GIULIA LIU Gong, magia a Milano
Foto: Monica Cordiviola
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L’editore innamorato
C
ome per magia, il puzzle si é completato al momento giusto. Perché questo è per davvero il momento giusto, anzi, perfetto, quando la felicità è tutto. Il puzzle, dunque: le frasi di Tyler Brulè, quelle di David Granger, lei e l’anniversario. Partiamo con ordine. Rewind, fine del 2014. Qualcuno ricorderà la storia dello chef innamorato, del giornalista ancor più perso e di tutto il resto. Pareva una sceneggiatura ideale per un film americano, altro che Il sapore del successo. Già che ci siamo, Bradley Cooper avrebbe potuto interpretare il ruolo principale, vista la somiglianza con lo chef. C’era lui, poi il critico gastronomico dalla tempra romantica e la donna dei suoi sogni che, è così che accade nei film di successo hollywoodiani, ha come miglior amica una ragazza ancor più bella di cui, ovviamente, lo chef se ne innamora pazzamente, appena le due entrano nel ristorante. Storie adolescenziali ma non troppo, perché l’amore ti scombussola sempre, a tutte le età: in più, rieccoci al tema principale di Good Life, la vita vissuta visceralmente e il connubio amore-cibo, due mondi così simili, se non identici, per l’endorfina e per le emozioni che regalano. Andarono in fumo i sogni dei due, ma comunque avevano sognato tanto, tantissimo, a quei tempi sembrava essere il sogno definitivo. Quattro anni dopo, per quanto possa sembrare folle, il quadro è ancor più fiabesco.
Tutto al momento giusto, perché, scusate l’autocelebrazione, questo numero esce nello stesso giorno dell’anniversario dei 25 anni vissuti qui, in Italia. Non può essere un caso neppure il fatto che la sera prima della chiusura, mentre sto per scrivere l’editoriale, mi imbatto in una intervista di Tyler Brulé, il fondatore di Monocle. L’uomo, un visionario, è sempre stato un passo avanti rispetto al resto del mondo dell’editoria. Dice: “La carta stampata sta diventando un lusso. La sorpresa è che c’è un’intera generazione di diciannovenni pronta a scoprirne le gioie, scollegandosi dallo schermo. Chi usa l’e-reader? Sono seduto su un volo affollato e nessuno legge i tablet. Vedo un sacco di possibilità per i giornali negli anni a venire. Possibilità che potrebbero non coinvolgere i quotidiani ma riguarderanno sicuramente il mercato dei settimanali e dei periodici, che si espanderà”. Pochi minuti dopo, già ebbro di piacere, vado a curiosare che fine abbia fatto David Granger, per 19 anni direttore di Equire Usa, altra mia rivista di riferimento. “Il mondo delle riviste è il medium più eccitante mai creato”, sentenzia, per poi concludere: “Sono l’uomo più felice del mondo, negli ultimi 19 anni ho fatto solo quello che ho desiderato di fare, anzi, quello che ho sempre desiderato di fare”. Mi immedesimo al miliardo per cento. E’ sempre più il tempo di GOOD LIFE. Tanti auguri a me.
SONO SEDUTO
Lo chef, grazie ad un articolo scritto dallo stesso critico, è stato assunto da una famiglia ricchissima: la gran parte dell’anno lavora sullo yacht e per il resto dei giorni nel ristorante di montagna della stessa dynasty. E’ cento volte più innamorato rispetto a prima e pare aspetti un figlio dalla sua amatissima fidanzata, in più hanno preso casa a Maiorca, dove lei ha aperto una scuola di pole dance.
su un VOLO affollato e NESSUNO LEGGE i tablet. VEDO UN SACCO di possibilità per i giornali negli anni a venire. Possibilità che potrebbero non coinvolgere i quotidiani ma RIGUARDERANNO sicuramente il mercato DEI SETTIMANALI E DEI PERIODICI, CHE SI
Il critico gastronomico, nel frattempo diventato editore, si appassiona alla storia di un’altra famiglia a dir poco straordinaria e conosce lei: a quel punto il cerchio si chiude, il racconto diventa la cover story, l’articolo anticipato online e sui social fa un botto meritato (per i contenuti, non per la prosa), l’attesa aumenta a dismisura, il numero che state sfogliando diventa isteria.
ESPANDERÀ
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Good
6-9
Giulia Liu Ha fiuto, occhio, talento, forse anche per via degli studi che ha fatto da
giovanissima, quando seguiva corsi di moda. E’ felpata e decisa, una imprenditrice straordinaria. In un ambiente prettamente maschile, è riuscita a imporsi e a imporre le sue regole: perché sì, è davvero gentile e felpata, sorridente e tutto il resto, però dietro le quinte è un sergente di ferro, è decisa come poche. Raramente abbiamo incontrato una tale disciplina e un servizio di un livello così alto: magnifico.
12-16
Ernst Knam Forse il paradiso non esiste, però la sensazione che gli si avvicina di più
18-21
Davide Caranchini
l’abbiamo vissuta assaggiando un morso di torta al cioccolato appena sfornata nel suo laboratorio. Trovare espressioni, frasi, paragoni e aggettivi per i suoi prodotti è esercizio impossibile quanto inutile. Ci viene in menta una sola parola, che praticamente racchiude il tutto: perfetto. 1 6 novembre 2018, Parma, ore 15. Davide Caranchini si guarda il telefonino e, sorpreso ma non troppo, ci dice con tono assai solenne: “Sono passati 180 minuti da quando hanno comunicato ufficialmente la conquista della stella e ho già ricevuto 170 richieste di prenotazioni”. In pratica una al minuto. Perché la Michelin ha questa forza pazzesca, cambia le carriere degli chef, le esalta e le nobilita, riempie i ristoranti
Giulia Liu
26-27
Davide Caranchini
Dim Sum
Dim Sum Cosa cercate in un piatto, quando andate al ristorante? Noi inseguo
visceralmente la frivolezza e la leggerezza, la spensieratezza e l’effetto wow, il battito forte, il cuore che impazza, la testa che viaggia, il palato che esplode per poi estasiarsi e rilassarsi. Ecco, le moeche fritte che abbiamo assaggiando con infinita voluttà da Dim Sum sono tutto quello che desideriamo e sogniamo spasmodicamente. Piatto da assaggiare assieme ad una donna appena conosciuta, quando la passione tocca vette altissime.
No 4
Il sogno italiano del signor Liu
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el 1986 un ragazzo cinese di 27 anni ottiene un visto turistico per Parigi, fra mille difficoltà. Parte prendendo il treno, la Transiberiana: il viaggio è lungo e faticoso, nella valigia ha solo un paio di scarpe e 100 dollari americani, a quei tempi la Cina era poverissima. Dopo tanti giorni arriva nella capitale francese e da lì, con gli ultimi soldi, riesce a continuare fino a Milano. Nelle prime settimane dorme alla Stazione Centrale, mentre di giorno lava i piatti in un ristorante di un connazionale. Dopo qualche mese ottiene un impiego in cambio di un tetto e pochi soldi. In Cina di mestiere faceva il falegname, così che nelle ore libere costruisce e mette a posto i tavoli in legno dei vari locali. Pian piano inizia a guadagnare, porta in Italia anche la moglie. Con i primi risparmi apre un piccolo laboratorio di pelletteria a Pescara: é bravo, si ingrandisce e si trasferisce a Rio Saliceto, un paesino di 3,400 abitanti in Emilia. Nel frattempo nascono i loro tre figli. Il lavoro va bene, però la ristorazione lo ossessiona: difatti torna a Milano e apre Acquario, in Via Ravizza. Siamo nel 2003. Il locale proponeva una cucina emiliana, il cuoco era sardo, il pizzaiolo aveva origini calabresi. Tutti i tre figli lavoravano con lui. Sei anni dopo chiude per fare dei lavori, ne frattempo due dei tre figli vanno per conto loro e ognuno apre un ristorante. Il terzo, il più piccolo, resta qui, in Via Ravizza. Il signore si chiama Liu Xue Zhen, mentre i tre figli sono Claudio, Giulia e Marco, ovvero i proprietari di Iyo, Gong e BA. Una grande storia, una grande famiglia. Pare il classico sogno americano e invece il sogno del signor Liu era tutto italiano. Difficilmente ci commuoviamo, però stavolta ci sta, eccome. Non lo conosciamo, però ci alziamo in piedi e
applaudiamo, non tanto per la sua determinazione feroce, già di per sé motivo di ammirazione sconfinata, quanto per come ha cresciuto i suoi tre figli. Giulia e Marco li conosciamo bene, Claudio un po’ meno, tant’è vero che nelle pagine successive pubblichiamo degli ampi articoli sui due, mentre per il fratello “stellato” dovete aspettare il prossimo numero, quando lo metteremo in copertina: la vale, come la vale Giulia. Siamo di parte e lo ammettiamo, ma come si fa a non esserlo? Sfogliando e leggendo ve ne innamorerete anche voi di loro. Giulia non ha uguali, mentre Marco aveva soltanto 20 anni quando ha preso le redini di BA. Sono persone straordinarie e gestiscono ristoranti formidabili, sono quel tipo di persone che Milano ama e adotta, perché serie, laboriose, umili e di talento. E’ la loro casa, il loro habitat.
Il SIGNORE si ChIAMA
LIU XUE ZHEN, MENTRE i TRE figli sono CLAUDIO, GIULIA E MARCO, OVVERO I PROPRIETARI DI IYO,
GONG e BA
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Giulia Liu
Foto: Monica Cordiviola
Gong, magia pura
Giulia assieme ai due chef, Guglielmo Paolocci (a sinistra) e Keisuke Koga (a destra)
C
ome si inizia un articolo su Gong e su Giulia Liu? Perché, ammettiamolo, quando entriamo nel suo tempio il dubbio è sempre lo stesso: ci dobbiamo concentrarci sui piatti o su di lei? Perché quello che è riuscita a creare ha dell’incredibile, è evidente che il successo del ristorante è quasi interamente merito di Giulia, ad ogni centimetro percepisci il suo tocco, l’eleganza e la determinazione, la raffinatezza e la leggerezza: sono i suoi marchi di fabbrica. Ha fiuto, occhio, talento, forse anche per via degli studi che ha fatto da giovanissima, quando seguiva corsi di moda. E’ felpata e decisa, una imprenditrice straordinaria. Come noi la pensano tantissimi altri, visto che ogni santo giorno all’ora di cena non si trova un posto, e badate bene che il ristorante è capiente, un centinaio di coperti. Non importa se vieni ad agosto, oppure a novembre, il lunedì oppure il venerdì: impossibile trovare un tavolo libero.
HA FIUTO, OCCHIO, TALENTO,
forse ANCHE per via degli STUDI CHE HA FATTO da GIOVANISSIMA, quando seguiva corsi di moda. E’ FELPATA E DECISA, una imprenditrice
STRAORDINARIA
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Si mangia divinamente, il locale è stupendo, l’atmosfera è incantevole: va da sé che viene preso d’assalto dagli intenditori della cucina e dagli esteti, dai cultori del bello e del buono. Imprenditori, chef stellati, modelle, giornalisti, architetti e personaggi della tv che conta: sono tutti qui e lo saranno anche domani. Difficile trovare a Milano un ristorante che nell’arco di un anno soltanto abbia fatto un balzo così gigantesco in avanti: sta galoppando verso la stella Michelin, ma soprattutto viene preso d’assalto dalla clientela ed è apprezzatissimo dalla critica, all’unanimità, fatto assai inusuale ma pienamente spiegabile. Non troverai mai un esperto di food che non elogi ed esalti Giulia e Gong: mai. C’è una ricerca continua, spasmodica, c’è la voglia di stupire, di sorprendere e di incantare, c’è entusiasmo e la consapevolezza di aver intrapreso la strada giusta: non vogliono fermarsi, anzi. E’ tutto perfetto o quasi, dal servizio al ristorante in sé, dalle posate ai piatti. Brilla tutto, non ne hai mai abbastanza di un luogo del genere. E’ un caso da studiare, per una serie intera di motivi. Il primo, la clientela. E’ quasi interamente milanese e di un ottimo livello. Fatteci caso: fino a pochi anni addietro si andava in un ristorante cinese per via del prezzo e della voglia di un involtino primavera. Certo, Gong non è un ristorante di questo tipo ma la
Foto: Monica Cordiviola gente vive di stereotipi, quella di Milano ancor di più. Ecco, Giulia è riuscita a far venire e tornare quel tipo di persone che ti guardano sempre dall’alto in basso, quelle esigenti in maniera esagerata, che sanno solo pretendere. Per loro dire che sono stati a cena in un ristorante con una proprietà cinese poteva essere un boomerang: inutile continuare il discorso, tanto vi è già tutto chiaro. Chi bazzica il centro di Milano conosce il loro modo di pensare: “Sei quello che mangi e dove mangi”, la vedono così, è un modo per etichettarti e difatti ora sono orgogliosi di raccontare che hanno cenato qui, per di più arrivano con delle aspettative che, puntualmente, vengono superate. Da Gong li vedi sempre, anche se oggi sarebbe folle non tornarci: è sicuramente uno dei migliori ristoranti in assoluto, in più abbiamo notato che la clientela parlotta felice. Avete fatto caso? Solitamente in un locale asiatico regna il silenzio, difficile sentire dei rumori, si sussurra: qui invece c’è sempre profumo di festa, si ride, segno evidente che la gente si sente bene, è rilassata e spensierata. Quello che Giulia riesce a costruire giorno dopo giorno sa di magia: ha intercettato i gusti dei milanesi esigenti, aggiungendo quel tocco di eleganza e sensualità tipica del mondo asiatico. Oggi Gong è un tempio della cucina, come d’altronde Iyo, sono entrambi dei veri colossi della ristorazione meneghina.
In più, Giulia ha compiuto il miracolo di far convivere due chef diversissimi uno dall’altro: 18 mesi fa l’italianissimo Guglielmo Paolocci è venuto ad affiancare Keisuke Koga. Non si ricordano altre situazioni simili, già mettersi d’accordo con uno è dura, figuriamoci con due, per di più con caratteristiche e conoscenze così opposte. In cucina fila tutto liscio, i due sono inseparabili, non dimostrano gelosie e ancor meno insofferenze, si completano e si sostengono. Quando c’è da mettersi in posa per un servizio fotografico sanno che toccherà ad entrambi, nessuno dei due dimostra di voler prevalere sull’altro. E poi, continuando a parlare dei meriti di Giulia: in un ambiente prettamente maschile, è riuscita a imporsi e a imporre le sue regole: perché sì, è davvero gentile e felpata, sorridente e tutto il resto, però dietro le quinte è un sergente di ferro, è decisa come poche. Raramente abbiamo incontrato una tale disciplina e un servizio di un livello così alto: magnifico.
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Il ristorante in sé è un gioiello, un misto di nero e oro. Ci sono spazi fra i tavoli, solo un paio si trovano vicini uno all’altro. Ha quell’eleganza che non pesa, è il classico locale che sprigiona seduzione, che piace alla gente che piace, potresti trovarti a Londra, oppure a Hong Kong, a New York oppure a Dubai, l’atmosfera è davvero internazionale, le good vibes le percepisci subito. Considerarlo asiatico sarebbe leggermente sminuente, i piatti e l’ambiente sono internazionali, cosmopoliti, ricchi di contaminazioni. I piatti sono allo stesso tempo intriganti e rassicuranti: alcuni richiedono lumi di candele, altri pungolano il desiderio amoroso. Man mano che si va avanti con il percorso degustazione il fuoco inizia a vibrare nelle vene, l’avventura è sempre più eccitante. Molti sono afrodisiaci non solo per la combinazione dei gusti, ma anche per l’estetica.
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Alcuni sono potenti e vigorosi, pieni di contrasti sorprendenti, altri ti spiazzano per l’armonia totale e per l’equilibrio dei sapori, toccandomi davvero l’anima. E’ una cucina ispiratissima, a tratti perfetta, con l’aggiunta che il menù degustazione cambia spesso e di conseguenza diventa ancor più difficile mantenere un livello così alto: lo si sa, non tutte le idee sono vincenti, alcune proposte possono risultare deludenti e deboli. Da Gong non accade. E ora, ascoltiamola. - Perché il ristorante si chiama Gong? - Nella cultura cinese il gong ha un significato importante, è una inizializzazione, rappresenta la filosofia del ristorante e anche le mie origini. - Chi ha deciso gli interni, i colori, il concept? Cosa c’era qui in Corso Concordia prima del tuo arrivo? - C’era una filiale della Montepaschi di Siena. Confesso che le idee mi sono venute parlando con Nisi Magnoni, uno degli architetti: è stato davvero illuminante, ha saputo imprimere e trasmettere un’anima e una identità forte, era quello che gli avevo chiesto. I colori li ho scelti io, la parte architettonica è stata opera sua, al nome ci siamo arrivati insieme. Guardandolo oggi posso dire che mi rispecchia, sono molto affezionata ai gong in sé, li sento miei. - Cosa doveva raccontare Gong alla clientela milanese, cosa voleva portare di nuovo? - Voleva stupire ed essere unico. Difatti i ravioli colorati li abbiamo proposti noi per
UN PIATTO che mi RAPPRESENTA? Il RAVIOLO WAGYU, RACCHIUDE il mio MONDO: c’è la tecnica francese, la TRADIZIONE cinese, IL RICHIAMO AL GIAPPONE e la
LAVORAZIONE ITALIANA
primi, nessuno ci aveva pensato: dopo ci hanno copiati in molti, anche se onestamente potevano pensarlo gli altri, molto tempo fa. - Scegliamo tre piatti che rappresentano appieno il ristorante. - Sicuramente il raviolo wagyu, perché racchiude il mio mondo: c’è la tecnica francese, poi la tradizione cinese, il richiamo al Giappone e la lavorazione, prettamente italiana. Sono i quattro mondi che convivono qui da Gong. Poi il raviolo d’oro, omaggio alla città di Milano, con il ripieno di ossobuco e sotto la crema di zafferano. Il terzo é Maci, ovvero la ricciola del Pacifico affumicata con legno di ciliegio e melo, servita con la salsa sumizu, che vuol dire aceto più la soia fermentata. - Dovessi raccontare Gong in una frase, cosa diresti? - E’ un ristorante di chiara ispirazione cinese con delle contaminazioni internazionali. Da Gong trovi tracce di cucina italiana, francese, cinese e giapponese: è il nostro valore aggiunto, la nostra nota che ci differenzia dagli altri e ci rende unici. Lo siete. E soprattutto lo sei tu.
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BA Asian Mood
Marco, il predestinato
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arco va di fretta. E’ il più piccolo dei tre fratelli, si è sposato giovanissimo ed è diventato papà subito dopo, nel 2015 (la moglie si chiama Francesca, lavora assieme a lui ed è pure lei di origini cinesi, mentre il loro figlio si chiama Liam). Non aveva ancora compiuto 20 anni quando i genitori gli consegnarono le chiavi di BA, appena ristrutturato e tirato a lucido. Non si è spaventato, non ha tremato, non ha esitato: semplicemente si è messo a lavorare con l’entusiasmo, con l’incoscienza e la spavalderia tipiche della giovinezza, sicuro di potercela fare. Certo, dietro c’era Giulia, qui assieme a lui nel primo anno (quante litigate), e poi i genitori tenevano d’occhio la situazione, senza però immischiarsi nella gestione quotidiana. “Papà mi ha lasciato tutta la libertà del mondo. Sono partito con un chiodo fisso, creare un menù e dei piatti originali, senza alcuna possibilità di paragone con altri ristoranti. Non aveva senso riproporre la solita cucina cinese vista e rivista altrove, allo stesso tempo cercavo una rottura con il passato e con quell’idea di ristorante cinese dove c’è odor di fritto. Prima di aprire ho fatto il giro della concorrenza: solo da Tahua, in Via Fara, si mangiava in un modo più evoluto, per il resto roba cheap, superata e senza emozioni. Così che ci siamo messi a studiare un menù classico e solido, partendo dai dim sum, che in quel
Il RISTORANTE è relativamente DIVERSO DAGLI altri due, Iyo e Gong: immediato, meno SOFISTICATO, più ALLEGRO e MENO
PIÙ
PRETENZIOSO
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periodo stavano diventando di moda. Alcuni sono ancora nel menù. In cucina avevamo un cuoco di Hong Kong”. Sono passati sette anni, sembra ieri. Marco non è cambiato per nulla, pare ancora un adolescente, per certi versi lo è, con quei modi un po’ scanzonati. Impressiona, e tanto, la sua umiltà, poi è gentile, gentilissimo. Il ristorante è relativamente diverso dagli altri due, Iyo e Gong: più immediato, meno sofisticato, più allegro e meno pretenzioso. Va da sé che si mangia benissimo, alcuni piatti sono di una bontà struggente, vedi il maialino con salsa di aglio nero: si scioglie al solo contatto con il palato, sembra panna montata. Succoso, gustoso, tenerissimo. La lista dei dim sum è infinita, quelli all’anatra sembrano delle caramelle croccanti. Il caffè, va detto, è forse il migliore assaggiato in un ristorante di alto livello a Milano: è tutto merito suo, perché è ossessionato dalla macinazione, controlla le temperature, la pressione, l’umidità. E’ un bravissimo ristoratore, niente da dire. BA è una macchina che va veloce, un puledro di razza che galoppa verso la consacrazione. Come e perché, i segreti, le dinamiche e le fatiche vi le racconta lui. - Nel 2011, quando avete aperto, ti aspettavi di raggiungere i livelli di oggi? - No, certo che no. - Perché il ristorante si chiama Ba? - La parola Ba in cinese significa papà e anche otto, peraltro un numero che, se girato a 90 gradi, ha le sembianze dell’infinito, il che piaceva a tutti noi. L’idea è che il ristorante ci sarà per sempre, così come la nostra famiglia. - Da uno a dieci quanto sei contento di quello che sei riuscito a realizzare finora?
- Fra sei mesi vi dirò dieci, prima devo compiere una piccola rivoluzione, dei lavori in sala: sono previsti per il prossimo luglio. Ora dico otto, un otto pieno. Esteticamente manca qualcosa, ho già in mente tutto, vedrete. La cucina non ha bisogno di restyling e migliorie, l’abbiamo rifatta interamente nel 2015, tutta su misura, esattamente come la volevo io. - Tre piatti che secondo te rappresentano e caratterizzano al massimo il ristorante e la sua filosofia. - I dim sum, mi è difficile scegliere uno soltanto. Poi le costine di maiale, gli spaghetti con asparagi e King Krab, la guancia di vitello brasato. Sono piatti di grande carattere, di personalità, a me piacciono così. - Dal menù iniziale, quello dell’apertura, avete mantenuto qualche piatto? - I dim sum, quasi tutti. Poi lo spaghetto al thé verde e salmone, lo si ordina ancora, e tanto. - Con Giulia e Claudio scambiate idee e opinioni sulla ristorazione? - Con Claudio ci scambiamo soprattutto i piatti, facciamo spesso il barato con il take away. Capita spesso che lui mi chiami proponendomi dei naghiri, io ricambio mandando dei dim sum. Scherzi a parte, è ovvio che ci sentiamo spesso, quotidianamente, ma non per parlare dei nostri ristoranti, bensì della nostra famiglia. - Cosa ammiri di più nei loro ristoranti? - L’estetica, prima di tutto. - La clientela di BA è prettamente fidelizzata, oppure numericamente prevale la gente che viene da voi considerandovi una destinazione gourmet da provare una volta e basta? - C’è un mix ed è giusto così. Non si può vivere solo di clienti fidelizzati, come non si può andare avanti puntando sui coloro che vengono per curiosità e per piazzare la bandierina della qualità accanto al nostro ristorante. - Chi gestisce la cucina? - Bryan Hooi, un ragazzo splendido e con la mano decisa, ispirata. E’ per metà malese e per metà cinese, proprio quello che serviva a noi. - Che tipo di vino sceglie la clientela? - Al settanta per cento é orientata verso i vini bianchi, poi all’interno di questo settanta per cento la metà sono bollicine, dallo champagne al Franciacorta. - Lo scontrino medio nel vostro ristorante? - 60 euro. - Qualche cliente famoso? - Ci vengono spesso i giocatori dell’Armani Jeans, alcuni se la prendono per il cambio del menù, vedi Curtis che proprio non riesce a mandar giù il fatto che abbiamo tolto il pollo in agrodolce. Certo, se ce lo chiede con un giorno di anticipo lo possiamo accontentare. Poi ci sono tantissimi amministratori delegati di banche e multinazionali, un gran numero di imprenditori: meglio non fare i nomi, vengono qui perché sanno di poter cenare tranquilli. - Qual è stato il più bel complimento ricevuto finora? - Quando dei ragazzi che hanno lavorato da noi mi hanno ringraziato per il periodo passato qui. - A proposito, trovare del personale è un vero problema, tu come lo gestisci? - In un ragazzo cerco l’umiltà, la passione e l’onestà. Non mi interessa l’esperienza, ma i valori umani. - Punti alla stella? - No, le mie ambizioni sono altre. - Tipo? - Ne riparliamo fra dieci anni. - Hai un motto nella vita? - Odiavo il latino e la maestra, però un giorno ci insegnò una frase che poi diventò il mio mantra: homo faber fortunae suae. - Cosa ti ha insegnato tuo padre? - Essere umile e lavorare tanto. Più umile e gran lavoratore di lui è impossibile.
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I NOSTRI
PIATTI
PIÙ rappresentativi?
I DIM SUM, poi le costine di maiale, gli spaghetti con asparagi e King Krab, la guancia di VITELLO BRASATO
Maialino con salsa di aglio nero
Ernst Knam Disneyland, Via Anfossi
F
orse il paradiso non esiste, però la sensazione che gli si avvicina di più l’abbiamo vissuta assaggiando un morso di torta al cioccolato appena sfornata nel suo laboratorio. Trovare espressioni, frasi, paragoni e aggettivi per i suoi prodotti è esercizio impossibile quanto inutile. Ci viene in menta una sola parola, che praticamente racchiude il tutto: perfetto. Assaggiando ci siamo sentiti come quei giudici che nel 1976 a Montreal furono costretti a inventarsi un nuovo voto per l’esibizione di Nadia Comaneci, la ginnasta rumena che per la prima volta nella storia si esibì in una prova perfetta. Siccome prima la perfezione non era prevista, la pagella con il 10 semplicemente non esisteva, così che i giudici si ingegnarono mettendo uno 0 accanto all’1.
In Italia Marchesi
NON È MAI STATO
capito, MENTRE ALL’ESTERO veniva OSANNATO. Chi oggi gli si AVVICINA di più è Wicky, vai da lui per fare un viaggio: da Gualtiero era così, dovevi andare con la
È così che ti senti quando entri nel suo regno, una specie di Disneyland per super intenditori ma anche per principianti, perché davanti al buono tutti si inchinano. E poi, se volete capire chi è Ernst Knam vi consigliamo un giro nella sua storica pasticceria in Via Anfossi al civico 10: non puoi entrare, letteralmente non ci si riesce. È sempre piena, manco le torte fossero offerte. Quando poi arriva lui succede il finimondo: viene
MENTE LIBERA
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preso d’assalto, fra fotografie, selfie, spinte, di tutto di più. È davvero impressionante, pare una processione. E quando si mette in posa per la copertina di GOOD LIFE, non potete immaginare l’estasi della clientela: tutti a scattare, tutti a voler essere partecipi, per immortalare il loro idolo. Da parte sua, Knam ha una energia invidiabile e un motto semplice: “Trasformiamo prodotti eccezionali in qualcosa di meraviglioso”. Ce ne sarebbe anche un altro, “Conta solo vincere, perché il secondo è il primo dei ….”. Diciamo perdenti. I suoi concetti sono semplici e chiari, non si perde in parole e frasi superflue. Intervistarlo è allo stesso tempo istruttivo, pedagogico e spassoso: le sue risposte sono da studiare e prendere da esempio per le future generazioni di pasticceri e non solo. - Cominciamo dall’inizio degli inizi. - Sono il terzo figlio dei cinque di una famiglia serena e normale, con il papà fioraio e la mamma cuoca nel ristorante di suo padre. Da piccolo volevo fare l’ornitologo, eccomi pasticciere. Scherzi a parte, sono cresciuto con il profumo dei biscotti che le donne di casa preparavano per Natale, si iniziava a novembre e si andava avanti fino alle feste. A 17 anni a malincuore mi sono reso conto che non potevo occuparmi di uccelli, perché ci voleva il latino e io non lo masticavo, così che ho scelto la strada dei dolci, partendo per studiare in una scuola dove venivo pagato 300 marchi tedeschi al mese (oggi sarebbero 300 euro, ndr), alternando i corsi con la pratica. Avevamo esami ogni mese, chi li passava andava avanti, chi invece no ricominciava da capo. Finita la scuola andai a lavorare in una nota
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Foto: Monica Cordiviola
Foto: Monica Cordiviola
pasticceria, ma nei primi quattro mesi non feci altro che pulire pentole: tornai a casa con l’intenzione di abbandonare tutto, senza fare i conti con il mio padre che mi spedì indietro, suggerendomi di smettere di lamentarmi e di tenere duro. - Lei non ha mai cucinato dei piatti per così dire “normali”, dei primi e dei secondi? - Si, l’ho fatto. Andai a fare il militare e ogni giorno cucinavo per mille soldati, ho già dato per tutta la vita. Ma ero ormai affascinato dal mondo dei dolci, così che finito l’esercito mi presero a Lindau Bayerischer, un albergo cinque stelle dove mio padre forniva i fiori e aveva qualche contatto importante. Mi occupavo di tutto, dalle colazioni ai gelati, però volevo fare e sapere di più, allargare le mie conoscenze: al Lindau mi hanno aiutato dandomi un foglio con i migliori venti pasticcieri al mondo. Scrissi a tutti, il primo che mi rispose fu l’albergo di Gleaneagles, in Scozia, famoso per i suoi tre campi da golf. Decisi di andare, mettendomi contro tutta la famiglia: la mamma non ci poteva credere, la cognata mi considerava uno senza attributi e di conseguenza disse che sarei tornato con la coda fra le gambe. Eppure andò diversamente: caricai due valigie e la bicicletta e iniziai un viaggio a dir poco impegnativo, fra treni, navi, taxi e ancora treni. Arrivato nella stazione di Gleaneagles mi sentii abbandonato: c’era soltanto una panchina e un palo della luce in mezzo al nulla, si sentivano solo gli uccellini che cantavano. Dopo un’ora e mezzo arriva il pullman, che mi porta diritto all’albergo. Sto lì quattro mesi finché arriva la chiamata della mia vita, quella di Anton Mossiman, a quei tempi uno dei più acclamati chef del pianeta, una specie di Alain Ducasse che lavorava al Dorchester di Londra. Il ristorante dell’albergo
Io non
FACCIO
PASTICCERIA mignon, è una TRADIZIONE tutta italiana. Da un PUNTO DI VISTA commerciale è un DISASTRO e la pasticceria, la mia per lo meno, è UNA
ATTIVITÀ
commerciale
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aveva due stelle Michelin, il mio compito erano i così detti afternoons, facevo un orario da impiegato, dalle 8 alle 17. Non mi bastava, sapevo di poter fare di più: così che dopo sei mesi, quando se ne va il capo pasticciere, Osvald, busso alla porta di Anton e mi propongo come sostituto: “Non puoi, sei appena arrivato, ce ne sono tanti davanti a te”, rispose Mossiman. Io, come un giocatore di poker, bluffai: “Se non divento capo me ne vado, anche perché sarà pur vero che sono arrivato per ultimo, ma solo io mi sono proposto per quel ruolo”. Dal giorno dopo eccomi con 29 pasticcieri sotto di me, che ovviamente mi odiavano. - Diciamo che ha fatto tutto in fretta. - Siamo appena agli inizi. Perché si, a Londra stavo benissimo, però io volevo capire la pasticceria francese, così andai a Ginevra, al Noga Hilton, albergo con 89 cuochi, di cui 87 francesi, uno svizzero e poi io. Abitavano tutti oltre confine, facevano avanti e indietro. Per stare al passo con la lingua, ogni pomeriggio prendevo delle lezioni private con un professore. Una volta imparati bene il francese e le loro tecniche pasticciere, mi mancava una sola tappa: quella italiana. Scrissi a Cipriani, nessuna risposta. Idem per Bauer. L’unico che mi ha voluto incontrare è stato Gualtiero Marchesi. Per l’occasione mio padre mi comprò una cravatta. Presi il treno e arrivai a Milano, all’hotel Bernini, vicino alla stazione. Dovevo presentarmi da Gualtiero alle dieci del mattino, così che la sera prima andai a piedi per capire quanto distava dal mio albergo, volevo essere puntualissimo. Il giorno dopo ci incontriamo e con sollievo scopro che lui parla il tedesco, così che la discussione fila liscia. - In che periodo siamo? - 1989. Mi dice che lui è al completo, ma che al Brunelleschi cercano uno con le mie competenze. C’era solo un problema, l’albergo non era ancora pronto: mi manda a Garlenda, per imparare bene la lingua, ma poco dopo mi chiama disperato dicendomi che il suo pasticciere era fuggito e che aveva bisogno di me. “Accetto con una condizione”, risposi spavaldo. “Mi deve prendere la sfogliatrice”. “Nemmeno per sogno, costa troppo, è come dover assumere due cuochi”, ribadì lui. “Allora non accetto”, raddoppiai io. Finì che me la prese e rimasi da lui per tre anni. - Chi veniva a mangiare da Marchesi?
- Tantissimi stranieri, perché in quel periodo era l’unico tristellato italiano e c’era parecchia curiosità. Poi la crisi del Golfo ha creato un grosso danno, gli americani non venivano più per via dei prezzi dei biglietti aerei, il carburante costava un botto e si viaggiava di meno. Di colpo siamo rimasti senza un buon 70 per 100 della clientela. - A quei tempi l’alta ristorazione non andava di moda: come veniva percepito Marchesi? - In Italia non è mai stato capito, mentre all’estero veniva osannato. Chi oggi gli si avvicina di più è Wicky, vai da lui per fare un viaggio: da Gualtiero era così, dovevi andare con la mente libera, desideroso di provare qualcosa di nuovo e di speciale. In più, solo da loro puoi provare cinque, oppure dieci piatti e alzarti leggerissimo. - Nel 1992 lasciò Marchesi, aprendo in proprio. - Lui andò a Erbusco, io invece avevo ricevuto un’offerta da Hong Kong, mi volevano allo Shangri La e mi offrivano tantissimi soldi. Prima di partire, presi la bicicletta e feci il giro delle dieci migliori pasticcerie milanesi: tutte classiche, così che decisi di rimanere e di aprire in proprio, in Via Anfossi 10. Dopo 26 anni sono ancora qui, con la differenza che iniziai da solo e ora siamo in 32. - Sbirciando nel suo passato si legge di una intensa attività di catering. - Facevo 600 eventi l’anno, fra l’altro sono stato il primo ad aver proposto il sushi ai banchetti e alle serate. -E ha anche vinto un premio per il miglior panino… - Ho vinto prima il campionato italiano e poi quello mondiale, la finale fu a Cancun. Eccolo (ci fa vedere la foto, una specie di tramezzino con in mezzo del salmone e mango, è molto invitante, ndr), si chiamava Tropical finger sandwich. - Torniamo all’apertura di Via Anfossi: era da solo e senza una clientela. - Negli anni passati da Marchesi avevo conosciuto tanti giornalisti, mi hanno aiutato molto. A onor del vero avevo anche una socia, che ho liquidato dopo un mese. Gran parte dei dolci ideati a quei tempi li potete ancora trovare nel negozio: la mousse ai tre cioccolati, la mouse di panettone e l’Africa, per fare solo qualche esempio.
La torta Africa
QUI NEI RISTORANTI si dà poca IMPORTANZA AL PASTICCIERE, in PIÙ ho SPESSO la SENSAZIONE che non conoscano bene le MATERIE PRIME
Foto: Monica Cordiviola
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- In Italia si mangiano pochi dolci, lei ha avuto coraggio. - È vero, ho notato che le donne non danno importanza al dessert: non saprei dirvi il motivo. In più, la pasticceria al bar è molto maschile, in altri paesi invece è più femminile, nel senso che le donne si siedono e si regalano dei pasticcini, delle torte piene di crema e cioccolato. - Quali sono i suoi principi di base, quando si mette a ideare e realizzare una torta? - Intanto non faccio pasticceria mignon, è una tradizione tutta italiana. Da un punto di vista commerciale è un disastro e la pasticceria, la mia per lo meno, è una attività commerciale. Non mi piace strafare, utilizzo al massimo tre ingredienti, amo i dolci puliti, me lo ha insegnato Marchesi: togliere, non aggiungere. Se faccio una torta a piani, riesci a sentire quello che mangi strato per strato. Ho in mente anche una massima di Veronelli: un piatto deve essere ricordato e digeribile. Di solito utilizzo materie prime che gli altri non hanno, per esempio ho scoperto un tipo di cacao peruviano puro, senza acidità, perché non è stato incrociato con altri.
La mousse ai tre cioccolati
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- Non sappiamo lei, ma noi quando andiamo a cena fuori abbiamo paura di ordinare il dessert. - Pure io, capisco bene il problema. Si dà poca importanza al pasticciere, in più ho spesso la sensazione che non conoscano bene le materie prime. - Capitolo libri. - Ne ho fatti 19, l’ultimo esce a breve, il 27 di gennaio, si intitola “La mia storia con il cioccolato”. -Siamo arrivati alla tv. - Bake Off, arrivato all’ottava edizione, fa il record di ascolti della rete, assieme ai 4 ristoranti di Alessandro Borghese. Quello che stupisce è che andiamo forte nella fascia d’età compresa fra i 15 e 34 anni. -Dove le piace mangiare? - Da Wicky, piace moltissimo anche a mia moglie. Da lui si mangia il miglior sushi in Italia e poi interpreta come nessuno la cucina kaiseki. Poi vado con molto entusiasmo da Elio Sironi, al Ceresio 7. Da Berton prendo sempre il menù dei brodi, ha avuto una intuizione geniale. Da Oldani confesso che mi piace tutto, dal locale ai piatti, è quello che ha fatto il salto più notevole: è molto versatile e ha un ristorante bellissimo. Poi Gong, quello che è riuscito a fare Giulia Liu è impressionante. Da Asian Mood vado con i bambini, vanno matti per la sua cotoletta di pollo, io invece mi affido a Marco, non apro nemmeno il menù, mi fido ciecamente. Per il dolce poi tutti da Knam, in Via Anfossi
HO NOTATO CHE le DONNE non danno IMPORTANZA al DESSERT: NON SAPREI DIRVI IL
MOTIVO
Come iniziò tutto? Grazie a Gordon
V
a tutto così di fretta, con aperture ovunque e pagine su pagine sul mondo della ristorazione: riviste, fiere, supplementi, eventi. Se ne parla ovunque, la tv è piena di programmi sulla cucina: ricette, reality show. Ma com’è iniziato tutto? Pare preistoria, eppure solo dieci anni addietro non c’era traccia di ciò. Forse qualcuno se lo ricorda ancora, in Italia c’erano solo i programmi con Gordon Ramsay e lo guardavano in pochi. C’erano Hells Kitchen e Cucine da incubo su Real Time, se non andiamo errati. E poi, sulla stessa rete, andavano in onda le puntate di Kitchen Confidential, con Bradley Cooper nei panni di Anthony Bourdain. L’orario era impossibile, verso le 18-19, ma non ne perdevamo una: la vita in cucina sembrava assai scanzonata e divertente, così diversa dal lavoro di Bourdain, fra padelle bollenti, topi e droga. Cooper interpretava uno chef fighetto che lavorava in un posto chic a Manhattan: un classico hollywoodiano. Per il resto il nulla: all’estero andavano di moda i programmi di Jamie Olivier e soprattutto quelli di Nigela Lawson, che ci facevano letteralmente impazzire. Quando si leccava le dita e diceva “zenzero” ci pareva di guardare un film con Stefania Sandrelli negli anni 70. Poi Ramsay iniziò a essere sempre più conosciuto e con Masterchef fece il botto assoluto. Incassi e contratti milionari, le Ferrari, ristoranti qua e là: era diventato un personaggio perfino da noi, dove a quei tempi la tv era blanda e molle, rassicurante e tiepida, piatta e conformista. Questo biondo irriverente e carismatico attirava come una calamita, non potevi non guardarlo: urlava ai concorrenti, diceva parolacce, rompeva piatti, faceva complimenti a chi se lo meritava, ma soprattutto diceva quello che pensava e per chi guarda la tv in Italia era una novità assoluta. L’arrivo di Masterchef in Italia ha fatto esplodere definitivamente il fenomeno: piccolo retroscena. Doveva essere Enrico Cerea il giudice principe, ma poi i produttori ebbero qualche esitazione e fecero un altro giro di provini, così che scelsero Carlo Cracco.
All’improvviso la gente scoprì uno chef tenebroso e quell’altro italo-americano che storpiava le parole: Joe Bastianich, già famoso negli Stati Uniti ma sconosciuto qui. Era il 21 settembre, quando andò in onda la prima puntata: sono passati sette anni, eppure sembra una vita. Oggi tutti guardano, imitano, copiano, i giovani sognano di diventare come Cracco, oppure come Ramsay: se una volta si cercava la fama con il calcio, ora la si vuole, e subito, stando ai fornelli. Certo, è un errore, ma non è questo il punto, d’altronde non sta a noi distruggere i sogni alla gente. Fatto sta che all’improvviso il mondo della ristorazione è diventato dorato, patinato, mentre prima veniva visto come un lavoro da sfigati, di gran fatica e sacrifici. Lo è anche oggi, è cambiata solo la prospettiva. Grazie a Ramsay. Esclusivamente a Ramsay.
OGGI TUTTI
GUARDANO, IMITANO, COPIANO, I GIOVANI SOGNANO DI DIVENTARE come CRACCO, oppure come RAMSAY: se UNA VOLTA SI CERCAVA LA FAMA CON IL CALCIO, ORA LA SI VUOLE, e subito, stando ai fornelli
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Davide Caranchini Materia stellata
Insalata di cavolo rosso con midollo affumicato, latte di mandorle amare e caviale
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novembre 2018, Parma, ore 15. Davide Caranchini si guarda il telefonino e, sorpreso ma non troppo, ci dice con tono assai solenne: “Sono passati 180 minuti da quando hanno comunicato ufficialmente la conquista della stella e ho già ricevuto 170 richieste di prenotazioni”. In pratica una al minuto. Perché la Michelin ha questa forza pazzesca, cambia le carriere degli chef, le esalta e le nobilita, riempie i ristoranti. A onor del vero Davide faceva parlare di sé già da un bel pezzo, per cui la guida ha solo confermato e rafforzato i giudizi della critica e della clientela. Sono due anni che il suo Materia, a Cernobbio, é una meta per gourmet con il gusto dell’avventura e della sperimentazione, perché, va detto, la cucina del 28 enne nato a pochi chilometri di distanza non è proprio una facile da capire e da assimilare. O per lo meno all’inizio, quando prevale il pregiudizio: poi, man mano che si torna o che si va avanti con il menù degustazione, si comincia a sentirsi più rilassati,
IL MIO PIATTO più rappresentativo? L’insalata di CAVOLO ROSSO sotto ACETO con MIDOLLO AFFUMICATO, LATTE DI MANDORLE AMARE e CAVIALE
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pronti e disposti a entrare nel mondo complesso di Davide. A quel punto, l’effetto wow è garantito e Materia diventa un posto dove tornare al più presto. Dopo la sbornia di Parma, lo chef ha deciso di prendersi una vacanza di due settimane, chiudendo il ristorante per volare in Giappone con lo scopo di imparare ancora di più, perché la sete di conoscenza è il leitmotiv della sua vita, non a caso a 18 anni, finito il liceo, andò a Londra per scoprire le basi della grande cucina, lavorando per Heinz Beck all’Apsley’s e poi al Gavroche con Michel Roux, vero punto di riferimento per gli intenditori e la high society della città più importante al mondo assieme a New York. - Cominciamo dal viaggio in Giappone. - E’ stata una vacanza formativa, fra nuove scoperte ed emozioni che hanno favorito e contribuito ancor di più alla mia apertura mentale: a Noto ho potuto approfondire delle tecniche di fermentazione straordinarie. - Ecco, le fermentazioni, un tuo chiodo fisso. - Le ho sempre studiate meticolosamente in Italia, solo che da noi la parola è sinonimo di alimenti andati male. Quando arrivai da Redzepi al Noma rimasi esterrefatto dal suo modo di fermentare le materie prime e da come la gente lo considerava
un guru: quello che da noi veniva considerato un difetto, a Copenhagen era visto come cucina rivoluzionaria. - Appunto, Noma e Redzepi, parliamone. - René ha avuto un ruolo fondamentale nella mia vita. Sono stato al Noma per pochi mesi, però sono bastati per farmi affinare le tecniche e aprirmi gli occhi. - Lui che tipo è? - E’ davvero molto umile, nella mia immaginazione era una sorte di divinità, me lo aspettavo più rock star. Invece la mattina appena arriva saluta tutti e dà il cinque perfino all’ultimo stagista. Trasmette una energia infinita, è molto positivo e propositivo. - Un consiglio che ti ha dato? - Di crederci follemente perché, diceva, se ce l’ho fatta io ce la puoi fare anche tu. Mi raccontava che all’inizio erano in 7, ora sono in 50. - Si narra di ritmi e orari infiniti. - I ritmi erano davvero duri, si arrivava alle sei del mattino e si finiva dopo mezzanotte. Però le condizioni di lavoro erano superlative e ho trovato qualche libertà in più rispetto all’Italia, per esempio la musica in cucina. Lui è troppo avanti: ogni sabato sera c’era il così detto Saturday Night Project, dove all’una di notte perfino l’ultimo stagista poteva proporre un suo piatto, che poi l’avrebbero assaggiato tutti, Rene compreso. E’ la sua grandezza, sa coinvolgerti. - Avevi la percezione di trovarti nel ristorante numero uno al mondo? - Si, eccome, lo si sentiva nell’aria: lui aveva una ossessione maniacale per la perfezione. Comunque, il modello Noma non è replicabile da nessuna parte, è un mondo che non ci appartiene, anche se trovo che in qualche modo la Danimarca
e il nord dell’Italia sono simili, gli inverni sono lunghi e ti devi arrangiare con le materie prime. Vengo dalla valle di Como, dove d’estate si raccoglie per i mesi freddi. Dalle mie parte tutto questo si chiamava e si chiama foraging, l’ho imparato dalla mia nonna. Ecco, Noma ha portato a dei livelli assoluti quello che la mia nonna fa da una vita. E’ riuscito a trasformare una necessità in una filosofia. Io ero già attratto e innamorato dalle fermentazioni, lì ho perfezionato le tecniche e, una volta tornato, ho adattato il tutto alle nostre tradizioni. - Come sei arrivato lì da lui? - Ho semplicemente mandato il mio cv, a quei tempi lavoravo a Londra, al Gavroche. Mi hanno preso quasi subito. - Come possiamo caratterizzare la tua cucina? - Faccio quello che mi piace e mi diverte, una cucina molto legata al territorio, in apparenza semplice e minimale, con un effetto sorpresa che si palesa alla fine del piatto, quando compare ed esplode la potenza gustativa. Può arrivarti da un rametto di rosmarino, oppure da un cavolo rosso, da un midollo, perché io amo le materie prime povere. - Proporre una cucina piena di fermentazioni non è rischioso? - Ovviamente sì, ancor più a Como, una provincia
Le FERMENTAZIONI?
Le ho SEMPRE studiate METICOLOSAMENTE in ITALIA, SOLO CHE DA NOI LA PAROLA È SINONIMO di ALIMENTI
ANDATI MALE
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Davide assieme ad Ambra, la sua compagna
non proprio votata alla gastronomia: qui è pieno di turisti e di conseguenza la ristorazione si adegua, proponendo piatti su misura per le masse. Per cui all’inizio ho avuto paura, ovvio. Oggi mi posso congratulare perché sono riuscito a portare qui una clientela trasversale, che va dal ragazzo di 20 anni alla coppia di pensionati di 70. - Si dice che sei uno che stravede e pende dalle labbra di Lo Priore. - Verissimo. Penso che la città di Como gli debba molto: il suo arrivo dalle nostre parti ha cambiato la prospettiva, si parla di noi molto di più e in una maniera diversa. Fra l’altro lo vedo molto più rilassato, ha trovato il suo posto, è felice. Lui ci mette tutto sé stesso in un’idea, in un piatto, soffriva molto quando non veniva capito. Tre piatti che ti rappresentano. - L’insalata di cavolo rosso sotto aceto con midollo affumicato, latte di mandorle amare e caviale, piatto molto complesso perché ad ogni boccone cambia il gusto predominante, è un piatto vivo, che
NOMA ha
PORTATO a DEI livelli assoluti QUEllO che la mia nonna fa da una vita: il foraging. RENÈ HA TRASFORMATO la
NECESSITÀ IN UNA FILOSOFIA
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abbiamo sul menù fin dal primo giorno. Poi la pasta mantecata con burro e un pesce di lago molto simile a quello azzurro, si chiama agone. Lo fermentiamo con il sale, burro e polvere di genziana, che è molto amara: i contrasti sono fortissimi, ma io vivo di contrasti, l’acido e l’amaro li trovi sempre nei miei piatti. Il terzo si chiama Bansky, in onore dell’artista: quando ero a Londra vedevo spesso i suoi disegni in giro per la città. Gli ho dedicato uno yogurt affumicato che si mangia senza posate. - Non è un po’ troppo estremo? - Mettiamola così. So bene che ad una prima lettura la mia cucina può sembrare avventurosa, per questo ho creato quattro tipi di menù: due sono spinti, spintissimi, mentre gli altri sono classici, uno è addirittura vegetariano. La prima volta che si viene da noi consiglio quello classico, ovviamente. Poi, pian piano, passo dopo passo, si può provare e osare di più. Per me è tutta una questione mentale, se vieni con dei pregiudizi farai fatica a divertirti, devi venire spensierato e con la mente aperta. - Gli abbinamenti con i vini non devono essere facili. - Non me ne occupo, è il compito di Luca Sberna, mio socio e sommelier. In pratica qui siamo quattro soci: oltre a lui c’è la sua sorella Ambra, e poi Marco, il cugino. Fra l’altro Ambra è la mia compagna, si occupa della sala, così come Marco che in più cura la serra.
RENÉ HA AVUTO un ruolo FONDAMENTALE nella MIA vita. SONO stato al Noma per POCHI mesi, però sono bastati per FARMI AFFINARE le
TECNICHE E APRIRMI GLI OCCHI
- C’è una materia prima che ti piace maneggiare in maniera particolare? - Si, le interiora, non importa se di carne o di pesce. - Ora sei uno chef consacrato, la stella lo conferma: chi pensi di dover ringraziare per gli insegnamenti in cucina? - Michel Roux, Heinz Beck e Renè. - Dove ti piace andare a mangiare, quando trovi un po’ di tempo libero? - Lido 84, Piazza Duomo e Aga, a San Vito di Cadore. Diciamolo, in questo momento l’Italia spinge forte, è piena di chef e ristoranti eccezionali. - Com’è cambiata la vita dopo la stella? - Di sicuro abbiamo alzato l’asticella, d’altronde è normale, anche se la priorità è di mantenere uno standard alto. Per quello che riguarda la clientela, noto un maggior numero di presenze a pranzo, la sera andavamo comunque forti. La differenza è che prima avevamo quasi solo gente locale, ora invece arrivano dalla Toscana, dall’Emilia e dalla Svizzera, perfino dalla parte tedesca.
- Un sogno nel cassetto? - Mica tanto nel cassetto: vorrei arrivare ai livelli di Renè. - Come diceva Redzepi, se ce l’ha fatta lui lo può fare anche Davide.
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Andrea Berton Al di là delle stelle
O
k, Berton. Parliamone seriamente. L’argomento scotta, a lui fa davvero male. Non lo ammetterà mai e forse a noi ce la farà pagare, perché giriamo il coltello nella piaga. Dunque, discorso stelle Michelin: ne ha una. Soltanto una. Da almeno un paio di anni pensa di meritare la seconda e fino a quando lo dice uno chef, parlando di se stesso, può essere considerata un’opinione di parte. Però noi ci andiamo spesso e non abbiamo trovato mai, mai e poi mai un piatto debole, meno che perfetto. Certo, alcune volte si concentra troppo sulla perfezione dal punto di vista tecnico, tralasciando forse l’impatto emozionale. E’ ossessionato dall’ordine e dalle cotture, dalla precisione e dai dettagli, sembra un chirurgo, gli riesce tutto in maniera pazzesca, ma le origini friulane si sentono quando si tratta (va) di magia. In alcuni (pochi piatti) mancava, ora non più. Ha portato la sua cucina ad un livello ancora più alto rispetto a prima. Ai tempi di Trussardi era convinto di poter lottare per la terza stella, ora non ha ancora conquistato la seconda: qualcosa non quadra e non si dà pace, non trova i motivi, le ragioni, anche se forse una ci sarebbe. Poco professionale, ma a naso ci sta. I fatti: una ventina di anni addietro Sergio Lovrinovich lavorava come maitre laddove Berton era in cucina (da Marchesi). Si sussurra di rapporti freddi, di sicuro non c’era empatia. A distanza di anni Lovrinovich è diventato il direttore della guida Michelin: l’uomo è considerato di ghiaccio, inflessibile, poco sentimentale, per nulla incline all’emozione. Morale: secondo noi, finché può, mette il veto sulla seconda stella a Berton. Attenzione, non iniziamo con discorsi del tipo “lo sapevo che lì funziona così, che premiano in base alle amicizie e distruggono per via delle antipatie”. E’ una nostra impressione, non la verità assoluta. Due anni fa, il direttore andò a pranzo da Berton, per di più assieme a Michael Ellis, a quei tempi direttore Michelin Europa. Quando i due si muovono in coppia, è per un motivo ben preciso: decidere se il ristorante vale per davvero un riconoscimento più alto. Mangiano,
si esaltano, fanno perfino la scarpetta, Ellis ancora un po’ sviene per il piacere. Non smette di elogiare lo chef. Berton si sente in una botte di ferro. Le voci corrono, si viene a sapere della visita dei due. Tutti danno per certa la seconda stella. Noi abbiamo dei dubbi, per il motivo espresso sopra. A novembre il riconoscimento non arriva. Quest’anno nemmeno, ma diciamo che Andrea aveva capito l’andazzo, stavolta era preparato. Fin qui il discorso legato alla guida: la nostra è semplicemente una sensazione, basata esclusivamente su dei ragionamenti che nulla hanno a che fare con i pensieri del direttore. Possiamo sbagliarci, intanto finora l’abbiamo indovinata. Detto questo, è inspiegabile come possa mancare la seconda. Il ristorante è perfetto dal momento dell’ingresso fino all’uscita. Certo, conta soprattutto il piatto, arriveremo: prima due parole sul design e l’atmosfera. All’ora di pranzo il sole riempie il locale. La sensazione è di trovarti al momento giusto nel posto giusto. La tavola, le sedie, i piatti, il servizio, le posate: dieci e lode. Arrivano le amuse bouche, il pane (quanta cura, incredibile) e ti senti già in una dimensione diversa, superiore. Poi, ecco lo spaghetto tiepido con lumache e salsa verde (erba ostrica, dragoncello, prezzemolo, basilico e rucola, tutto frullato ad acqua e olio), il merluzzo affumicato e soprattutto la lepre con un fondo di cacao: esci su di giri, frastornato, incredulo. E’ la quinta d’assi, è il piatto finale, totale, regale, il gusto definitivo. Vale due stelle, al di là dei giudizi di Lovrinovich. Ha una consapevolezza di sé che gli permette di spingersi e di osare, di giocare e di sperimentare senza mai dare di sensazione di avere dei dubbi. Chapeau, davvero.
No 22
TRUSSARDI
Ai tempi di era CONVINTO di poter LOTTARE per la TERZA STELLA, ora non ha ancora conquistato la seconda: QUALCOSA NON QUADRA e non si dà pace, ALL’ESTREMO
La figuraccia di Armani
H
a dovuto superare gli ottanta per vivere una vergogna del genere. Non se lo meritava, Giorgio Armani. Immaginatevi lo sconforto e l’ira per aver subito un’onta di questo tipo. Sono le 11 e 53 minuti di venerdì 16 novembre quando a Parma, nel giorno dell’assegnazione delle nuove stelle, compare sullo schermo la grafica con i ristoranti che invece di conquistarla la perdono, la stella: Armani è fra questi. Come avrà reagito è facile immaginare, le domande sono altre, eccone qualcuna. Qualcuno pagherà? E se pagherà, chi? Lo chef? La direzione? Il management? Certo, le decisioni non le prende lo stilista, lo si sa, l’albergo non è suo, lui ha solo prestato il nome e allestito le stanze, pure le divise delle hostess sono disegnate da lui. L’albergo fa parte di una catena che ha come proprietaria la società Emar, con sede a Dubai. Da quelle parti non sanno apprezzare l’alta ristorazione: non è una critica, bensì un dato di fatto. Non hanno la cultura del buon cibo, di conseguenza non sanno distinguere e non vogliono distinguere. Filippo Gozzoli abbandonò la nave proprio per questo: appena conquistata la stella (2016) si aspettava un ringraziamento, un discorso che potesse portare lontano. Invece nulla. Dalle parti di Dubai si punta solo all’incasso e allo sfarzo, onore al merito, tutti sanno quanto si spende da quelle parti, sarebbe assai strano dedicarsi all’altro se le casse si riempiono così. A Milano però è diverso, per di più Armani significa qualcosa per la gente, la città è davvero orgogliosa del suo
stilista principe: perdere la stella proprio qui è uno smacco e un dispiacere. A dire il vero era tutto nell’aria, ne avevamo parlato qualche numero addietro. Da allora nulla è stato cambiato e migliorato, le sensazioni che abbiamo avuto ai tempi si sono trasformate in orride verità. In più, il sito non comunica il menù, non si sa chi cucina e cosa. Hai quasi la sensazione che volevano liberarsene della stella. Immedesimatevi in una coppia che intende passare una serata da quelle parti e consulta il sito del ristorante: non trovi nulla, tranne qualche frase generica e una foto. Il dubbio di assale e si sa, nel dubbio uno sceglie di andare altrove, d’altronde a Milano non mancano le alternative a pochi metri di distanza. Peccato che l’attuale chef, Francesco Mascheroni, sia caduto di mezzo: ha dovuto affrontare un’avventura più grande di lui. Ex sous chef di Gozzoli, è stato promosso ad executive per mancanza di alternative. Forse non era pronto, di sicuro ora ha le ali tarpate. Coraggio, non è una tragedia: l’aveva persa perfino Roberto Conti al Trussardi ed ora, dopo averla riconquistata, va spedito verso traguardi ancora più prestigiosi. Di lui ne parlano un gran bene, l’età poi è dalla sua parte. Dunque, chi pagherà? Armani ha perso la faccia, lo chef non ne parliamo. Ci saranno dei cambiamenti? Delle dimissioni? Dei licenziamenti? Dei miglioramenti? Per noi non accadrà nulla di tutto ciò. Si andrà avanti nell’indifferenza più totale, come prima. Intanto, lo stipendio dei manager va avanti, i bonus anche, i benefit pure. E’ tutto inspiegabile. Davvero.
No 23
SONO LE 11 E 53
minuti di venerdì 16 novembre quando a PARMA, nel giorno dell’assegnazione delle NUOVE STELLE, compare sullo schermo LA GRAFICA con i ristoranti che INVECE DI CONQUISTARLA LA PERDONO, LA STELLA: ARMANI è
FRA QUESTI
Sine Ristorante
Il ritorno di Roberto
Foto: Modestino Tozzi
Riparte dal
SUO PIATTO
più rappresentativo, IL RISOTTO NapoliMilano, un INSIEME di sensazioni e gusti: è elegante e verace, INTENSO E CREMOSO, CREATIVO E
SOSTANZIOSO
R
oberto Di Pinto 2.0, ovvero la nuova vita di uno che finora ha sempre lavorato, e bene, per gli altri. Dopo anni alle dipendenze di Bulgari eccolo esporsi in prima persona, eccolo con il suo primo ristorante in quanto chef e patron, Sine, avventura che è insieme eccitante e romantica, visto che ha come partner la moglie Martina. L’intesa fra i due è totale, si completano alla perfezione, lei si occupa della sala ed è ideale per un ruolo del genere, felpata e sorridente. Roberto si rimbocca le maniche dopo una pausa di riflessione e qualche consulenza qua e là: non faceva per lui, voleva l’arena della cucina, confrontarsi con il mercato e con i mostri sacri, tornare a battagliare con i fuochi e con le padelle, perché è uno di quelli che si espone e lotta in prima persona, lo ha sempre fatto e sempre lo farà. Riparte dal suo piatto più rappresentativo, il risotto NapoliMilano, riproposto anche qui e ve lo consigliamo vivamente, è un insieme di sensazioni e gusti, è elegante e verace, intenso e cremoso, creativo e sostanzioso. E’ ideale per un piatto unico, a pranzo come a cena, perché il ristorante sarà aperto sempre, anche se per il lunch oltre al menù classico ci saranno anche delle proposte alternative, più veloci e immediate.
No 24
L’idea di base è di togliere orpelli e regole rigide, formalismi e argenterie, lasciando parlare i piatti, nudi e crudi. Non è un caso che il ristorante si chiama Sine, che in latino significa senza: zero aspetti superflui, riflettori accesi sul gusto e sul piacere di mangiare, aspetto elementare ma troppo spesso dimenticato. E’ tutto ancora in definizione, i motori si stanno scaldando, avremmo un’idea più precisa strada facendo, per ora va bene così, con pochi piatti e decisi, vedi la pluma e la linguina con la colatura di alici, oltre al risotto. Si va verso la trattoria contemporanea, solare e semplice, qualche incursione creativa e il tocco della napoletanità. Si parte dal menù degustazione a 45 euro per cinque portate, per essere a Milano non fa una piega. Sa il fatto suo, si concentra sugli ingredienti e non sul proprio ego, insegue da sempre la centralità del gusto e non del proprio ombelico. Il locale è piacevole, la zona anche, leggermente decentrato ma facilmente raggiungibile: siamo all’angolo del Corso 22 Marzo con Viale Umbria, dietro al Plastic, anzi, all’ex Plastic, visto che ha chiuso definitivamente le porte e spento la musica. Sine, dunque. E’ la traduzione dal latino della parola senza.
Foto: Modestino Tozzi
Foto: Modestino Tozzi
Risotto Milano-Napoli
No 25
Dim Sum Ravioli, moeche e costine LO SAPETE
CHE C'È GENTE che viene e ordina solo ravioli? Ne PRENDONO anche una TRENTINA,
PASTEGGIANDO a champagne
C
osa cercate in un piatto, quando andate al ristorante? Noi inseguo visceralmente la frivolezza e la leggerezza, la spensieratezza e l’effetto wow, il battito forte, il cuore che impazza, la testa che viaggia, il palato che esplode per poi estasiarsi e rilassarsi. Ecco, le moeche fritte che abbiamo assaggiando con infinita voluttà da Dim Sum sono tutto quello che desideriamo e sogniamo spasmodicamente. Piatto da assaggiare assieme ad una donna appena conosciuta, quando la passione tocca vette altissime. O con la donna dei sogni, perché in quei casi le vette altissime le tocchi ogni momento della tua vita. E’ uno dei mille motivi per i quali vale la pena andare da loro, in Via Nino Bixio: il ristorante è il parente stretto di Bon Wei, stessa proprietà e stessa clientela, solo che qui hanno aperto nel 2013, tre anni dopo l’altro. Lo gestisce Yike Weng assieme alla moglie Chiara: imprenditori seri, instancabili, attenti e ossessionati a migliorare sempre. Hanno creato un gioiello diventato forse troppo piccolo viste le
richieste. Raccontiamo un solo episodio, anche se estremo. Pochi mesi addietro si presentano Chiara Ferragni assieme a Fedez, clienti fissi e fidelizzati, come d’altronde il novanta per cento dei coloro che cenano qui. Lei posta una foto, con il ristorante già strapieno: in meno di un’ora c’era la coda per poter avere un tavolo, il telefono di Yike pareva impazzito, arrivarono perfino da fuori Milano disposti a tutto pur di poter mangiare quella stessa sera. E’ l’effetto dei Ferragnez ma anche merito di Dim Sum, perché la gente non sarebbe venuta in un posto mediocre. E’ davvero difficile trovare qualcosa che non va, tantissimi invece i punti di forza: proviamo a elencarli e raccontarli. Cominciamo dalla costanza. Alcuni piatti sono rimasti nel menù fin dai primi giorni: le costine di maiale e soprattutto i ravioli, quelli di cristallo per esempio. Poi seguono i raviolini con all’interno ripieno di calamari, cernia e zenzero, da sempre presi d’assalto, così come le ultime creazioni, vedi quello con crema di branzino, sedano e rapa. Otto minuti di cottura e materie prime strepitose, perché Yike ha capito ben presto che la Milano bene esige la qualità assoluta, girandoti le spalle in caso contrario. “I nostri hanno una identità ben precisa, forte, sono i migliori in città”, continua. “Lo sapete che c’è gente che viene e ordina solo ravioli? Ne prendono anche una trentina, pasteggiando a champagne. E’ vero, costano non meno di 3,50 uno, però dietro c’è tanta, tantissima ricerca e un lavoro immane”. Ne siamo certi, la prova del gusto lo dimostra. Sono delle caramelle intriganti, ti pare di essere da Tiffany e non in un ristorante, sono perfetti. “Resiste” da anni anche la zuppa agro-piccante con frutti di mare, piatto cult e richiestissimo. “La nostra è di una ricchezza che difficilmente incontri altrove, dentro ci mettiamo gamberi, calamari, in più usiamo l’aceto di riso nero”, racconta il patron. Portiamoci avanti e arriviamo alle moeche fritte, altro piatto da novanta, di cui abbiamo parlato all’inizio: ci sono clienti che prenotano e le chiedono in anticipo, via whatapp. Sono erotiche, sublimi, l’unico problema è che la loro stagione finirà a breve. Fritte, dicevamo: ecco, da Dim Sum si frigge tanto e bene. “Usiamo olio di arachidi, che è caro, 60 euro per un bidone che contiene 25 litri”. In più, e questo lo diciamo noi, lo cambiano perfino troppo veloce, quasi per il timore di non essere all’altezza della clientela.
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Yike assieme alla moglie Chiara
Yike Weng assieme alla moglie Chiara Capitolo vini e bollicine. Il ristorante non ha un sommelier vero e proprio, è Yike a gestire la carta: nessun volo pindarico, tanta sostanza e la consapevolezza di essere competitivi pur non proponendo centinaia di prodotti. Si va tanto a suon di champagne, soprattutto Perrier Jouet, per via di un accordo favorevole con Antinori, che lo distribuisce in Italia. Leo Damiani, il factotum della maison nella Penisola, è uomo di mondo e ha capito al volo le potenzialità di Dim Sum e di abbinare la cucina cinese alle bollicine di primo livello. Eccoci, la cucina cinese: Yike non si nasconde, non vuole proporre contaminazioni o altro, niente imitazioni. “Mantengo intatta la tradizione”, sostiene fiero e pacato. “Altri hanno preso delle vie diverse, forse ingolositi dalla stella Michelin o altro, noi invece abbiamo intrapreso una strada e non intendiamo cambiare rotta, anche perché i risultati ci premiano”. Tradotto, ammiriamo Iyo e Gong, e tanto, ma qui si resterà, gastronomicamente parlando, nei confini dell’ex impero. Tornando un attimo ai ravioli: “Tutti parlano ed esaltano, giustamente, la Raviolieria di via Paolo Sarpi: sono straordinari, però propongono un prodotto che ha le origini nel nord della Cina, dove il clima è più freddo e di conseguenza i ravioli vengono realizzati con delle farine diverse per una pasta più spessa. Ecco, i nostri sono più morbidi e leggeri”, spiega il boss, sempre a voce bassa. “Li abbinerei con un vino bianco, friulano”, conclude. Il personale. Ovviamente e interamente di origini cinesi, con la gran parte di loro nata e cresciuta qui. “La lingua a volte è ancora un piccolo ostacolo, so bene che la clientela è molto esigente e non tollera quando un cameriere fatica a dare tutte le spiegazioni in un italiano perfetto, per fortuna mia moglie sa gestire e dominare la scena in maniera sublime. Forse in futuro dovremmo assumere qualche italiano e magari un sommelier, per ora gli spazi non lo concedono, stiamo già stretti così, con i nostri 60 coperti. Comunque abbiamo gli stessi problemi di tutti, nel dover cercare e trovare il personale giusto: la gran parte dei coloro che si presentano ai colloqui ha delle esperienze in ristoranti etnici di basso livello e non riescono a capire quello che chiediamo. Claudio Liu è il primo che ha osato con personale italiano, noi lo seguiremo a breve”.
Il locale. La firma è di Carlo Samarati, lo stesso che aveva colpito i milanesi con gli interni di Bon Wei: nel 2010 passò per una vera e propria rivoluzione. Per gusti personali preferiamo il Dim Sum, raccolto e sobrio, perfetto per i milanesi che lo prendono d’assalto. Suggerimenti. Lo scontrino medio viaggia sui 65 euro: può, vale e merita di salire ancora un po’. Oltre alle moeche vi consigliamo le costine imperiali e il filetto di manzo in salsa di soia fermentata. A meno che non siete di quelli che volete cenare esclusivamente a base di ravioli e pasteggiare a bollicine.
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LE MOECHE FRITTE che ABBIAMO assaggiando con INFINITA voluttà sono tutto QUELLO CHE DESIDERIAMO e sogniamo
SPASMODICAMENTE
Le moeche fritte
La pesantezza dei sommelier
O
k, il problema è di non facile soluzione. Né a breve né a lungo termine. Il sommelier. Pesante, saccente, saputello, ingessato, noioso. Terribile. Qualche anno addietro c’è stato una specie di convegno quasi segreta dove si parlava proprio di questo, come uscirne. I fatti sono arcinoti: non riescono a essere brevi e veloci nelle spiegazioni e soprattutto non hanno la sensibilità di capire chi hanno di fronte. Perché in pochi sono così innamorati dal vino da volersi sorbire una lezione infinita sul prodotto ics. Anzi, spesso la gente esce a cena per gustarsi in santa pace due ore assieme alla persona amata. Per cortesia puoi ascoltare una frase, massimo due, il resto inizia ad annoiare. Solitamente i produttori di vino sono ancor peggio, molto peggio, ma per lo meno si pensa che se ti trovi assieme a loro sei uno assetato di notizie: per due ore sei prigioniero, nulla da fare. Certo, ad alcuni piace, e tanto, sentire storie del genere, perfino i dettagli. Però solitamente a cena si va per cenare e non per un simposio. Non se ne esce, l’argomento non è nuovo. Si cerca da tempo di far capir loro che disturbano, che sono invadenti. Che sia chiaro, tutti sanno che hanno delle buone intenzioni, che vogliono trasmetterti delle conoscenze: il problema è che lo fanno in modo sbagliato, con un linguaggio troppo tecnico e per nulla coinvolgente. Un menù degustazione di sette portate presuppone almeno quattro vini diversi, spesso cinque. Facciamo
NON RIESCONO
a essere BREVI E VELOCI nelle spiegazioni e soprattutto NON HANNO la sensibilità di capire chi hanno DI FRONTE
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tre minuti per ognuno, siamo ad un quarto d’ora di storie di aziende, vitigni e annate: troppo. Il punto spinoso sta proprio qui, loro sono convinti di essere brevi, chissà cosa succederebbe se non lo pensassero. Dall’altra parte, si sentono responsabili, sanno che la gente va con delle aspettative, che è esigente e che pretende il meglio da un posto del genere. Si, pretende vini e abbinamenti, non discorsi. Forse temono di non essere all’altezza dei piatti, di non valere il prezzo della cena, ma non è così. In tanti soffrono di smania di protagonismo, è vero, ma la gran parte ha solo ansia di prestazione. Che sia chiaro, nessuno cerca di togliere importanza al sommelier e ancor meno di chiudergli la bocca. Si sa, se un vino non viene proposto da lui, nessun’altro lo spingerà, rimarrà invenduto. Perché la carta può anche contenere centinaia di etichette, però solo una piccola percentuale della clientela sta a leggere pagine e pagine di prodotti, seppur eccezionali. Ecco, se si trovano fra di loro, cultori del vino e sommelier desiderosi di condividere conoscenze, allora ci siamo: in caso contrario, l’effetto “asciugone” è dietro l’angolo ed è l’anticamera del nervosismo. E si sa, una persona che mangia grugnendo è una rogna mica da poco. Si va al ristorante per passare delle ore leggere, spensierate, per ridere e sorridere, per inebriarsi di piacere, non di parole. Qualche eccezione c’è, ci mancherebbe. Però sono pochi, troppo pochi. Ci vuole un linguaggio asciutto, a volte anche irriverente, spumeggiante, provocatorio: Luca Gardini dei tempi d’oro insegna. Difatti accanto ecco la sua visione.
Luca Gardini Secondo me
I
l sommelier è il vero officiatore della moderna ristorazione, un ruolo chiave in una fase interessante sia economicamente che a livello di immagine per l’ideale completamento di un locale di qualità. Vini e cibi nella loro migliore incarnazione sono entità autosufficienti, l’abbinamento ben riuscito è come se aggiungesse la terza dimensione, l’occhio del mago. Ricordiamoci che nella sua funzione il sommelier è il vero contatto tra sala e cucina, dovendo studiare, capire e comprendere ingredienti, cotture, consistenze, condimenti delle varie pietanze per poterle abbinare correttamente ai vini. Grossa importanza hanno sicuramente le doti comunicative e di ascolto attivo, perché nella sua funzione il sommelier è soprattutto un orientatore del gusto, nella migliore delle ipotesi deve carpire il bisogno occulto del cliente, che talvolta è impressionare, altre trovare un corretto compromesso tra la capacità di spesa, il gusto personale e un’idea di correttezza formale che ha in mente. Suggerisco uno studio delle portate ordinate dal cliente, primo e secondo, fornire una descrizione del piatto a livello di gusto al tavolo per motivare le tre o quattro ipotesi di servizio al calice, o eventualmente alla bottiglia, con descrizione organolettica dei vini. La spiegazione deve essere abbastanza semplice e accessibile a tutti. E’ buon uso citare cantina, regione, tipo di uvaggio, tipo di invecchiamento del vino, il tutto in un minuto, massimo due, di spiegazione, senza appesantimenti. A quel punto si attende il feedback del cliente, per poi portarlo a decidere. Il tutto con decisione, pulizia e in tre minuti al massimo per evidenziare sicurezza e fermezza delle scelte.
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Punti deboli
La prova del menù
O
k, state per aprire un ristorante. Pensate che sia tutto quasi pronto, l’euforia è evidente, l’impazienza di mettersi in mostra anche. Però attenzione: presi da tutto l’ambaradan e stanchi dopo mesi di attesa e lavori, non si riesce ad avere una giusta fotografia dell’insieme. Tradotto, avete tralasciato alcuni aspetti. Lo si fa in maniera inconsapevole, è ovvio, perché l’idea è di essere perfetti e di stupire la clientela fin dall’inizio. Avete studiato il menù, scelto il personale, le divise, la brigata, le posate, i vini, vi pare tutto in regola: “Ci vuole solo un pò di rodaggio”, ve lo state dicendo con indulgenza ed è qui che si nasconde la voragine delle mancanze. Perché i pericoli sono dietro l’angolo, anzi, ad ogni angolo: ve ne renderete conto quando sarà troppo tardi e il giochino vi esploderà fra le mani. L’errore più grave? Lasciare alla fine la prova del menù e della sala, d’altronde non si può iniziare con i piatti e il servizio prima ancora di istallare la cucina e si sa, la cucina arriva sempre in ritardo. Ecco, per quanto si possa capire la frenesia dei lavori e il nervosismo, cercate di dedicare il più tempo possibile
IDEALE SAREBBE
partire o ripartire dalle certezze, dai vostri piatti migliori, quelli che vi rappresentano di più e che hanno già avuto un RISCONTRO
POSITIVO
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alla prova del menù, tipo una decina di servizi. Non bastano due serate, non possono bastare nemmeno se ti chiami Bottura, oppure Ramsay. Ci vuole molto di più per prendere il ritmo e per correggere gli errori, per calcolare i tempi, per cambiare qualcosa in carta. L’armonia non si crea in un paio di giorni, è presso che impossibile, anzi, è impensabile. Si danno per certi alcuni aspetti ed è un errore. Il menù scritto a mano è solo teoria, ci vuole la prova pratica. Poi ci sarebbe la spiegazione dello stesso: a meno che non avete un team collaudato ci vogliono giorni perché i camerieri riescano a raccontarlo come si deve. Il discorso vale anche per il maitre, nel caso fosse previsto: ci vuole tempo per prendere le misure della sala, capire come si muovono gli altri. Banalizzare tutto ciò è segno di superficialità e porta diritto al fallimento. E’ matematico, com’è matematico che non si può essere perfetti fin dal primo giorno. Ovvio, la clientela riesce a capire le piccole defezioni, ma non può chiudere gli occhi sulle grosse mancanze. Sembra superfluo ricordare che il conto lo si paga comunque e in caso di serata negativa si rischia di perdere i clienti che ti hanno dato fiducia. Perfino la persona più esigente al mondo sa che le aperture sono piene di insidie, però ci sono dei limiti: una portata che arriva fredda e mal impiattata non trova scusanti, al massimo si può tollerare un quarto d’ora di ritardo sul servizio. E poi si tratta del vostro orgoglio, della vanità di ognuno di voi: cos’è meglio, vedere clienti sorpresi ed estasiati, oppure gente che a fine serata vi dice “Non c’è problema, può capitare”? Sta a voi decidere come iniziare. Come idea, non sarebbe male partire o ripartire dai vostri piatti migliori, quelli che vi rappresentano di più e che hanno già avuto un riscontro positivo. Partite dalle certezze, per cambiare ci sarà sempre tempo. Solo perché si tratta di una nuova avventura non c’è bisogno di rivoluzionare tutto.
Trattoria Trombetta
Easy con gusto
L’
alta ristorazione è un eccellente esercizio per misurare la bravura di uno chef, questo è elementare. Solo che a volte si fa fatica a degustare sei, sette portate e vini abbinati. Vale anche per il servizio, non sei sempre nel mood giusto per sentirti spiegare lungamente un piatto e un abbinamento. Ci sono giorni dove vorresti un’atmosfera più semplice, seppur calda e vellutata, meno sfarzi e regole rigide. Serate dove hai voglia di pietanze semplici e golose, con gusti pieni e rotondi, familiari. Materie prime eccellenti, ma poco lavorate. Insomma, vuoi due piatti golosi in un posto smart, elegante quanto basta. Chiamiamola trattoria contemporanea, perché Trombetta è proprio questo. Giancarlo Morelli ha visto lungo anche stavolta, è il solito maestro: imprenditorialmente ha pochi rivali. La sua bravura sta nel non contaminare troppo i suoi locali, nel senso che Trombetta vuole essere una trattoria e trattoria rimane dal primo all’ultimo piatto, nessun esercizio di bravura, nessun richiamo alla ristorazione stellata che propone al Pomiroeu. E’ qui la chiave ed è qui il difficile, perché in tanti dicono di aprire un bistrot per poi farlo diventare la copia povera e mal riuscita del ristorante principe (e spesso stellato). Morelli sa mettere dei paletti, sa distinguere e non ha quell’ego smisurato che rovina tutto. Da Trombetta non vuole ricordare alla clientela che lui possiede i riconoscimenti della Michelin: no, il locale viaggia su dei binari bel precisi. Idem al Viu: ha saputo offrire alla gente quello che la gente cercava e desiderava, parliamo del bistrot: è pieno tutte le sere, meritatamente. L’open space del Bulk piace molto, è un locale che ha ritmo, good vibes, buoni cocktail e dei piatti perfetti per un luogo del genere. Spicca il Giantonic, di gran lunga il long drink più affascinante per la semplicità e la facilità nel sorseggiarlo. Va giù come se fosse acqua frizzante e invece è un gin tonic strepitoso. Tornando alla Trombetta, è cambiato molto dai giorni dell’apertura, tre anni addietro: è tutto più semplice e diretto.
Alcuni piatti sono da mangiare ogni santo giorno, prendi la focaccia mille foglie al parmigiano e pomodoro, bocconcini sfiziosi e golosi, ricchi e gustosi. Non ne hai mai abbastanza, fortuna che ti portano solo quattro pezzi, altrimenti andresti avanti all’infinito senza ordinare altro (con una coppa di champagne sarebbero l’aperitivo ideale). E sarebbe un peccato non poter goderti la freschezza del vitello tonnato: già il colore, rosa chiaro, sa di paradiso, di seno giovane e pelle luminosa e fresca. Dei casoncelli alla bergamasca non sapremmo cosa raccontarvi, sono delizia totale, piacere infinito, contrasti e gusti casalinghi. Il risotto alla milanese è una esplosione continua, è cremoso, pare una carezza divina. La cotoletta te la sogni nei giorni avvenire, è una delle più succose, croccanti e golose assaggiate ultimamente. Da Morelli perfino la trippa prende una valenza diversa: pur essendo ruspante ha quel qualcosa che ti fa venire la voglia di gridare di gioia. C’è tanta maestria nel far rendere semplici alcuni piatti: lui ci riesce. Per questo i suoi locali sono pieni.
LA SUA BRAVURA
sta nel non contaminare TROPPO I SUOI LOCALI, nel senso che Trombetta vuole essere UNA TRATTORIA e trattoria rimane DAL PRIMO
ALL’ULTIMO PIATTO
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Camilla, Selvaggia e poco altro
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orreva l’anno 2006, niente Facebook e simili. Conserviamo ancora quella pagina de Il Sole 24. Camilla Baresani, la miglior giornalista e scrittrice del nostro mondo, una spanna sopra tutti noi messi insieme, va a cenare da Gold, a quei tempi il ristorante di Dolce&Gabbana (ora al suo posto, in Piazza Risorgimento, troverete il locale di Filippo La Mantia). Scrive quanto segue: “E’ la più cattiva cotoletta che abbia mangiato in vita mia, oleosa, inspiegabilmente dolciastra, troppo brunita sui bordi, gommosa. Mi ha fatto pensare a quelle che ammanniscono in certi baretti del centro, cucinate dal gestore la sera prima a casa, in qualche paese dell’hinterland, e riscaldate il giorno seguente nel microonde, per i frettolosi pasti degli impiegati”. Apriti cielo: lesa maestà, perché nella storia del giornalismo italiano non si era mai vista una critica ad uno stilista, grande o piccolo che fosse. Non se lo aspettavano, perché non era mai accaduto ciò, non erano preparati, ancor meno pronti. Critiche mai, applausi come ai congressi di Ceausescu sempre: si dà per scontato. Come logica conseguenza, D&G toglie 300.000 euro di pubblicità al quotidiano. Fin qui ci sarebbe anche da capire, ognuno fa quello che vuole con i suoi soldi. Il circo comincia il giorno dopo, con Il Sole che, udite udite, manda un giornalista “di fiducia” che scrive una recensione straordinaria sullo
E’ LA PIÙ CATTIVA cotoletta CHE ABBIA MANGIATO in vita mia, oleosa, inspiegabilmente dolciastra, TROPPO BRUNITA sui bordi, gommosa, MI HA FATTO PENSARE a quelle che ammanniscono in certi
BARETTI DEL CENTRO
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stesso ristorante, smentendo in pratica sé stesso. Ci fermiamo qui, perché è già tutto così chiaro. Se uno nasce in ginocchio, se uno vive per avere un regalo di D&G (o chi per esso), se per la stragrande maggioranza fare il giornalista significa mettersi a disposizione dalla mattina alla sera e lo fanno benissimo, basta aprire qualsiasi settimanale femminile), se avere un invito ad un cocktail di fine anno vale più dell’apprezzamento del lettore, a questo punto c’è poco da fare. L’articolo di Camilla Baresani è stato l’unico nella storia del giornalismo italiano dove qualcuno si è permesso di dire la sua contro uno stilista. E rimarrà l’unico, assieme a quello di Selvaggia Lucarelli comparso giorni addietro su Il Fatto Quotidiano. Gli altri sono troppo impegnati a sognare il regalo di fine anno, l’invito alla sfilata o la cartolina di auguri. Vale anche per il mondo della ristorazione, dove quasi si pretende l’invito. Giorni fa ci è capitato di sentire uno che diceva: “Non mi rispondono mai, si vede che non sono interessati ad una recensione”. Lo guardavamo sbigottiti, perché faticavamo a capirlo. In pratica pretendeva di essere invitato in cambio di un articolo. Non si capacitava che uno chef, fra l’altro fra i più importanti e famosi, fosse disinteressato, o che semplicemente non avesse tutta questa voglia di averlo gratis a pranzo oppure a cena. Qui però entriamo in un’altra diatriba, ce ne occuperemo un’altra volta: la lotta fra chi è più presuntuoso e permaloso, il giornalista oppure lo chef.
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a qualche parte, tempo fa, avevamo letto una frase che diceva più o meno così: “Preparati per la giornata, dal punto di vista fisico e mentale”. Non era un concetto motivazionale, bensì spirituale, tendenza zen: il senso era che se fin dalla mattina ti metti nelle condizioni di essere sereno e leggero, allora il proseguo non potrà che essere ancora migliore. Eccoci. Sfogliando di buon mattino il quarto libro realizzato da Krug è difficile che la giornata possa iniziare in maniera tortuosa. Il numero passato abbiamo pubblicato due scatti, ora eccone un altro, un instagram moment che vi consigliamo di guardare ogni qualvolta venite avvolti da quella cappa pesante e insopportabile chiamata malinconia. Una coppa di champagne, il mare, un piatto semplice e sublime, impossibile chiedere di più. La vita è molto semplice, basta sapersi concentrare sui piaceri autentici e soprattutto saper cercare il brivido. Certo, uno deve avere la predisposizione e la sensibilità per potersi gustare i momenti della vita, in tanti non sanno intercettare e carpire la bellezza. Quanti mangiano solo per nutrirsi, negandosi la possibilità di miagolare per un boccone magico, quanti si vestono in maniera anonima, polverosa, priva di gusto, pur avendo tutti i soldi del mondo? Tanti. Affari loro, noi qui parliamo ai coloro che sognano ancora il tramonto, la brezza e il profumo del mare, loro sì che sono sintonizzati sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Mesi addietro stavamo leggendo la rubrica di Tyler Brulé sul Financial Times, Fast Lane: raccontava di una spiaggia lontana dove i vacanzieri sfogliavano riviste invece di leggere sull’ipad e accennava a quel fruscio piacevole delle pagine sotto la spinta leggera della brezza. Eccolo, il nostro pubblico che ama percepire, toccare, vivere in maniera passionale e appassionata. E’ la gente che ama e si può permettere alcuni piccoli lussi, da una camicia su misura ad una cena stellata, oppure una settimana in un resort sperduto, assieme alla persona amata. Un resort dove hanno sempre pronta una bottiglia di Krug ghiacciata e dove i nostri lettori si accendono un sigaro pregiato guardando l’infinito, grati di poter vivere momenti del genere. Certo, lo champagne, a prescindere dalla maison, è uno stato d’animo, un eccitante infallibile che sprigiona seduzione e provoca scosse di piacere. Krug è qualcosa di più, lo si esibisce con orgoglio. Non si tratta di spacconeria e ancor meno di vantare ricchezze, bensì di saper apprezzare le fortune che si hanno, cercando di ispirare profondamente e di riempirsi di bontà e bellezza, di colori e profumi, di felicità. Life is now, anzi, Krug is now.
Krug is now Magic moments LA VITA È MOLTO semplice: una coppa di CHAMPAGNE, il mare, un PIATTO SEMPLICE e SUBLIME, IMPOSSIBILE chiedere di più
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ALBERTO FARANDA conosce i SEGRETI della SUA TERRA e vuole condividerli, arde in lui LA VOGLIA DI TOCCARTI l’anima e di RACCONTARTI LA SICILIA NASCOSTA, mette insieme
COLORI E PROFUMI locali
I mori
Sicilia, amore mio
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a ristorazione è ruffiana, ti illude, ti ammalia, ti fa innamorare e ti porta in paradiso per poi tradirti sul più bello. Pensi di avere fra le mani una macchina ben oliata, con un percorso e un progetto già indirizzato verso vette altissime quando, all’improvviso, ti scopri solo, nudo e indifeso, nonostante investimenti da capogiro e una voglia infinita di sorprendere e far felice la clientela. Quante volte non ci è capitato di sentire storie del genere, strazianti e spiazzanti? E’ un deja vù, succede nelle migliori famiglie, non è una tragedia, important’è trovare la chiave e rimettersi in moto con le stesse energie di prima, continuando a credere e a cercare la felicità assoluta: non è facile, però nemmeno impossibile. Prendiamo per esempio il ristorante I mori, proprietà della famiglia Drago Ferrante, siciliani doc, innamorati persi per la cucina e la ristorazione. Proprio questo amore sconfinato ha fatto che, forse per un eccesso di generosità, avessero accolto e incoraggiato alcune filosofie e chef che hanno portato solo macerie e delusioni, fra incomprensioni e una conoscenza approssimativa della Sicilia. Perché il segreto sta qui, hai uno slancio diverso e ti immedesimi di
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più, molto di più se appartieni ad un mondo, ad una terra, ad un territorio, se vuoi farlo conoscere agli altri e farli innamorare. Ora è tutto alle spalle, dimenticato: papà Manlio assieme al figlio Marco si sono rimboccati le maniche ancor più convinti di prima. Pare che finalmente abbiano trovato la quadra e lo chef ideale per il loro ristorante in Via Archimede: è Alberto Faranda, un altro siciliano. Nato a Palermo, figlio di medici, ha studiato architettura prima di mettersi seriamente ad occuparsene di ristorazione. “Sono cresciuto in cucina, assieme a mia nonna: il mio primo piatto risale a quando avevo 5 anni, fu la pasta con le cozze e la pappa al pomodoro. Mi è sempre piaciuto cucinare per gli amici, difatti ricevevo complimenti dopo ogni cena organizzata, perché dovete sapere che io amo stare in mezzo alla gente, mi piace il casino e avere tante persone attorno a me, a tavola ancor di più. Per perfezionarmi sono andato all’Università dei sapori, a Perugia, dove sono stato nove mesi per imparare i fondi e le basi. Da lì sono passato direttamente nella cucina di Giuseppe Costa al ristorante Il Bavaglino, una stella Michelin a Palermo, dove dopo tre settimane ero già il responsabile dei primi, in pieno luglio, con il ristorante al completo. Qualche piatto memorabile, preparato lì da lui? I ravioli ripieni di pappa al pomodoro, le farfalle tricolori al gambero rosso e funghi porcini, oppure lo spaghetto quadrato con scampi e crema di caciocavallo”. In sei mesi il ragazzo ha imparato, e tanto, lo si capisce appena assaggi le sue creazioni, piene di passione verace per la sua terra e di conoscenze acquisite nella cucina stellata di Costa. Perché, ammettiamolo, il segreto sta proprio qui, quando si tratta della cucina regionale: il tocco in più, la magia e l’effetto wow arrivano dall’amore viscerale per il territorio, dalla voglia di far capire agli altri quanto sia meravigliosa la tua terra nativa. Alberto è così, conosce i segreti e vuole condividerli, arde in lui la voglia di toccarti
l’anima e di raccontarti la Sicilia nascosta, mette insieme colori e profumi locali superando sé stesso e dando la sensazione che ci siano ancora tanti, tantissimi margini di miglioramento. D’altronde è normale, è appena sbarcato a Milano e intende starci a lungo, magari conquistando qualche riconoscimento. Non abbiamo ancora assaggiato l’intero menù, siamo ad un buon punto e possiamo garantire per almeno tre, quattro piatti davvero commoventi per profumi, delicatezza ed eleganza. Uno su tutti, il pacchero con ragù di tonno, pesto di pistacchio fatto in casa, menta e buccia d’arancia: è semplicemente di una bontà struggente e in più è scenico, cromatico, instagramabile, nel senso che scenograficamente riesce a conquistarti prima ancora di degustarlo. L’idea è originale, ponderata, equilibrata nei suoi contrasti. Segue il polpo piastrato poggiato su crema di ceci neri e la sua maionese, lo spaghetto con gamberi rossi e pomodorini e il cubo di pesce panato con salsa di sfincione, crema di acciuga d’aspra e biscotto di caciocavallo all’origano. Immagina, puoi.
Polpo piastrato e crema di ceci neri
La coerenza, questa sconosciuta
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rendendo spunto dall’articolo accanto, ci permettiamo una riflessione: quando aprite un ristorante siciliano (ma può essere anche pugliese o altro) e lo comunicate in quanto tale, da quel momento in poi deve rimanere siciliano. E’ vero che le parole ormai valgono zero e vengono utilizzate a caso, un tot al chilo, però se tu scrivi “ristorante siciliano” e ci troviamo la cotoletta perché sai, a Milano non puoi togliere la cotoletta, poi troviamo l’hamburger perché piace ai bambini e ai turisti, poi troviamo anche la carbonara perché ci vuole, ecco, allora fate una bella cosa: togliete la parola siciliano. Lasciate scritto ristorante e basta, come viene viene. Magari si mangia bene ma non sarà mai un ristorante siciliano, bensì un buon ristorante e basta. L’identità è importante, decisiva, fondamentale, molto più di quello che potete immaginare. Certo, potete anche farne a meno, non è obbligatorio dare una connotazione precisa al vostro locale: se non avete le idee chiare peggio per voi, potete farlo, accomodatevi, i soldi sono vostri, nessuno osa proferir parola e non è detto sia un male per gli incassi, spesso il successo nella ristorazione ha dell’imponderabile. Però se decidete di impostare il ristorante in una certa direzione, allora siate coerenti e andate avanti decisi, senza fare dei compromessi perché i compromessi sono sempre perdenti. Non siamo negli anni ottanta e novanta dove in un ristorante trovavi pesce-carne-pastapizza-aragoste e ti dicevano che è tutto buono. E non ci troviamo nemmeno sul lungo mare a Cesenatico dove va bene tutto. Ora si va verso la specializzazione, verso i ristoranti di nicchia e alla gente piace, e tanto. I clienti devono poter raccontare dove sono stati a cena e vogliono sapere dove vanno: asiatico, carne, argentino, cinese, creativo. Certo, non muore nessuno se aggiungete anche altre ricette, ma a quel punto svanisce la vostra idea di base, il messaggio si affievolisce e la gente fa caso, eccome se ci fa. Vi boccia, vi considera incoerenti. In un ristorante siciliano si presume che si va per mangiare dei piatti siciliani, sembra banale ma non lo é: decidete cosa volete
SE DECIDETE DI
IMPOSTARE il ristorante in una certa direzione, allora SIATE COERENTI E ANDATE avanti decisi, SENZA FARE DEI COMPROMESSI PERCHÉ I COMPROMESSI SONO
SEMPRE PERDENTI
fare, altrimenti nella mente delle persone si insinuano dei dubbi e nel dubbio uno sceglie di andare altrove. Ristorante siciliano vuol dire ristorante con delle ricette siciliane. Punto. Per delle ricette pugliesi andiamo altrove e per la cotoletta idem. Siate coerenti e decisi, altrimenti la gente vi prenderà per insicuri, deboli e senza personalità, il che non è proprio positivo. Nella foto, lo spaghetto Costa con gamberi e pomodorini di Alberto Faranda, nuovo chef del ristorante I mori (accanto l’articolo su di loro).
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Rovello18 Michele De Liguoro
L’
abbiamo già scritto, sono troppi gli chef e i ristoratori che vogliono sembrare quello che non sono. Hanno in mente solo articoli superlativi e copertine, stelle e applausi, perdendo di vista il senso della ristorazione: fare cassetto, ovvero fare tornare la clientela, proponendo dei piatti solidi e gustosi. Chi ci impressiona per la sua capacità di accontentare e intercettare i gusti delle persone è Michele De Liguoro del ristorante Rovello 18. E’ sempre strapieno di gente che potrebbe andare da qualsiasi parte e invece sceglie lui e la sua cucina, sette giorni su sette, pranzo e sera. Se ci vai capisci subito il motivo: Michele non ti tradisce, fa una cucina semplice e di qualità, gustosa e porcellosa, è tutto spettacolare ma niente grilli per la testa e niente piatti finti creativi. Zero schiume e chiazze di colore, però materie prime straordinarie (vedi la gallega), una carta vini fra le migliori in città e tanta, tantissima sostanza. Ha una capacità innata di intercettare i gusti della sua clientela, sa come rassicurarla e farla tornare e badate bene che parliamo di imprenditori di prim ordine e chef blasonati, ovvero clienti difficili da accontentare. Ecco, nel caso dovessimo consigliare un tipo di ristorante da prendere come esempio vi suggeriremmo lui. Perché darvi come esempio Berton, Bottura oppure Felix Lo Basso ci pare una follia. Perché? Perché non siete Berton, Bottura oppure Felix Lo Basso. Morale? State con i piedi per terra e vincerete. Sognate il superfluo e fallirete.
Autumn in NY
Vita da chef. Glam
I
l film è noto ai più, in tanti se lo ricorderanno. Autumn in New York, con Winona Ryder e Richard Gere. Lei era ancora giovanissima, lui all’apice della carriera. Brevemente, la trama: lui, ovviamente molto charmant, è il proprietario di un ristorante molto in voga. Pieno tutte le sere, donne bellissime, atmosfera calda, coinvolgente. Modelle, mogli, single in cerca di un buon partito. A guardare il film la vita da ristoratore è una pacchia: sorride, bacia le ospiti, decide chi portarsi a letto, perché, ca va sans dire, la gran parte delle donne ha occhi solo per lui. Ogni tanto va in cucina ad assaggiare e a dire la sua, in maniera scanzonata e leggera, come se fosse in vacanza. Lo guardi e pensi: “Quasi quasi domani apro un locale del genere”. Gli anni non erano maturi perché il mondo della ristorazione lo potesse prendere di mira, nel bene o nel male. Siamo nel 2000, mica nel 2018: a quei tempi non esisteva ancora l’isteria collettiva e la moda di diventare chef. Comunque, una vita quasi da rentier, la sua. Durante il giorno frequenta donne straordinarie, di stanchezza non se ne parla, la sera c’è un direttore che si smazza il lavoro duro.
Certo, Richard Gere stanco e con il pensiero alle bollette non sarebbe sexy. A onor del vero, a New York molti ristoranti portano a casa incassi da urlo, per cui non possiamo nemmeno parlare di una esagerazione. Al netto di tutto, fa bene vedere ristoranti strapieni, con gente felice e proprietari sorridenti: è terapeutico, rilassante, rassicurante. La prima parte del film, l’inizio, è da guardare e riguardare. E’ la vita perfetta di un ristoratore. Quando vi sentite giù di morale, regalatevi mezz’ora di sogni e magia.
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The Fisher L'ATMOSFERA
é carica di SENSUALITÀ, ELETTRICA E CALDA ALLO STESSO TEMPO, violenta e PIENA DI SUSSULTI, eccitante e vellutata, un MISTO fra Wide Eye Shut, carnevale veneziano, la Parigi DEGLI ANNI
TRENTA
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uel numero di Esquire lo abbiamo conservato, perché l’articolo di Alex Bilmes è davvero un capolavoro. A dire il vero, scrive sempre in maniera divina. Ci siamo innamorati della sua prosa e dei suoi modi schietti, intriganti e ficcanti quando, in pratica, santificò Kate Moss, nel giorno del suo quarantesimo compleanno. E’ stato di gran lunga il più intenso articolo mai letto su una donna. Da quel giorno lo abbiamo sempre seguito con attenzione. Tre anni addietro, recensendo un ristorante londinese, scrisse, in un articolo pubblicato alla pagina 66: “It’s the hum, the chatter, the clatter, the bustle, the mise en scene, the feeling of the place and the way it makes you feel”. Tradotto, sarebbe più o meno così: “Tu puoi avere le materie prime migliori, la clientela ideale, le posate d’argento, la location perfetta. Però se manca quel ronzio, il trambusto, le vibrazioni, il rumore piacevole della gente, allora hai perso”. The chatter, the clatter, the hum, the bustle: come per magia abbiamo trovato tutto questo e molto altro da The Fisher, capolavoro scenografico di Maximiliano D’Andrea, imprenditore nato che prima di aprire il locale in via Bianca Maria vantava già successi mostruosi come il Deseo e soprattutto El Carnicero. L’uomo è una potenza, torneremo a parlare di lui, probabilmente più volte. Ora, per motivi di spazio, ci limitiamo ad una breve ma speriamo sufficientemente intrigante racconto del ristorante aperto tre mesi nella ex dimora di Eros Ramazzotti. Va detto subito che è straordinario. E’ uno di quei rari posti dove non vai solo per le pietanze dello chef. In un luogo del genere andiamo perché spinti dalla voglia di vivere dei momenti indimenticabili, andiamo carichi di aspettative, con la sete viscerale e la speranza feroce che possa accadere qualcosa che ci possa smuovere e movimentare la serata. Uno sguardo, un incontro, un colpo di fulmine, una emozione fortissima. Ristoranti dove ti batte forte il cuore ce ne sono pochi, pochissimi. Il motivo? Nessuno può comprare o creare a tavolino le così dette good vibes. Ci vuole la magia e la magia non si compra. E poi ci deve essere il mago, l’uomo che sa come farti innamorare appena entri nel suo locale. Ecco, Maximiliano D’Andrea ha creato un parco giochi per sognatori
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e divoratori di vita. Mai vista e vissuta una tale atmosfera carica di sensualità, elettrica e calda allo stesso tempo, violenta e piena di sussulti, eccitante e vellutata, un misto fra Wide Eye Shut, carnevale veneziano, la Parigi degli anni trenta e, al primo piano, la New York degli 80’s. Donne mozzafiato, sorridenti, che parlottano felici fra di loro, altre che guardano sognanti i propri fidanzati, gruppi di amici in vena di regalarsi una serata spensierata e fuori dal mondo. E poi i piatti di Rafael Rodriguez, bombe dal gusto forte e dall’impatto devastante, i cocktail di Joy, perfetti per una sera che promette languide meraviglie. “E’ il miglior chef peruviano in Europa”, gongola Maximiliano. “L’ho conosciuto in Sardegna, l’estate scorso, mi sono subito innamorato. Io sono nato in Venezuela, dove i miei genitori, italianissimi, erano commercianti di pesce. Poi ho vissuto per due anni a Miami e lì mangiavo quasi sempre peruviano, in un posto di nome Cheviche 105. Appena ho assaggiato un paio di piatti di Rafael gli ho fatto una proposta, per fortuna ha accettato subito”. La felicità immediata é assicurata, la musica è degna del miglior film hollywoodiano, quelli che guardi e dici “dai, solo nei film americani esiste una tale atmosfera, nella vita dei comuni mortali non sarebbe possibile”. Un luogo dove cibo e sesso convivono alla massima potenza. Torneremo presto. Voi andateci.
Julie Mechali Joie de vivre JULIE è una VERA sinfonia primaverile, è ALLEGRA, INNOVATIVA, EFFERVESCENTE, ha INVENTATO un LINGUAGGIO, LE SUE FOTOGRAFIE QUADRO HANNO RITMO, ENERGIA
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ove eravamo rimasti? Forse agli scatti pubblicati per il numero speciale di Taste, quando vi promettevamo di non lasciarvi mai orfani di una sua prodezza. Ora rieccoci, altro giro altra creazione unica in tutti i sensi, perché è come una tela, anzi, è una tela. Ci vuole così tanta pazienza e ingegno per mettere insieme tutto questo che fatichiamo ad immedesimarci, tralasciando che non saremmo mai in grado nemmeno di pensare ad una magia del genere. Anni fa, quando si è cominciato a paragonare il lavoro di alcuni chef all’arte, di sicuro non si pensava ai capolavori di Julie: però a pensar bene la vera arte è questa, sono dei quadri veri e propri che non finiscono in una manciata di minuti, quanto ci vuole per far sparire dal piatto le meraviglie degli chef che ti colorano la vita. Te la colora anche Julie, con la differenza che il quadro rimane davanti agli occhi per molto più tempo. La conosciamo da cinque anni, ormai: finora abbiamo pubblicato una ventina di “quadri”. Siccome ci piace sfogliare i numeri precedenti, ci soffermiamo spesso sulle sue creazioni: ogni volta è come se fosse la prima, rimaniamo estasiati davanti ai suoi tripudi di colori, alle sue esplosioni di passione e luce. Perché, va detto, ha un approccio solare alla vita, lo si capisce al volo. Trasmette positività e joie de vivre, entusiasmo, è frizzante. A pensar bene è assai raro vedere un’artista di questo tipo, o forse ci siamo abituati troppo a dei personaggi cupi e pesanti, agli intellettuali nostrani che vedono tutto nero e che respirano la morte.
Julie è il contrario, è una vera sinfonia primaverile. Le sue fotografie quadro hanno ritmo, energia, sono “saltellanti”. Non sono grevi e bui, non mandano messaggi negativi, come purtroppo ci tocca sentire e vedere spesso. E’ allegra, innovativa, effervescente, ha inventato un linguaggio e questo ci pare fuor di dubbio. Nel 2013 avevamo pubblicato un suo scatto in copertina, perché non immaginavamo che l’incantesimo si potesse ripetere all’infinito. Avevamo pensato di cogliere l’attimo e di approfittare: eccoci qui nel 2019, continuando a farvi vedere le sue opere: siamo noi i primi a essere i più colpiti dalla sua perenne “vena” creativa. La prima volta che abbiamo scritto di lei il titolo era “Peinture culinaire” e l’articolo iniziava così: “E’ una rivoluzionaria, come Picasso e Dalì”. Confermiamo appieno. Julie ci dimostra che i limiti non esistono, che ci si può spingere oltre l’immaginabile. Le due tele sono un richiamo all’esplosione di profumi e gusti che invadono le nostre papille, all’emozione e al ricordo che ci rimane dopo aver assaggiato un piatto memorabile. Sono il miscuglio che ci invade la testa, o come dice lei la “fulgurance extatique”. Suona complicato, forse incomprensibile, eppure così eccitante.
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Un angolo di Gelsomina, in via Carlo Tenca
Ilaria Puddu
Io, Marghe e Gelsomina
P
Il
artiamo dal maritozzo, imperdibile e inverosimile dolce bontà: provare per credere, Via Carlo Tenca al civico 5, citofonare Gelsomina. Per poco più di due euro ti regali momenti di autentico paradiso: immagina, puoi. E poi mettiamo subito i puntini sulle i: Ilaria Puddu è una imprenditrice nata, la classica business woman di successo, feroce, bella, sorridente, sognatrice e pragmatica allo stesso tempo. La donna perfetta? Forse. Quasi. Chissà. Si. Ha fiuto, gusto, capacità di gestire le situazioni e i locali, sa scegliere il personale, migliorandolo. Badate bene, non si tratta di un solo locale, stiamo parlando di almeno tre, il che presuppone pazienza, capacità ed energie non indifferenti: ecco, lei possiede ciò. E’ la Wonderwoman della ristorazione, nessun dubbio. Nei suoi locali si percepisce qualcosa di diverso,
PERSONALE lo SCELGO io, cerco EMPATIA e non conoscenze specifiche. Da MARGHE ho in sala TANTI STUDENTI UNIVERSITARI, ragazzi con un
BACKGROUND NOTEVOLE
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una giovialità naturale, non forzata, piacevole. I camerieri sembrano felici di trovarsi lì e felici di poter contribuire all’atmosfera, come se volessero aiutarti a passare la serata nel miglior modo possibile. Ecco, l’impronta di Ilaria la si vede dai piccoli dettagli che poi piccoli non sono. Se tutte le sere ci sono almeno cento persone in fila per entrare da Marghe, un perché ci sarà. Potremmo andare avanti a lungo, elencando i pregi e le qualità di Ilaria: per qualcuno potranno sembrare delle sviolinate, vi assicuriamo che non lo sono. Forse sarebbe meglio lasciare raccontare a lei il suo mondo pieno zeppo di successi, con la postilla e la certezza che ci troviamo solo agli inizi di una storia e una carriera fantastiche. Partiamo. “Sono Ilaria Puddu, anche se su Facebook mi trovate e mi conoscete come Ilaria Brisbane. Mi reputo una donna molto ambiziosa e determinata, con il chiodo fisso della perfezione e del miglioramento continuo. Ho sempre rischiato nella mia vita e non mi accontento mai, “rompo” perfino sul basilico poggiato in maniera imperfetta sulla pizza. I miei sogni? Un relais e poi una masseria in Sicilia, dove conquistare la stella Michelin con il ristorante. Fino al 2011 mi occupavo di eventi, era un bel mondo, mi ci trovavo, però da una parte volevo qualcosa di mio e da un’altra avevo capito che sarebbe impossibile vivere e lavorare avendo dei superiori. Quasi per caso mi contattò Stefano Saturnino, che a
quei tempi aveva appena aperto il suo terzo Panini Durini, in zona Bocconi. Cercava un direttore marketing, tempo tre mesi ed ero già diventata il suo braccio destro: da quel momento nessuno è riuscito a separarci, professionalmente parlando. Siamo entrambi molto, molto ambiziosi ed è per questo che andiamo d’accordo. Ho seguito tutto in prima persona fino alla 15ima apertura, poi ho preferito occuparmene di altre attività dove fra l’altro siamo soci, vedi Marghe e Pizzium. Marghe è stata creata e ideata per diventare una catena, perché a quei tempi non ce ne erano a Milano. Un giorno Stefano viene e, raggiante, mi dice di aver “scovato” un pizzaiolo bravissimo, allievo di Sorbillo: si trattava di Matteo Menio, poi purtroppo scomparso in un incidente auto. Io immaginavo e desideravo una pizzeria con una forte, fortissima identità, difatti Matteo si mise subito al lavoro e inventò cinque pizze formidabili. Non per vantarmi, ma siamo stati noi a proporre per primi un prodotto vegano. Per comunicare il tutto mi sono affidato alle mie amiche food blogger e influencer, il grande successo si spiega anche così. Ogni anno facciamo un più 30 per cento sia con il locale di Via Cadore sia con quello aperto successivamente in Via Plinio. Andiamo come un treno, ci sono 300 persone in fila per entrare da noi. Scelgo tutto io, dal personale ai fornitori. Vi suggerisco la margherita e una delle speciali, per esempio quella con il capocollo di maialino nero. Se Marghe non è diventata una catena, lo sta diventando Pizzium: va detto che Nanni Arbellini, il pizzaiolo, è un vero e proprio genio. All’inizio temevo che le due
si potessero fare concorrenza, invece si è dimostrato il contrario: da Marghe va un target più alto e sofisticato, Pizzium invece viene scelto più dalle famiglie. L’ultimo mio progetto è Gelsomina, un locale che piace e mi piace tantissimo, é pensato per essere pieno dalla mattina alla sera e difatti lo è: fra l’altro è un locale molto instagramabile, non a caso arrivano quasi solo persone che ci scoprono e ci seguono sui social. I dolci li facciamo noi, ho sei pasticcieri. Ovviamente il personale l’ho scelto io, cerco empatia e non conoscenze specifiche. Da Marghe ho in sala tanti studenti universitari, ragazzi con un background notevole e aspirazioni di alto livello. Per dare un altro esempio, qui da Gelsomina ho preso una ragazza che fino a l’altro ieri faceva l’avvocato: voleva cambiare vita, l’ho presa subito”. A febbraio seguirà un’altra apertura, la sorella “cattiva” di Gelsomina, vivrà di notte. Sono fiera di essere una delle poche donne imprenditrici nel settore del food, così come sono contenta di essere apprezzata dal mondo femminile, so quanto sia difficile e raro. Quando vado a mangiare fuori scelgo quel tipo di ristorante che piacerebbe anche ai miei clienti. Vado da Giacomo, e parlo di qualsiasi loro locale. Poi la Langosteria, sono semplicemente perfetti. La ristorazione stellata non mi ispira particolarmente. I locali che mi esaltano? 1930, Eater e Mag sono una spanna sopra gli altri”. Così parlò Ilaria Puddu, o Brisbane, come preferite. Siccome è una patita di social network, forse pure lei preferisce farsi chiamare così.
Il maritozzo di Gelsomina
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regole per un PR
NON BUTTATE
via I SOLDI: la gente che VIENE alle INAUGURAZIONI spesso non sa nemmeno COME si chiama il posto, tanto per loro uno VALE l’altro. E domani sarà un altro giorno,
CON UN’ALTRA INAUGURAZIONE
A
utunno, aperture a gogo e di conseguenza ci si affida ai servigi degli uffici stampa, pr e comunicatori. Ora. Breve decalogo su cosa non si deve fare. 1. Pensare che un ufficio stampa riempia il ristorante già da domani mattina. are confusione fra ufficio stampa e butta dentro. 2. F ensare che dieci articoli possano far diventare il 3. P vostro ristorante l’argomento del giorno. 4. N on avere una giusta dimensione del potere della stampa, oggi: vale cento volte meno di dieci anni addietro. 5. Pensare che qualsiasi ufficio e persona che si autodefinisce pr possa davvero muovere la gente e smuovere le cose. on avere un’idea chiara sul perché vi rivolgiate 6. N a qualcuno del settore. on sapere cosa chiedere e pretendere dall’ufficio 7. N stampa. ensare che mettervi nelle mani di un pr oppure 8. P ufficio stampa possa sopperire le vostre mancanze. 9. Affidarsi ad un ufficio stampa senza capire se sono in sintonia con il vostro locale, se sono in target e di conseguenza se possono raccontarvi. 10. A bbandonare e concludere il rapporto con loro dopo un mese appena, con la scusa che i risultati non si vedono: raramente il feedback può essere davvero immediato.
Risto e media
Consigli (non) richiesti
M
a è davvero necessario spendere una botta di soldi per l’inaugurazione del vostro ristorante? Ovviamente no. Anche perché solitamente ci viene gente che poi, dal giorno successivo, quando si dovrà pagare, non vedrete più. Per cui pensateci bene prima di organizzare un evento del genere, a meno che la vostra vanità e l’ego non tocchino livelli altissimi: avrete solo “esperti” di inaugurazioni, degli habituè, gente che ci sguazza e cerca sempre un invito per fasi vedere e per un aperitivo gratis, i così detti tartinari che portano amici e amici degli amici, che mangiano e bevono come se non ci fosse un domani. Abbiamo visto spesso persone che non avevano nemmeno una lontana idea di dove si trovassero: sono venuti perché qualcuno li ha portati in un locale dove si mangia e si beve a sbaffo. Quante volte non abbiamo guardato con orrore ragazze che riempivano i bicchieri come se avessero attraversato a piedi il deserto, senza nemmeno chiedere chi fosse il produttore oppure la maison di champagne. Cinque, sei, sette coppe d bollicine come se fosse acqua fresca. Per quello che riguarda la stampa, non invitatela assieme ad altre duecento persone, perché non riusciranno a farsi un’idea sul ristorante, faranno fatica a capire bene che tipo di locale state per aprire, non si percepisce l’atmosfera, lo stile, il servizio: nulla. Cosa potranno scrivere, di serio e approfondito? Molto meglio invitarli uno ad uno, dopo l’apertura e dopo il rodaggio. Non buttate via i soldi: la gente che viene alle inaugurazioni spesso non sa nemmeno come si chiama il posto, tanto per loro uno vale l’altro. E domani sarà un altro giorno, con un’altra inaugurazione.
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TM
Gaja al bicchiere
MADE IN ITALY
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artiamo dai fatti: avere un dispenser fa aumentare gli incassi, e tanto. Siccome un ristorante è prima di tutto un’attività commerciale, sarebbe strano non iniziare dai numeri. Concretamente, un locale che ha in dotazione un dispenser riesce a vendere di più e anche a “caricare” il vino con delle percentuali maggiori. Perché? Semplice, una bottiglia viene venduta con un rincaro medio del 200 per cento, un bicchiere invece va oltre il 250 per cento. Ovviamente, il discorso vale per i vini di altissimo livello, annate vintage e grandi etichette, quelli che si fa fatica a proporli alla mescita se non si ha la garanzia di poter finire la bottiglia in fretta e di conseguenza di non rimetterci dei soldi. Perché, si sa, una bottiglia aperta per più di qualche ora inizia a perdere in valore, profumo e gusto Detta così pare la semplificazione estrema di un discorso che meriterebbe un’analisi approfondita e difatti la faremo più avanti: per adesso ci preme far notare che a certi livelli non si dovrebbe nemmeno raccontare l’importanza del marchingegno inventato e prodotto da Riccardo Gosi (a quei tempi l’azienda si chiamava Enomatic, poi ceduta: Wineemotion è la nuova Spa creata sempre da lui assieme ad un altro socio). Non averlo significa poca inclinazione al mercato, alle tendenze e ai gusti dell’alta clientela. Tradotto, un ristorante che ne è privo è quasi da bocciare. Perché? Facciamo due esempi veloci e opposti. Ristorante Tartufi and Friends, Corso Venezia a Milano: ne abbiamo parlato nel numero passato, il posto ci piace e ci torneremo, per una serie intera di motivi. Uno di questi è legato proprio alla possibilità di poter consumare un bicchiere di vino di altissimo livello senza per forza dover acquistare l’intera bottiglia. È un plus che non va banalizzato, anzi: il solo pensiero di poter ordinare un piatto di linguine al tartufo accompagnato da un bicchiere di Prunotto o di Tignanello fa sì che il posto entri subito e di prepotenza nella tua short list di ristoranti. Immaginatevi la scena: ore 12, stai pensando dove pranzare, hai un’ora di tempo ma anche la voglia di dedicare quei minuti a te e ai piaceri. Un posto del genere ti conquista subito e finirai per non poter farne a meno, è l’essenza del pranzo veloce e di ottima qualità. La linguina, oppure il risotto al tartufo e un bicchiere di Prunotto, o quello che desiderate. È l’essenza del pranzo ad alti livelli, è l’idea del neo bistrot, introdotta in Francia una decina di anni addietro. Un solo piatto, però straordinario, accompagnato da un vino altrettanto straordinario. A parole pare tutto semplice, però senza il dispenser è impossibile gratificarsi perché solitamente un
ristoratore non apre una bottiglia del genere senza avere la certezza di poterla finire e, di conseguenza, di non perdere dei soldi. Da parte sua il cliente sa che non potrà bere una bottiglia intera e allora ci rinuncia, optando per un prodotto meno intrigante e costoso. Tornando da Tartufi and Friends, un piatto si aggira sui 30 euro, un bicchiere di un vino notevole idem: con 70 euro, compresa l’acqua e il caffè, ti sei goduto un pranzo strepitoso. Il secondo esempio è un ristorante gourmet appena aperto, stavolta senza avere in dotazione il dispenser di cui sopra. Il risultato? Bottiglie aperte posate su un tavolo grigio e indecoroso, per non parlare della mancanza di estetica nel vederle una accanto all’altra in disordine, errore imperdonabile per un posto che si reputi all’altezza. Se avessero avuto il modello classico prodotto da Wineemotion il problema si sarebbe risolto all’istante: appunto, se. Siamo nell’epoca dell’estetica e dei dettagli, certe mancanze balzano all’occhio perché oggi la clientela è esigente, preparata, pretende sempre di più e ti punisce se non riesci ad accontentarla. Ci pare elementare. Per la cronaca, i costi non sono eccessivi: si va dai 7.400 per il dispenser ad una sola temperatura a 8.800 per quello con due. Ne vale la pena, eccome.
LA POSSIBILITÀ
di poter CONSUMARE un bicchiere DI VINO di ALTISSIMO livello senza per FORZA DOVER acquistare l’intera bottiglia é un plus che NON VA
BANALIZZATO
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Angelo Inglese Senza limiti
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ubitiamo, e tanto, che ci possa essere ancora qualcosa da aggiungere su Angelo Inglese. Aggettivi non ne abbiamo più da tempo, e fin qui ci potete accusare di avere una scarsa dimestichezza con il lessico. Oppure potete considerarci soggettivi e di parte e in effetti lo siamo, però provate ad indossare una sua camicia e poi ne parliamo. Fortuna vuole che ci aiuta lui stesso a trovare gli argomenti per scrivere l’ennesimo articolo: fra giacche, cravatte, pochette, collaborazioni con maison di champagne e case automobilistiche c’è sempre una marea di novità da raccontare. Prendiamo le divise da chef, la sua ultima trovata da novanta: finora, e per finora intendiamo da decenni, i cuochi vestivano in maniera approssimativa. Tessuti pesanti, misure a caso o quasi, si rischiava la goffaggine. Eccolo, il colpo da maestro: giacche con gli stessi tessuti utilizzati per le camicie di altissimo livello, Riva o altro. Chi mai ci aveva pensato? Il primo ad averla indossata è stato Carlo Cracco, altri ne seguiranno. Le prime le aveva realizzate in tessuto pregiato ma non pregiatissimo, però che eleganza. Piccolo elenco degli chef che l’hanno ricevuta in omaggio, sperando di non dimenticare qualcuno: Gualtiero Marchesi, Claudio Sadler, Roberto Conti, Wicky Priyan, Felix Lo Basso.
BREVE ELENCO della
CLIENTELA: Donald Trump, Sharon Stone, Francis Ford Coppola, la figlia Sophia, Andrea Pirlo, Sinisa Mihajlovic:
A BREVE SI AGGIUNGERÀ Cristiano Ronaldo
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Angelo Inglese supera sé stesso, non è più solo il miglior camiciaio al mondo, ora detta le tendenze e lo fa a modo suo, creando e portando avanti il suo credo, ovvero stupire in maniera assoluta, totale, viscerale, di pancia e di cervello. Le voci girano, il livello della clientela si alza in maniera continua ed esponenziale. Tanti nomi sono top secret, altri sono così famosi da far venire i brividi: Donald Trump, Francis Ford Coppola (ovviamente assieme alla figlia Sofia e tutti gli amici degli amici e i parenti dei parenti, in totale una cinquantina di persone), Sharon Stone. Si aggiungono petrolieri, capitani di industria, calciatori di prim ordine, soprattutto zona Torino, per via del negozio Danpol, meta di peregrinaggio per i fashion addicted. Pirlo, Del Piero, Mihajlovic, ora si aspetta l’arrivo di Cristiano Ronaldo (è già pronta una vera e propria collezione creata ad hoc per lui). Piccola parentesi: il 16 novembre, a Parma, alla giornata dell’assegnazione delle stelle Michelin, Angelo Inglese era fra gli invitati. Ad un certo punto sale sul palco Marco Lavazza, direttore generale dell’azienda di famiglia. Indovinate? Indossava una cravatta di Angelo, con i due che nemmeno si conoscevano di persona. Inutile raccontare la soddisfazione di entrambi alla fine della cerimonia, quando si sono presentati uno all’altro. Piccole e ulteriori conferme e soddisfazioni su quello che significa oggi Angelo Inglese. Le camicie sono uno stupore continuo, non sai se meravigliarti prima per i tessuti unici (il misto di jeans e cashmere ha dell’incredibile), per i modelli, oppure per i tagli: fatto sta che una volta provate e indossate diventano la tua seconda pelle. Ci eravamo quasi dimenticati dell’ultima chiccheria: la pasta in camicia, un modo cool per avvicinare l’alta gastronomia alla moda e per dare un senso di esclusività. Sono dei sacchettini in tessuto pregiato che poi magari possono essere utilizzati ad altro. O per collezionarli. Perché tutto quello che fa Angelo è da custodire gelosamente.
giorno e che dormo sul bancone”. Ok, onore al merito, ma il trattamento diverso? Silenzio. Colpevole silenzio. L’idea di Ruth fu straordinaria: andava in un ristorante annunciando il suo arrivo e ovviamente la trattavano divinamente, da giornalista famosa. Poi però quando si presentava in incognito, travestita in tale maniera da essere irriconoscibile, guarda caso non riceveva lo stesso trattamento. Per cui – è qui la genialata ma anche la grandezza del quotidiano – scriveva due recensioni, una dietro l’altra. La prima quando va tutto alla grande e la seconda quando la trattano con sufficienza. Le differenze erano colossali, dalle dimensioni delle more nella macedonia fino al tavolo riservato. Ecco, trattare i clienti in maniera diversa è l’errore più grosso che si possa fare. E purtroppo i ristoratori continuano a non capirlo: certo che ci sono delle eccezioni, ma non puoi considerare un cliente da serie A e un altro da serie B. Sarebbe bello se in Italia esistesse un giornalismo puro e crudo e meno in ginocchio: va da sé che è pura utopia una situazione del genere. Nessun direttore si sogna di andare contro uno chef famoso, ancor meno i suoi giornalisti, a parte Valerio Visintin, ma lui è una storia a sé. Funziona molto la filosofia democristiana secondo la quale “se non ti piace non scrivi”, una roba che va contro il giornalismo stesso. Certo, puoi fare una cortesia e non scrivere, non è obbligatorio recensire ogni ristorante che frequenti, ma sta a te deciderlo, non è una regola, ancor meno una legge. Eppure la gran parte si isterizza subito se non incensi il loro lavoro. A loro sono dovuti solo complimenti e applausi sovietici. Troppo spesso leggiamo commenti del tipo “imparate dai grandi professionisti che scrivono solo articoli positivi”. Ci sfugge cosa sarebbe da imparare: se loro vogliono fare pr ok, ma il giornalismo è un’altra cosa. Noi vogliamo seguire l’esempio di Ruth.
Ruth Reichl La migliore
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i chiama Ruth Reichl ed è stata la più influente giornalista gastronomica di sempre: scriveva per il New York Times negli anni d’oro, quando la stampa aveva un peso ed era una potenza, in più non si facevano markette. Per darvi un’idea di chi era e quanto poteva influire il suo giudizio ecco cosa rispose a chi le chiese se fosse possibile valutare in soldoni un suo articolo: “Svariati milioni di dollari. Se il NYT ti da quattro stelle sai di avere davanti a te almeno tre anni fino alla prossima recensione e che in quegli anni sarai pieno tutte le sere, il tuo catering sarà il più richiesto, la fortuna del tuo ristorante principale ricadrà sugli altri minori, avrai contratti per programmi televisivi, libri di cucina, linee di pentole e altro ancora”. Bene, ma cosa succedeva quando stroncava un ristorante? Chiudeva nel giro di pochi mesi: si narra di persone preoccupate per il proprio mutuo dopo una sua visita e prima della pubblicazione dell’articolo. La prima recensione per il New York Times la fece sul ristorante Le Cirque di Sirio Maccioni: la storia vale la pena di essere raccontata. Ruth ci andò varie volte a mangiare, alcune volte allo scoperto, altre in incognito. Sorpresa sorpresa, fu trattata in maniera a dir poco differente: quelle volte che informò del suo arrivo fu accolta, senza esagerare, proprio come una principessa. Un giorno le dissero, quando arrivò: “Il re Juan Carlo sta aspettando ancora al bar ma il suo tavolo è pronto”. Mangiò in maniera divina e diede a Le Cirque quattro stelle, il voto massimo: quando invece ci andò con una parrucca e un abito polveroso fu trattata diversamente: mangiò meno bene, ebbe un tavolo vicino ai bagni e di conseguenza bollò il ristorante con due stelle. Sirio diventò paonazzo, sorvolò sulla differenza di trattamento (le colpe sono solo degli altri, autocritica mai) e tuonò contro di lei: “Ruth ha portato acqua al suo mulino, è diventata famosa, ha fatto i suoi interessi. Non sa che io lotto ogni
UN GIORNO le DISSERO,
QUANDO ARRIVÒ: “Il re Juan Carlo sta aspettando ancora al bar ma IL SUO TAVOLO È PRONTO"
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L'ostrica proposta da Felix
Una notte da sogno con Felix e Carlo
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uanto vale un sogno di fine anno? Quanto vale una promessa eterna sussurrata guardando il Duomo, oppure la Galleria? Non si possono pesare e quantificare le emozioni, anche perché si vive solo e soprattutto per emozionarsi, il resto non esiste. Poter regalare una serata del genere non ha prezzo e difatti nessuno guarda il conto. Ci sono ancora uomini che per far sentire uniche le loro donne vanno da Tiffany e poi a cenare da Felix Lo Basso. Pensateci bene, sono momenti davvero indimenticabili: un anello prezioso, una cena formidabile e una promessa di amore eterno. Perché la cena di fine anno è stata così, lassù da Felix e anche da Cracco, a pochi metri di distanza. Milano, lo si sa, è priva di spazi ampi e di ristoranti con vista. Ce ne sono due soltanto, i suddetti, appunto: ovvio che gli ultimi romantici rimasti hanno prenotato qui per la notte di Capodanno. La vita è una magia, vedere lei felice e sorridente non ha prezzo, pare abbiamo pensato i maschi sognatori. Evidentemente è un privilegio potersi permettere una notte del genere, ma come bene dice Cracco la Galleria non può essere economica: ancor meno per la fine dell’anno, ci permettiamo di aggiungere. Ecco, i prezzi: siamo sicuri che i 350 euro necessari per potersi sedere al primo piano del suo ristorante siano una somma elevata? Per fare un paragone, quanto hanno pagato i più per una cena in un
CI SONO ancora
ristorante privo di charme e di stelle? 200? 180? Converrete che la differenza è poca cosa rispetto a quello che ti offriva Carlo. Lo hanno aspettato al varco, come sempre, per via dei prezzi, diventando ridicoli, ancora una volta. Sono stati sfortunati anche in questo caso: non solo il prezzo era davvero competitivo (anzi, forse un tantino sottocosto), ma la sua cena veniva pagata meno di quella di Felix, difatti ci volevano 500 per dominare Milano dall’alto, dal regno di Lo Basso. Sono serate senza prezzo, c’è la fila per potersi sedere ai tavoli vicini agli oblò, così romantici e piacevoli. La gente vuole una vita a colori ed è per questo che va sognante da Felix, oppure da Carlo. Nessuno può spegnere i sogni, nemmeno i moralisti tot al chilo. Certo, sono in pochi i coloro che non riescono a gustarsi la vita, sono una macchia invisibile e per nulla da prendere in considerazione. Non si può dire nemmeno che sono fastidiosi, il loro rumore si perde fra la joie de vivre degli altri. La vita e la magia vincono sempre. Cin cin, al prossimo Capodanno, sempre in Galleria.
uomini CHE PER FAR SENTIRE UNICHE le loro donne VANNO da TIFFANY e poi a cenare da FELIX LO BASSO
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Il capodanno da Felix Lo Basso
Jay Rayner e gli altri
F
acciamola breve. La stampa britannica vive alla grande e non perde lettori (anche) perché i giornalisti ignorano gli uffici stampa, anzi, li deridono. Se ne fregano altamente perché lo stipendio arriva da un proprietario e in gran parte dai lettori, per cui sono loro le persone a cui rispondere. Qui accade esattamente il contrario, tutti amici di tutti perché la cena gratis e il regalo di fine anno valgono più del rispetto verso chi ti paga ed è (anche) per questo che i giornali chiudono. Jay Rayner è un critico gastronomico molto famoso e temuto: scrive per The Guardian, se ne infischia di tutti e di tutto, è una specie di Valerio Visintin, con la differenza che Jay va a volto scoperto. Certo, lo conoscono ovunque: le sue fotografie le trovi ben in vista in qualsiasi dressing room. Come dire, attenti che può arrivare da un momento all’altro. Le sue sono più cronache gastronomiche che critiche, leggerlo è uno spasso: c’è chi dice che fa intrattenimento, o infotainment, per usare un termine che piace agli esperti. Diciamo che è abile nello scegliersi le prede, andando laddove sa che troverà il “sangue”, non a caso lo chiamano “Acid Rayner”. Ebbene un giorno va a mangiare a Le Cinq, famosissimo ristorante tre stele parigino, situato all’interno dell’hotel George V. Si siede, ordina e gli arrivano le cipolle caramellate. A lui pare un piatto riuscito male e chiede se fosse possibile scattare una foto. Il personale, molto gentile e ossequioso, risponde di no, ma nel caso avesse bisogno ci sarebbe il ristorante stesso a provvedere con una immagine. Ora, guardate qui: da un lato la foto fatta di nascosto dal giornalista, dall’altra parte la foto mandata dall’ufficio stampa del ristorante. Ovvio che lo scatto rubato non è perfetto, ma le differenze sono evidenti. Come possa essere possibile che in un tristellato accada uno scempio del genere è difficile capirlo, ma il punto non è questo. Il fatto è che una stampa che si rispetta scrive e dice quello che pensa sia corretto e vero. E’ ovvio che in Italia nessuno avrebbe mai pubblicato la foto rubata e ancor meno avrebbe voluto turbare la quiete dello chef e del ristorante, perché l’invito ed i buoni rapporti valgono più del giornalismo.
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Poi chiediamoci perché la stampa stia per morire. Ti troveranno sempre scuse, tutte false: “tu non puoi capire come vanno le cose”, “io non voglio rogne”, “il mio direttore non gradisce cose del genere”, “qui devi comportarti in un certo modo”. Niente di tutto questo è vero. Basta voler fare il giornalista e non il megafono di un ristorante oppure, peggio ancora, di un ufficio stampa. Per la cronaca Jay ha considerato il Le Cinq “di gran lunga il peggior ristorante in cui sono imbattuto nei miei 18 anni di carriera in termini di rapporto qualità-prezzo”. Altra perla estratta dal suo articolo: “Le pareti “sono di color grigio talpa, biscotto e vaffanculo, con un po’ di cose splendenti e dorate sparse qua e là”. Color grigio talpa: ammettiamolo, è un genio. Un’ultima: “il piccione è talmente poco cotto che “potrebbe ancora prendere il volo”. I lettori, quelli inglesi, si sono divertiti: dall’altra parte della Manica, i francesi hanno accusato il colpo, con la solita boria. Come sempre è stato quasi un caso diplomatico, ma questo non riguarda Jay. Lui semplicemente va, mangia, paga e scrive.
E’
OVVIO che in Italia NESSUNO
avrebbe mai PUBBLICATO la FOTO RUBATA E ANCOR meno avrebbe voluto turbare la quiete dello CHEF E
DEL RISTORANTE
Il mito della Michelin Istruzioni per uso
C’
è tanto di quel folclore attorno alla Michelin che la metà basterebbe per riempire un libro di barzellette. C’è gente che la spara davvero grossa, incurante dai sogghigni altrui: c’è chi la scambia per una specie di ente statale ipocrita e menzognera che dovrebbe dare stelle in base alle necessità locali, regalarle a destra e a manca, come ai tempi della Democrazia cristiana. Poi c’è chi vede congiure ovunque, trovando ragioni deliranti sulla mancata stella. Certo, i più carnevaleschi sono quelli che dall’alto della loro conoscenza (quale???) sanno che dietro le scelte c’è un magna magna terribile. Vabbè. Sorvoliamo anche sui coloro che vantano amicizie e pranzi con gli ispettori, per tacere sui saputelli vari ed eventuali. Tutti sanno tutto e non si fanno ingannare: si, come no. Proviamo a fare ordine. Alla Michelin non interessa minimamente premiare una regione piuttosto che un’altra, vantaggiare oppure punire una città. Premiano esclusivamente chi pensano meriti di essere premiato, stop. Gli ispettori vengono istruiti per concentrarsi sul piatto e solo sul piatto, lasciando da parte fattori esterni (la bellezza del posto, la vista mozzafiato e via dicendo): devono guardare e analizzare con i paraocchi, come i cavalli. E’ questa l’essenza della guida, fotografa il momento della ristorazione, vuole indirizzare il gourmand, indicandogli i posti migliori da frequentare. Siccome la Michelin, intesa come azienda di pneumatici, fattura più di venti miliardi, non ha alcun interesse di macchiarsi e di svalutarsi solo per favorire uno oppure un altro: ci tengono a essere credibili perché la guida rimane il loro biglietto da visita più importante. Altra nota dolente: gli ispettori (che sono una cinquantina) non possono arrivare ovunque. Spesso vanno nei così detti tour, una settimana in una regione, quando vanno a mangiare qua e là in base alle segnalazioni. Perché sì, i ristoratori possono segnalare l’apertura di un proprio locale, così come i clienti possono esprimere il loro giudizio via posta oppure via e-mail. Facciamo un esempio: se in una settimana arrivano in redazione 20 segnalazioni su un ristorante straordinario aperto da due mesi, l’ispettore
E’ PIENO di BUONI e buonissimi RISTORANTI che non hanno il riconoscimento Michelin, IL CHE NON VUOL DIRE che vengono bocciati,
BENSÌ RIMANDATI
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prende nota e va a controllare. Idem per delle recensioni negative verso un ristorante già stellato. Quando si manda la segnalazione di una nuova apertura, è gradito segnalare e basta, senza commenti pittoreschi del tipo “siamo il miglior ristorante di pesce nella zona”. Se fai così, stai sicuro che non ci arriveranno mai. Non basta una sola visita per conquistare la stella, però spesso ne basta una per la conferma. Per essere premiati ci vogliono solitamente tre visite, mentre per la seconda stella si arriva a cinque, spesso con visite da parte di ispettori stranieri. Questo tanto per far capire quanto costa mettere in moto il tutto. E’ pieno di buoni e buonissimi ristoranti che non hanno il riconoscimento Michelin, il che non vuol dire che vengono bocciati, bensì rimandati. Mediamente ci vogliono tre anni prima che uno chef sconosciuto alla guida possa conquistarsi la prima stella. Si valuta la costanza nel tempo, perché la guida non può permettersi errori: per la verità ne ha già commessi, ma l’idea è di ridurle al massimo. Accade spesso che la prima volta vai e mangi da dio, mentre se torni sei mesi dopo la qualità è ben diversa. Ecco, in tre anni si può valutare per bene la costanza di un ristorante. Dall’anno scorso si è aggiunto un altro criterio, ovvero la solidità economica: pure qui si sono commessi degli errori, anche se involontariamente. Ora si aspetta, si cerca di capire e di verificare se arrivano voci sulla situazione economica del locale: metti che si dà la stella a novembre e a gennaio uno chiude per fallimento, che figura fanno? Siccome è appena successo, non vogliono avere altre sorprese.
Se vi è una magia su questo pianeta, è contenuta nell’acqua. (Loren Eiseley)
14
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