gioia. Ricordati di me che da te presi cieli venti e sole e illuminai i miei occhi di cose buie. Io per te non preparai nessun trono, non composi canzoni e melodie. Non chiamai uccelli dalla gola d’oro perché gorgheggiassero scintille ed inni in tuo onore. Se vuoi, spingi la porta, entra; troverai ciò che non ti piace: un filo di voce, un singhiozzo lunghi anni ed anni di silenzio. Gianni Rescigno Da: Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019
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