Pomezia Notizie 2021_6

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5350ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma. - Il mensile è disponibile su: http://issuu.com/domenicoww/docs/

Anno 29 (Nuova Serie) – n. 6

- Giugno 2021 -

N° 6 della Serie online

GAETANO ORAZIO SGOMENTO ALL’AURORA di Giuseppe Leone mi ritrovo sgomento all’aurora, nel volto silente e tenebroso del mondo. Ognuno di noi è il futuro della propria madre e forse fu un angelo davvero a portare la sublime notizia … di sicuro il “Sì” della fanciulla Maria aprì voragini di poesia.

E

Così, Gaetano Orazio chiude il suo poema in versi Sgomento all’aurora, o meglio, il suo poemetto, se si considera anzitutto la dimensione del suo piccolissimo formato (10 x 15). Né più né meno quella di “un taccuino da viaggiatore”, come lo definiscono nell’introduzione i suoi redattori, “con la speranza e l’augurio che molti dei suoi lettori ne possano davvero godere all’aperto, durante una passeggiata per la campagna, scrivendo di proprio pugno nelle pagine libere una loro idea, un loro ricordo, un loro sogno, suscitati da questi versi”. Un volumetto che anch’io consiglierei di leggere, e non solo a viaggiatori lungo giardini e parchi, ma anche a coloro che si →


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All’interno: Domenico Antonio Tripodi e Dante, di Francesco D’Episcopo, pag. 5 Pierre Seghers, di Anna Vincitorio, pag. 7 Non circola l’aria: i racconti di Defelice, di Gianni Antonio Palumbo, pag. 12 Francesco D’Episcopo e la Napoli degli ossimori, di Elio Andriuoli, pag. 14 Imperia Tognacci, le ombre della sofferenza, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 16 La poesia del veneziano Alberto Barina, di Lorenzo Spurio, pag. 18 Domenico Defelice, Non circola l’aria, di Antonio Crecchia, pag. 23 Manuela Mazzola, Enzo Andreoli e la shock art, di Tito Cauchi, pag. 25 Il prigioniero di Ushuaia, di Imperia Tognacci, di Antonio Crecchia, pag. 27 Le zone depresse, di Leonardo Selvaggi, pag. 30 Notizie, pag. 40 Libri ricevuti, pag. 47 Tra le riviste, pag. 47 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Delirio di parole, di Anna Maria Bonomi, pag. 34); Isabella Michela Affinito (Colori e stupori della vita e della natura, di Lina D’Incecco, pag. 35); Isabella Michela Affinito (Anima mia, di Giannicola Ceccarossi, pag. 36); Elio Andriuoli (Per lo gran mar de l’essere, di Rachele Zaza Padula, pag. 36); Lia Giudici (Basilisse – Appunti di viaggio, di Rita Bonfiglio, pag. 38); Manuela Mazzola (Ultima fermata, di Fabio Dainotti, pag. 39); Manuela Mazzola (C’era una volta il mare…, di Isabella Michela Affinito, pag. 39). Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Carolina Ceccarelli Quercia, Domenico Defelice, Elisabetta Di Iaconi, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Giovanna Li Volti Guzzardi, Gianni Rescigno, Pierre Seghers

spostano fra gli astri, soprattutto se penso che Sgomento all’aurora, uscito nel 2013 in concomitanza con la mostra dello stesso Gaetano Orazio nella Galleria Biffi di Piacenza, dal 6 giugno all’11 agosto, intitolata Quadri da un’esposizione, a cura di Giampaolo Cagnin, con l’allestimento di Carlo Scagnelli e il coordinamento di Francesca Tansini, è un poema che ha come protagonista l’universo. Gaetano Orazio è un artista, pittore e poeta a un tempo, le cui creazioni non discendono mai da manifesti programmatici, ma sono frutto, a detta di Philippe Daverio, di “una sorta di urgenza creativa, quasi sciamanica, perché - secondo lui –

Gaetano possiede una memoria filogenetica totale, anche se inconsapevole, è un individuo capace di ricordarsi il Big Bang … e siccome nel momento della creazione originaria vi è già tutto il sapere di oggi e di domani, l’Artista sa …”. Sa – scrive Cinzia Cassinari – dar vita, anche in questo poema, “a potenti immagini nello stato del dormiveglia attraverso un libero fluttuare di versi che icasticamente si traducono in immagini talmente nitide e vivide che, davanti ai nostri occhi, mentre leggiamo, prendono forma i fili d’erba, le chiocciole, la pioggia, e, allo stesso tempo, ne percepiamo il rumore, la consistenza grazie ad una strana forza evocativa dall’effetto sinestetico che coinvolge tutti i nostri sensi”. E in effetti, sono le stesse immagini dei quadri che Gaetano ha già “realizzato – fa notare Cagnin - con le tecniche più diverse, i


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materiali meno probabili, pigmenti grattugiati con strumenti da cucina, resine da carrozzeria, catrame per terrazze, fogli di alluminio e fiamme”. Sono “i fiori della cicoria comune, continenti alla deriva, salamandre incuneate nei ciottoli dei torrenti, nodi battesimali, cortecce di betulle, la prima neve, un cercatore e un trovante, l’energia dell’Agnus Dei, e anche nove angeli + uno”. Le medesime immagini che ora l’artista si appresta a rivisitare in questi suoi versi, non prima però di domandarsi come mai ogni volta che ci accomodiamo al sonno ritorniamo pastori o contadini; come mai, ciò possa avvenire ogni volta che adattiamo il nostro corpo al giaciglio / che una volta era suolo. E come mai, infine, in orizzontale ritorniamo paesaggio. Sono né più né meno le domande che si posero e a cui cercarono di rispondere il cavaliere cervantino e il suo alterego Sancho allorquando si misero in testa di trasformare il mondo in fondamentalmente buono, destituiti del senso della realtà entrambi, l’uno perché pazzo, l’altro perché al servizio di un pazzo. Allo stesso modo, ora, il pittore e il poeta, quest’ultimo al servizio del primo, nel generoso sforzo di rinominare “l’universo del tempo profondo” che abbiamo ammirato nella mostra dell’artista, con la nuova denominazione di “infinito delle madri” nel suddetto poema. È a loro, che il poeta riconosce capacità demiurgica e merito di dare futuro e finalità all’universo, a loro che: “all’infinito … come i torrenti, rinnovate e rotte le acque, rovinano nella durata delle cose. L’eco di un vagito nell’universo, il premio al loro Sì.

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A Maria, innanzitutto, alla “fanciulla Maria”, di cui “di sicuro” il suo “Sì” aprì voragini di poesia”, trasformando le asprezze rupestri dell’universo e della Terra in dolci pendii dove scorre l’acqua e germoglia la vita; dove un tempo - ricorda il poeta - in primavera, “la madre di mia madre / usava cogliere petali di fiori che metteva in una bacinella”, perché “qui in quest’angolo d’universo poco tempo fa il ghiaccio ridivenne mare / e nel suo ritiro disseminava enormi occhi lacustri a specchiarsi all’infinito”. Quello che colpisce, allora, leggendo i trecentonovantacinque versi di questo poema dalla metrica libera, con disegni a piena pagina dello stesso Orazio, è che, per la prima volta, nel mondo dell’arte, l’universo acquista un volto, “degno di tanta reverenza in vista” da indurre il suo stesso autore a dover ripensare gli scopi della sua arte e, se si vuole, anche gli strumenti per esprimersi, domandandosi e domandando: prima, se davvero meritiamo tanta bellezza; e poi, dov’è l’infame che ha coperto zolle di terra / con catrame e cemento …”. Sono riflessioni a scena aperta, ancora nel bel mezzo del poema, quali sgorgano dalla visione di un artista che ha dipinto e cantato la natura “direttamente”, senza mediazioni intellettuali, semplicemente inseguendola, ora, sulle estemporanee apparizioni di salamandre, libellule e castagne d’acqua, che venivano a premiare la pazienza di un artista, appostato, con le sue tele, sulle rive di un torrente di montagna; ora, sull’ “infinito delle madri”, l’idea che a muovere “il sole e l’altre stelle” non siano tanto le leggi della fisica, quanto l’amore delle madri verso i figli. Dunque, un viaggio, una visione, questo poemetto di Gaetano, di cui Daverio, suo grande estimatore, ebbe a scrivere, fra molte altre cose, che il “caso” Orazio “corrisponda a una delle più interessanti mutazioni del pittore alle quali abbia potuto assistere da quando guarda gli artisti al lavoro”. E forse, non solo del pittore, io aggiungerei anche tra le più interessanti mutazioni


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del poeta, persino della letteratura e dell’uso che ne viene fatto, nonché del nuovo tipo di lettore, se i redattori immaginano, non più chiuso nel suo studio o nella sua cameretta, ma in aperta campagna alla luce del sole, mentre scrive, sulle pagine lasciate libere apposta per lui, pensieri, ricordi e sogni suscitati da questi versi. Giuseppe Leone Gaetano Orazio: Sgomento all’aurora, Biffi Arte Editore, Piacenza, 2013. Pp. 80 non numerate. Nella foto che pubblichiamo in prima pagina: Philippe Daverio e Gaetano Orazio ___________________________________

che riportino a te stessa mondi a lungo sommersi...

È IN TRADUZIONE NEGLI STATI UNITI D’AMERICA la silloge di poesie

YOUR ASTRAL ORIGINS

12 MESI CON LA RAGAZZA di Domenico Defelice A tradurla è la dottoressa scrittrice e poetessa

Aida Pedrina-Soto Ecco, di seguito, un brano nell’originale e nella bella traduzione:

IL TUO PRINCIPIO ASTRALE Settembre ti ghermì con le sue piogge ed un languore mortale. Ormai dell’estate non ti resta che un volo di gru. Tu mi giungi assai cara in questo tempo dalle nubi sempre più fitte, quasi più dolce mi ti fai; abbandoni il tuo principio astrale che ti distacca dagli umani, ti dipani anche tu in quest’ansia che infonde la natura. Ora il sogno di ieri non ti basta. Hai bisogno d’una carezza amica che ti commuova, di parole a luce di candele, di sguardi

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Ecco, tu piangi! Tenerezza di foglie s’è disciolta nel tuo cuore indurito: oggi tu vivi! Ed io ritorno al primo tuo apparire vergine d’atti e di pensieri, aspiro il tuo profumo d’amarilli... O cara, cara! S’io m’abbandono al flusso dei ricordi questa teoria d’anni e di pene evapora d’incanto nel muschio settembrino dei tuoi occhi.

September has you grasped with its rains and a mortal weariness. By now, all you have left of summer is a flight of cranes. You become very dear to me in this season of ever denser clouds, you become almost sweeter to me; you forgo your astral origins that sets you apart from humans, you too are dissolving in this nature-infused eagerness. Now the dream of yesterday is not enough. You are in need of a friendly touch that moves you, of words in candlelight, of looks that bring back to you, worlds long submerged.... And now you are crying! A tenderness of leaves is melting your heart of stone: Today you live! And I come back when you first appear pure in thoughts and deeds, inhaling your scent of amaryllis.... Oh, dearest, dearest! If I give in to the flow of memories the notion of years and sorrows evaporates like magic in the September moss of your eyes.


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A settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, ha composto ben centocinquanta opere ispirategli dalla Divina Commedia

DOMENICO ANTONIO TRIPODI E DANTE di Francesco D’ Episcopo

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ONO le tre ragioni e le tre persone che mi inducono a recensire questa monografia di Domenico Defelice, intitolata Domenico Antonio Tripodi, pittore dell’anima e pubblicata, in bella veste editoriale, nel dicembre 2020, da Gangemi. La Calabria, dunque, miracolosamente domina e questa è la quarta ragione. Di Domenico Antonio Tripodi si può dire che sono amico da sempre e da sempre non mi ha fatto mai mancare la fitta documentazione delle sue mostre in Italia e all’estero; con Domenico Defelice ho instaurato uno stimolante

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rapporto culturale, dopo aver vinto la prima edizione del Premio “Il Croco” per la poesia, bandito dalla sua eroica rivista “Pomezia Notizie”; con Gangemi e il suo efficiente figliolo (com’è bello quando un figlio collabora e continua con l’attività del padre, come capitò con il caro e scomparso amico Luigi Pellegrini, di cui il figlio Walter brillantemente porta avanti la casa editrice) ebbi civili rapporti di collaborazione editoriale. La Calabria, dentro e fuori i suoi confini, lascia ancora una volta un segno né effimero né episodico. Domenico Defelice, poeta, narratore, critico, operatore culturale, che ha superato per quattro volte i venti anni, a cui faceva riferimento Ungaretti, ha raccontato, nella parte iniziale di questa monografia, il rinnovato incontro romano con il suo conterraneo Tripodi, nel suo studio, come quello di molti artisti frequentati anche da chi scrive, affollato e animato da una varietà di oggetti, fonti di ispirazione intima e intensa. Figlio d’arte, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte, Domenico Antonio ha inseguito, con coraggio e costanza, la vocazione di famiglia, confermata dalla fervida attività artistica dei suoi fratelli (erano, in famiglia, ben otto, tra fratelli e sorelle). Dalla nativa Calabria lo troviamo poi in Toscana, dove scopre la sua forte sensibilità per il mondo animale, che Defelice mette bene in luce, collegandola con quella dei poeti calabresi Franco Saccà e Francesco Fiumara, e poi in Lombardia, dove vivrà per ben trentasette anni, soprattutto come restauratore, ma sempre assecondando la sua biologica vocazione di pittore, come dimostra il lavoro più celebre intitolato Il Filosofo, sempre richiesto e mai venduto. La visceralità dell’artista verso le sue opere è dimostrata da un’altra sua creatura importante, Uomo antico, prima venduta e poi persino ricomprata. Siamo ormai a settecento anni dalla morte di Dante e Tripodi ha composto ben centocinquanta opere, ispirate dal sommo Maestro, di cui Defelice offre un’analisi avida e accurata. L’incontro romano tra i due si conclude con


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una passeggiata sul Tevere e con un saluto caloroso, seguito da una lettera, di vago sapore leonardesco, che difende a spada tratta la natura, animali e piante, la cui conoscenza Tripodi aveva approfondito nell’isola di Capraia. Segue una illuminante Intervista, dalla quale emerge l’anima poetica dell’artista, ma anche del suo intervistatore, la quale non può che essere naturalmente ecologica, come è stata definita dalla maggior parte dei critici. Che cosa è, del resto, la poesia se non ecologia dello spirito? Dovevo agli amici calabresi questo tributo

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VISIONI PROVVISORIE Memoria dolceamara: t’insinui prepotente tra i pensieri e allestisci una scena che ripropone gli attimi trascorsi. E viviamo un riflesso di quella vita che sembrava eterna. Visioni provvisorie, reliquie che serbiamo dentro al cuore. Diario frantumato, che salva gli episodi rilevanti e non si prende pena dell’infinita gamma di emozioni: il vero contrassegno dell’esistenza umana sulla terra. Elisabetta Di Iaconi Roma C’ERA UNA VOLTA IL FUTURO Non è vero. Perché dopo anni di dubbi tormentosi ho dovuto decidermi, e accettare la protervia del tempo. Di tutti i miei diari giovanili (grossi quaderni, zeppi di progetti di palingenesi sociale, di amori appassionati, febbricitanti, di speranze lucenti) ho fatto in giardino un fumigante, doloroso falò.

per l’inalienabile amore per la loro terra, che li ha indotti a lasciarla, per cercare fortuna altrove. Quando chiesero a Salvatore Quasimodo perché fosse “salito al Nord”, il Premio Nobel per la letteratura rispose acutamente di non essere mai “salito”, ma, semmai, “disceso” al Nord, perché dal Paradiso, la sua Sicilia, non si “discende” ma si “sale”. Francesco D’Episcopo Domenico Defelice: Domenico Antonio Tripodi pittore dell’anima – Gangemi Editore International, 2020, pagg. 96, 20,00

Ho sofferto in silenzio, pagina per pagina. Mi sento ustionato. Ma vivrò. Nel tempo che rimane (??) ricorderò frammenti del passato, distillando l’essenza di emozioni e sentimenti, continuando a sognare un futuro di giustizia e di pace. (??) Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013


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PIERRE SEGHERS di Anna Vincitorio

RICERCA Mi sono domandato chi di me era l’altro Se era proprio quello che cercava invano se stesso Che scavava i muri nudi al posto dell’ombra che gridava all’eco per rendere il suo grido Ho cercato, ho battuto il terreno più oscuro Erano per me soltanto questi aridi fiori… Pierre Seghers nasce a Parigi il 5 gennaio 1906 e muore a Créteil il 4 novembre 1987.

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La sua infanzia e la giovinezza nella Alta Provenza a Carpentras “dalle rosse colline, la terra più dolce di tutti i paesi dove ho appreso a leggere, nuotare, amare”. Infanzia sotto il sole di Provenza che lo segnerà profondamente. I suoi studi nel collegio di Carpentras come “fuochi d’artificio nella notte”, gli rivelarono Hugo, Racine, Musset. Il giovane Pierre era il più assiduo della biblioteca Inquimbertine. Nasciamo con il desiderio di conoscenza e l’amore per la parola. Parola, col suo mistero, che uno spirito sensibile avverte e insegue per l’intera vita. La parola ha potenza e può guidare e trascinare verso lontani orizzonti. Seghers in un primo tempo è stato avventizio presso uno studio di notaio, poi si è occupato di ristoranti e alberghi. Viaggiava molto. Quando si stabilì a Parigi in Piazza Dauhine fu avvolto da quel “coine de verdure enfoncé dans Paris, triangulaire, provinciale, et silencieuse…”. Parigi lo entusiasmava, lo inghiottiva prendendolo interamente. Finalmente vita e poesia. Il giovane Seghers acquistava libri dai bouquinistes dei quais della Senna. Poi, il servizio militare, il ritorno a Carpentras dove si sposa nel 1928 con Anne Vernier. Viaggia incessantemente per il suo lavoro vendendo materiale per bar e Hotels. Nei suoi continui spostamenti, compagna la lettura. L’anonimato delle sale di attesa era colmato dai versi di Mallarmé, Laforgue, Whitman, Verlaine e poi Rilke. Il suo cammino si addentra nella poesia sempre più a fondo smarrendosi come in un labirinto interiore che lo prende e lo assorbe con i suoi affascinanti segreti.


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“Ero sdoppiato, la mia sola zona di calma, di riflessione, il mio pozzo segreto era la poesia”. Intorno al 1930 conosce a Baux de Provence il tipografo ed editore Louis Jou. Respirare per la prima volta l’odore dei libri, il suono sotto le dita dei fogli di carta. L’incontro con la poesia di Omar Khaiam: “una notte indimenticabile dove la poesia, la vita e Dio erano unità”. Nel 1937 la sua prima raccolta Buona Speranza. Non trova un editore e decide nel 1938 di creare una casa editrice. Scoppia la guerra. Lui è soldato di 2ª classe mobilitato alla caserma Vallongue di Nîmes. La scoperta che nella stessa caserma 25 anni prima c’era Guillaume Apollinaire, lo segna. È destino; non può che occuparsi di poesia e precisamente di una rivista di “poeti soldati”. Poètes casqués. Molti scrittori si abbonano per incoraggiarlo. Tra di loro: Max Jacob, Jules Romains, Gaston Gallimard. La rivista rende omaggio a poeti come Péguy, Alain Fournier, Apollinaire… Le pubblicazioni sono sottoposte alla censura. Centinaia di libri di autori ebrei vengono distrutti durante l’occupazione tedesca. La situazione è deleteria ma l’impegno di Seghers è forte e determinato a far passare con l’uso della parola poetica l’invito categorico alla Resistenza. Si devono mobilitare i poeti soldati: lottare uniti e guardare nella medesima direzione. Attraverso la poesia servire la Patria. Sviluppare la Rivista Poesia e con essa tener uniti tutti coloro che vogliono render viva la speranza. Una lotta con la parola che penetra più di un fucile. I poeti inventeranno una lingua di evasione ricorrendo alla rima, alle forme delle ballate del Medio Evo: “alla parola di poesia, il censore si assopisce”. Questa è la Resistenza dei poeti di Seghers. Con i poemi d’amore eludere la censura. L’esempio più significativo: Libertà scritto da Paul Éluard nel luglio del 1941. Durante l’occupazione è viva l’abilità di Seghers. Un po’ come tenere due ferri al fuoco. Proseguire nel suo lavoro di editore e sottoporre alla censura tedesca i libri di poesia riuscendo a far passare le opere più sovversive con un falso visto di censura. Molte sue opere poetiche appaiono sotto falso nome: Louis Maste, Paul

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Rutgers, nell’Honneur des Poètes, antologia diretta da Paul Éluard. La letteratura francese è fortemente vitale e di una violenza inaudita, durante i primi tre anni della guerra. È Pierre Seghers che ha permesso allo spirito della Resistenza di soffiare su tutti i “Veli” della poesia. Inoltre lui ha dato uguale importanza a tutti i poeti sia noti che ignoti della letteratura contemporanea. Nel 1942 si forma una piccola comunità di musicisti e poeti tra cui Georges E. Clancier, Louis Borne1. Importante una sua relazione tratta da Le temps des merveilles: “Se la poesia non vi aiuta a vivere fate altra cosa”. Come definire Seghers: … “Sento intorno a me la vita che muore già trascorsa/ Il mio sangue la leviga ogni giorno/ Simile a un gioiello nell’alveo della sua conchiglia/ fluente come il pensiero”… “Ciò che è stato non mi pesa. Invento, immagino/ Intreccio la notte, il sole/ Rispondo e offro i campi, le api/ la speranza, il giorno che immagino/ … Fingo di dimenticare l’inizio e la fine/ Non c’è niente di vero da poter dire”. Penso che le sue parole vadano assorbite secondo la sensibilità del lettore. Aleggia un infinito mistero legato al poeta che anticipa ma teme allo stesso tempo ciò che accadrà. Lui non può impedirlo; può però con la parola trasmettere messaggi chiari come oscuri in tutta la loro potenza e crudezza. 24 agosto 1944 – Due visioni della liberazione di Parigi. “Bei fanciulli di pietra e di pioggia/ San Sébastien del la Cité: Crivellati ai muri dell’altra estate/ per vivere la vostra verità/ voi non siete morti a terra/ Il vostro sangue non si è affatto gelato/ sulle nostre bandiere si è mescolato/ con la cenere dei visi… voi infiorerete/ L’avvenire con il passato…/ Moltitudine di ragazzi sempre in piedi/ Per battersi, il 25 agosto…” “Alla punta delle lance del sole c’è sempre/ un occhio e una mosca/ una mosca di fuoco che dardeggia sui cadaveri/ tra le ali d’una armata/… L’occhio la vede. L’occhio dei morti ha strani approcci/ Già il corpo vibra come un pezzo di carne dal macellaio/ Crepitano colpi di fuoco, ci sono sementi che esplodono/ E


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sotto le dita degli uomini altre mosche con all’estremità/ punte di acciaio…/ Ho visto rotolare nel ruscello coloro che ci aiutavano con i fuochi/ …Le teste completamente rosse, questa tintura era del sangue/ Nero nelle uniformi e sul sentiero si effondeva…/ Sulle barelle, dalla testa ai piedi i soldati morti./ Nelle vetrine ci saranno reggiseni tricolori. Adesso la mosca del sole trascina le zampe nel vischio”. Nella prima poesia la tenerezza e lo strazio dei fanciulli crivellati ai muri e il sangue che cola dalle bandiere. Visi di cenere. Tutta l’angoscia per vite perdute al loro aprirsi, ma anche una speranza perché questi fanciulli sono i fiori in boccio per una vittoria e una vita futura che vincerà sulla morte. Nella seconda poesia c’è crudezza e una visione surrealista: una mosca di fuoco che dardeggia. Siamo come circondati da visioni orride e queste mosche, simboliche, incombenti, che hanno all’estremità punte di acciaio. Il nemico è visto nella sua miseria ma uccide. La mosca verrà schiacciata ma solo dopo il sacrificio dei soldati morti per la libertà. Ironia finale, i reggiseni tricolori nelle vetrine.

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La poesia di Seghers non è facile da assimilare. I contenuti trascendono le immagini. Per comprenderlo bisogna sentirsi patrioti e partecipi di una ricerca che viaggia nel tempo. “Stagioni in un volto dove scorre la vita nella sua follia?/ Stagioni in un viso…Nell’inverno dovrà donare al vento la sua cappa consunta…/” E come non pensare al passato?… “tempo trascorso nelle nuvole/ di amici morti o come se lo fossero…”. E ancora: “A che giova essere/ dovunque tu possa andare/ voler rivedere ogni foglia morta appassire?…” La morte nell’uomo, ma non meno triste di quella della foglia nell’autunno che simboleggia l’imminenza della fine. Può aiutare la preghiera: “Noi che viviamo con parole profonde/ che mutano di colore/ dal nero al rosso,/ dal verde al viola/ … Noi maghi con le nostre palle di cristallo/ …ci volgiamo al cielo ma in questa vita che fugge, quale certezza?/ Lasciateci essere, lasciateci essere il segno più puro”. Devo dire che alcune immagini surreali di Seghers mi affascinano come ad esempio in Epifania, l’inizio: “Quadrighe di cavalli/ protesi verso il sole/ sotto la nera matassa/ del sonno verso il sonno…” A mio modesto avviso la poesia va ascoltata e, percepirne il suono, è più importante della sua piena comprensione. Siamo di fronte a un ignoto che ci trascina in una veglia senza fine. Però il poeta trasmette anche speranza attraverso i doni della terra: “Quando noi rivedremo il grano battuto/ dalle mani dell’uomo/ quando vedremo brillare le tagliole nel sole/ quando i tre cavalli del futuro/ si proietteranno sull’area tersa/ allora noi accenderemo dei fuochi/ di collina in collina/ fuochi in ricordo del pane impastato/ di notte dei nostri fratelli/…” Cosa però resta del nostro sentire? “Coloro che contano i loro giorni ogni giorno/ sulle loro dita/ Sono questi che prediligono il silenzio”. Rimane regina la parola quando è ben usata. E la parola del poeta, nella sua autenticità, accompagna e può anche fugare la paura. Seghers continua ad essere molto attivo; anche dopo la fine della guerra scrive e pubblica canzoni.


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Nel 1955 con Gérard Philippe registra delle poesie di Paul Éluard e dice: “La canzone, io credo, è più naturalmente densa. È una attività dell’uomo più direttamente sensuale dove la parola, il canto, il movimento sono intimamente legati…” Unica linfa unisce poesia e canzone nel medesimo afflato. Tra i cantanti si ricordano Charles Aznavour, Guy Béart, Mouloudji e la canzone Voyou et la voyelle cantata da Juliette Greco. La vita di Seghers è un cammino ininterrotto verso varie mete: pittori, fotografi, editori, poeti, cantanti. In questo cammino la sua cordiale apertura e modestia. Ho avuto con lui una corrispondenza cordiale negli anni ‘80 che avrebbe dovuto concretizzarsi con mie traduzioni sulla sua poesia, interrotte dalla morte per cancro nel 1987 a Créteil. Non posso che ricordarlo con stima e affinità devota attraverso alcuni suoi versi: “Il silenzio dei mari che cullava i navigli/ Ha conosciuto i pesci volanti,/ E le mani che rubavano inutili parole/ facevano sibilare il vento… Il presente sprofondava nel fango delle acque residue./ Niente accadeva, l’acqua imputridiva, l’alba e la sera si erano legate alla notte polare… Si gettava il letame nei campi/ Non cresceva niente. Ma dei grandi stormi a forma di triangolo/ fendevano il cielo stridendo…”2 Anna Vincitorio Pierre Seghers, Le temps des merveilles – opera poetica – 1938-1978, Edizioni Seghers NOTE – 1 – Ambedue i poeti da me tradotti e pubblicati. 2 – Tutte le traduzioni del testo sono a cura di Anna Vincitorio.

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E il mio nero si è sparso macchiando la veste dei miei amori in lutto, la sua veste di lana e di Novembre. Lasciate che i miei morti dormano e marcire in pace gli agnelli perduti, In te nasce il tempo degli alberi che disperano neri nel freddo Presto il boscaiolo d’inverno, quello che porta la scure verrà e sbatterà in un troco del bosco morto. II Preghiera Dio mio lasciatemi in pace col mio dolore che diviene mio compagno E che io trovi almeno questo braccio dove posare la mia testa, Questo braccio simile al ramo morto marcio e che ferisce nella sua durezza. Mio Dio lasciatemi fuggire con questa compagna del mio profondo Con questi ferri dentro di me che mi straziano dilaniandomi, Ah, lasciatemi soffrire come un uomo di sangue e carne Non come un morto, freddo come pietra.

Il male di amare – pag. 41

Portate via da me le parole e i deliri che vi porgo Privatemi di questa virtù, questo coraggio amaro, il sorriso dal mio volto, l’incredulità che ostento Sradicate questa gioia della quale vi ringrazio che mi avete donato talvolta nel lavoro Versate nella mia testa vuota la sabbia delle vostre notti e degli anni Ma lasciatemi, mio Dio questo ramo imputridito

I segni

Un giorno stava per fiorire.

L’agnello d’oro ha infranto l’ultima coppa della mia gioia La grande nuvola lupo è sporca come la cenere

III Il mal d’amare Gli amori svaniscono come cascame di tiepido vento


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snodandosi, intrecciando le loro dita intorno ai muri Il vecchio villaggio è morto e dal sole che sanguina in me cola un sangue nero, il suo sangue si coagula nelle sue labbra; O ferita, sempre viva al mio fianco Quale amarezza schiuma sulla tua assenza Quale nuovo gemito lanciato si avvolge e danza Sul tuo cielo come un nastro di condannato su un fondo d’oro? Sarà l’amore o la sua ira d’amare, e i colpi degli arieti agli abissi sottomarini Faranno separare questa carcassa miserabile? È il fantasma del campanaro che accarezza la sua campana incrinata È il fantasma del pescatore che suona la sua campana da immersione È una vita che si sgancia. Dio l’aveva così mal fissata È un amore che si libera come il cielo col temporale È una tasca che si spacca, l’amore si fonde alla rabbia È un uomo, soltanto un uomo che ha mal d’amare. Il silenzio dei mari – pag. 39 Il silenzio dei mari che cullava i navigli Ha conosciuto i pesci volanti, E le mani che rubavano inutili parole Hanno fatto rumore con il vento. (facevano sibilare il vento) I poeti cantavano e Gomorra e Sodoma Si sarebbe detto dei guanti all’incontrario Gli uomini che partivano cadevano come mele Il loro cuore colmo di versi. La corrente trasportata da invisibili piloni

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Cantava la sua veemenza e il suo segreto, Il presente sprofondava nel fango delle acque residue. Niente accadeva, l’acqua imputridiva, l’alba e la sera si erano legate alla notte polare La terra girava sui nostri cuori Un marmista ripuliva una spalla di pietra E i fiori si mescolavano alle lacrime. I taglialegna tagliavano la foresta di collera Si gettava il letame nei campi Non cresceva niente. Ma dei grandi stormi a forma di triangolo Fendevano il cielo stridendo… I fanciulli erano grigi come il cemento Vicini con le scarne mani unite I vecchi frantumavano ogni speranza nella roccia Il pane mancava, il tempo scorreva I treni partivano, i fidanzati giocavano a vivere. Allo smacco si condannavano i morti E il paese viveva come nei libri, tra la rosa e la centaura. Gennaio ‘43 – in Poésie 43 – marzo 43 Incontro – pag. 34 Ci siamo incontrati come due bastoni incrociati gettati da dei ciechi. Pietre di un castello i cui villaggi prosperano Lamiere di un vascello affondato venduto come ferro vecchio

Nella mano di un giocoliere ci siamo riuniti il tempo per perdere la testa E poi, fantasmi di noi stessi, vaghiamo… Pierre Seghers


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Giugno 2021

NON CIRCOLA L’ARIA: I RACCONTI DI

DOMENICO DEFELICE di Gianni Antonio Palumbo

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N senso di stagnazione esistenziale che all’improvviso trova sbocco, un’ideale asfissia che cela il male di vivere è uno dei Leitmotive che percorrono la bella raccolta di racconti di Domenico Defelice, che – come giustamente ha evidenziato Sandro Gros-Pietro – appaiono figli di “un autobiografismo venato dall’immaginazione artistica”. Sono ventuno le storie di Non circola l’aria, edita dalla torinese Genesi nel 2020. Esse appaiono significativi tasselli di una partitura connotata dalla varietas, in cui non mancano il racconto epistolare (Una lettera di addio), all’interno del quale è incastonata l’icastica poesia dedicata a Crotone, o narrazioni che ammiccano all’autoironico memoriale (500, amore mio) e altre dall’allure più fiabesca (La fonte canora, Miracolo a Natale) o tra il fiabesco e l’agiografico moderno (Santa Prunella). Alcuni racconti si inscrivono nel solco di un realismo che affonda le sue matrici nello sguardo di Boccaccio all’eros (Non circola l’aria e, in maniera più sfumata, Fagiolini giallosé); in altri, quali il già citato Una lettera di addio, si avvertono atmosfere alla Volponi, accentuate da un senso di insofferenza che percorre parallelamente l’elegia di un amore infelice e la frustrazione al cospetto di un lavoro

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alienante, quale appare specialmente nelle sequenze del pastificio. Nel mondo di Defelice non v’è spazio solo per il realismo, perché motivi metafisici si fanno strada nelle maglie di alcune storie. Un ruolo significativo è rivestito dai sogni, ai quali l’autore sembra talora attribuire un contenuto che va ben oltre il puro valore di trascrizione onirica di desideri. Si pensi al primo racconto, Il pesce (g)rosso, che ci introduce in una Calabria popolata di figure espressionisticamente deformate, in un’aura perturbante accentuata dalla misteriosa contiguità tra l’incubo di Ernesto, giornalista scomodo, e la morte improvvisa del pesce rosso del suo acquario, figura di un altro analogo destino forse prossimo a compiersi. Ma tale elemento ricorre ancora in Un brutto sogno, laddove la coincidenza tra immagine onirica e sua concretizzazione nella realtà induce il protagonista a temere per la sorte del nipote Riccardo. Valore di inesplicabile rêverie sembra assumere anche l’atto della creazione artistica in Il mercante, nella sequenza – estremamente espressiva – che culmina nella raffigurazione “in dissolvenza” della modella Bruna, in una sorta di metamorfosi panica della donna in cui la parola gareggia con il medium pittorico. In altre narrazioni, è la storia a irrompere con la violenza delle bande naziste e la forza distruttrice dei bombardamenti. Anche in questi racconti, Defelice mostra di coniugare la levitas della sua scrittura (di cui la massima espressione sarà affidata però alla storia di Prunella), con la forza di un’ironia sempre pronta a evitare qualunque caduta nel patetico e con l’eleganza di un descrittivismo capace di rendere vivida ogni immagine. Profondo è il senso della natura e del paesaggio, sicuramente germinato dalla contemplazione degli scorci della campagna calabrese ispiratrice dei vari Strati e Seminara (per citare solo alcuni esempi), ma anche laziale. Tali scorci sono ammirati e restituiti con valori pittorici dalla penna dello scrittore. Sin dalle prime pagine, il lettore si lascia


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trasportare da immagini come “La pianura a grano era un mare d’oro in quel fine di giugno” o, successivamente, dal “Tevere schiumoso e gonfio, tra due argini di terra rossastra picchiettata d’alberi e acanto”. Molti altri esempi ancora si potrebbero addurre, ma il valore della spazialità conosce la sua declinazione più felice in In viaggio con Google, spunto originale in cui si annodano la Spoon River personale dell’io narrante, in una rievocazione del paesaggio di Anoia che rende compresenti i simulacri di un’infanzia e di un’adolescenza ormai lontane. La rappresentazione è dolceamara, ma ciò che rende più intenso il racconto è la discrasia tra il paesaggio artificialmente riprodotto dalla magia informatica di cui la giovane Clarissa diviene vestale e quello – inarrivabile – scolpito nella memoria del poeta. L’Eden è perduto: la contrada Baldes non è individuata dalle coordinate delle Street View. Nessuno strumento di antropica invenzione potrà mai eguagliare le più pure icone custodite nel cuore di un uomo. L’autobiografismo è vivido, affiora in più racconti in maniera scoperta e in altri si cela nelle maglie dell’inventio. A esso si connette l’idea che un’epoca sia ormai giunta alla fine; un che di funereo avvolge le figure rammemorate da Babel West, espressionisticamente deformate forse perché l’autore avverte che qualcosa sta morendo in questa nostra civiltà. Questa sensazione affiora in più circostanze, ma l’icona più emblematica di tale percezione è il rogo che il personaggio di Khalid contempla senza alcun barlume di pietas, in uno dei racconti più lucidi ed evocativi. Eppure, se anche Non circola l’aria, in quest’opera, contraddistinta da un pluristilismo che avvolge dall’anima aerea di Prunella al rutto di Khalid, non manca la speranza. Essa è affidata al messaggio che la diversità possa passare dall’essere percepita quale monstrum a spectaculum di gioia e anticonvenzionale bellezza (La signora Lilly e il racconto finale). È racchiusa nella contemplazione di una Natura meravigliosa, che trasforma il dolore in canto (La fonte canora) e, se congiunta alla fascinazione misteriosa della parola poetica o

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dell’immagine artistica, potrà restituire senso ai nostri giorni asfittici. Gianni Antonio Palumbo

È uscito in libreria, ma può essere acquistato anche su internet, il bel libro d’arte:

…Defelice (…) si accorge che nei volti delle comuni persone si disvelano quelli dei grandi personaggi del passato e dell’arte. Nella figura antica c’è nascosto il giovane: tutti gli uomini sono uguali, passano gli anni, ma rimangono quelli che sono. Tutto ciò perché Defelice ritiene che l’arte sia calata nella realtà, nella quotidianità, nelle azioni e nei gesti che sempre ci accompagnano. Difatti, gli artisti come Tripodi si lasciano ispirare dalla vita reale, dall’osservazione del volo degli uccelli o dalla lettura di grandi opere come la Divina Commedia poiché il mondo e le sue creature sono arte pura. Manuela Mazzola Da Il Pontino nuovo, 1/15 maggio 2021


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Giugno 2021

FRANCESCO D’EPISCOPO: LA MIA NAPOLI DEGLI OSSIMORI E DEI PARADOSSI di Elio Andriuoli N’altra pubblicazione di Francesco D’Episcopo riguardante la sua città prediletta, ha per tutolo La mia Napoli degli ossimori e dei paradossi (Edizioni Helicon nel 2020). In essa il nostro Autore riprende il suo dialogo ininterrotto con Napoli e lo fa servendosi di quella prosa raffinata e scorrevole che da sempre gli appartiene. Anche qui, come altrove, le osservazioni che D’Episcopo fa su Napoli sono quanto mai acute e pertinenti, riuscendo egli a penetrare come pochi lo spirito di questa città dai mille

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volti e dalle mille anime. Ne emerge una pittura molto efficace e appropriata del capoluogo campano, descritto con quello sguardo affettuoso e con quella sicura efficacia che ne rivelano l’anima. Ma ascoltiamolo: «Città di riflessi ammiccanti e maliosi, Napoli si afferma e si contraddice con sontuosa e superficiale baldanza»; «Napoli ama farsi attraversare solo da chi la conosce e la possiede ogni giorno come un’amante fedelmente infedele»; città dal «genio gratuito e irregolare», in cui avviene nei giorni lo «scialo esasperato del superfluo»; ecc. Dopo aver parlato di Napoli e dei sentimenti che questa città suscita nel suo animo, D’Episcopo ci parla della sua famiglia paterna, che viveva a Napoli da parecchie generazioni e ne aveva assorbito lo spirito. La sua narrazione va pertanto indietro nel tempo, soffermandosi dapprima sul nonno paterno il quale, «dopo avere, da buon napoletano, varie volte traslocato … aveva finalmente trovato pace con i suoi a Largo Avellino». Qui D’Episcopo ci descrive l’alloggio e le abitudini dei suoi abitanti, presentandoci nonno Francesco “alto e signorile” e nonna Ida; zia Antonietta, morta in giovane età, e specialmente il padre, attaccatissimo a Napoli, ma occupato a Casacalenda come Ufficiale Giudiziario. Di costoro D’Episcopo esalta l’arte della conversazione e il piacere di stare insieme, per comunicare i propri pensieri e godere del calore umano. «La nostra casa era sempre piena di gente, di parenti, amici, ma anche conoscenti, che, quando avevano tempo, amavano praticare quella civile conversazione che animava e arricchiva la loro vita». Così, parlando del padre, egli può dire: «Ci ha lasciato una grande eredità: quella del parlare, del comunicare, del raccontare, del vivere la vita come una quotidiana opera d’arte»; un’arte che praticava poi in ogni momento del giorno. Del resto Napoli – come ci dice D’Episcopo – è una città che trova le sue origini nella Magna Grecia, della cui cultura è figlia. Si comprende pertanto il suo amore per la dialettica, che si può far risalire a Parmenide, “il filosofo


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dell’Essere”, che fu maestro dell’arte della dialettica. «Parlare con un napoletano, anche se per breve tempo, in un bus o in un tram, significa ritrovare questa vocazione al pensiero, che si fa spesso poesia, in parole, apparentemente buttate lì per caso, ma che rivelano invece una saggezza antica, un pensiero poetante, che si rinnova occasionalmente ogni giorno, conservando una sua patina eterna». Né si deve dimenticare che a Napoli nacque Giambattista Vico, «genio incompreso in una città in cui il genio è paradossalmente di casa». Ma Napoli è anche “la città dei paradossi”, come afferma D’Episcopo, il quale riporta a tale proposito le parole pronunciate da Alessandro Siani, a Roma, sul palco del Foro Italico nel luglio del 2013, dove disse tra l’altro: «… Napoli è l’amarezza squarciata da un sorriso che appare sul viso di un bambino come un arcobaleno dopo una pioggia di lacrime». D’Episcopo soggiunge: «Napoli è “mille colori”, come disse il sempre rimpianto cantante Pino Daniele, ma anche buio, nero della morte, che si cerca di esorcizzare con tutti i sospiri e i sussurri della vita». Per D’Episcopo Napoli è però una città non solo di ossimori, ma anche «di paradossi impossibili in altri luoghi», dove chi la abita ha «per la strada [la] sua unica e vera casa»; una città nella quale possono accadere cose del tutto inimmaginabili, di cui il nostro autore è stato anche protagonista, come è della «tendenza, tutta napoletana, a scomparire»: cosa che a lui accadde allorché era ancora un ragazzo, un giorno che si era trovato col padre, nel Molise, terra della madre di D’Episcopo. Quel giorno il padre, avendo ricevuto l’invito di andare a pescare e poco dopo quello di partecipare alla festa della trebbiatura, accettò prima l’uno e poi l’altro invito, incaricando un amico di avvisare la sua famiglia del prolungato ritardo. La serata fu indimenticabile. Venne trascorsa da lui e dal padre tra balli e canti e terminò con un sonno ristoratore, in un grande letto della masseria. L’amico però aveva dimenticato di avvisare la madre della prolun-

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gata assenza del rispettivo marito e figlio, sicché la povera donna, credendo che fosse accaduta una disgrazia, era in preda a una profonda disperazione. Al loro ritorno, il padre, interrogato sull’accaduto, «se ne uscì con una battuta indimenticabile e tipicamente napoletana: “Io sono un uomo libero”». Per lui infatti era una cosa naturale «scomparire … per riapparire [poi] più vivo di prima, come se non fosse successo niente». Nel raccontare questi episodi della sua vita la penna di D’Episcopo si fa lieve e scorre veloce sulla pagina, con il suo periodare franco e ricco di umori, che rispecchia l’anima napoletana, Ne scaturisce una perfetta simbiosi tra lo scrittore e la sua città, che egli descrive con la bravura dell’artista innamorato dell’oggetto della sua arte, che da sempre vagheggia e che pure offre un’inesauribile materia al suo dire. Elio Andriuoli

COMUNIONE DI ANIME Il tuo pensiero che non mi abbandona oggi sei tu che sento farti presente a me non più nel sogno ma al mio fianco mentre cammino per la strada verso casa. E al mio rientro sento che insieme a me anche tu sei rientrato e qui presente resti con me, per protezione o semplice compagnia. E’ forse questa quella corrispondenza di amorosi sensi che ci riunisce anche se ci troviamo in due mondi diversi. E certamente è questa la comunione dei santi: noi qui in terra uniti a voi lassù con la preghiera. Mariagina Bonciani Milano


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Giugno 2021

IMPERIA TOGNACCI LE OMBRE DELLA SOFFERENZA di Salvatore D’Ambrosio

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ER la Genesi Editrice di Torino è uscita, datata febbraio 2021, la seconda edizione del poemetto “ Il prigioniero di Ushuaia”, della scrittrice e poetessa Imperia Tognacci. Il poemetto vinse nel 2008 il premio Penisola Sorrentina, ed ebbe nel medesimo anno la sua prima edizione per la editrice Spring di Caserta. Il lavoro della Tognacci si snoda attraverso la composizione di venti componimenti, mediamente di 25 versi. L’ispirazione, la voglia di raccontare una vita, direi la sua vita, le sue angosce, i suoi pensieri, le sue delusioni, hanno avuto l’aire dalla lettura, dall’incontro, forse uno di quelli fulminanti, con i versi di uno sconosciuto prigioniero della colonia penale argentina di Ushuaia. Cosa è Ushuaia? Per oltre cento anni, dal 1884 al 1994, nella città argentina di Ushuaia

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vi è stata una colonia penale che raccoglieva prigionieri politici, delinquenti comuni, veri assassini, un “rifiuto” diremo oggi dell’umanità. Il testo a cui la Tognacci si è ispirata, è riportato nel volume con la traduzione di Marcello Salazar. In pochi versi, quattordici in tutto, vi è il riconoscimento del prigioniero delle sue colpe di assassino, un’autoaccusa dei suoi misfatti, quasi in una veste catartica. Parte, dunque, la narrazione poetica della Tognacci, ed è la coscienza di un’umanità disperata che è consapevole di essersi auto imprigionata in un inferno o in un paradiso, da cui però non riuscirà mai più ad uscire. Esiste una volontà fortissima di resistenza comunque, che è surrogata dalla consapevolezza che verrà un giorno in cui la storia, per fatto naturale di cose, ne coprirà per sempre la memoria. Ogni fatto o misfatto si perderà, così, nel nulla esistenziale. In questa attesa, però, siamo tutti galeotti, prigionieri della nostra esistenza. Siamo tutti anche, ci dice la poetessa, alla ricerca però di una terra lontana, pulita, isolata, dove ritrovarsi per sentire la nostra anima. Come si è tutti, anche, alla ricerca di un metaforico fuoco purificatore. Ma che, soprattutto, sia fuoco di verità. La quale vista dalla parte di un prigioniero assassino, certamente non può collimare con quella di chi si trova dalla parte opposta. Ma poi chi è da una parte e chi dall’altra? Quando il mio essere prigioniero/ tra mura di carne si agita e grida,/non può bastarmi, madre,/ il trascinarsi di gesti/entro l’orlatura del domestico campo. Ecco è il primo grido della poetessa. La prima verità di “ingiallite parole”, che cadono spesso nel silenzio di un “freddo” non cercato, di una noia non voluta ma subita. Anche se non c’è indifferenza o reazione negativa verso l’inquietudine dei giorni. L’uomo, dice la Tognacci, è lungo un sentiero scavato dai suoi stessi passi, che a volte sono bloccati, fermati dagli insuccessi, o dalla incapacità di dimenticare la propria origine di fango.


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Il prigioniero della Tognacci siamo noi, che sbarra dopo sbarra ci rinchiudiamo. Tutto il creato ne rimane fuori, anche se bellissimo. Le molteplicità delle umane inquietudini, se non ci forniamo di uno “scudo” resistente, ci tolgono giorno a giorno, anche quel poco di roseo che illusoriamente pensiamo di avere conquistato. Lo scudo, che sono la temperanza, la resilienza, il perdono, il riscatto dal fango primordiale, deve essere tale da non nasconderci, ma essere, semmai, l’apripista verso la verità. La quale, una volta riconosciuta, ci rende liberi e consapevoli nel bene e nel male. C’è anche una denuncia delle umane vanità: E noi, da sempre prigionieri/ in tane, grotte, dimore,/doppiamente prigionieri/quanto più in esse ci rintaniamo. Il possesso di beni materiali, dice la poetessa, non sono nulla nei confronti dei doni della natura; quella natura Terra a cui un giorno tutti si ritornerà. Tornerò, si, tornerò alla mia/ terra, ai biondi granai, ai filari impreziositi/da grappoli dorati,/ al tiepido pulsare di linfe/tra aromi e fragranze di zagare/ e di limoni fioriti. Ecco il riscatto, dice, può arrivare solo attraverso la natura e il suo rispetto consapevole, altrimenti per l’umanità non ci sarà futuro. Molti temi di attualità, e non metafore, sono presenti in questo poemetto, denunciati anzi tempo dalla Tognacci: Non lontano, sorda, la voce/ del ghiacciaio si ode,/ mentre parti di sé/ al lago abbandona … Noto anche la presenza costante del riferimento all’acqua, nostra prima e principale materia che ci appartiene: Il grido ansioso dell’acqua sonora. E la sua immensa bellezza quando si fa concreta e più visiva, diventando ghiaccio. Il prigioniero di Ushuaia (cioè noi) vaga nella terra che lo tiene prigioniero, fantastica una improbabile evasione, ma sa che non è così: la terra che lo trattiene è impervia, lontana, piene di insidie. Regna sovrano il gelo e il freddo, non solo meteorologico ma anche dell’animo. Nel quale esiste un infinito, oltre a quello che si apre dalle scogliere alla sua vista, che è il più

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difficoltoso da comprendere per poterlo colmare. Interessantissimo verseggiare, a mio avviso, che Sandro Gros-Pietro chiama simbolista, non a torto. Ma ci sono versi nuovi, di grande effetto musicale e gnoseologico. Densità e concentrazioni di tematiche nel poco spazio di venti o trenta versi. La Tognacci fa poesia “civile”, d’impegno, di invocazione, quasi di preghiera all’umanità di ritrovarsi, di non essere acqua che ristagna. Richiamandoci a ricordare che c’è, sotto le foglie marcite/ ed erba morta, il segreto spazio della vita. Che il fango dal quale fummo elevati a carne, non ci appartiene. Il dono dello spirito e dell’arbitrio ci hanno fatti di altra sostanza. Poesia fluida, che stimola la lettura, la riflessione e l’ispirazione. Un poemetto che è, come ebbe a scrivere, Mario Esposito, nella motivazione del premio assegnatole,“… il dramma della sofferenza e della condizione umana …” Un ‘altra caratteristica del volumetto, di non poco conto, la traduzione a fronte in lingua spagnola, che non è solo una “furbata” editoriale, ma è un filo che vuole legare il passato dell’anonimo prigioniero con l’oggi. Rendendo la cosa a noi, estremamente vicina. Salvatore D’Ambrosio IMPERIA TOGNACCI, IL PRIGIONIERO DI USHUAIA, Genesi Editrice Torino - Febb. 2021

ANCORA IL CIELO Stagioni tristi ovunque, trascorse tra paure e indecisioni. Ci arride la speranza di nuove prodigiose primavere. Non è vietato il sogno: un raggio che ci illumina la strada. Guardiamo ancora il cielo che sa donarci i suoi splendenti azzurri. Elisabetta Di Iaconi Roma


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L’urto della sensibilità (2019) e Gli idoli sbagliati (2020):

LA POESIA DEL VENEZIANO ALBERTO BARINA di Lorenzo Spurio

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O letto recentemente le due opere poetiche dell’autore veneziano Alberto Barina, sillogi di poesia edite da PlaceBook Publishing, e l’impressione che ho avuto è stata quella di un autore originale, in completo movimento, abile nel destreggiarsi con la materia poetica impossibile da catalogare o far confluire in uno stile specifico dal momento che i linguaggi e gli approcci da lui impiegati, nel corso dei due volumi, sono diversificati. Questo è di per sé un fatto importante e mette in luce quella spinta creativa che fa seguito a una dote ispirativa che porta il Nostro a testimoniare sulla carta il suo vissuto. Il suo è un fluire istantaneo e in questa spontaneità si apprezza in particolar modo l’aspetto epidermico della poesia, da intendere non tanto come una parvenza di sembianza difficile da indagare e narrare ma, al contrario, la capacità intrinseca del Nostro di saper trasmettere nel lettore immagini – e diremmo in senso più generale, contenuti – che sentiamo a noi

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prossimi, non così lontani da un sentire comune, dettati – come si è già osservato – da una lucidità di giudizio ma anche da una ricerca spasmodica nei recessi dell’interiorità, nelle tracce spesso inestricabili dell’io. Non è da nascondere che la copertina del primo volume, L’urto della sensibilità (2019), inquieta chi si approccia a leggere questo libro. L’immagine “Palpitatio”, fotografia digitale di Ernesto Romano, ritrae una radiografia del torace superiore, ben evidente è la cassa toracica e l’organo cardiaco dal quale diparte un alone di colore rossastro; guardandola meglio viene, però, da chiedersi se effettivamente l’idea dell’autore fosse quella di veicolare un’immagine perturbante o se – al contrario – avesse voluto rimandare a qualcosa d’altro. Sembra, infatti, di percepire, seppur in forma lievemente sfumata, la presenza di un Anthurium. Sta di fatto che un’immagine del genere posta su un fondo nero genera un certo disturbo – non parlerei di vero shock – qualcosa che, approcciandoci a un libro di poesia, intuitivamente non ci aspetteremmo. Ed è proprio in questo scenario di stupore che credo debba essere collocata l’opera di Barina; d’altro canto il titolo stesso è rivelatore di un qualcosa che si manifesta in chiave distruttiva e tonante. Si parla proprio di urto: termine che ci dà l’idea di un’azione violenta – determinata o meno dall’uomo non siamo in grado d’indicarlo – che ha, quale prodotto o conseguenza, una condizione frantumata, una dissipazione, una partizione dell’entità e, comunque sia, porta con sé i segni di uno sconquassamento, di uno scuotimento. Aprendo il volume alcuni componimenti – più di altri – come sempre avviene, hanno destato la mia attenzione. Parlo ad esempio di “La poesia non serve a niente”, rivelatore, forse, di una riflessione non facile attorno alla questione endemica della validità e del significato non solo della poesia ma, per estensione, della letteratura in quel dibattito antico quanto aspro che ha visto scontrarsi scienze umane e scienze matematiche. Il verso-capostipite del titolo è anche il ricorrente mantra che arzigo-


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gola la poesia, richiamando quella chiosa o intercalare frequente del genitore che, approcciandosi alla materia fumosa del figlio – la poesia – non riusciva che a esprimerne un giudizio scostante e negativo. Ecco, di qui sembra partire, in qualche modo la genesi poetica di Barina, ritrovarsi il fondamento di quelle ragioni multiple e frastagliate che hanno permesso all’autore di sentirsi “chiamato”, quasi come da un Dio rivelato, da un’entità invisibile alla quale non si può opporre un rifiuto, una procrastinazione di comparsa, un’elusione. È la chiamata autentica del Verbo di cui molto parlò Neruda che giunse anche a sentire con mano l’intelaiatura del verso. Barina descrive l’esigenza della poesia, del trasporre su carta il proprio sentire – spesso tormentato – quale presa d’atto di un evento magmatico, introiettivo, tellurico, traumatico quanto epifanico, che ben concettualizza ne “l’urto della sensibilità”. In queste liriche Barina riflette anche sul nuovo mondo digitale e informatizzato che – in questo tempo di pandemia – sembra essere divenuto la norma, quasi che la Second life una volta proiezione del giocatore in quanto uomo, sia diventata realtà in un universo specchiato che è il monitor del computer: in “Spoglie digitali” leggiamo in maniera incontrovertibile: “ogni giorno / mi dissocio dai social” (20). Le note ai testi che Barina ha inteso inserire a corredo, nella parte finale del suo libro, risultano senz’altro utili per poter contestualizzare meglio i suoi testi, incanalarli nella giusta pista interpretativa. Le sue brevi ma utili didascalie ci consentono in tal modo di apprezzare ancor meglio alcuni testi, quale ad esempio “Uno chiunque” il cui incipit risulta particolarmente disturbante – entrando nel vivo, come in medias res – di un narrato: “È Stato morto un ragazzo” (24). L’atipicità della costruzione – e l’apparente incongruenza grammaticale – viene subito smitizzata dalla presenza della maiuscola nella parola stato che sta a riferirsi non tanto a un participio passato dell’ausiliare

quanto alla definizione geografica, geopolitica, di un paese. Questo testo è stato ispirato dall’amara vicenda di Federico Aldovrandi, giovane ferrarese che nel 2005, a seguito di un controllo di Polizia, venne fatto oggetto di violenze e trovò la morte animando quel Caso Aldovrandi di cui si parlò molto, anche con varie piste e depistaggi. Barina è rimasto suggestionato dalle vicissitudini occorse al giovane probabilmente dopo essersi documentato ed edotto sulla sua storia per mezzo di un documentario a sfondo biografico e sociale per la regia di Filippo Vendemmiati che venne diffuso nel 2010. La poesia di Barina prende via vie pieghe diverse, è una poesia “al presente” come è stato detto da Mario Saccomanno1 ma non disdegna neppure di fare incursione in un passato che veste come la pelle più preziosa. Ciò è evidente in liriche come “Venezia” dove, assertivo, scrive: “Sono abitato dal simulacro dei ricordi” (38). La memoria, però, non risale automatica, per associazione di idee e secondo una modalità suasiva ed efficace; al contrario essa appare smagata, quale parvenza e possibilità, ce ne rendiamo conto dal fatto che essa è rievocata non tanto quale immagine di quel che fu, ma quale simulacro, una sorta di riflesso mendace, un surrogato. Drammatico e passionale al contempo è il tentativo di dialogo con la madre in “Il pane e l’acqua” dove, a partire dalla seconda strofa leggiamo: “Sono sensibile al mondo, / a questo buio raffermo e vero, / al germe di tutte le cose / rimaste da dire. // Tu sai le storie degli occhi, / che come stelle / si preparano all’imbrunire” (44). Non vanno dimenticati i leggeri sorvoli – oltre al Caso Aldovrandi – su alcuni episodi della cronaca che Barina poetizza per mezzo della sua lettura animica e compartecipe; sono poesie che, pur predisponendosi a un’intenzione civile, mossa cioè da quel desiderio di comunicare e denunciare senza condizioni, mantengono un tono per lo più pacificato, retto da un linguaggio parco, offerto con semplicità,

1 MARIO SACCOMANNO, “Il bisogno di transitare incessantemente sul presente”, Introduzione a

ALBERTO BARINA, Gli idoli sbagliati, PlaceBook Publishing, Rieti, 2020, pp. 3-13.


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tal volta addirittura reso con un piglio trafelato, sottaciuto, silenziato dal tanto caos che d’intorno arreca dolore non solo alle orecchie ma anche agli occhi, in quella che definisce la “dittatura quotidiana di una metropoli” (33). Nella seconda raccolta poetica di Alberto Barina, Gli idoli sbagliati (2020), troviamo una “coda” nella parte conclusiva che ricade sotto il titolo di “Epitaffi”, anticipata da una chiosa tratta dal repertorio del cantautore Juri Camisasca, che si compone di quattro poesie. La prima, “Epitaffio contemporaneo per esseri umani (possibilmente italiani)” con un linguaggio sincretico e apertamente postmoderno che usufruisce della tecnica del collage e della didascalia significativa, ci parla dell’automazione dell’uomo d’oggi, della sua dipendenza tecnologica e della penuria di genuinità: “Nascono / dall’App per prenotare / un cespo di insalata / dalle slot machine / degli amori e delle condoglianze / vissuti on-line / dal linguaggio alieno / […] / dagli smiles e dai pollici opinabili dal consenso / […] / dal narcotrafficante meccanismo reality” (50). Un componimento nevralgico, che si discosta dai tanti altri di Barina, che non fa venire meno la volontà di distanziarsi dall’agorà illusoria che la comunità è diventata. L’autore parla di servilismo dell’ordinario, di meccanizzazione delle abitudini, di dittatura del virtuale dove vengono a emergere l’insignificatezza del gesto, il facile consumo, la serialità dei comportamenti, la depersonalizzazione, il logorio emozionale. Nella poesia “Due esempi” il retroterra del componimento è fornito dalla cronaca dei nostri giorni: un episodio di rapimento, violenza e stupro dal quale non vi è stato scampo: “qualcuno / [le] ritroverà sepolte in un casolare” (54). Qui l’intento non è tanto quello di trasfondere in poesia la spicciola cronaca nera dei nostri giorni quanto, invece, rivendicare il diritto all’equa giustizia: alla necessità di una condanna certa e immodificabile per chi si macchia di reati contro la vita. La prospettiva democratica è in qualche modo già fornita dalla citazione in esergo – tratta dal brano musicale “Tempo di virgole” di Marcello Murru – dove è possibile leggere: “Nell’Italia degli

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equivoci / che storpia il nome degli indifesi / in un tempo di virgole / assolve i colpevoli e divora i più deboli…”. Nella poesia “Cronaca di paese” Barina affresca con tinte minimali, evitando tentativi di facile commiserazione, una realtà nota a tutti: quella di pakistani e indiani che nei periodi estivi, di sera, entrano nei ristoranti e, con mazzi di rose, cercano di convincere gli avventori dei locali per acquistare una o più rose da donare alle rispettive compagne. “Sono rose di colore, / rose del Bangladesh, / i fiori del rifiuto / quelli che ai tavoli del ristorante / con un gesto di diniego / vengono allontanati / spesso / senza dire una parola”. La situazione – e la relativa scena – capitata almeno una volta nella vita a ciascuno di noi è degna di considerazione e di riflessione, in relazione non solo ai motivi di inter-cultura e d’immigrazione (sempre attuali), ma soprattutto in virtù del nostro rapporto con l’altro, delle forme comunicative, d’approccio e di raffronto con chi è costretto a compiere – quel che per altri è un mero disturbo – solamente perché lotta in difesa della vita. Una considerazione particolareggiata la meritano alcuni testi di Barina – che si trovano in entrambi i volumi – che sorgono da motivi testimoniali e commemorativi nei quali l’io lirico dialoga direttamente con alcuni grandi classici della nostra letteratura nazionale, assorbendo le peculiarità della loro scrittura, i contesti abitativi e ambientali, le problematiche, condividendo gli stati di disagio, il loro respiro e l’attitudine che poi li ha resi non solo celebri ma ineguagliabili. Mi riferisco qui alle poesie dedicate ad Alda Merini, ad Antonia Pozzi e a Pier Luigi Cappello, esponenti poetici molto amati e di ampia diffusione, per ragioni di vario tipo. Se si dovesse, infatti, fare il nome di quella che si considera la voce poetica femminile più importante dell’ultimo cinquantennio con grande probabilità sarebbe senz’altro quella dell’originale Merini mentre il nome della Pozzi – il cui studio e approfondimento nelle ultime decadi si è sviluppato profondamente – sembra aderire più a una preferenza se non di nicchia senz’altro all’interno di un


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mondo propriamente di letterati. Sono, in entrambi i casi, poetesse le cui voci sono distintive e particolareggiate, dettate dal tormento e dall’ansia del loro periodo ma ricche soprattutto di pagine di profondo amore per la vita. Il caso di Pier Luigi Cappello, invece, al quale Barina si riferisce nei termini di “Principe” è leggermente diverso (sebbene condivida con la Pozzi il fascino e l’attaccamento per le montagne), vuoi per motivi biografici, vuoi per l’adesione a una poetica umbratile intrisa di dolore, i cui acmi sono probabilmente riscontrabili nella produzione in friulano. Sono, comunque, poeti del dolore, uomini e donne che hanno affrontato la vita pur nelle intemperie umorali e problematiche sociali di un’esistenza segnata dalla malattia2: tanto mentale quanto fisica. In L’urto della sensibilità è contenuta la poesia ““P” di principe” dedicata a Cappello nella quale è possibile leggere: “[T]utto quello che sei stato, / grafite e corolla, / sigillo / in questi anni, in cui la Poesia si scortica / e poco, davvero, si ascolta. // Io, t’immagino lì / al tuo paese / ancestrale di resina e nuvole” (29). Delicato e affettuoso è il ricamo in versi che Barina costruisce e dedica a questo poeta sofferente e sfortunato, amico dei cirri, intelligente valvola canora delle sue amate montagne. Ad Alda Merini, la nota poetessa dei Navigli, sono dedicate due liriche: “Come una sirena” e “Il cartomante di Alda”; dalla prima estraggo i versi della seconda strofa che mi sembrano particolarmente significativi: “Non posso ascoltare la tua voce / perché solleva la polvere / e mi ricorda di essere arbusto fragile / aggrappato alle attese della vita” (47); dalla seconda, invece, risalta in primo piano la ri-

flessione di Barina in relazione all’atto poetico: “I poeti / sono già martoriati su questa terra, / non abbisognano della scorza dell’eden” (48) a dire come il poeta non sia un essere alato o un profeta di verità intrasmissibili ma uomo tra le genti, anima solidale e partecipe alle vicende e alle problematiche dei suoi simili. Da Gli idoli sbagliati estraggo, invece, il testo dedicato all’autrice di Parole, componimento che è posto in apertura del volume. S’intitola “Rododendro” con l’esplicita dedica alla Pozzi. Si tratta probabilmente del miglior testo di Barina da me letto fino ad oggi. Qui, dopo una prima strofa tesa a fornire un contorno vivido quanto fedele del contesto pozziano tra natura e ossessione amorosa, la lirica prende la forma di una riflessione sulla poesia. L’immagine del “rododendro impaziente” richiama direttamente quell’ecosistema della Bassa Grigna così evocato dalla donna e presente nel suo carteggio (sempre, in qualche modo, collegato al tema della morte). Dalle pagine del suo Diario – con riferimento alla data dieci settembre 1937 – possiamo leggere: “Ho visto un pezzo di prato libero che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone e vi piantassero ogni anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna. Pensare di essere sepolta qui non è nemmeno morire, è un tornare alle radici. Ogni giorno le sento più tenaci dentro di me. Le mie mamme montagne”. Altra occorrenza a questa particolare pianta delle Ericacee appariva nel testamento originale vergato nel 1938, poi distrutto (o non ritrovato) e ricostruito in seguito dal padre, l’avvocato Pozzi. Qui si leggeva: “Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della

2 Oltre al disturbo ben noto a livello psichiatrico della Merini e alla malattia seriamente invalidante di Cappello che lo costrinse su una sedia a rotelle e a una morte ancora in giovane età, per estensione mi riferisco alla malattia – quale stato patologico – anche nella Pozzi con l’accezione, in quest’ultimo caso, di vulnerabilità psichica e di delirio emotivo che secondo alcuni la condussero a un vero e proprio esaurimento. Questo, nonostante il

necrologio redatto dalla famiglia parlasse di “serissima malattia”, mai diversamente nominata da lei nel corso della sua corrispondenza e, soprattutto – a quanto sembra – mai diagnosticata. Definizione, quella del necrologio, dettata dal desiderio di copertura dei reali fatti intercorsi, ovvero dell’azione suicidaria della giovane poetessa, motivo di discredito per la rinomata famiglia lombarda.


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Grigna, fra i cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace”. L’occasione di questo componimento è utile a Barina per riflettere anche su ciò che resta di un poeta una volta che il suo corpo se ne è andato e ci parla di questo passaggio reso testamento con la parola scritta nei termini di un trasvolo, di un transito. Questa poesia, fondata su versi volutamente scarni ben atti ad alludere note poesie della Pozzi, parlano della donna quale anima presente, sorgiva e permanente nelle manifestazioni del Creato: “I poeti come te / incarnano, / mietono il cielo, / transitano come nomadi / sulle sabbie, in silenzio, / verso le città dell’infinito” (17). Per concludere mi sembra opportuno riferirmi ad alcune considerazioni espresse dallo stesso autore nel suo libro L’urto della sensibilità dove scrive: “La poesia denuda, / strappa il velo, / stordisce di luce viva e libera” (50). Questo, oltre a farmi pensare nuovamente alla poetessa di Pasturo alla quale Barina ha dedicato un componimento che molto spesso parlò della poesia in termini di nudità, richiama vistosamente l’esigenza del poeta di rivelare la sua interiorità, senza remore o pericoli di pregiudizi. Questo mettersi a nudo, che in realtà è un saper auscultare la propria interiorità, è ben esplicitato dalla copertina stessa del volume, di cui si è parlato, che fornisce un’immagine di una radiografia, intenta nello scandaglio interiore dell’umano. Una perlustrazione che, però, indaga il mondo della concretezza, degli organi, dei tessuti e della stratificazione venosa, diversamente dal dire della Poesia che spesso è un non-dire ma un evocare e che nei versi trova la sua approssimazione. Lorenzo Spurio Jesi, 07/03/2021 IL FUOCO DELL‘ETNA! Quanti ricordi si affollano nella mia mente, sembra il vulcano dell’Etna in eruzione, e tra le fiamme brucia il mio cuore. Sicilia bella,

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col profumo dell’Etna ti sono vicina, bellissimo e indimenticabile è passeggiare tra le tue nere orme, tra i tuoi maestosi crateri, visitare i tuoi negozi colmi di sorprese, il tuo ristorante meraviglioso, bruciando di infinite emozioni. Sono tanto, tanto lontana, vivo in un’altra isola bella, grandiosa, maestosa, splendente: l’Australia! Ma non è bella come te Sicilia mia! Ti tengo stretta al cuore e ti sogno continuamente, sono felice di essere tua figlia e con te brindo alla nostra gioia insieme ai miei figli, ai miei nipoti e ai miei dolcissimi pronipoti. Siamo tutti figli tuoi e per sempre ti stringiamo forte forte al cuore! Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S)

Un libro da leggere e da regalare:

…È un libro piacevole, ironico e che fa riflettere su tante vicende umane: la sua lettura risulta particolarmente adatta specialmente durante questo periodo di angoscia funestato dalla pandemia di Covid-19”. Giuseppe Giorgioli Il Pontino nuovo, 16/31 marzo 2021

Genesi Editrice – via Nuoro 3 – 10137 Torino – genesi@genesi.org; http://www.genesi.org – Pagine 210, € 12,00


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DOMENICO DEFELICE NON CIRCOLA L’ARIA di Antonio Crecchia

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ALLA rivista on-line Pomezia-Notizie di gennaio scorso, ho appreso la notizia della pubblicazione, per i tipi dell’Editrice Genesi di Torino, nella collana “Le scommesse”, del libro di racconti NON CIRCOLA L’ARIA; autore Domenico Defelice, del quale stavo recensendo un’ampia monografia sul pittore romano Antonio Tripoli, anch’essa pubblicata di recente. Ne chiedo copia all’Editore Sandro Gros-Pietro, il quale me la fa pervenire celermente. Sono totalmente impelagato in altre recensioni, ma trovo ugualmente il tempo per leggere i ventuno racconti che compongono il libro, alcuni, in verità, già letti in passato sulla rivista sopra nominata, diretta da Defelice. L’impressione di lettura è ampiamente positiva. Defelice non è una “promessa”; è un autore affermato e noto a un vasto pubblico. Le sue opere si leggono anche all’estero, essendo state tradotte in varie lingue. Scrittore (ma anche poeta, saggista, pittore) navigato, maturo, meticolosamente attendo ad imbastire un discorso credibile e godibile anche da parte dei giovanissimi, appare da subito un modellatore di storie spesso riconducibili a momenti di vita vissuta; momenti remoti, che tracciano il suo percorso formativo, l’insorgenza delle sue idealità libertarie, l’ostinazione a combattere ataviche forme di violenza, radicate in aree depresse del Meridione e variamente denominate ma con identico obiettivo: tormentare gli onesti e vivere disonestamente alle loro spalle. La tecnica di questi “vili” e viscidi serpenti è documentata

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già nel primo racconto, dal titolo “Il pesce (g)rosso” (chiara allusione a chi vive con l’arroganza e la prepotenza del delinquente che prospera sulle fatiche altrui), in cui il giornalista Ernesto, per aver scritto sul suo giornale articoli contro la delinquenza organizzata, mette a rischio la propria vita. Scoppiettante il finale, che rende giustizia sia a Ernesto sia al maresciallo Pellegrino, il quale, sgominando la banda e eliminando il capo responsabile dell’assassinio del padre e di altri crimini, riafferma la presenza e la forza della Giustizia, anche laddove vige più la legge delle organizzazioni malavitose che l’autorità dello Stato. Nell’abbondanza dei riferimenti autobiografici, emerge a poco a poco la figura umana dello scrittore, con i suoi caratteri fisici e morali, tendenze comportamentali e disposizioni culturali, da cui traspare la tensione a costruirsi un sicuro avvenire, di nobilitarsi attraverso il lavoro, di accettare e superare gli immancabili drammi della vita di relazione. Attraverso un intenso lavorio di scavo nella memoria, in una irrefrenabile ricerca e rivisitazione di amori, tenerezze e affetti vissuti accanto a donne che hanno segnato momenti felici della sua vita giovanile, mette a nudo la sua natura sentimentale, la disposizione a ben figurare nelle relazioni con il gentil sesso. Nella felice condizione di raccontarsi, propone in lettura le tragiche esperienze vissute nell’estate del 1943, durante il passaggio dei Tedeschi in fuga verso il Nord sotto l’incalzare delle armate anglo/americane. Alla varietà dei temi e argomenti s’accompagna la giusta adozione dello stile: specchio di un’anima riflessiva e partecipativa all’intreccio della vicenda narrata, con ricchezza di dettagli e particolari, sobrietà, raffinatezza e proprietà di linguaggio. Impossibile parlare di tutti i ventuno racconti in sede recensiva; tutti assolutamente degni di lettura, anche per il fatto che non hanno né la manifesta intenzione di erudire né sottintendono richiami a concezioni intellettualistiche di stampo ideologico, ma presentati come esempi di buona e appassionante scrittura, quasi del tutta incentrata su fatti veri. Tra le sue


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qualità descrittive e rappresentative dei personaggi spicca quella di “ritrattista” delle singole fisionomie umane e animali, evidenziandone minuziosamente i tratti fisici, qualità e difetti, abbigliamento, caratteristiche umane, morali e culturali, svelandone, laddove lo ritiene necessario, le istanze psicologiche che governano i loro comportamenti nel contesto delle relazioni interpersonali. La dimensione umana, basata su sentimenti generosi, di alto contenuto etico, trova la sua migliore espressione in quei racconti dove il problema conflittuale dell’individuo richiede una soluzione che elimini ansie e infelicità psichica. Nel racconto “La signora Lilly”, Defelice apre uno spiraglio sulla possibilità dell’ideale sociale che si realizza nell’armonico equilibrio tra il singolo e la collettività, dando spazio alla “comunicazione”, alla comprensione, al confronto simpatetico: attitudini in grado di rimuovere diffidenze, incomprensioni, pregiudizi, e creare il clima favorevole a una gioiosa convivenza. Al di fuori dei contesti argomentativi in cui compare l’espressione che dà titolo al volume di cui si parla, “Non circola l’aria” adombra il clima politico-sociale, “pesante”, non sempre… respirabile del nostro “Bel Paese”; eternamente sommerso da crisi di varia natura, affidato a timonieri rissosi e in perpetuo contrasto sulla rotta da seguire, non del tutto esperti nell’arte di governare, sperimenta lo stato di disordine e la caduta nell’abiezione morale, quasi croce e delizia per le frange anarcoidi delle nuove generazioni in corsa per la conquista della… ferinità. Antonio Crecchia Domenico Defelice: NON CIRCOLA L’ARIA, Genesi Editrice – Torino, dicembre 2020

ERBA CEDRINA Avevi addosso un aroma d’erba cedrina. I capelli arruffati cardi tra le mani.

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Ti scrutavo da lontano gatta selvaggia mimetizzata tra i pruni. Lasciavi scoperte le gambe lunghe scattanti già a maggio abbrunite dal sole. E mi erano lampi nelle pupille gli incessanti colpi di desiderio alle tempie. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019

DATE UNA ROSA A MIA MADRE Date una rosa a mia madre, una rosa con dieci petali raggiera delle mie mani al volto suo, quasi avorio. Date una rosa amia madre lontana, a mia madre piccolo sole declinante oltre oceano, ormai vaporosa essenza, densa luce che lenta si spegne. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983

SE SARAI SOLO “E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo”. Essere solo, sì, ma dentro, come te, accogliere l’Universo Conoscerlo, per comprensione amarlo. E, ricreato, quell’Universo consegnarlo agli altri. Questo volevo dirti, Leonardo. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni Nuova Mezzina, Molfetta, 2017


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MANUELA MAZZOLA ENZO ANDREOLI E LA SHOCK ART di Tito Cauchi

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ANUELA Mazzola poetessa e scrittrice romana, versata nell’arte raffigurativa, non poteva non “rafforzare il legame tra la parola e l’immagine” come afferma Maria Teresa Infante nell’introduzione, la quale spiega altresì che al recensore spetta la funzione di fare da tramite fra autore e fruitore. Il saggio Enzo Andreoli e la shock art, dedicato a Walter, si occupa del pittore romano (nato nel 1967) che non è nuovo alle mostre d’arte in varie parti del mondo; ed è impreziosito da illustrazioni a colori dell’Artista. Il volumetto si struttura in tre sezioni che sono Urban Art, Natural life, Astratto, ciascuna delle quali è preceduta da un componimento poetico della Nostra. In chiusura una nota critica della giovane specializzanda Carolina Campelli che, per alcuni aspetti, accosta il nostro pittore, ad artisti come Kandinskij, Mondrian, Van Gogh, Matisse, Caravaggio; ma non andiamo oltre. Trovo molto interessanti le note introduttive di Manuela Mazzola, la quale, nell’esergo, richiamando Marc Chagall afferma che ciò che dà senso alla vita è “il colore dell’amore”. E così spiega che un artista assomma al proprio sé, anche gli altri, disponendosi all’ascolto e all’interpretazione del mondo, assorbendolo ed esprimendolo secondo la propria percezione. Nel caso dell’Andreoli la saggista

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espone l’esame attraverso dipinti realizzati dal pittore in alcune parti del mondo dove ha vissuto, rappresentando New York, il famoso Ponte di Brooklyn, la Baia di Hudson e quindi la sua Roma e Venezia. Nei suoi dipinti è comprensibile il modo diverso di come la realtà sia stata percepita. L’Autrice riporta dichiarazioni dell’Artista romano, Enzo Andreoli, che, a sua volta, spiega la denominazione Shock Art attribuendola ai tratti forti per “manifestare anche il dissenso e rompere gli schemi” perché “attualmente il ruolo dell’arte è quello di rappresentare il momento attuale e di far riflettere su ciò che stiamo perdendo in questo pianeta meraviglioso”. Di seguito la Nostra annota che sono assenti i soggetti umani, ma precisa che essi stanno rinchiusi nell’architettura Urban delle città e che sono presenti nella Natura deturpata; infine scopriamo l’uomo in Astratto, cioè nei contrasti offerti dalla vita. Torna utile anticipare un commento dei versi della Nostra che è, come sappiamo, una poetessa, Ella ha saputo “leggere” (mie virgolette) i dipinti: le città hanno perduto l’anima, ma sono piene di uomini che si muovono come “robot”; gli alberi sono sostituiti da cemento e acciaio, e gli uccelli non hanno più dove nidificare; il genere umano è smarrito, disorientato, così osserviamo “bambini orfani d’amore / e uomini persi nei loro sogni infranti.” Ebbene inoltriamoci nelle singole sezioni del saggio e apprezziamone i contenuti. Quanto all’Urban Art la Nostra legge i dipinti qui illustrati, di cui sono indicate le misure, la tecnica compositiva e le campiture. Osserviamo Roma, la città di Enzo Andreoli, con la sua bellezza: Piazza di Spagna, vuota per le note restrizioni sanitarie (Covid-19) ma splendida nei colori; colori vividi come nel Castello Sant’Angelo mentre il Tevere che scorre di sotto ha le acque sonnolenti, quasi indifferente; e in altri dipinti le sue acque scorrono più velocemente. Abbiamo New York con il Ponte di Brooklyn più volte rivisitato, e la Baia di Hudson con forti tinte, ma sempre inquadrati fra una immensità di grattacieli ammassati come cataste, in bianco e nero, o anche


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a colori, quasi a trasmettere sgomento; un groviglio di grattacieli che “crea stupore e fa riflettere sul destino delle metropoli e dei suoi abitanti.” Venezia maestosa che attenua lo sgomento della vista. Percepiamo un preludio dell’arte araba, in Tel Aviv e Gerusalemme con molti simboli. Palazzi, palazzi senza discontinuità e senza vita animata. Spesso è presente l’acqua (lago, fiume, fontane di Roma), elemento della vita che, nel caso della Città Eterna, ne completa l’armonia geometrica come equilibrio e bellezza. Abbiamo il dipinto, quello della copertina, che si ripresenta: due mani che mi sembrano pugni chiusi, rappresentano la potenza di Dio e la sua protezione. Natural Life rappresenta il tenore della natura: frutta in una cesta isolata o in un vassoio di varia foggia e fiori dentro un vasetto di vetro allungato e dentro una brocca di porcellana. Molti dipinti ritraggono fiori di giardino sempre su steli alti e coloratissimi. Infine due corpi dai colori freddi, blu chiaro lei e blu scuro lui, nudi seduti sul pavimento, con le gambe intrecciate le une alle altre in un amplesso come segno di amore universale. Astratto, in quanto ai colori, non si discosta dai precedenti; ma qui offre sequenze di strisce che all’occhio non avvezzo non dicono nulla, se non, forse, il pensiero che pensa a sé (concetto astratto) nel conflitto interiore degli umani. È rappresentata una sola maschera, che richiama popoli tribali. È preferibile concludere con la parole dell’Autrice, la quale nelle opere di Enzo Andreoli afferma: “È la frammentazione dell’Io che conduce al vuoto emotivo (…) ed è così che, sperimentando questa precarietà, l’essere umano si distacca anche

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dal suo habitat, sfruttandolo al massimo per un guadagno immediato”. Manuela Mazzola con Enzo Andreoli e la shock art credo abbia fatto la scelta giusta, messo luce introspettiva dando senso della poesia pittorica dell’artista romano. E in questo caso la Nostra fa opera pedagogica, ci prende per mano e ci fa osservare le diverse cromature e la scala dei grigi attraverso cui impariamo a leggere i diversi stati interiori. Ecco dunque il connubio tra immagini e parole; o se vogliamo, diciamo che la pittura parla da sé, richiede soltanto che se ne riconosca il linguaggio (come, d’altronde, ciascuna delle Arti). Tito Cauchi MANUELA MAZZOLA, ENZO ANDREOLI E LA SHOCK ART - Oceano Edizioni, Bari 2021, Pagg. 114, € 15,00.

SALPARE Salpare Verso mari indefiniti Di spiagge dorate Perdersi Dentro scogli di vite distanti Mentre nuota un po’ di sole Quando il cielo respira sale E il vento è un volo infinito Schiuma in movenze cristalline, Il mare Leviga scogli inerti Plagiati in trasparenze. Acque Che suonano in versi metodici Musiche di terre lontane Il sole dipinge Arcobaleni di mare E cieli in matita Mentre io recupero parti Perdute Di me. Carolina Ceccarelli Quercia Ciampino, RM


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IL PRIGIONIERO DI USHUAIA

Quando il mio essere prigioniero tra mura di carne si agita e grida…

DI IMPERIA TOGNACCI

Gli ultimi quattro versi dell’ultima stanza: Oltre il buio del pensiero onde misteriose ci sospingono, mentre da lontano ci chiama il tempo dell’infinito.

di Antonio Crecchia

IL prigioniero di Ushuaia”, apparso di recente in seconda edizione con Prefazione di Sandro Gros-Pietro, è, probabilmente, l’opera maggiormente nota della poetessa di San Mauro Pascoli. L’avevo già letta alla prima uscita nel 2008, ma mi mancò il tempo di recensirla. Provo a parlarne adesso, in questa stagione della vita in cui le pulsioni vitali, intellettuali e culturali procedono a ritmo fiacco e ridotto. Contrariamente al solito, leggo prima le pagine introduttive a firma di Sandro Gros-Pietro, il quale definisce l’opera “una splendida metafora poetica”. Il prigioniero “è un captivus, catturato e rinchiuso sia dagli uomini sia dalla natura in una sorta di algido paradiso terrestre, che diviene anche un inferno dell’anima e della disperazione: una croce e una delizia finché la morte non giunga…” E non si sbaglia il noto Editore e studioso torinese. I primi due versi della prima stanza:

Essi sono l’alfa e l’omega della invenzione poetica di Imperia Tognacci. Tra essi un disegno allegorico che si dipana nella rappresentazione dei mali che affliggono non soltanto il corpo e l’anima dell’individuo, ma la “terra”: il pianeta intero, ferito dalla violenza umana, sofferente e “morente” a causa dell’abbandono “e il lento veleno dell’incuria”. Il prigioniero è l’essere umano; o, meglio, l’umanità intera che si confessa colpevole dei tanti guasti prodotti a se stessa e alla terra che l’ospita, degenerata, “naufragata”, portata all’estremo stadio della sua esistenza. Un exemplum, da non sottovalutare, rivelandosi una testimonianza sofferta di un’inquietudine esistenziale che serpeggia nel clima fosco di un’epoca che ha perso mete e significati dell’esistenza “sotto il sole”. Punto di partenza del poemetto è la “noia”; quella che si respira all’interno della famiglia, nello svolgimento quotidiano di abitudini ripetitive, tedianti, in disarmonia con aspirazioni libertarie, creative, edonistiche che, in ogni individuo, reclamano “spazi” aperti, sconfinati… L’anima, “prigioniera tra mura di carne si agita e grida”; innalza il vessillo della ribellione, rifiutandosi di rassegnarsi “al vento… del tempo che…/ dell’ultima foglia spia lo stanco ritmo”. Dove, però, l’anima attinge la sua maggiore libertà, è nel graduale distacco dalla materia, dalla realtà quotidiana viziata dal ritmo monotono dei giorni e delle stagioni, soffocata da “simboli e sogni” emergenti dal subconscio; nemmeno le salutari nutrizioni “culturali” possono appagare lo spirito desideroso di sperimentare altre “dimensioni”, a cominciare dalla conoscenza di se stessa. Rotta la diga del “dire”, s’impone alla poetessa la domanda


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sull’essenza-verità di se stessa. “Chi sono? Onda sono / che chiude e apre la palpebra / nel mare dell’anima”. Un’onda viva, attiva; un pungolo che agita e sommuove “il mare dell’anima”, le sue “acque profonde”, dove trovano rifugio sia le buone che le cattive attitudini della persona. Da questa consapevolezza nasce la necessità di affidare all’anima razionale la guida dell’esistenza terrena, a seguire la rotta tracciata ab aeterno, fin dalla Creazione, e resa percorribile dalla conoscenza dell’ordine universale, che impegna l’individuo ad essere sempre e comunque “se stesso”, ad agire dentro la sfera delle virtù che conducono “al vero”, lottando, forzando i propri limiti, scavando sempre “più in profondo” nella propria coscienza di essere razionale. Il “vero” ci sprofonda nella visione tragica del “morire sottile / di ogni cosa”; nell’intuizione, sulla base dell’esperienza, di ciò che sarà o potrà accadere domani; nel mito della solitudine, che ci rinchiude, da sempre, “prigionieri / in tane, grotte, dimore; / doppiamente prigionieri / quanto più in esse ci rintaniamo”. In tale condizione l’anima sperimenta i lacci dell’insufficienza, dell’inadeguatezza, dell’angusto, del mito della caverna descritto da Platone, in cui è esplicitamente dichiarato che “il mondo che ci appare attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere” (Repubblica VII, 517b). L’anelito della poetessa è, dunque, “uscire dal carcere”, dal fondo “melmoso del fiume” della vita “che al tutto ci avvince”, trasformandoci in facili prede delle passioni e dei vizi; uscire dai condizionamenti dettati da necessità contingente, transeunte; intraprendere il viaggio socratico, “in salita”, per un felice approdo alla “contemplazione delle realtà superiori”. (Platone, opera citata.). Il superamento dei limiti umani, il passaggio dalle “idee di periferia” alla visione cosmica, in cui tutti gli elementi sono in armonia tra di loro, comporta un viaggio all’interno della conoscenza dell’ignoto, del mistero, di verità superiori, non sempre comprensibili dalla capacità naturale dell’intelligenza umana.

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Ma, facendo propria l’esortazione di Ulisse ai suoi compagni di viaggio nel mare ignoto: “fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza”, la nostra poetessa afferra “il bastone del viandante” e si avvia, “fiume pellegrino / verso le rotte profonde dell’oceano”, per approdare “passo dopo passo… / dove l’innominato vento… / corre laddove si orienta il puma / sulla preda balzando / e il condor si alza nell’azzurro verso torrioni di monti”, alture che coronano “La terra del Fuoco”, terra di frontiera, “impietosa steppa / ancorata a silenzi di radici / sotto le ostili sassaie”, tra cui sorge la tetra colonia penale di Ushuaia, in cui scontano la pena “i criminali più pericolosi” dell’Argentina, come annota Sandro Gros-Pietro nella Prefazione. Un viaggio immaginario per incontrare “il prigioniero di Ushuaia”, autore della poesia che ha ispirato il poemetto di cui si parla. Non ha un nome, né un’identità precisa il prigioniero; è un essere sconfitto dal destino ”rassegnato a morire come un viandante / che si arrende al dolore del suo insuccesso”. Consapevole di aver trasgredito sia la legge umana che quella divina “versando sangue umano” sul suo “cammino”, vive la condizione dell’infelice che non attende più nulla dalla vita, né perdono, né ravvedimento, né catarsi, né purificazione. Tutto è compiuto. Il mondo può anche crollargli addosso: lui non leverà un lamento, non muoverà un dito, non farà un passo. Morta ogni speranza di riacquistare dignità e di un ritorno alla vita normale, il segno della condanna sarà il marchio perpetuo “di fango” che graverà sulla sua “memoria”. L’anonimo, “crudele pellegrino”, a differenza dei tanti feroci saccheggiatori che infestano questa “aiuola” terrena, deturpandola e immiserendola senza soluzione di continuità attraverso incendi, deforestazioni e inquinamenti d’ogni genere, ha il coraggio di riconoscere la sua colpa e di accettare il castigo per la colpa commessa. E così la sua figura “appare gigante” agli occhi della poetessa; un gigante che riassume in sé tutti i caratteri dell’ambiente in cui egli ha “attraversato la


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notte della storia”, ossia l’oscuro stato di prigionia, e dove egli non attende altro che la morte. Fuori da quell’inferno, “su un sedile d’ombra seduto” il prigioniero appare tutt’altro che un criminale che abbia, come Farinata, “l’inferno in gran dispitto”. Il suo atteggiamento è composto, improntato a mitezza, a propositi benigni, disponibile a colloquiare a cuore aperto. E poiché ha “mangiato il pane azzimo del riscatto” in quel mondo di “gelo senza spazio”, qual è la Terra del Fuoco, nella coscienza del prigioniero è penetrato, come per miracolo, “il soffio misterioso della poesia”, indizio di avvenuta redenzione. Così, il prigioniero, che raccoglie in sé le colpe e gli orrori dell’umanità sofferente e travagliata, passa dalla perdizione - la profonda notte di gelo e solitudine - alla luce aurorale della salvazione attraverso la purificazione delle passioni terrene. La porta della speranza di “toccare il cielo con il dito” dopo essere stato avvinghiato ai futili beni terreni, è sempre aperta a chi, ravveduto, ritorna ad abbracciare umilmente la legge morale. Nelle ultime stanze l’alito della poesia si fa maggiormente aereo; il simbolo si rafforza nella forma e nella sostanza, si evidenzia in una sequenza di versi che esprimono l’attesa e il completamento d’una catarsi che assicuri, al pellegrino e al prigioniero, il mistico ingresso nel “tempio dell’infinito”. Il paesaggio quasi polare, nuovo e misterioso, dominio dei venti freddi e del gelo, si delinea come luogo di raccoglimento ed espiazione delle tendenze trasgressive dell’umanità. La solitudine, la distanza dal mondo caotico e rumoroso della civiltà, offrono abbondante spazio per un intimo raccoglimento e fiduciosa speranza all’anima, non più “impigliata nella materia”, che ha intrapreso il viaggio di redenzione al “soffio del Verbo, // lungo la via delle stelle”. Si potrebbe tentare un accostamento del poemetto al Purgatorio dantesco, per una serie di motivi comuni alle due opere, quali l’atmosfera d’attesa, chiarore crepuscolare, “silenzio, stupore, infinito” uniti all’anelito “a salire alle

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stelle”. Il discorso, però, richiederebbe altre pagine: Necessità vuole che mi fermi qui. Antonio Crecchia Il prigioniero di Ushuaia di Imperia Tognacci, Genesi Editrice, febbraio 2021 IL FILO DELL’ENIGMA Cercherò sempre il capo del mio filo, nascosto nei grovigli che l’esistenza lascia sul sentiero. Non lo estrarrò dai mucchi; ma farò sempre il tentativo vano di rintracciarne l’ultimo segmento, ov’è segnato il senso del tempo e della vita che attraverso; ma non si può scalfire l’enigma che sovrasta i nostri giorni. Elisabetta Di Iaconi Roma

Un libro da leggere e da regalare:

…La forza narrativa di Domenico Defelice sta nell’incanto delle sue descrizioni di ambienti della natura, della campagna, del paese e anche della città. Il mondo che lui ritrae a parole richiama un quadro di Pieter Brugel che descrive il contrasto tra il lasciarsi andare tipico del carnevale e la rinuncia alla tentazione, cioè il cosiddetto digiuno cristiano. Si tratta pur sempre di una ripresa del tema caro ad Ambrogio Lorenzetti, sviluppato nella Allegoria del buono e del cattivo governo: anche in ciò consiste la memoria letteraria e culturale di Domenico Defelice.

Sandro Gros-Pietro Genesi Editrice – via Nuoro 3 – 10137 Torino – genesi@genesi.org; http://www.genesi.org – Pagine 210, € 12,00


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LE ZONE DEPRESSE CON LE LORO FORME DI ESISTENZA RIEMERGONO DAL PASSATO di Leonardo Selvaggi

I

L territorio va sempre inteso come sintesi di elementi oggettuali e come luogo delle forme di lavoro. Base materiale e prodotto nel contempo di Storia sociale. Innegabile la continuità tra il passato e le nuove tecniche di produzione. Il tessuto economico visto sempre dal lato complessivo in un’unica realtà con gli insediamenti delle popolazioni. Nuova tecnologia e strumenti di lavoro antichi collegati attraverso i tempi nella loro lunghezza di sviluppo con gli aspetti materiali, demografici, culturali. Luoghi chiusi, depressi che sono stati sempre lontani dai centri abitati. Hanno una storia umana isolata con pochi contatti avuti da altri luoghi geografici. La configurazione geologica delle zone depresse particolare, costituita da una intricata presenza di solchi e vallate, tozze montagne, terreni aridi. Difficoltose le comunicazioni. Intensa l’erosione delle formazioni calcaree a causa delle acque torrentizie, specie dove scarsa è la copertura boschiva. L’agricoltura si limita a zone ristrette di terreno, più praticata la pastorizia. Frequenti in genere i fenomeni franosi e sismici. I terreni argillosi sono un’altra loro caratterizzazione, hanno reso sempre misera e infruttuosa la resa dei prodotti. Il lavoro, il costume, i raccolti magri di una civiltà contadina e pastorale si evidenziano con le particolari, forti strutture del carattere delle persone, il progresso senza

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troppo cancellare ha trovato una certa convivenza. Una modernità vigile e saggia non deve rinnegare le basi di avvio naturali dell’uomo nel suo cammino fatto di impulsi interiori e di istinti congeniti di vitalità nel senso più vero e assoluto. Le zone depresse con le presenze umane allo stato di autenticità, il loro passato va rivalutato perché troviamo in esse le grandi virtù, doti e inclinazioni primigenie senza deturpazioni e sovrapposizioni o mescolanze subite da influssi esterni. Si scopre nei rustici paesi, arroccati una vita vissuta di stenti, con semplicità di sentimenti nell’ambito degli affetti familiari. Il lavoro eseguito senza tanti strumenti, si può dire con le proprie mani e volontà indomite e resistenti a contatto con la Natura. Ogni aspetto senza sovrastrutture e artifici, spontaneità e bontà nei modi di essere, fra le vecchie case, ossificate nel tempo e all’intemperie, ruvide, parsimoniose. Diffuso il senso della pace e la laboriosità si armonizza con la piena, appassionata applicazione, con un fare metodico, razionale, respirando il bello e l’affascinante che viene da tutto intorno dalla campagna e dalle tradizioni in gran parte ancora vicine. Nel Cilento, nell’Irpinia, nelle zone montuose della Basilicata il passato riemerge nella memoria. La massa del proletariato rurale costituiva la parte rilevante della popolazione, il reddito derivava soprattutto dalle braccia a giornata, possedeva anche piccoli appezzamenti di terra e una certa quantità di bestiame. Il reddito terriero non era molto alto considerando la secolare minaccia di frane. Molto precarie erano le condizioni economiche. Poi c’era una fascia di proprietari coltivatori. Rispetto al proletariato questi avevano una situazione migliore, oltre al ricavato del lavoro quello della coltivazione. Al grado superiore delle comunità presenti i signorotti, che avevano rilevanti estensioni di terreni seminativi, la cui lavorazione come l’attività di allevamento veniva affidato alle cure dei servi, dei pecorai e custodi in genere di animali. I braccianti possedevano ovini e caprini, i feudatari avevano anche i bovini. Ricordiamo che nelle


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zone sunnominate depresse del Sud ricco, inoltre, era il bestiame da soma che apparteneva principalmente ai braccianti e serviva oltre che come strumento di lavoro, soprattutto per trasporto, considerando l’eccessiva distanza tra i fondi e le abitazioni. I lavoratori a giornata erano costretti di buon mattino a fare molta strada per raggiungere gli appezzamenti di terreno. Lontani anche i mulini, di solito situati nei pressi dei fiumi. Le donne andavano per i panni da lavare dove si trovavano i corsi d’acqua percorrendo sentieri scoscesi e sassosi. I proprietari facevano uso di bovini anche come forza lavoro: in genere due buoi per famiglia accoppiati all’aratro per i lavori di dissodamento e di coltivazione. I latifondi costituiti da oliveti e da campi di semina erano pochi, fortissimo, invece, il frazionamento delle piccole proprietà, formate da terre a vigna e ad orti. I terreni in gran parte rimanevano incolti, c’era una discontinuità fra quelli lavorati e quelli abbandonati per le ricorrenti calamità degli smottamenti. Il rapporto fra estensione della superficie e reddito sempre sproporzionato, specie a causa della concentrazione fondiaria. I modi diversi di conduzione determinano la scelta delle culture. Il passato è vivo nelle aree depresse: ristrettezze tirate al massimo e un sostentamento ai limiti della sopravvivenza. I rudimentali strumenti da lavoro sono rimasti conservati gelosamente. Si è andati alla loro ricerca per valorizzare la loro storia e la utilità avuta in relazione alla resa dei prodotti, ai modi di preparare i terreni, ai redditi ricavati dalla pastorizia. Si sono costituiti dei piccoli, interessanti musei. La civiltà contadina è rimasta per certi appassionati di Storia patria, di tradizioni una tappa da non trascurare nella dinamica dei progressi civili. La tanta industriosità di contadini e artigiani. Numerose le piccole officine, lavoratori del ferro e del legno, oltre ai costruttori di abitazioni. Arti e mestieri che si vivono nei ricordi, ineliminabili sulla base di collegamento con i tempi correnti. Strumenti, luoghi di lavoro interessanti da vedere, da toccare, da usare ancora da chi ha voluto continuare in parte a tenere attivo il loro utilizzo. Conservazione di cimeli tanto

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amati. Si trovano ancora traini che trasportavano nei pellegrinaggi ai santuari, numerosi nei boschi e sulle montagne, con devozione curati. Santi patroni festeggiati con trasporto di fede immenso, con preghiere e veglie. In ginocchio sul pavimento fino all’altare, percuotendosi il petto, timorati con il senso dei peccati, digiunando dietro le processioni a piedi nudi. La semplicità della gente remissiva, maltrattata dalla miseria, perseverante senza sentire i morsi sulla carne, ma innalzata dagli slanci, dalla volontà di compatire, di soccorrersi a vicenda. Rassegnazione, la speranza della Provvidenza, senza imprecare contro nessuno, l’affetto verso i cari tenuto sacro. Il proletariato refrattario ad ogni sventura. La cura verso gli oggetti considerati come persone, la casa dai sentimenti protetta, dalla dignità e dall’onore. Il senso dell’amicizia ferreo, nei vicinati correva un vicendevole legame di aiuti, di consigli, di saggezza. Testimonianze eloquenti che parlano di tempi straordinari da leggenda, di virtù dell’uomo nella sua fermezza e integrità, grandi sacrifici e ostinata coerenza. Come incrostati dalla pelle coriacea nelle dure fatiche. Presenze irremovibili, degne di rispetto, uguali ai tronchi contorti e nodosi delle tante querce che si vedono in queste terre aride, piene di speroni di rocce millenarie. Testimonianze capaci di instaurare un dialogo interattivo con il pubblico dei nostri tempi, di stimolare la conoscenza e l’apprezzamento di un’identità fatta di memoria collettiva, di pratiche, di arti, di sapere, di esperienze provate e riprovate. Strumenti di lavoro e vita vissuta insieme in attività senza pause: creano un passaggio che permette a chi ritiene inscindibili passato e presente di farsi cosciente del proprio futuro. Ogni strumento ritrovato è indistruttibile, si può dire sempre operante. Oggi ritornano di moda certi mestieri che erano dimenticati. Quello di chi si rende pratico nel rattoppare piatti rotti con suture di filo di ferro, quello di chi impaglia le sedie, di chi affila le forbici. Si va alla ricerca di erbe silvestri, ottime per cucinarle, di piante officinali, aromatiche. Erbe medicamentose


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per ogni tipo di malessere. La cultura moderna livellatrice, metallica, meccanica, senza anima, specializzata, tanto frammentata si incontra con la cultura contadina e artigianale ricca di vitalità organica. Vera cultura della vita che ha reso prontezza di manualità, slanci di generosa cooperazione, che ha alimentato tanta passione operosa, applicazioni pazienti con instancabilità e precisione, nel saper fare il proprio mestiere. Impegno e serie promesse. Molte le espressioni pure di buon senso, di istintiva e fine intelligenza al di sopra di interessi e di lucri. Estrinsecazioni delle capacità naturali della mente per l’utilità della famiglia e degli altri. Le sere estive hanno avuto momenti idilliaci di una sentimentalità particolare e di una affettività diffusa verso cose e persone. Oggi sono diminuiti i muli e gli asini. Dai lontani casolari i contadini stressati, appesi alla coda quasi si trascinavano dopo una giornata di sole e di lavoro continuo. Le donne con le gambe penzoloni sul basto, dall’aspetto rustico e ieratico, che sapeva di serena pace interiore e di pudica vicinanza fra la gente. Compagne amate nella casa e in campagna. La mattina si usciva con sacchi di letame fumigante e di sera si portava odore di fieno, sacchi di grano, sarmenti e legna per l’inverno. Si attraversavano con gli asini dalle lunghe mascelle pensierosi, senza ribellioni, attaccati al fiato del padrone, gli impervi viottoli di montagna e le stradine dei paesi di terra battuta o coperte da selciati. Sono rimasti pochi esemplari di animali da trasporto in seguito alla sempre più allargata motorizzazione e al miglioramento della viabilità. Si vedevano gli asini protagonisti dei lavori dei campi, fedeli, attempati, bardati, ordinati e sempre pronti ad andare, con andatura ritmica, i passi misurati nel movimento tra le ginocchia e gli zoccoli ferrati, lo sguardo ritto davanti. Il basto fissato con una fascia di tela grezza che passa sotto la coda, la testiera formata da cinghie e da sottili catene di ferro. Il basto ha ampi canestri, uno per lato, è formato da una intelaiatura di quattro pezzi di legno verticali, leggermente ricurvi. Ha l’imbottitura di pelle, una corda che serve per essere fissata all’animale e anche per legare

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tutto il carico passando sotto la pancia. Animali e persone una sola famiglia. Attorno al desco insieme al capofamiglia con ordine e disciplina erano i figli e la moglie ad attingere la minestra da un unico piatto ampio. La casa calda di umori, dalle pareti vigili che sentivano le voci sommesse riempire tutti gli angoli, vapori di minestra e affetti facevano una densa, unica stratificazione. La contentezza e l’onorabilità, l’esempio dei padri che si trasmetteva ai figli. I contadini e gli artigiani rassegnati e fiduciosi nelle loro capacità, nella volontà ostinata di superare gli ostacoli. Le zone depresse con spaccature nei terreni decrepiti, sconquassati, ampie voragini sono i calanchi come ferite mai rimarginate. La sofferenza di terre misere rispecchiata dalla malinconia profonda che si leggeva negli occhi degli asini, nel loro sguardo languido che si apriva con le medesime ampiezze del cuore umano, quando abbattuto e affranto era solito slanciarsi alla comprensione. L’innocenza, la semplicità dei modi, la tenerezza dei pensieri sui visi degli adolescenti già maturi prima del tempo, abituati ai patimenti, tanto pieni di inibizione, di remissività e di benevolenza. Le donne nelle vesti ampie e lunghe, a piedi nudi sui mattoni d’argilla, in camaleontica simbiosi con la casa. Il dolce carattere degli uomini delle terre depresse, taciturni, contenti sempre, stretti negli spazi angusti, irremovibili, con una certa severa e fatale aria sul viso. Non si faceva che appianare e ordinare le povere cose e i fatti che si presentavano spesso accidentati; con le proprie forze macinando malumori, veleno e contraddizioni. Il piacere che si aveva nel dividersi il posseduto. Importante considerare gli strumenti di lavoro: riflettono la presenza dell’uomo laborioso, mai stanco, con attaccamento al dovere, il loro stretto rapporto con la terra, l’amore verso di essa, simile a quello che si ha nei confronti della madre premurosa. Riemergono dal passato altre caratterizzazioni, proprie delle regioni geologicamente povere, in parte dissestate, il senso della misura e la franchezza espressiva. Risuonano lunghi nella sera i belati, quasi le prime ombre fanno paura, si corre agli steccati. Il campanaccio dei bovini


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con ampio collare dal gancio semicircolare, appeso al collo. Il bastone di quercia molto robusto e pesante, lavorato con forma particolare per tenere riunite le pecore e proteggerle. Ancora lo si vede in paesi sperduti e arretrati, legato soprattutto alla funzione del recinto. Forbici molto antiche formate da un unico pezzo di ferrò battuto con lame triangolari molto appuntite per tosare la lana con l’impugnatura a molla. Per la produzione del formaggio si usavano caldaie di rame profonde con manici mobili ed un particolare bastone frangicagliata con cui si mescolava il latte, al fine di separare le particelle solide di formaggio dal siero. Troviamo sempre tra gli attrezzi relativi alla produzione del formaggio una coppetta forata di forma semicilindrica per raccogliere la massa di latte cagliato dalla caldaia per sgocciolarla. Inoltre rudimentale strumento era una grata rettangolare di stecche di legno a bordo rialzato che si teneva appesa ad una trave del soffitto di una cantina, utilizzata per la maturazione e conservazione del formaggio. Primario era il lavoro di filatura della lana, fonte di notevole reddito. Il pettine cardalana formato da un asse di legno con al centro dei chiodi di ferro appuntiti. Serviva per liberare le fibre di lana greggia dalle impurità, lo si teneva fermo fra le ginocchia. Si trattava dell’ultima fase di selezione, le fibre per filarle dovevano essere pulite dai grassi. Poi si aveva la cardatura per renderle uniformi e parallele. I fusi si trovavano di diverso spessore e peso, ciò importante per mantenere una continua rotazione. Al centro si vede un rotello a forma di disco che divide il fuso in due parti, una superiore sulla quale si avvolge il filo filato, l’altra inferiore che serve per imprimere con il palmo della mano il movimento, appoggiata sul ginocchio. Più efficace è la rotazione, più riuscita la torsione del filo. Vicino si vede la rocca che è un’asticella di legno con un ingrossamento al centro, vi si dispone il materiale fibroso già pettinato. Quando il filo si allunga fino al pavimento la rotazione si ferma per avvolgere la parte fatta. Sulla punta superiore del fuso è applicato un uncino di ferro, serve per assottigliare il filo e fissarlo quando si fa prillare il

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fuso su se stesso. Per formare le matasse si ha un ramo di legno, con due bracci ricurvi che agisce con moto rotatorio in un senso e nell’altro. La imbiancatura della lana si otteneva immergendola in una conca e coprendola di cenere e acqua calda. Inoltre l’arcolaio per dipanare le matasse, composto da quattro stecche verticali collegate da due croci di legno orizzontali. Il tutto gira attorno ad un asse verticale fissato ad una base rotonda. Un vero congegno per la filatura della lana era il filatoio a pedale, tutto di legno, formato da una ruota a sei raggi, azionato da una biella fissata in fondo, il fuso, inserito tra due sostegni verticali, munito ad una estremità di ali con piccoli fori e di una spola sulla quale si avvolgeva il filo filato. Questo meccanismo già sofisticato fa capire come l’evoluzione esiste di per sé. Il passato e il presente non creano frattura, non hanno soluzione di continuità, vanno insieme verso i movimenti di mutazione inarrestabili. Gli strumenti di lavoro sono estrinsecazione dell’intelligenza dell’uomo, della volontà di vivere, di vincere tutte le difficoltà che possono sbarrare il cammino verso l’avvenire. Leonardo Selvaggi

INTORNO A UNA SOLA TAVOLA Tu che non conosci notte né minuti né ore e che, senza nulla chiederci, a noi hai donato, preparaci una capanna nella tua luce, riuniscici quando vuoi intorno a una sola tavola. Tu al centro con l’acqua della gloria sulle dita, noi tutti insieme con le mani nell’unico piatto per saziarci d’eterno. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019


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Recensioni ANNA MARIA BONOMI DELIRIO DI PAROLE Supplem. al n. 12 (Dicembre 2020) del mensile “Pomezia-Notizie”, pagg. 28. Se nello stato di delirio sopraggiunge la defram-

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mentazione della realtà è perché è successo qualcosa nell’ordinaria ‘gerenza’ dell’essere umano. Allora, pur di evadere, pur d’allontanarsi dal subire il ‘danno’ di quel gravame recondito si apre la via della visione spesso drammatica, anticipatrice d’eventi immaginati o immaginari, ossessiva sulla breccia, ad esempio, dello stile di William Blake, poeta e artista londinese vissuto tra il 1700 e il 1800, sperimentatore di un nuovo modo, tra le altre cose, di stampare al contempo scritto e illustrazione di cui fu abbastanza capace e realizzò opere artistiche per la Divina Commedia di Dante Alighieri, distinguendosi per le sue interpretazioni pittoriche d’elevata tensione morale, filosofica e quant’altro. Nella sua vita organizzò un’unica mostra, nella casa natale, delle sue opere artistiche che si rivelò un vero fallimento, per la quale ricevette epiteti di pazzo sventurato, mente allucinata, era attratto dal periodo medioevale e dai personaggi che nella realtà storica ne fecero parte. È anche vero che il carattere spigoloso ch’ebbe in vita fu il risultato di tanta solitudine impiegata tra l’altro a disegnare molto tempo al chiuso dell’Abbazia di Westminster; non ebbe figli pur sposandosi con una donna analfabeta che lui degnamente istruì cosicché l’aiutò molto nel suo lavoro di editore poeta e artista, e subì un forte dolore quando morì di tisi suo fratello Robert, più giovane, anch’egli artista abbastanza bravo ch’era andato a viveva con lui. Il direttore del mensile “Pomezia-Notizie”, che ha curato la pubblicazione della presente raccolta poetica di Anna Maria Bonomi, classificatasi quarta al Premio “Il Croco” 2020, Domenico Defelice, postfatore della stessa, ebbene, egli ha doviziosamente individuato che a cominciare dalla prima poesia della Bonomi, Frammenti di vita, fino all’eponima, Delirio di parole quale nona in ordine d’apparizione nel Quaderno, sussiste l’amarezza di «[…] un vissuto che ha inciso profondamente nell’esistenza della donna, procurandole lacerazioni e ferite mai più rimarginate. » (Dalla postfazione Una sofferta vicenda, pag. 26). Ecco probabilmente il perché s’è aperto il varco alla visionarietà disvelante i segreti dell’anima, al delirio di parole quale ingombrante baule da cui s’è deciso di far ‘cambiare aria’ alle tante cose poco felici successe all’autrice romana, già insegnante e attiva partecipatrice d’incontri letterari nella capitale. Più volte compare il termine fantasma in queste liriche senza dubbio in stretta connessione al mondo sconvolto dal dramma dell’inquietudine interiore, che molto spesso s’instaura nella per-


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sona per mancanza d’affetto autentico, disinteressato e chi ne è vittima si sente, appunto, come un fantasma. «Sono in balia del vento/ e appigli non si trovano.// Vento funesto/ spegne rabbioso/ le varie fiaccole/ che illuminano la vita.// Unica vita mia/ che al buio si spegne.// Tanto mi sono prodigata/ senza concludere niente./ Ho conquistato il nulla.// Come un’ombra sono passata/ per anni accanto a tante persone.// Sono passata come un fantasma. » (Pag. 5). Stessa cosa deve essere successa a Vincent Van Gogh, che avrebbe voluto fare dapprima il pastore calvinista come suo padre Theodorus, nella chiesa del suo piccolo paese in Olanda e, invece, le cose andarono diversamente, cosicché dopo anche essere stato rifiutato come eventuale marito dalla figlia della padrona di casa che l’aveva ospitato a Londra, deciderà alla soglia dei trent’anni di dedicarsi alla pittura, lavorando ininterrottamente fino al tragico, purtroppo, epilogo della sua vita. C’è anche la tenace parola appigli a richiamare l’attenzione nella crestomazia della Bonomi; sono i possibili rampini sberluccicanti di chi ruota attorno a noi come sprazzi di positività per proseguire il cammino d’ogni giorno, ma possono anche mancare e allora tutto diventa più difficile, tortuoso, invalicabile. «[…] Ora è in piedi,/ barcolla e cade./ Senza appigli non si alza/ ma urla e urla/ la sua estraneità al misfatto./ Troppo vicino alla terra/ la bocca riarsa/ lancia un grido/ che nessuno raccoglie.// Straziante la voce urlante/ si perde nell’etere.// La tronfia calunnia/ come Fenice risorgente/ continua a spargere/ la sua infingarda verità.// Dove sono gli altri esseri umani?// Cervelli immondi, appiattiti/ si allineano oranti/ in processione dietro/ la viscida dea calunniatrice.» (Pagg. 9-10). Per non dire che l’ultima poesia della raccolta sia stata composta appositamente per recidere il collegamento coi travagliati flashbacks del passato, finalmente, così da lasciare spalancata almeno una finestra sull’anima di Anna Maria Bonomi e far entrare tanto vento, corrente fresca portatrice di buone sensazioni. In conclusione, la poetessa aspira, convinta e cosciente, al superamento d’ogni forma di tormento perché, anche se grazie ad esso ha tanto versificato, si può scrivere, comporre nella libertà non ‘allucinata’ dal fardello dei drammi sofferti per attuare inverosimili cavalcate «[…] sulle ali del vento/ che intreccia le onde del mare./ Adesso i pensieri,/ devoti vassalli del cuore,/ si affacciano agli occhi/ baluardi di incaute visioni./ Sono atmosfere magiche/ che vestono a festa/ l’aria tiepida dei miei giorni.» (Pag. 24). Isabella Michela Affinito

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LINA D’INCECCO COLORI E STUPORI DELLA VITA E DELLA NATURA Supplem. al n° 11 (Novembre 2020) di “PomeziaNotizie”, pagg. 24. Sorge fin dalla lettura del titolo del florilegio di Lina D’Incecco, Colori e stupori della vita e della natura, la domanda se siano stati i colori a suggerire le tematiche poetiche trattate dalla poetessa molisana oppure dal proposito degli argomenti allo spargimento dei multipli colori? Grazie alla luce noi possiamo vedere i colori intorno a noi: quelli che ci regala la natura, quelli creati artificialmente dall’uomo, quelli che ci hanno lasciato gli artisti del passato attraverso le loro opere pittoriche. In effetti, la materia, il Creato esistono perché è visibile il loro cromatismo; la cromaticità delle cose le rende tangibili e il pittore scultore francese del Novecento, Henri Matisse (1869-1954), volle dimostrare che dal colore scaturiva l’immagine dando così vita alla corrente del fauvisme, da fauves (belve), perché i pittori che adottarono questo stile utilizzarono il linguaggio dei colori puri senza mescolarli per una vitalità inedita. «[…] per Matisse il colore diventerà via via un fine, creando esso stesso l’immagine. La convinzione del suo maestro G. Moreau che il colore “deve essere pensato, sognato, immaginato” lo aiuterà a sostituire al principio tradizionale dell’imitazione quello


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del ritorno ai mezzi specifici della pittura, al colore in primo luogo, con il fine di produrre una soddisfazione puramente visiva attraverso la percezione dell’immagine dipinta. » (Dal Vol. 1 L’UniversaleArte, La Grande Enciclopedia Tematica in collaborazione con le garzantine, Supplem. al quotidiano “Il Giornale”, Milano, Anno 2003, pag. 750). Ma la poetessa, già insegnante di Francese, Lina D’Incecco è andata ben oltre il Novecento di Henri Matisse, incominciando la sua silloge con la poesia omaggiante il protagonista dell’anno 2019, in cui c’è stato l’anniversario dei 500 anni dalla morte, il grande fiorentino Leonardo da Vinci (1452-1519), a cui si deve il modo di pensare moderno basato sull’esperienza e lui cercò di accumulare perizie in infiniti campi del sapere: dallo studio delle proporzioni umane partendo da un’unità con “L’uomo vitruviano” fino al volo degli uccelli, allo studio dell’anatomia umana e animale, alle macchine da guerra, a capire il funzionamento degli organi interni dell’uomo, dei muscoli, del sistema scheletrico, etc. «[…] Uomo d’arte e di scienza/ di multiforme ingegno/ figlio del Rinascimento./ E, riflesso in uno specchio,/ rifulge il suo pensiero/ fonte creativa ed imput/ per la civiltà moderna/ ed il Progresso. » (Pag. 5). Ma ci sono i colori cosiddetti caldi, rosso arancione giallo fuxsia, e i colori freddi, blu verde viola, e proprio Leonardo nel 1490 concepì il Libro di Pittura, purtroppo rimasto incompiuto, che stilò il suo allievo ed erede, dopo la sua morte in Francia, Francesco Melzi, dove il maestro fece le sue riflessioni sulle leggi della luce-ombra. «[…] considerando come fondamentali sei colori Leonardo propone un abbozzo di teorizzazione in cui, mantenendo gli opposti del bianco e del nero, considera i colori gialli e verdi come più vicini alla luce, mentre colloca i rossi e gli azzurri accanto alle tenebre o al nero. In maniera più che intuitiva, Leonardo introduce i principi di luminosità e di oscurità dei colori, di saturazione e di accordo sia per similitudine sia per contrasto (complementarietà). » (Ibidem, pag. 260). Quindi, ad ogni tono corrisponde il suo contrario sulla gamma della sfera cromatica e ciò vuol dire che un colore esiste perché esiste al contempo il suo opposto, come il bianco e il nero, il giorno e la notte, il chiaro e lo scuro, il caldo e il freddo, il centrifugo e il centripeto e così via. Anche soprattutto nella silloge di Lina D’Incecco sussiste questa linea dei poli opposti, che fu teorizzata da J. W. Goethe nella Teoria dei colori, i quali si attraggono e si respingono come i fenomeni che accadono nella chimica e con l’elettromagnetismo. Se da una parte la poetessa D’Incecco ha ‘usato’

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tonalità calde e piacevoli per descrivere in versi l’automobile lussuosa de La Ferrari, la Maternità, gli Oleandri, le Nubi rosa, dall’altra ha ‘utilizzato’ toni passivi per argomentare in versi il Silenzio, l’Anzianità, il Coronavirus, La memoria: 1918-2018. Lo ha fatto per istinto, per attinenza al linguaggio dei colori, perché s’è lasciata trasportare per immagini, positive o negative, ricostruendole in versi ora in luce ora in ombra; comunque sia, c’è stato un vero e proprio sodalizio tra la sua poesia e i colori dove è intervenuta anche la spiritualità e s’approda in quella che fu l’opera – cardine letteraria del pittore scrittore insegnante russo, Vasilj Kandinsky (1866-1944)- uno dei fautori della corrente d’avanguardia dell’Astrattismo e di conseguenza del gruppo Der Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro) con la pubblicazione dell’almanacco – che nel 1912 pubblicò Lo spirituale nell’arte, anticipazione dell’arte spirituale che sarà in relazione a un’epoca nuova che avverrà, mettendo in relazione la pittura con la musica con la materia plastica col teatro la danza, per un trattato esplorante un terreno inedito di contaminazioni artistiche fra loro, in base al simbolismo, agli opposti, alla psicologia, alla natura terrestre e spirituale, all’alto basso e intermedio e via dicendo. «Archetto che sei del mio violino/ filo bianco e sottile/ che volteggi sulle corde/ e sul legno di rosso ciliegio/ da cui trai voci divine./ Dagli spartiti del leggio/ cogli pensieri/ che le note,/ danzando in tutù nero,/ sul pentagramma scrivono./ Ti unisci in concerto/ con altri strumenti/ in armoniose scenografie di suoni/ che sviluppano in me/ immagini ed emozioni./ Non t’arrestare./ Se taci, il cuore del violino/ più non batte.» (Pag. 20). Isabella Michela Affinito

GIANNICOLA CECCAROSSI ANIMA MIA Ibiskos Ulivieri di Empoli (FI), Anno 2020, Euro 12,00, pagg. 40. Non poteva non essere stata destinata ad una donna la silloge del poeta Giannicola Ceccarossi, dal suggestivo e rievocativo titolo di Anima mia! Era il 1973 – l’autore aveva trentasei anni – quando uscì il secondo album (il primo era uscito l’anno prima chiamandosi col nome della stessa band) del gruppo denominato I Cugini di Campagna dal titolo, appunto, Anima mia, comprendente dodici brani musicali suddivisi equamente per i due lati A e B del disco, ch’era di vinile, tra cui la mitica canzone omonima tutt’ora rimasta l’emblema di quel gruppo pop italiano abbastanza stravagante: zeppe ai piedi, tute aderenti traslucide a zampa d’elefante e capelli


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lunghi voluminosi nonostante fossero uomini coloro che cantavano. «[…] Anima mia/ Torna a casa tua/ Ti aspetterò dovessi odiare queste mura/ Anima mia/ Nella stanza tua/ C’è ancora il letto come l’hai lasciato tu ». (Dal ritornello della suddetta canzone). La trama del famoso brano musicale parla di uno struggimento interiore inconsolabile causato dall’abbandono di lei, andata via all’improvviso dalla vita dell’uomo che aveva creduto, invece, all’amore duraturo, pur sbocciato dal nulla, da un casuale incontro. Non è facile andare avanti senza sapere più nulla di lei, con chi sta, il vuoto che ha lasciato nella stanza in cui dormiva e nella casa, insomma il senso di tristezza attanaglia il protagonista maschile inesorabilmente. Dallo scenario musicale allo scenario poetico di Giannicola Ceccarossi la differenza che intercorre è che non si tratta, nel secondo caso, di un amore svanito nel nulla, non c’è stata la fuga di lei, Patrizia, la destinataria della scelta poetica. Gli anni sono passati, è vero, ma la compagnamusa moglie-ispiratrice dagli occhi azzurri, Patrizia, non ha seminato vuoti o incomprensioni attorno a sé, anzi il poeta chiede di « Vedere ogni mattina/ la tua allegria/ e attendere il tuo saluto/ Poi due passi/ all’ombra dei platani/ con il sole tra i rami/ che ti illumina la fronte/ E si dipana un nuovo sogno ». (Pag. 20). Ogni pagina del volumetto racchiude una libera poesia quasi polvere di parole sparsa non per macchiare, ma per essere gradevolmente odorata tanto si presenta come timida margherita di campo all’accenno del risveglio della natura. Non ci sono i doverosi titoli e nemmeno la punteggiatura, potrebbe essere considerato un unico soliloquio poetico monotematico intriso di riservatezza e devozione verso di lei. «Quanto profumo/ emana il tuo corpo!/ Quanta bellezza/ dalle dita/ che accarezzano/ cieli e boschi/ E quando mi chiami/ fra radure colorate/ il suono della tua voce/ è un sussurro/ che si spande nell’aria/ Come un canto di allodole ». (Pag. 24). Non bastando ciò, in copertina appare la riproduzione di un dipinto, poco conosciuto, di Vincent Van Gogh, Two Lovers, Arles (Due innamorati ad Arles), una coppia di contadini di spalle che camminano sulla distesa d’un campo che il pittore olandese vedeva comunque gialla, ocra, come subito dopo la mietitura, perché l’artista era ‘affamato’ di sole e di calore soprattutto umano che in vita, per una serie di motivi e fatalità, gli fu negato. Che il poeta Ceccarossi abbia voluto fissare su carta il suo amore senza tempo e senza confini per l’altra sua metà, è indiscusso, e raccontare del loro quotidiano ménage facendolo diventare arco a tutto

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sesto dell’esistenza trascorsa insieme, ancora nella meraviglia l’uno dell’altro. «Non pensare/ che il tempo/ sia svanito/ Il tempo/ si è fermato/ in quell’istante/ e lo sguardo/ è quello che ci scambiammo/ E gli occhi?/ Gli occhi sono ancora quelli/ Quelli che cercarono le nostre dita ». (Pag. 33). Dicevamo che la versificazione va avanti da sé senza i ‘segnali stradali’ della punteggiatura, eppure il ritmo e la musicalità dei versi sono quasi palpabili e questo perché il poeta Ceccarossi è figlio d’arte d’un importante musicista solista, che fu Domenico Ceccarossi, quindi la musica, con tutti i suoi precetti, gli scorre letteralmente nelle vene! Attraverso la narrazione poetica delle trenta liriche, s’evidenza quasi plasticamente la figura di Patrizia perché, oltre al colore azzurro dei suoi occhi, si viene a sapere che l’incontro fra lei e il poeta Ceccarossi è avvenuto nel mese, non proprio propizio all’amore, di novembre e che quel giorno lei indossava un vestito della stessa tinta delle sue iridi; che il sedici di maggio è giorno di festa per una ricorrenza annuale importante; che c’è stato un figlio tanto sofferto; ma è anche vero che non si comprende tanto bene se c’è un lieto fine alla silloge o uno smarrimento interiore da parte del poeta, in relazione al protagonista della canzone iniziale de I Cugini di Campagna, dal momento che sul finale della silloge le liriche acquistano un tono mesto, ci sono i verbi al futuro ma s’intravede un viale coperto dalle foglie che sono tutte le promesse, custodite nel cuore dell’autore Ceccarossi, alla sua compagna di sempre. «Quando uscirò/ dalla tua vita/ ti porterò con me/ e non sarà tanto il dolore/ quanto la gioia di averti accanto/ Cammineremo fra luoghi conosciuti/ Rammenteremo i giorni lieti/ e quel figlio tanto sofferto/ Ora/ dormi tranquilla/ Io vivrò sempre vicino a te». (Pag. 39). Isabella Michela Affinito

RACHELE ZAZA PADULA PER LO GRAN MAR DE L’ESSERE (Osanna Edizioni, Venosa, 2020, € 15,00) Una rivisitazione della storia d’Italia del ‘900, vista attraverso le vicende di alcuni giovani lucani, costituisce il contenuto di questo nuovo libro di Rachele Zaza Padula, che ha per titolo Per lo gran mar de l’Essere. È questo un bel verso dantesco (Paradiso, I -113) con il quale la nostra scrittrice ha voluto rappresentare la vicenda dell’uomo, perduto sulle vie del tempo, alla ricerca di un senso da dare alla propria vita. Sin dalle prime pagine del libro ci vengono così incontro i protagonisti del romanzo: Andrea Magni


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e Marcello Chinnisi, studenti presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo romano. E poi Rachele, la ragazza incontrata da Marcello a Roma e della quale si era innamorato. A lei si affiancano Anita e Doretta, iscritte a Roma alla Facoltà di Lettere Moderne. La Padula segue le loro storie durante gli anni difficili della Seconda Guerra Mondiale, nonché durante gli anni della Resistenza, come avviene per Andrea (il cui nome di battaglia è Ado), che s’innamora di Doretta (chiamata Detta), una ragazza che si era unita ai partigiani, seguendoli nella loro avventura sui monti. Particolarmente felici sono le pagine nelle quali viene descritto l’idillio sbocciato tra lei e Andrea, che la sorregge e le dà coraggio nei momenti difficili. La loro storia sì interrompe bruscamente a causa dell’ammalarsi di Andrea, che è costretto a far ritorno a casa per curarsi da una grave polmonite che l’aveva portato quasi alla tomba. I due giovani così si perdono di vista. Il loro idillio verrà ripreso verso la fine del romanzo, quando si ritroveranno, per un moto propizio del destino che li farà ritrovare a guerra terminata. Diversa la vicenda di Marcello e Rachele, che si svolge in un ambiente meno tormentato dalla guerra, ma piuttosto percorso da crisi interiori e da tragiche morti, come quella del padre di Marcello, che lo pone improvvisamente di fronte alle sue responsabilità di uomo che deve provvedere alla sua famiglia. A queste due storie principali si affiancano quelle di zia Enrichetta e del veterinario don Luigi; di Petrina e Fernando; di Licia e Beppino, le cui vicende danno spessore e movimento al romanzo. Esse si concludono in genere felicemente, ma talora anche in maniera drammatica, come quella di Gabriella e Carlo, che termina con la morte di lei. La Padula segue nel suo romanzo anche le vicende politiche italiane, dagli anni della guerra a quelli successivi al conflitto, con particolare attenzione a quelle successive all’otto settembre. Libro nato dall’urgere dei ricordi, Per lo gran mar de l’Essere rievoca o inventa volti e nomi di uomini e donne che riaffiorano vivi e veri dalla penna dell’autrice, con quello stile fresco e disinvolto che le è proprio. Particolarmente felici risultano qui certe descrizioni paesistiche o di ambiente, che gettano luce sul mondo lucano facendo rivivere comportamenti ed usanze che si credevano perduti. Ne risulta un lavoro di ampio respiro e di molto pregio, frutto di un lungo impegno, che si aggiunge degnamente ai molti altri compiuti da Rachele Zaza Padula negli anni, e che vanno dalla poesia al romanzo, dal teatro alla saggistica, con quei risultati

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che la pongono tra gli autori più in vista che la Lucania degli ultimi decenni ci abbia dato. Elio Andriuoli RITA BONFIGLIO “BASILISSE – APPUNTI DI VIAGGIO Edizioni Carthago, Catania, 2019 - pagg. 208, € 18. L'opera di Rita Bonfiglio si struttura in tredici capitoli, dove due sono i fili conduttori, ascrivibili a due piani differenti. Il filo rosso di più immediata fruizione è il racconto di un viaggio in Lucania, intrapreso nell'agosto del 2011 e scaturito da un'idea, quella di portare una rosa sulla tomba di un uomo morto all'inizio del Novecento, dopo trenta anni di privazione di libertà, prima in un carcere, poi in un manicomio criminale. Il destinatario della rosa si chiamava Giovanni Passannante, un uomo vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento e che nel 1878 attentò alla vita di re Umberto, in quel momento in visita a Napoli insieme alla moglie Margherita. Nato in Lucania, figlio di una famiglia contadina poverissima, da autodidatta si era avvicinato alla cultura anarchica, mazziniana e internazionalista, assimilandone gli ideali che aspiravano a una società più equa. Con quel gesto sembra che Giovanni volesse semplicemente attrarre l'attenzione su una situazione per alcuni ceti sociali molto drammatica, ma fu orrendamente punito: non gli fu permesso un processo politico, dove avrebbe potuto spiegarne le profonde ragioni; prigioniero in condizioni tremende, morì pazzo; dopo la morte fu decapitato, la sua testa usata per gli studi di impronta lombrosiana e la sua storia dimenticata, fino a quando un regista la riesumò, veicolandola attraverso un'opera teatrale, e poi un altro regista ne trasse un film. Galeotto fu il film, sorgente della rosa offerta a questa vita martoriata. Fu un moto d'anima, una specie di tentativo di riparare a un torto che era stato fatto a un uomo umile che niente altro pensava di poter fare per riequilibrare condizioni di vita così disuguali, così ingiuste, se non attentare alla vita del re. Questo primo filo conduttore illustra in modo molto dettagliato, se pur non con un racconto continuativo, bensì lasciato in sospeso e poi ripreso, la nascita dell'idea, la pianificazione del viaggio per la sua realizzazione e la situazione concreta in cui si realizzò, e fu per l’autrice solo uno spunto, l'inizio di un discorso che si è dipanato in molteplici e sfaccettate direzioni; questo primo filo rosso ha infatti molte diramazioni, come il tronco di un grande albero con tanti rami, innesti che raccontano altri


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viaggi che Rita Bonfiglio ha effettuato e che convergono in un altro filo rosso, ascrivibile all'ambito della percezione, che vede l’autrice alla ricerca del “genius loci” dei luoghi visitati, un “genius loci” però declinato al femminile, dove con l'illustrazione di miti, fiabe, antiche tradizioni, riti, leggende, figure storiche realmente esistite, pratiche di pensiero altro, tenta di far emergere, rivalutandola, la potenza dell'energia che dovrebbe sottendere all'essere donna e che si contrappone, in questo caso senza violenza, al potere che tutto soggioga e reprime. Inseguendo il “genius loci” dei vari luoghi, senza per questo tralasciarne la descrizione fisica con dovizia di particolari, l’autrice segue il flusso dei suoi pensieri, dei suoi ricordi, in una specie di flusso di coscienza; non è un racconto lineare il suo, la lettura richiede grande concentrazione, massima attenzione, perché è facile perdersi nei salti che compie tra un viaggio e l'altro, in una pur sempre originalissima ricerca che a ben guardare vuole trasmettere un messaggio d'amore, di unione, un tentativo di evidenziare i tratti comuni del Sud e del Nord d'Europa, dando ampio spazio al Mediterraneo, culla e grembo della Civiltà da cui noi proveniamo. La forma letteraria usata in questo scritto è altamente lirica, anche nei passaggi più colloquiali; si evincono una grande padronanza della scrittura e una ammirevole profondità di pensiero, una indagine conoscitiva a tutto campo che potrebbe contribuire al superamento della fase attuale nella quale siamo immersi, troppo spesso caratterizzata da sentimenti per nulla nobili. Perché è anche la nobiltà dell'intento che rende prezioso questo scritto. Lia Giudici FABIO DAINOTTI ULTIMA FERMATA Poesie e racconti in versi La Vita Felice, 2021 - Pagg 60, € 12,00 La silloge di Fabio Dainotti, Ultima fermata, è divisa in otto sezioni: Autobus a Pavia, Franciacorta in corriera, Funicolare di Brunate, Trenino per Vimercate, Agropoli, treno con “spinta”, Airport 2015 JFK NY, Burchiello sul Brenta e Taxi per Cava. La raccolta è composta da venticinque liriche, dal verso sciolto, che indicano il movimento di un’intera esistenza tra le nazioni, le città e le persone. Il viaggio è rappresentato attraverso i diversi mezzi di trasporto: autobus, funicolare, trenino, treno, aereo e taxi. Ma non importa quale sia il mezzo, poiché i luoghi, le strade trasudano ricordi, i quali sono una parte fondamentale della memoria, quella stessa che

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ci permette di vivere il presente con maggiore leggerezza e con meno preoccupazione. Il poeta, tra poesie e racconti in versi, come indica il titolo del volume, descrive la vita vera, a volte allegra e solare, altre volte amara e cinica. La durezza di alcuni fatti prende il sopravvento e riporta il lettore a un realismo quasi doloroso. I ricordi s’intrecciano con il territorio, con le città. I luoghi, le azioni compiute o subite, sono uniti e inseparabili nella memoria del poeta come nella lirica Sgombero: “I vestiti che escono di casa/ Tristissimo emblema d’assenza;/ i tuoi vestiti, poi la tua partenza./ Ma resta il tuo profumo nell’armadio./ Lo sgombero, il trasloco: un vuoto, anche/ dentro di me, nel mio cuore malato”. L’autore, inoltre, con pochi versi riesce a descrivere il paesaggio che intravede dalla sua finestra e a farlo rivivere nella mente del lettore, come nella lirica Paesaggio sul Ticino: “Vibrazioni di luce scontornano/ le linee del paesaggio lungo il fiume;/ appena un tenue lume, tra le case/ brune, che i monti e le colline attorniano”. Le parole scritte e scelte in questa poesia sono così suggestive che sembra quasi che creino un quadro. Nella nota Luigi Fontanella afferma: “All’interno di quest’attività fermentante della memoria Dainotti è in grado di fermare, in fulminei cortocircuiti mentali, i flash istantanei del proprio pensiero poetante; singole situazioni; stati d’animo; gesti ricatturati psichicamente, e come fermati per sempre nel tempo (si veda emblematicamente un testo, godibilmente teatralizzato, come Il venditore). Ma tutto questo non deve far pensare a una dimensione pan-tragica dell’esistenza”. Infatti, ne Il venditore, si paragona il commerciante ad un animale che vuole catturare la sua preda e sentendone quasi il sangue, poiché la vittima è quasi caduta nell’inganno, avverte la frenesia dovuta all’odore del sangue/denaro, ma poi la donna riesce a declinare, uscendo dal tranello. Sfogliare Ultima fermata è come salire su un autobus vista “vita”: rappresenta una lunga rassegna di esperienze che il Dainotti ha saputo trasformare in versi fortemente suggestivi ed evocativi, caratterizzati da un forte realismo. Manuela Mazzola

ISABELLA MICHELA AFFINITO C’ERA UNA VOLTA IL MARE…. Casa Editrice Menna, 2002, Pagg 31, € 5,16 Davanti ad uno specchio d’acqua/ si vede scorrere la vita,/ ma non si può afferrare,/ non si può


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fermare:/ è come l’acqua,/ ti sfugge mentre cerchi/ di catturarla”. Il fascino delle acque, simbolo della vita stessa, da sempre ha catturato l’immaginazione di artisti, intellettuali e poeti. Il filosofo Eraclito, vissuto tra il VI e V secolo a.C ad Efeso, diceva che il fiume è solo apparentemente lo stesso, poiché nella realtà è formato da acque sempre diverse e nuove, che si muovono in un perpetuo sopraggiungere e dileguarsi. Perciò non è possibile entrare due volte nelle stesse acque che formano il medesimo corso d’acqua. Dunque, il fiume è il simbolo del divenire, del trasformarsi e dell’implacabile cambiamento degli individui e del pianeta intero. La silloge C’era una volta il mare… è composta da quattordici poesie dal verso libero e il mare è il soggetto che ha ispirato la poetessa Isabella Michela Affinito. Nelle liriche vi è un continuo dialogo e un’empatia con la Natura intera. L’acqua ha un eterno ciclo, passa da uno stato all’altro, si purifica e si rigenera, donando il soffio vitale al pianeta e al genere umano, animale e vegetale. L’autrice racconta l’affascinante mistero racchiuso in un continuo movimento e divenire, poiché il suo moto non è mai uguale a se stesso. L’Affinito nella prefazione afferma: “Avendo questa primaria importanza il mare è un mito vivente che ancora ha tanto da raccontarci e quindi, da trasmetterci oltre che da darci in forma di tesori ritrovati sui suoi fondali ed è per questo che le seguenti poesie sono un tributo ad esso, ad una presenza ultramillenaria che, osservandola ancora oggi noi rimaniamo affascinati dal suo manto variabile come il suo umore e come gli occhi di una dea”. Tante sono le leggende e le storie nate intorno al mistero degli oceani, infatti la Nostra immagina Poseidone che con la forza prorompente delle onde ingoia i tesori del mondo, portandoli nel suo regno. La poetessa dal suo mondo riservato osserva la Natura e intreccia racconti in versi tra il mare, la sua esistenza e i personaggi di antiche leggende, creando un ordito delicato tra fantasia, fervente immaginazione e realtà. “Io come l’alta marea/ attirata dalla luna/ farò delle onde/ le balze al mio vestito/ che resterà sospeso/ a galleggiare in riva al mare/ e quando tutto si sarà calmato/ le onde faranno/ un nuovo giro”. Manuela Mazzola

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D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE 83° DELLA FONDAZIONE DI POMEZIA - Domenica 25 Aprile 2021 l’Associazione Coloni, nel rispetto delle misure anti Covid 19, ha dato luogo alla celebrazione storica dell’83° anniversario della posa della prima pietra. Se pur in modo differente per il 28° anno consecutivo si è dato luogo alla


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Festa della Fondazione. Presenti le Autorità Comunali nella persona del Sindaco Zuccalà, del vice Sindaco Morcellini , del Presidente del Consiglio Stefania Padula, figlia di coloni ed il Comando di Polizia Municipale che insieme all’Associazione Coloni hanno ricordato l’evento storico ed il lavoro tenace ed intelligente dei primi coloni, nella terra bonificata di Pomezia. Verso le 10,30 il ridottissimo corteo ha raggiunto il Monumento ai Padri fondatori e il momento della deposizione del cesto di rose rosse è stato sottolineato dall’esecuzione dell’ Inno d’Italia. Come è tradizione si è data lettura della Sintesi della nascita di Pomezia di Pietro Guido Bisesti. Quindi è intervenuto il Signor Sindaco che, rivolto ai presenti ed a coloro che seguivano la diretta sui social, ha portato il suo saluto alla città ed ha auspicato per il prossimo anno una celebrazione libera dalle restrizioni dell’emergenza sanitaria. A fine cerimonia l’Associazione Coloni ha


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omaggiato i presenti con il Calendario Storico 2021, dedicato proprio all’evento storico commemorato. Nel segno della speranza si è celebrato l’83° anniversario della fondazione, con la deposizione di un cesto di rose rosse augurale … per il nostro futuro; ed allo stesso tempo si è reso omaggio ai nostri padri e nonni e soprattutto alla loro opera in questa nostra terra di bonifica, i quali hanno contribuito fattivamente allo sviluppo socio economico e culturale della città. Il gruppo in costume d’epoca è stato rappresentato da Rosa Marchi e Franco Lunardini che ha orgogliosamente portato lo stendardo dell’Associazione Coloni. Ogni gesto, ogni parola, ogni nome sulle lastre del monumento mi hanno riportato alla mente le parole e il grande cuore di papà che, in ricordo dei nostri avi e della storia del nostro territorio, ha portato avanti la sua attività di ricordo, di omaggio e di diffusione alle nuove generazioni.

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In questi quattro anni dalla sua scomparsa, non mi sono mai sentita perduta, perché i soci, gli amici, i simpatizzanti, gli artisti, le associazioni culturali, di volontariato e militari di Pomezia mi hanno accompagnato nel portare avanti la sua opera, nata all’interno dell’Associazione Coloni. Domenica 25 Aprile mi è mancata immensamente la loro presenza! Con la speranza nel cuore speriamo che finisca presto questa guerra silenziosa, che ha lasciato sulla sua via numerose vittime, e sull’esempio dei padri fondatori, noi tutti, raccogliamo le forze da questa terra di bonifica per superare insieme la crisi generata dal Coronavirus e poter ricominciare a vivere nella più attesa normalità. Emilia Bisesti – Ass. Coloni *** PRESENTAZIONE DE IL POETA E LA BAMBINA – Domenica 9 maggio 2021, alle ore 17,00 nella Sala Convegni Incubatore di Galati Mamertino, nell’ambito del Premio “Nino Ferraù”, è stato presentato in anteprima il romanzo di Francesca Spadaro Il poeta e la bambina. Nino Ferraù poeta siciliano del Novecento (Armando Siciliano Editore), con: Nino Baglio, Rosella Vicario, Giuseppe Corica, Pippo Ferraù (fratello di Nino Ferraù) e l’Autrice Spadaro. Sono intervenuti, inoltre, Francesco Federico e Lidia Muscolino. Il Poeta e la bambina di Francesca Spadaro, Armando Siciliano Editore è un “ romanzo” su Nino Ferraù, fondatore del movimento culturale dell’Ascendentismo, poeta di fama internazionale, pluripremiato in vita e ingiustamente obliato dopo la sua morte. Il Poeta e la bambina è insieme romanzo biografico e storico, perché attraverso la vita del Ferraù si ricostruisce la storia d’Italia e d’Europa dagli anni Trenta sino agli anni Ottanta, periodo di cui il Ferraù è stato interprete attento e acuto osservatore. Una società che cambia, tra nostalgia del passato e ansia di palingenesi in un futuro, che è nelle mani dei figli di domani. L’impalcatura generale è quella del testo nar-


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rativo, sebbene in essa si inseriscano frequentemente poesie, discorsi, documenti, testimonianza vivente dell’uomo, del poeta, dell’intellettuale. ***

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POMEZIA HA IL DOVERE DI ONORARE DOMENICO CAPPELLI, IL SUO POETA OPERAIO - Il 9 marzo del 2022, ricorrerà il decennale della morte, nel suo appartamento di via Singen, a Pomezia, del poeta operaio Domenico Cappelli. Era nato a Rocca San Casciano, in provincia di Forlì, nel 1946, ma aveva solo sedici anni quando se ne allontana per motivi di lavoro. Ha prestato la sua opera di saldocarpentiere in più parti d’Italia, stabilendosi, poi e definitivamente, nella nostra città a partire dal 1969. Oltre quello verso il suo mestiere - che gli consentiva di vivere e mantenere la famiglia - Domenico Cappelli aveva e coltivava altri due grandi amori: la musica – finché non si è sciolto, egli ha fatto parte del complesso bandistico cittadino Santa Cecilia – e la poesia, in special modo quella civile e sociale. Dalla durezza del ferro – scrivevamo nel gennaio 2013 – Cappelli ha ottenuto il pane per il corpo e dalla musica e dalla poesia il nutrimento morale e spirituale che gli ha permesso di superare le tante traversie della vita. Le sue poesie sono apparse su riviste, periodici e su Internet; noi ricordiamo due suoi


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lavori importanti: “Sonetti d’Italia” e il postumo “Poesie scelte e Vita dell’ultimo operaio” (2012), prefazionato da Giovanni Vandi (Ge.Graf Arti Grafiche di Bertinoro, FC) e illustrato dal fratello Francesco Cappelli. In entrambe le pubblicazioni, vita poesia e musica sono alla base del suo canto; il primo volumetto, però, reca quasi un sol tema, mentre il secondo è più corposo e vario; è quasi un diario memoriale, attraverso il quale si snoda il racconto della sua vita e la partecipazione alle lotte operaie per la conquista dei diritti dei lavoratori. Le vicende personali vengono inserite all’interno dei grandi avvenimenti che hanno interessato la seconda metà del secolo scorso. A partire da oggi, fino al marzo 2022, presenteremo ai lettori e ai cittadini di Pomezia, alcune poesie di Domenico Cappelli, perché intendiamo stimolare anche l’Amministrazione Comunale a onorarlo, intitolandogli una strada, o un luogo, come, per esempio, quello spazio, su via Singen, a fianco la chiesa di San Bonifacio, prima che si giunga a piazza Aldo Moro, o quello sotto i palazzoni nei quali abitava, proprio di fronte al cancello dell’entrata della chiesa; gli si potrebbe, addirittura, dedicare un monumento, o un semplice mezzo busto e, perché ciò si realizzi, contiamo anche sulla sensibilità del Quartiere, che a Domenico Cappelli voleva bene. Il poeta operaio, insomma, merita che venga degnamente onorato. Siamo sicuri che la Città non si tirerà indietro; se è lecito spendere fior di quattrini per dei murales, i quali, per loro natura, son destinati, in pochi anni, a logorarsi sotto il sole e la pioggia, tanto più doveroso e meritevole è non trascurare coloro che, anche se figli adottivi – Pomezia è giovane e tutti coloro che l’han popolata son venuti da fuori e, chi è nato dopo, è nato pure altrove, come altrove si continua a nascere per mancanza in essa strutture adeguate -, le hanno dedicato energie e amore per renderla sempre più bella e ammirata in Italia e nel mondo. Ecco, di Domenico Cappelli, POMEZIA HA 73 ANNI: “Pomezia, nella vecchiaia/mi

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sono innamorato/di te, eppur di tempo ne è passato./Sai quanti giorni? Boh! Sono migliaia!//Eravam giovanotti tutti e due,/io ventitré, tu circa una trentina,/l’età per una città da ragazzina,/io già a sgobbare allora come un bue.//Eran tempi così, chi più chi meno,/ognuno trascinava la carretta,/il mondo andava piano, senza fretta,/e tra la gente non c’era veleno.//Tu ci davi il lavoro che era tanto,/noi a produrre per crescere i figli,/non c’era tanto tempo per sbadigli,/tempo non c’era per il riso o il pianto.//Or sono pensionato e ti ritrovo/una bella città che con passione/affronta la moderna confusione/alla ricerca d’un vestito nuovo.//Nel parco, là, tra le sughere e i meli,/lungo la pista delle biciclette/di auto niente smog, né motorette,/la primavera limpida ci sveli.//Ora ti posso dir: Pomezia mia!/E son sincero, non è una bugia.” Domenico Defelice Nella foto: Pomezia, 20 ottobre 1984, Istituto d’Arte Pablo Picasso, V Edizione Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia. Dorando Mugnaini, Assessore alla Cultura, premia il poeta Domenico Cappelli; al microfono, il corrispondente del quotidiano Il Tempo, Dott. Franco Di Filippo. *** CORRADO CALABRÒ RINGRAZIA ELIO ANDRIUOLI – Pomezia-Notizie di maggio ha avuto gran successo come avviene da anni quasi di ogni numero, grazie alle valorose firme dei suoi collaboratori. Ecco quanto Corrado Calabrò scrive a Elio Andriuoli per l’articolo apparso a maggio in prima pagina: Elio carissimo, leggo solo ora la tua recensione di Quinta Dimensione su Pomezia-Notizie e rimango felicemente assorto. Hai colto il senso e la valenza di Roaming come nessun altro e hai posto in luce la peculiarità delle altre mie poesie come pochi altri. In questi tempi, in cui tanti critici hanno


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smarrito la capacità di sentire la poesia, tu dimostri a quale punto di intellezione e di consonanza possa giungere un intenditore dotato di una sensibilità e di un’acutezza di giudizio che lo portano a cogliere l’emozione poetica nel suo farsi parola. Parola della quale tu riveli la comprensione profonda, e al tempo stesso immediata, che solo il critico che abbia anima di poeta sa attingere. Le espressioni da te usate lo testimoniano: “Presente, passato e futuro si sono così incrociati per un attimo in un unico istante, che ci ha resi consapevoli della nostra finitudine”. “Un linguaggio nel quale si sente palpitare la vita” Il magico e stregonesco dell’Esorcismo dell’Arcilussurgiu; e come giustamente vedi nella fattucchiera una strega. Come hai capito Jessica, Silvia, Il vento di Miconos, Colpo di luna e le altre. La compiutezza, ecco, la compiutezza anche mi sbalordisce: in un testo necessariamente di dimensioni ridotte tu hai saputo compendiare l’essenza della mia pur varia poesia con una densità di giudizio davvero inusuale. E la piana bellezza della tua prosa aggiunge gradevolezza e attrazione al tuo scritto. Grazie, Elio, grazie di tutto cuore. Questo tuo intervento è di grande sollievo in questo costrittivo periodo che attraversiamo, segnato dalla scomparsa di tanti amici cari (penso, tra gli altri, a Guido). Un forte abbraccio. Corrado Calabrò *** IN EDICOLA E NELLE LIBRERIE: “Inchiesta sulla Poesia” di Lorenzo Spurio: un saggio interamente dedicato alla poesia - È uscito il volume del critico Lorenzo Spurio dal titolo Inchiesta sulla poesia. L’opera – che conta 238 pagine – è stata pubblicata nella collana “I saggi” della casa editrice PlaceBook Publishing & Writer Agency di Rieti a cura di Fabio Pedrazzi. Il libro raccoglie saggi e approfondimenti che il critico marchigiano ha voluto dedicare alla poesia e alle sue varie sfaccettature ed è il completamento

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di un’iniziativa da lui lanciata nel dicembre 2019 quando decise – come richiama il titolo – di lanciare un’inchiesta sulla poesia. Una serie di domande, di cui la gran parte aperte, rivolte potenzialmente a tutti ma preferibilmente dirette ai poeti, a coloro che la poesia “la fanno”. L’adesione è stata massiccia, circa duecento poeti italiani e non solo ed è stata trasversale vedendo partecipare poeti di tutte le generazioni, di qualsiasi tendenza, caratterizzati da stili, tematiche e propensioni quanto mai diversificate. L’iniziativa di Spurio ha dato il via al presente saggio nel quale, tra i numerosi argomenti trattati, si parla dell’impossibilità di definizione della poesia, del suo ruolo, delle commistioni con le arti, della musicalità, del pubblico, delle manifestazioni collettive quali il reading, il premio letterario e il poetry slam con un excursus anche sui poeti dimenticati – ingiustamente, colpevolmente – sottoposti a una bieca damnatio memoriae. Diviso in opportune sezioni nelle quali si dibatte su vari argomenti, l’autore ha deciso di occuparsi anche del rapporto tra poesia e scienza, dell’importanza della critica, lasciando aperta la porta sulle possibili idee di un futuro della poesia. Ad arricchire il volume sono una nota introduttiva del critico letterario abruzzese Massimo Pasqualone e, in appendice, alcuni contributi aggiuntivi che aiutano ad ampliare ancor più lo studio e la riflessione sulla complessità dell’universo poetico nella nostra contemporaneità. L’autore ha deciso infatti d’inserire il testo di una sua recensione scritta tempo fa per il poeta e haijin campano Antonio Sacco interamente volta ad approfondire il fenomeno della poesia epigrammatica orientale dello haiku e un saggio particolarmente interessante, sulle nuove forme e linguaggi poetici, dalla street poetry alla InstaPoetry, scritto dalla poetessa Flavia Novelli. Inoltre vi è una nutrita scelta di citazioni sulla poesia del noto poeta e giurista Corrado Calabrò estratte da un suo saggio dal titolo particolarmente evocativo (“C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia?”), pubblicato in prima versione ormai qualche anno fa e qui


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riproposto per accenni e rimandi che ci si augura possano apparire interessanti e, dunque, essere colti. Non mancano – nel corso dell’intero saggio – riproposizioni di brevi brani, assunti quali citazioni, di alcune delle risposte fornite dagli intervistati che Spurio ha ritenuto propedeutiche allo studio, nonché interessanti e motivo di ulteriore arricchimento per la dissertazione, da proporre e rendere fruibile alla collettività. Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca (2016; 2020) e Pareidolia (2018). Ha curato antologie poetiche tra cui Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (2016). Per la narrativa ha pubblicato tre raccolte di racconti. Intensa la sua attività quale critico con la pubblicazione di saggi in rivista e volume, approfondimenti, tra cui le monografie su Ian McEwan, il volume Cattivi dentro: dominazione, violenza e deviazione in alcune opere

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scelte della letteratura straniera (2018), Scritti marchigiani (2017) e La nuova poesia marchigiana (2019). Tra i suoi principali interessi figura il poeta Federico García Lorca al quale ha dedicato un saggio sulla sua opera teatrale, tutt’ora inedito e tiene incontri tematici, oltre ad aver curato il volume Il canto vuole essere luce. Leggendo Federico García Lorca (2020). Ha tradotto dallo spagnolo una selezione di poesie di Dina Bellrham confluite in Le iguane non mi turbano più (2020). Presidente dell’Associazione Culturale Euterpe di Jesi, ha ideato e presiede il Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”. Sulla sua opera hanno scritto, tra gli altri, Giorgio Bàrberi Squarotti, Dante Maffia, Ugo Piscopo, Nazario Pardini, Antonio Spagnuolo, Emerico Giachery. Il libro su Place Book Publishing e Writer Agency; Il libro su Amazon; Il libro su Librerie Giunti al Punto *** DALLA TURCHIA A POMEZIA: L’ITINERARIO DELLA “ROTTA DI ENEA” – Il Consiglio d’Europa ha riconosciuto il quarantacinquesimo Percorso internazionale, che si rifà al viaggio che l’eroe troiano Enea ha compiuto da Troia a Roma. A promuoverlo è stata l’Associazione “Rotta di Enea” nel 2018, unitamente all’Associazione Lavinium, al comune Edremit, in Turchia, e ad altri Enti internazionali. Si parte, naturalmente, dalla Turchia, da Troia, distrutta dopo dieci anni dall’esercito greco; primo arrivo a Delos, poi a Butrino in Albania (incontro tra Enea e Andromaca, la vedova di Ettore); si arriva in Italia, con le tappe di Castro e Crotone; si passa, via mare, in Tunisia a Cartagine; si ritorna in Italia, in Sicilia, a Trapani, dove viene sotterrato il vecchio Anchise; ancora Cartagine e ancora l’Italia, con Segesta, Palinuro, Cuma (incontro con la Sibilla), Pozzuoli (e la discesa agli Inferi), Gaeta (viene sepolta la nutrice di Enea) e, finalmente, Pratica di Mare – Pomezia, dove, vicino al monumento dei XIII altari, si trova la tomba, l’Heroon di Enea. Un itinerario storico, leggendario e di grande


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cultura, che ha come base il poema Virgiliano. Siamo certi che lo percorreranno gli studiosi di tutto il mondo e che diverrà, perciò, elemento di alto turismo.

LIBRI RICEVUTI LAURA PIERDICCHI – Il portale – Poesie, Prefazione di Pino Bonanno; illustrazioni in copertina e nel testo di K. B. Rossetto – Biblioteca dei Leoni, 2021 – Pagg. 80, € 10,00. Laura PIERDICCHI è nata a Venezia e vive a Mestre. Ha pubblicato dodici volumi di poesia e un libro di racconti. Cura recensioni e articoli per riviste e quotidiani con argomenti di letteratura e di cultura varia. Sue liriche figurano in antologie e riviste ed hanno conseguito molti premi a concorsi nazionali e internazionali. Le antologie “Venezianamente” (Spagna) ed “Echi d’acqua” (Romania) comprendono una silloge di sue liriche, a cura rispettivamente di Nadia Consolani Quiñones e Ştefan Damian. Anche nella rivista “Vernice” appare un ampio servizio sulla sua attività. È componente di giuria in concorsi letterari e svolge intensa attività pubblica di partecipazione a manifestazioni culturali. Di lei si è interessata la critica più qualificata. Sue liriche sono state tradotte in tedesco (e presentate da Helmut Meter al Musil Archiv di Klagenfurt e pubblicate in “I nascosti colori della vita”), spagnolo e romeno, e stampate in diverse riviste nelle rispettive nazioni. Tra le sue opere ricordiamo le più recenti: “Bianca era la stanza” (2002), “Il segno dei giorni” (2004), “Il tempo diviso” (2008), “Voci tra le pieghe dei passi” (2013), “Oltre” (2016). ** AA. VV. – Antologia di Poesia Italiana Vent’anni del terzo millennio, a cura di Lucio Zaniboni. Dopo una limpida e veloce Introduzione, vengo antologizzati i seguenti Autori, con foto in bianco e nero, curriculum e brano poetico: Stefano Baldinu, Giorgio Bertella, Silvano Bortolazzi, Enrico Caltagirone, Pietro Casella, Alessandra Cecchetti Ermoli,

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Franco Ciullo, Pietro Civitareale, Lorenza Colicigno, Leone D’Ambrosio, Domenico Defelice, Paolo dell’Aversana, Maria Giulia Dell’Olio, Laura De Luca, Nicola De Matteo, Adele Desideri, Vincenzo Di Oronzo, Silvia Favaretto, Dina Ferorelli, Teresa Francia, Lucetta Frisa, Eugenio Maria Gallo, Aldo Gerbino, Elena Giacomin, Anna Gramegna, Mario Grasso, Vincenzo Guarracino, Lucia Guidorizzi, Elisabetta Liberatore, Maria Teresa Liuzzo, Francesco Maurogiovanni, Gianni Antonio Palumbo, Marisa Papa Ruggiero, Roberto Pazzi, Maura Picinich, Cinzia Platania, Isidoro Raciti, Tommaso Romano, Sebastiano Saglimbeni, Anna Santoliquido, Antonio Spagnuolo, Santino Spartà, Assunta Spedicato, Giorgia Spurio, Lorenzo Spurio, Paolo Staglianò, Giancarlo Stoccoro, Imperia Tognacci, Enzo Varricchio, Giuseppe Vecchi, Paola Veneto, Lucio Zaniboni, Lucio Zinna.

TRA LE RIVISTE L’ERACLIANO – Organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili – fondata nel 1623 – diretto da Marcello Falletti di Villafalletto – Casella Postale 39 – 50018 Scandicci (Firenze) – e-mail: accademia_de_nobili@libero.it –Riceviamo il n. 1/3, del gennaio/marzo 2021, del quale segnaliamo l’articolo d’apertura “Un novello Samuele (Mons. Giovanni Giuseppe Raulo Costanzo Falletti di Barolo, arcivescovo di Cagliari)”, di Marcello Falletti di Villafalletto; “Streghe e magia”, di Gian Giorgio Massara; l’intervista postuma al maestro Detto Mariano “Un grande protagonista della musica leggera” e, infine, la rubrica “Apophoreta”, di Marcello Falletti di Villafalletto, che, tra l’altro, recensisce “Sensazioni di una fanciulla”, parte seconda, di Manuela Mazzola. * SPIRITUALITÀ & LETTERATURA – rivista fondata nel 1986, diretta da Tommaso Romano – Fondazione Thule Cultura – via Ammiraglio Gravina 95 – 90139 Palermo –


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e-mail: fondazionethulecultura@gmail.com – Riceviamo, in via telematica, i numeri 107108, aprile-settembre 2020, di ben 408 pagine, interamente dedicate a “L’Attrazione dell’oltre nella poesia di Corrado Calabrò” a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto, con testi di: Franca Alaimo, Andrea Aloi, Giuseppe Amoroso, Elio Andriuoli, Davide Argnani, Giovanni Ariola, Fabia Baldi, Carlo Bo, Giuseppe Borgese, Annamaria Bracale, Giovanni Camelia, Riccardo Campa, Sergio Campailla, Luca Canali, Maria Gabriella Carbonetto, Giovanni Chiellino, Pietro Cimatti, Fabio Dainotti, Aurora De Luca, Domenico Defelice, Carmine Di Biase, Carlo Di Lieto, Corrado Di Pietro, Ninnj Di Stefano Busà, Patrice Dyerval Angelini, Daniela Fabrizi, Cesira Fenu, Antonio Filippetti, Fiorella Franchini, Laura Garavaglia, Giuseppe Gargano, Guido Gerosa, Roberto Gervaso, Mario Gabriele Giordano, Guerrino Giorgetti, Vasco Graça Moura, Vincenzo Guarracino, Raffaella Iacuzio, Davide Lajolo, Cesare Lanza, Giuseppe Limone, Giuseppe Lupo, Mario Luzi, Carlo A. Madrignani, Dante Maffia, Angelo Manitta, Giuseppe Manitta, Anna Manna Clementi, Franco Manzoni, Silvia Marzano, Valeria Marzoli, Pierantonio Milone, Renato Minore, Aldo Maria Morace, Roberto Nicolai, Nicola Pandolfo, Carmen Paolillo, Elio Pecora, Gerardo Pedicini, Bruno Pezzella, Ugo Piscopo, Liliana Porro Andriuoli, Nicola Prebenna, Giuseppe Rando, Domenico Rea, Viviana Reda, Luigi Reina, Renzo Ricchi, Lorenza Rocco, Luciano Satta, Gennaro Savarese, Aldo Sisto, Antonio Spagnuolo, Maria Luisa Spaziani, Mario Specchio, Lorenzo Spurio, Lucia Stefanelli Cervelli, Santo Strati, Enrico Tiozzo, Piero Antonio Toma, Claudio Toscani, Fulvio Tuccillo, Stefano Valentini, Giuseppe Vetromile. * RENDITION OF INTERNATIONAL POETRY – Rivista trimestrale (bilingue: inglese –cinese) diretta da Zhang Zhi – P. O. Box 031, Guanyinqiao, Jiangbei District, Chongqing City 400020, P. R. China – e-

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mail: iptrc@126.com – Riceviamo, online, il n. 1, febbraio 2021, la cui copertina è dedicata alla splendida Katya Ganeshi (Russia), con poesie e curriculum alle pagine 5 – 6; la seconda di copertina a: Michela Zanarella (Italia), con foto, tre poesie e curriculum; la terza alla pittrice Sheng Huahou, con foto e 4 pitture; la quarta, alle foto di: Eldar Akhadov (Azerbaijan), Xu Chunfa (Cina), Misna Chanu (India), Qiao Hao (Cina), Zlatan Demirovic (Croazia), Niels Hav (Danimarca), Sneh Sayami (Nepal) e Zhou Duanzhuang (Cina), i cui materiali e curricula si trovano all’interno della rivista (la traduzione in italiano delle poesie di Zhou Duanzhuang è di Domenico Defelice). * IL SYMPOSIACUS – organo culturale di equilibrata umanità, diretto da Pantaleo Mastrodonato – via La Martina 51 – 76011 Bisceglie (BT) – Riceviamo il n. 1, gennaiomarzo 2021. Tra le firme, rileviamo quelle di Aldo Marzi, Enrica Di Giorgi Lombardo, Leonardo Selvaggi.

AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione o altro) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute); per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ Per eventuali versamenti, assolutamente volontari: Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009


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