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Amburgo 1840, Un quadretto, di Marina Caracciolo, pag
by Domenico
Il Racconto
AMBURGO, 1840 UN QUADRETTO
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di Marina Caracciolo
È una gelida sera di fine dicembre. La neve cade fitta, posando sui tetti candide e soffici parrucche. A quest’ora le viuzze della città vecchia sono spopolate e fanno quasi paura. Un uomo, robusto ma un po’ barcollante, esce da un’osteria del porto e se ne va verso casa, avvolto in un lungo mantello scuro che gli copre in parte anche la faccia. Da lontano giunge attutito il rumore di una carrozza che si avvicina. Se qualcuno avesse proprio voglia di schiacciare il naso contro i vetri di una finestra, vedrebbe passare di lì a poco una diligenza con due cavalli, uno bianco e uno nero, che corrono veloci verso una ignota destinazione.
Pur così fredda e deserta, Amburgo non è mai stata tanto bella, tanto fiabesca: nessuno si meraviglierebbe se vedesse un allegro gnomo fare agili capriole sul morbido velluto delle strade. Ma nessuno guarda fuori. Nessuno si affaccia alle finestre. All’interno delle case, tutti se ne stanno stretti gli uni accanto agli altri per tenersi più caldo, e intanto parlano con voce sommessa, nella misteriosa penombra delle stanze rischiarate soltanto dalle fiamme del camino e da lampade ad olio, quasi temendo di infrangere l’incanto che regna sovrano.
La famiglia di Johann Jakob Brahms, tuttavia, questa sera pare più allegra del solito. Inaspettatamente è arrivato lo zio Peter, tutto infreddolito e scrollandosi di dosso i cristalli di neve non ancora sciolti. Tutti sono contenti, ma i più felici, come sempre, sono i bambini: Elise e il fratellino Johannes, che lo aspettano ogni volta con ansia perché sanno che lo zio ha sempre in serbo per loro una piccola sorpresa o per lo meno una bella storia da narrare. Egli infatti parla spesso di paesi e di popoli lontani, e i nipotini restano affascinati ad ascoltare quelle meravigliose storie di principi, di tesori, di briganti…
«Tanto tempo fa», racconta rivolgendosi ai due bimbi, «i pirati mi tennero a lungo prigioniero in un’isola lontana. Poi un giorno il loro capo, per mostrarmi la sua magnanimità, mi lasciò andar via libero; non prima, però, di avermi fatto dono, in segno di grande amicizia, di uno scrigno colmo di pietre preziose. Io, tuttavia, prima di salire sulla nave che mi avrebbe riportato in patria, finsi di dimenticare sulla spiaggia quella cassa di legno intarsiata di madreperla: avevo il terrore che sotto quelle gemme si nascondesse qualche temibile serpente velenoso! I pirati ne possedevano molti, sapete, e li si vedeva, talvolta, mentre si attorcigliavano con le loro lunghe spire agli alberi dei vascelli. Ma quegli uomini di mare, avvezzi al pericolo, non ne avevano alcun timore, anzi, ci giocavano come fossero balocchi, e scherzando se li passavano l’un l’altro oppure li mettevano al collo come enormi collane».
I due fanciulli, intanto, pieni di meraviglia, sbirciano con apprensione negli angoli della grande Stube, quasi aspettandosi di veder spuntare da un momento all’altro una lingua biforcuta… I grandi sorridono bonariamente e Jakob, rivolgendosi agli altri, ammicca con aria di intesa: «Meno male che noi, invece, non ci siamo mai mossi da queste lande del Nord, e così non abbiamo mai visto pietre preziose ma nemmeno pericolosi serpenti! La nostra sola gioia è quel vecchio contrabbasso che
ronza e muggisce nell’orchestrina dell’ Alster-Pavillon. La musica scaccia la malinconia e anche i freddo dell’inverno. Io stesso, mentre suono,sento il sangue diventare più caldo; e se poi non basta, un buon boccale di birra non manca mai di mettere l’argento vivo addosso!».
«Dobbiamo ringraziare il buon Dio se il lavoro non manca, e di conseguenza una bella scodella di zuppa per tutti», soggiunge la moglie con voce tranquilla e dolce. «Eh sì, si vive con poco ma ci si contenta, nevvero Peter?».
Il cognato annuisce e intanto con fare sornione osserva tutti, fra i larghi anelli azzurrini che salgono lenti verso il soffitto mentre fuma la pipa. Poi si rivolge alla nipotina: «Che cosa sta facendo di bello, questa sera, la mia piccola Elise?».
La bambina è seduta per terra su un tappeto di lana, e cerca di vestire la sua bambola nuova con un abitino lungo, di un vecchio velluto bordeaux, ricamato e arricchito da merletti, ancora bello sebbene un po’ sgualcito. «Liesel è più pigra del solito, oggi, e si ostina a non volersi mettere il vestito da ballo. Eppure è tardi, e la festa sta per incominciare!…».
Lo zio Peter guarda sorridendo quello che nella fantasia della bimba è uno splendido abito da sera, poi domanda con ostentata severità: «E tu, Hannes, perché non aiuti Elise nei preparativi?».
Johannes, ovvero Hannes, come affettuosamente lo chiamano tutti, è seduto anche lui sul tappeto, un po’ distante da sua sorella, ed è tutto intento a schierare in ordine di battaglia i soldatini di piombo avuti in dono per Natale.
Sentendosi chiamare, il fanciullo alza la testolina bionda e fissa lo zio con i suoi occhi azzurri e seri, poi torna a guardare i suoi amati giocattoli e risponde un po’ imbronciato: «Elise non vuole mai giocare con me, e allora io non gioco con la sua sciocca bambola».
«Sciocco sarai tu!», rimbecca subito la sorella.
«Zitti, una buona volta!», intima la mamma, «che per poco mi svegliate Fritz, e so io quanto c’è voluto per farlo addormentare!».
Elise abbassa la voce ma continua, indispettita, rivolgendosi al fratello: «Spero proprio che Fritz cresca in fretta, che non voglia sempre dormire, e soprattutto che quando avrà sette anni come te sia un po’ meno antipatico!».
Johannes guarda la sorella di sbieco senza rispondere.
«Possibile che non andiate mai d’accordo, voi due?», interviene il padre in tono di rimprovero. «E tu, Hannes, fino a quando sarai così intrattabile?».
«Certo che si possono contare sulle dita di una mano le cose che ha detto da quando ha cominciato ad articolare qualche parola!», commenta lo zio Peter.
«Il fatto è che è proprio un sognatore, il mio Johannes», continua il padre con una voce improvvisamente più tenera, «e prima di riuscire a farlo parlare… Vedi, talora se ne sta ore ed ore dietro i vetri di una finestra e guarda incantato tutto ciò che vede passare per la via. Se qualcuno lo chiama, risponde solo dopo un po’, come svegliandosi da un sogno… Oppure, altre volte, canterella a mezza voce strane melodie che gli frullano in testa. Anche prima di dormire ha l’abitudine di cantare piano, sommessamente, una sorta di ninna nanna: è una melodia dolcissima, sempre uguale. Johanna dice che non la conosce, che non è stata lei a insegnargliela, e quindi deve essere proprio uscita dalla sua testa…».
«Beh, visto che è così taciturno, speriamo almeno che un giorno siano gli altri a parlare di lui», dice ridendo lo zio.
«Io posso dirti che sa già riconoscere a memoria qualsiasi nota io suoni», continua il padre con un’evidente punta di orgoglio, «e non solo dimostra di avere un orecchio straordinario, ma anche di possedere un autentico talento. Sai, sto pensando di fargli studiare musica sul serio».
«Benissimo, allora diventerà di sicuro un grande musicista!», esclama lo zio Peter, con un tono in cui non si sa se cogliere dell’entusiasmo o un velo di ironia.
Johannes, intanto, non ha smesso di giocare, sebbene sogguardi ora gli uni ora gli altri con un impercettibile sorriso. La mamma, che se n’è accorta, posa sul tavolo i calzerotti di lana che ha appena terminato di rammendare e va col suo passo un po’ zoppicante verso il figlioletto. Si china su di lui, gli accarezza dolcemente i capelli chiari e lisci come una morbida frangia, e dice quasi sottovoce: «Caro il mio Hannes, chi mai può sapere quante meravigliose canzoni si affollino in questa bella testolina?»
Il piccolo la guarda a lungo con i suoi occhi pensosi, color nontiscordardimé. Poi, illuminandosi all’improvviso, protende il visetto verso di lei e la bacia d’un tratto sulla punta del naso. Quindi riprende tranquillamente a disporre in bell’ordine i suoi soldatini di piombo.
È quasi notte e fuori continua a nevicare…
*****
A GAMBE INCROCIATE
A gambe incrociate sedevi sulla poltrona. Immersa nei pensieri, confondevi le immagini. Eri una torre muta, su cui s'infrangono le onde. di Manuela Mazzola Da: Parole Sospese, Il Convivio Editore, 2021
ESTASI
Nell’ora della sera scende l’ombra Che poi s’addensa e tutto rende oscuro; ma da quei limpidi sereni spazi che stan nel sole, al di là della terra, verrà lenta la luna salendo per le vertigini del cielo: così a poco a poco su tutto si stenderà quel velo di sogno che darà un’estasi alla notte; e scorreran, nell’estasi, le ore.
…e lentamente ritornerà l’ombra, s’addenserà ancora, e sarà notte trapunta dalle luci delle stelle. di Danilo Masini
Da: Tutte le poesie – Nel centenario della Nascita (1905-2005), Anscarichae Domus Firenze, 2005.
IL TUO FIORE
E con te danza sul tuo petto il fiore come farfalla su celeste fondo, ma se lo prendon le tue dita, lieve, di te qualcosa mi diventa allora; e nell'offerta, non sapendo, cambi quel roseo fiore quasi in rosea carne.
di Danilo Masini
Da: Tutte le Poesie – Nel centenario della Nascita (1905-2005), Anscarichae Domus Firenze, 2005
Recensioni
LA VITA. VARIAZIONI DI GRAZIA
GIUSEPPE NAPOLITANO 52 questioni di stile Volturnia Edizioni, Cerro al Volturno (IS) 2021, Pagg. 80, € 12,00
Giuseppe Napolitano è un latinense nato a Minturno (nel 1949), professore di materie letterarie, nel suo curriculum comprende molte pubblicazioni e riconoscimenti. La silloge di cui ci occupiamo, La vita. Variazioni di grazia, raccoglie 52 componimenti dedicati a Irene “misura di vita, di grazia, di stile” richiamati nel sottotitolo, 52 questioni di stile; la copertina rappresenta un acquerello di Mario Magliozzi, Veduta di Gaeta. In esergo leggiamo pensieri sul significato di poesia, sono di Giorgio Bàrberi Squarotti, Jan Dost, Paul Celan. La prefazione è di Marcello Carlini, intitolata “Acta diurna”, intendendo con ciò trattarsi di componimenti della occasionalità. Mentre la postfazione, che adesso anticipo, di Ida Di Ianni, giudica l’opera “canto malinconico alla vita”, priva di artifici letterari, frutto del dettame interiore alla ricerca di sé. Infine abbiamo una “licenza” da parte del Nostro che spiega la dedica a Irene “per i suoi 52 anni”, oltre l’avere reso omaggio ad alcuni personaggi. Riferisco questi particolari come tasselli per inoltrarmi nelle liriche ed esplorare passo, passo l’animo del Poeta.Sebbene la voce del Poeta colga occasioni varie, risulta un canto unitario. Un canto che entra nell’immediato del vissuto di Giuseppe Napolitano e delle sue conoscenze amicali che, in parte, obbligano a qualche sforzo, chi non ne abbia contezza. Così è l’omaggio ad Amerigo per una “comunione interrotta” (Iannacone, 19502017, morto in un banale incidente, molto noto presso la comunità letteraria). Così è l’omaggio a Gabriela Mistral (cilena, Premio Nobel). Il Nostro dice di rifugiarsi in una delle tante stagioni vissute bene che chiama Usato sicuro, un senso scaramantico per fugare pensieri negativi dei molti amici venuti a mancare. Così diventa caro il ricordo dei tempi andati, semplici, segnati dai Beatles (quartetto canoro-musicale degli Anni Sessanta) e i lenti ballabili per esempio di Endrigo (Sergio). Osservo che l’omaggio è dedicato a persone scomparse, il che mi porta a pensare quanto sia presente il pensiero sul “traguardo ormai prossimo” nel momento del raggiungimento dei suoi Settanta anni (11 febbraio 2019).
L’amarezza si coglie, per esempio, in un Ottom arzo dedic ato ad Anton io V. per una bellez za non colta. Sono tanti i ricord i cui attingere, ma il Poeta confessa “non saprei sfogliare le memorie/ se volessi da quale cominciare…” (p.22); perciò viaggia dentro sé stesso. Altra memoria è dedicata a Manfredo. Ha anche qualche bel ricordo legato alla propria madre quando cantava “Laggiù dov’è Mogador…” (città del Marocco, titolo di una sua opera); oppure legato a Fès (altra città del Marocco), tuttavia lui vola sulle colline del Molise.
Nel componimento eponimo troviamo “Un velo di malinconia lieve a turbare/ appena il sorriso dei tuoi occhi” (p.40, Variazione di grazia). In una sorta di ventaglio troviamo Patrick S.; incontriamo il padre in più occasioni, anche in funzione di un transfert o di una immedesimazione o anche di una ricerca di sé. Gli
anni cominciano a pesare e per l’approssimarsi della senilità gravano ancora di più; così sono per esempio i primi segni degenerativi come l’Alzheimer. Pensieri neri si addensano e perciò si ricordano amici adesso assenti.
La vita è complessa, inutile negarlo, e molte cose rimangono nelle pieghe dell’anima, custodite per pudore, perciò può capitare che il lettore non ne abbia contezza e non conosca tutti i luoghi citati e i personaggi indicati (Jorge T., Anton B.); in tal caso si rischia di apparire autoreferenziale, benché quello che importi è comunque il sentimento espresso e non la logica di conseguenza. Particolarmente suggestivi mi sembrano i momenti di romanticismo come nei versi: “petali di parole – da ricucire paziente /ricompongono brandelli di passato// Insegnava mio padre la paziente/ fatica di resistere all’offesa - / che però dava leggerezza all’esistenza” (p.44, Petali); o in questi altri: “Inattesa sorpresa: primavera/ che c’è come dev’essere - /nella freschezza di un sorriso inarrivabili” (p.47, Trittico siciliano). Aggiungerei che i versi sopracitati sintetizzano il manifesto interiore di Giuseppe Napolitano, almeno in questa silloge. Non mancano figure retoriche per alleggerire i toni come l’ossimoro di zuccherini amari; fa uso originale, per esempio, dei due punti (:) e della parentesi chiusa a inizio di verso.
Dalla sequela di personaggi ricordati cito Franco Battiato associato alla voce interiore; Machado, secondo il quale il poeta è “Minatore delle gallerie dell’anima”; Elio P. (credo si riferisca a Pecora, ma poco importa) che afferma che il poeta fa “di sua vita un gruzzolo di eventi/ che si fa grumo di memorie e vive/ poi quando altri lo scopre” (p.56); Amerigo (Iannacone), 4 anni dopo, che lascia tanta tristezza, pensando: “Avevamo ancora tanto/ da fare e dare –insieme”, poeta molisano che echeggia nell’uso che il Nostro fa di “E… poi” o anche nell’uso di “ancora”. E, in chiusura, un omaggio ad Andrea Zanzotto: “Un poeta ostinato a sperare”.
Il tono fa le sue “variazioni” legate al tempo che non torna più; ma permane una sorta di tempo e un non-luogo delle emozioni. Mi piace concludere che Giuseppe Napolitano lascia l’Eredità a Irene (la sua sposa) che “sa dei nostri sapori il frutto vivo/ del nostro impegno e vive la sua vita/ nel giardino che abbiamo apparecchiato” (p.49), un’immagine radiosa piena di futuro.
Tito Cauchi
L’EMBLEMA CASTO DEL PASSATO
ROCCO SALERNO In memoria di Dario Bellezza Edizioni Confronto, 2017
Rocco Salerno è calabrese di Roseto Capo Spulico (nato nel 1952), saggista, è presente in riviste e antologie; professore di Lettere, svolge la sua attività letteraria nella città di Fondi (Latina). Fra gli altri ha stretto legami di amicizia con il poeta romano Dario Bellezza (1944 – 1996), al quale dedica la silloge L’emblema casto del passato, risultata vincitrice del Premio Nazionale di Poesia “Libero de Libero”, XXXI Edizione, 2015; con copertina un ritratto di Dario Bellezza, opera di Anna Venanzi.
Leone D’Ambrosio, poeta operativo in provincia di Latina, nella prefazione scrive “L’esilio antropologico di Dario Bellezza nei versi di Rocco Salerno”, denominandolo poeta della perdizione, nel ventennale della scomparsa. Spiega che l’Autore mostra compenetrazione rivisitando luoghi romani dove il poeta aveva soggiornato vivendo la poesia come una maledizione; mentre, al contrario, il Nostro la vive come ragione del cuore. Della motivazione del Premio cito le prime due righe: Rocco Salerno racconta “senza retorica e senza paura, il dolore e la morte di un amico e di un grande poeta come Dario Bellezza”.
La silloge contiene due sezioni: Che ne sapete voi (comprendente 12 poesie), titolo che si ispira a Charles Baudelaire; e Solo la luce del Signore (comprendente 13 poesie), titolo che cita l’omonimo di un componimento di Maurizio Gregorini su Dario Bellezza; all’interno alcune foto ritraggono Rocco, Dario e alcuni personaggi della cultura. Mi ricostruisco delle immagini attingendo qua e là secondo la mia percezione.
Cito alcuni versi del componimento d’apertura: “Che ne sapete voi/ (…) / non leggete dentro lo sguardo. / Non sentite la solitudine che pesa a sera/ di tanta gente sul letto. / (…) / Se passa rasente a un muro/ è solo per timore di non inquietare/ troppo il mondo, / d’incendiare la vostra compassione. / (…) /mai potete capirlo/
questo piccolo dio/ qui crocifisso.” È un’immagine dipinta con le parole, una introspezione capace di scavo psicosociologico, di notevole incisione. Fin da questi semplici versi ci troviamo difronte a una realtà spaventosa e universale. Da soli questi versi toccano temi che richiederebbero pagine di commento (per esempio: la solitudine di molte persone ignorate, la riservatezza di celare le proprie emozioni, di non preoccupare chi sta vicino, le persone comuni nella loro quotidianità sono i veri eroi).
Rocco Salerno ci narra di Dario Bellezza per le vie di Roma, “lungo le sponde del Tevere intorbidito/ a cercare la pace”, o quando va a trovare Moravia. Ricorda un Quadretto rosetano di simpatica compagnia con Dario e Annamaria de Joanna Marinucci, mentre Rocco si tuffa “dalla Pietra della Tina”. In una dedica ricorda la bella compagnia di Angelo Cirignotta. Rocco tiene come faro la lettura di Dario sulla Morte segreta dell’amico, in cui si mettono insieme deliri e precipizi, come un “inutile fantoccio/ di una inutile storia, / a vivere la sua lenta morte.” (p.17). Ricorda Luigi Gulino: “Non c’è Cielo per le nostre teste/ sempre protese.”. Più volte dichiara di sentirsi vicino al suo amico, evocandolo anche nella lettura del testo teatrale del Salomè a Tor San Lorenzo, nei pressi di Roma. “Anch’io come te, caro Dario, assalgo/ questa sfrontata società con il sarcasmo, / ricreo allitterazioni/ per difendermi/ da smorti suoni” (p.20).
Straziante mi sembra l’incipit della seconda sezione: “Morire nei rigurgiti della vita/ nei celesti interstizi/ fu il tuo grido, / il tuo paradiso.” E più avanti troviamo il titolo della raccolta “Emblema casto/ del Passato. / ‘Solo la luce/ la luce del Signore’/ per i tuoi occhi moribondi.” Il pensiero sul decadimento fisico e sulla morte diventa ricorrente, per esempio nel timore che con l’avanzare dell’età si affaccia la demenza, oppure nel refrain Certamente morremo; ma codesti pensieri non sono solo esempi, bensì sono reali constatazioni. Ricorda l’Amico che portava il cappello alla Pier Paolo Pasolini; lo sentiva vicino all’addio; in una nota ricorda che Dario Bellezza è sepolto nel cimitero inglese nei pressi della Piramide, a Roma. Un continuo dialogo in cui si richiamano veri cari amici come Giuseppe Selvaggi, Josè Ortega, B. Propato.
Rocco Salerno si congeda con la promessa struggente rivolta all’amico ‘poeta della perdizione’: “Appenderò/ la notte / sul tuo volto/ di chiarore/ dove silenziosa/ ripara/ la tua parola, / Voce/ del mondo.”, sperando di lenire la propria pena. Per quanto mi sono intrattenuto devo ammettere che fa piacere sentirsi entro una comunità letteraria. Sono esempi di grande amicizia fra poeti, che solo i grandi spiriti generosi e illuminati riescono a mantenere e risvegliano la dimensione umana più tenera, su cui bisognerebbe improntare i rapporti fra tutte le persone.
Tito Cauchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO
E LA LUNA BUSSÒ ALLA MIA PORTA
In copertina, a colori, illustrazione dell’Autrice; Genesi Editrice, 2022, pagg. 148, € 12,50
Poesia stile narrativo che si confonde con la prosa lirica - mascherata anche dall’inusuale andare a capo (<<…il fango non/è limpido, mi ha vista/nascere e sollevata in/alto per emettere il/primo grido>>) -, in realtà fresca e scorrevole, segno di vigore giovanile e d’animo esaltato.
Isabella Michela Affinito è poetessa di spiccata personalità pur nelle inevitabili contraddizioni che riconosce - <<Anch’io sono/volubile>> come le maree, confessa, <<personaggio tra il Rinascimento/e il Barocco dalle linee/serpeggianti>> – e dimostra che la vera poesia non ha bisogno di regole, elucubrazioni, stitichezze super strizzate, stacchi codificati, pur niente rifiutando all’occasione se il tutto nasce spontaneo, come la rima o l’assonanza: <<Un’illusione devastante,/un idillio della mente,/costruzione affascinante/che seduce pigramente/pian piano tutte le/stelle che nella cavea/del cielo subiscono la/catarsi silenziosamente>>.
Protagonista assoluta di questa sua nuova silloge è la luna, onnivora, che tutto ingloba, presentata in centinaia di movenze, situazioni, trovate, immagini, motivi, aspetti, amica da sempre di innamorati e sognatori, lanterna magica che illumina il simposio, il <<paesaggio fatto/di poeti riuniti>>. Luna <<umoristica e vivace,/ambivalente e loquace>>, con la quale lei pienamente s’identifica, svelando i <<tanti/profili fino a/scomparire dietro/un panneggio scuro,/che è il cielo/di notte solo/l’angolo di un/palcoscenico finito>>.
La preparazione di Isabella Michela Affinito è enciclopedica e lo provano gli abbondanti e puntuali riporti sempre presenti nelle sue note critiche. Nei suoi versi troviamo filosofia e filosofi. Pittura e pittori come Marc Chagall, il quale dipinge <<la donna come/un aquilone a volteggiare/al posto del filo tenuta/stretta per la mano>>, o il violinista che sta <<in una posa/allegra e antica al/di sopra della gente>>, la cui musica lambisce <<i tetti dove/nessuno ci va mai,/perché lì abita la/solitudine e le speculazioni/lunari>>; Picasso, Kandinskij, Raffaello, Ligabue, Rousseau, Modigliani, dalle cui mani è scaturita <<la bellezza/smagrita del Novecento/francese>>. La scultura e scultori come Brâncuşi. La mitologia con quasi tutto l’Olimpo, tra tutti Artemide o Diana, abile cacciatrice, inventrice della minigonna, visto ch’è stata la prima ad indossarla, infatti, lei <<portava l’abito corto per/non rimanere impigliata/tra i rami>>. Poeti e scrittori, come Dante, come Emily Brontë. La Bibbia. L’astrologia, della quale l’Affinito è espertissima, fino a curarne rubriche su riviste e periodici. La musica, con continui richiami all’opera lirica, ma anche alla canzone, come a quella di Domenico Modugno.
Ma, ripetiamo, a dominare in questa silloge è la luna, con cui la poetessa colloquia, inventa incontri, effusioni fino ad appoggiarsi <<alla sua guancia>>; luna dai mille aspetti, cangiante e condizionante, luna di nessuno e di tutti, come quella del <<triste Leopardi>>, quella di Giulietta e Romeo, quella più che solitaria dei naviganti, misteriosa quanto preziosa degli antichi Fenici. Pomezia, 14 dicembre 2022
Domenico Defelice
GABRIELLA FRENNA
AMATA TERRA Mosaici di Michele Frenna
Prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editor, 2021, pagg. 72, € 15,00.
Amata terra reca una lunga prefazione di Enzo Concardi e, in calce, testimonianze di Angelo Manitta, Giovanni Campisi, Sandro Serradifalco, Luigi Ruggeri, Guido Miano, Angela Ambrosini e sono riprodotte, in prima e in quarta di copertina a colori e in bianco e nero all’interno, numerose immagini dei mosaici del padre della poetessa, Michele Frenna.
Ad ispirare i lavori di entrambi – mosaici e poesie -, sono le bellezze e i monumenti della Sicilia; i suoi tesori, la sua classicità, i suoi miti; padre e figlia, insomma, pur nella diversità dei mezzi, sono fermentati dalle medesime visioni, stimolati dalle stesse emozioni: <<L’artista musivo/svela lo splendore/della terra natale/coi riflessi luminosi/dei tasselli di vetro>> e la poetessa si serve di essi per tessere versi privi di enfasi e ricercatezze.
Ad anni dalla di lui scomparsa, Gabriella continua ad avere davanti agli occhi e nel cuore la figura paterna mentre lavora alacre con intensa passione: <<Ricordo mani pazienti/unire piccoli tasselli,/comporre bei mosaici/con templi imponenti>> e ode ancora la sua voce dare saggi consigli, raccontare storie, leggende e miti che tanto affascinavano lei e la sorella maggiore, poi morta giovanissima. Sembra che nulla sia cambiato da allora, sicché – ribadiamo -, come Sicilia e Michele Frenna sono stati fusione perfetta, lo stesso magma, altrettanto monumenti, bellezze reali, paesaggi e mosaici oggi lo sono per la figlia, che vive sempre e solo della memoria del padre. Amata terra, sotto tale aspetto, è cascata di ricordi, esaltazione dell’artista, investigazione lineare delle sue opere, ma anche commosso epicedio.
Della Sicilia vengono evocate città come Agrigento e valli come quella dei Templi, dove il
genitore, specie nelle domeniche, portava le figlie e facendo loro da Cicerone: <<…rimembro bambina/nella terra agrigentina/guidata dalla tua voce/ammirare lo scenario/dell’incantevole valle./Mi rimembro bambina/correre tra le colonne/dei sontuosi templi,/salendo alti scalini/per osservare stupita/mirabile panorama>>.
Alcuni brani non sono altro che semplice descrizione dei mosaici paterni, come, per esempio, “Mandorlo in fiore”, che riportiamo per intero: <<Un piccolo ramo di mandorlo fiorito rivela armonia coi candidi toni rallegra la vista con piccoli fiori spande sublime effluvio soave>>; il tutto visto e descritto nei cambiamenti che paesaggi, templi e mosaici subiscono al mutare della luce durante le diverse ore del giorno.
Ciò troviamo ancora nella breve silloge Terra mia My Land (Edizioni Univrsum, 2022), un volumetto collettaneo e bilingue (inglese-italiano) che racchiude raccoltine di Gabriella Frenna, Giovanni Campisi e Althea Romeo Mark. Temi uguali - uno dei brani, per esempio, “Terra siciliana”, è presente con lo stesso titolo qui e in Amata terra, contenuto, però, diverso – e illustrazioni sempre attraverso i mosaici di Michele Frenna.
Veramente belli, ricchi di pathos, sono i versi sociali di Althea Romeo Mark, nata ad Antigua, nelle Indie occidentali, ora in Svizzera, ove insegna. Dieci poesie che raccontano dolori e privazioni, infanzie e donne sfruttate, calpestate, trattate come merce, e sforzi titanici nell’intento di <<perforare quel dolore,/svuotare la mia anima dal dolore>>, come conclude la poetessa.
Pomezia, 7 dicembre 2022
Domenico Defelice
CLAUDIO VANNUCCINI
UNA FIGLIA DI NOME SPERANZA
Edizioni Il Calamaio, 2008 Pagg 111 € 10,00
Un esempio di moralità aveva chiuso il suo conto con la vita, fedele ad un ideale concreto, così nella premessa Claudio Vannuccini descrive la morte di Giovanni Falcone.
Nel romanzo, Una figlia di nome speranza, immagina che il grande magistrato abbia avuto una figlia di nome Elena, la quale rappresenta, metaforicamente, la speranza che il magistrato portò nei cuori degli italiani: “Mio padre ci credeva e sostenne quell'ideale, viveva e lavorava nella sua terra; ossessionato da uno spirito nobile, credeva di poter aiutare i giovani a guardare con più fiducia il futuro. Magistrato oramai affermato ed apprezzato, era divenuto un punto di riferimento per molti; ma io non capivo quanto era importante”.
L'autore inventa la figura innocente di una figlia che ricorda il padre, un padre che per lei era un sognatore e che rappresentava il senso più concreto di una speranza irrealizzata, conosceva le realtà del mondo, le sue brutture, l'omertà nascosta negli occhi della paura.
Nella storia la speranza vive la sua epoca, ma viene, poi, sopraffatta dal potere, ossia da un uomo potente che adotta Elena rimasta oramai orfana. L’uomo di nome Wilson la porta con sé nella sua villa magnifica, circondata da mura apparentemente insuperabili. Quell’uomo, portandola via con sé, rapisce la speranza di tutti quelli che credevano in Falcone. Elena, però, non sa di esistere, vive nella caparbietà degli uomini che impareranno a guardare avanti, convincendosi che bisogna saper lottare per cambiare la propria esistenza. Il romanzo, dallo stile snello, riesce a catturare il lettore perché offre spunti critici cambiando la prospettiva.
Il libro termina con una poesia scritta da Vannuccini: “Nella luce del tramonto;/ delle nostre vite./ Dove i sogni, come le parole,/ appartengono solo a Dio./ La speranza agli uomini”.
Dunque, la speranza (sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione,