ENRICO BARTOLINI Che arrivi la terza Foto: Monica Cordiviola
NAMIBIA
LA NATURA FA SPETTACOLO
No 8
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ESTATE 2019
▪Incontro con la grande natura - 13 giorni Partenze di gruppo: 3 e 17 agosto ▪Namibia, Botswana e Zimbabwe - La Grande Traversata da Windhoek alle Cascate Vittoria 13 Giorni - Partenza di gruppo: 6 agosto ▪La terra dei deserti e dei diamanti - 17 giorni Partenza di gruppo: 11 agosto ▪Verso le terre degli Himba, tra parchi e deserti 17 giorni - Partenza di gruppo: 11 agosto Tutti gli itinerari sono effettuabili anche su base individuale a date libere.
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Fabrizio Barbera
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Editoriale
Food seduction
L’
episodio risale a qualche anno addietro. Lo chef in questione era perennemente innamorato. Una sera conosce una donna di cui, guarda caso, se ne innamora: stavolta, più del solito. Da quel giorno in poi ha sempre pensato ad un piatto che potesse piacere a lei, voleva conquistarla e farla cadere ai suoi piedi. Per sempre o giù di lì: era davvero cotto. Il piatto, ovviamente, arrivò. Lei però, anzi, fermiamoci qui che non importa il seguito. Restiamo al gesto, romantico da morire: piccola aggiunta, conoscendola, avreste pensato e agito come lui. La storia ebbe un impatto social sbalorditivo, non a caso poi diventò uno slogan: lo chef innamorato. Una definizione quasi da farne una rubrica, perché il nome fa sorridere e sognare, ovvero il massimo della vita. Ecco, da lì parte l’idea: uno chef innamorato cucina meglio rispetto ad un altro che non vive un tale momento di grazia emotiva? La creatività galoppa quando si pensa a lei? Si può cucinare divinamente e colorare la vita dei clienti senza essere pazzamente innamorati? Probabilmente no. Le scintille di piacere, le deliziose sensazioni riesci a provocarle solo se, appunto, pazzamente innamorato. Di sicuro deve essere una sensazione straordinaria cucinare per la donna dei sogni, o per lo meno dei sogni di quel momento specifico. C’è un film con Scarett Johansson, dove lo chef (Jon Favreau, fantastico) la porta a casa e le prepara una pasta squisita. Lei, seduta sul divano, assaggia lentamente, per poi chiudere gli occhi e miagolare per il piacere, sensualmente. E’ un momento di rara bellezza e intensità, carico di erotismo, un evidente, straordinario, perfetto preambolo amoroso. Ho cercato il filmato su google e l’ho trovato subito, senza alcun problema: quello che mi ha colpito è il titolo che un utente ha scelto per la scena: food seduction. In due parole l’essenza della vita, la mia e la vostra, quelli che sfogliate Good Life e quelli che andate al ristorante carichi di speranze e aspettative. Suona così bene da voler registrare il dominio e lanciare un sito (avverrà). Food seduction, quanta musicalità e soprattutto quanta verità. E poi
racchiude, include, definisce in maniera perfetta un mondo dove tutto, almeno in principio, dovrebbe ruotare attorno al piacere. Lo sostiene anche Mauro Uliassi, nelle prime pagine del numero che state per sfogliare, per esattezza alla pagina 18: La mia cucina? Erotica, contemporanea, gioiosa. Sì, c’è tanto eros. Il mangiare è l’unica attività, insieme al sesso, che coinvolge tutti e cinque i sensi. Quando cuciniamo, lo facciamo pensando esclusivamente al piacere che regaleremo alle persone”. E noi, quando scriviamo, la pensiamo ugualmente: vogliamo regalarvi dei momenti piacevoli. Se innamorati, scriviamo meglio. Io uno, di sicuro. Come lo chef, sono perennemente innamorato. A proposito, il film si chiama Chef.
C’È UN FILM con SCARETT JOHANSSON, dove IO CHEF la PORTA A CASA E LE PREPARA UNA PASTA SQUISITA. Lei, SEDUTA SUL DIVANO, ASSAGGIA LENTAMENTE, per poi chiudere gli occhi E MIAGOLARE
PER IL PIACERE, SENSUALMENTE
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Se vi è una magia su questo pianeta, è contenuta nell’acqua. (Loren Eiseley)
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L’acqua più leggera d’Europa, grazie alle sue proprietà uniche è perfetta per accompagnare ogni portata. Nell’alta ristorazione, l’eccellenza di Lauretana viene esaltata dalle linee essenziali del design Pininfarina e dalla purezza del vetro. Per questo viene scelta dai migliori ristoranti in tutto il mondo.
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Claudio Liu
NON ABBIAMO mai
lavorato per la STELLA, anche perché sarebbe STATO UNA FOLLIA solo pensarlo. Però ERAVAMO il ristorante più frequentato DAGLI CHEF, venivano tutti da noi la domenica sera: Ciccio Sultano, Cracco, Berton, Sadler, poi Perbellini E DI CORATO
6-9
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Enrico Bartolini L’uomo è geniale. In più è una macchina da guerra e da fatturato.
In cucina ha raggiunto livelli semplicemente commoventi, fuori non sbaglia un colpo: colleziona stelle come nessuno e ora tutti si aspettano la terza per il suo Mudec, che sarebbe meritatissima visti gli ultimi menù. Lo spaghetto all’anguilla affumicata e calamaretti spillo è tutto quello che uno possa sognare, chiedere e immaginare quando si siede in un ristorante del genere
Mauro Uliassi "La mia cucina? Erotica, contemporanea, gioiosa. Sì, c'è tanto eros.
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Claudio Liu E’ entrato e rimarrà nella storia della cucina italiana. Per sempre. Il
Enrico Bartolini
26-27
Il mangiare è l'unica attività, insieme al sesso, che coinvolge tutti e cinque i sensi. Quando cuciniamo, lo facciamo pensando esclusivamente al piacere che regaleremo alle persone". Il nostro innamoramento platonico nei confronti di Mauro Uliassi inizia con le parole appena lette e risale all’epoca pre-tristellata motivo è semplice, oltre che risaputo: il suo ristorante, Iyo, è stato il primo così detto “etnico” a conquistare la stella Michelin. Va detto che la famiglia Liu si merita il primato, eccome: volendo, è un premio per la tenacia del padre. La sua storia l’abbiamo pubblicata sul numero passato ed è diventata un cult. Di Giulia e Marco ne abbiamo parlato a lungo nel numero passato, Claudio invece lo abbiamo lasciato alla fine: in tal modo troviamo un motivo valido per poter raccontare ancora una volta di loro
Mauro Uliassi
Bon Wei
Bon Wei “Bollicine di altissimo livello e dei piatti ricchi, succulenti, gustosissimi,
alcuni addirittura indecenti, che ti incendiano i sensi. Gli gnocchi con astice e zenzero sussurrano segreti e scivolano sensuali in bocca, con il sapore che sboccia sul palato. Stesse sensazioni per le costine imperiali che sono un must, idem per l’anatra laccata e i gamberoni argentini”. Scrivemmo così, alla fine della nostra prima cena da Bon Wei. Sono passati quattro anni e nulla pare cambiato
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CRISTIANO RONALDO CONOSCE bene El Carnicero, perché FREQUENTA il RISTORANTE DI IBIZA: 300 posti e 500 coperti
A SERA
siccome ama andare sul sicuro, eccolo a Milano in Via Spartaco. Messa così pare che El Carnicero sia un posto esclusivo e costoso, invece è esattamente il contrario: lo scontrino medio si aggira sui 57 euro, mentre il target è trasversale al massimo con una predilezione per le famiglie. L’atmosfera è romantica, tanto romantica, il che porta qui anche coppie innamorate, c’è tutto per accendere il desiderio: i colori, le luci, la suggestione argentina e di conseguenza il tango. “E’ easy ed elegante”, sentenzia Maximilian. Vero. Noi preferiamo il tavolo sociale quando andiamo da soli, per il resto ci piace la sala centrale, che sa di pampa e di calore umano. Diverso il secondo ristorante aperto in Corso Garibaldi, dove la zona impone di per sé una frequentazione diversa, modaiola, scintillante. Di sicuro entrambi sono strapieni ogni santa sera, nel weekend si registrano anche dei doppi turni, soprattutto in Via Spartaco. Fa una corsa a sé il ristorante di Ibiza, ovviamente estivo: numeri sbalorditivi, ma forse non per Maximilian.
El Carnicero
Pampa e CR7
L’
uomo ci sa fare, eccome. Lo abbiamo già scritto sul numero passato e sul prossimo torneremo ancora, stavolta con una storia approfondita: ne vale la pena, il personaggio la sa lunga. La prima volta che andammo a El Carnicero, forse cinque anni addietro, fummo colpiti dall’atmosfera, senza sapere che il locale fosse suo. A onor del vero lo abbiamo conosciuto solo di recente, al The Fisher, ristorante che rappresenta la sua affermazione definitiva: tre milioni di investimento per un locale straordinario. Ma andiamo con ordine, anzi, torniamo a El Carnicero, il primo aperto, quello in Via Spartaco. Ai tempi si pensò al ristorante come ad una casa di campagna, tipicamente argentina: in realtà Maximilian D’Andrea, perché è di lui che stiamo parlando, volle solo riproporre e rivivere le atmosfere sud americane vissute nel periodo dell’infanzia. Come ci aveva già raccontato, è cresciuto fra Venezuela e simili, per cui El Carnicero era un ricordo, anzi, il ricordo. Va detto che fin dai tempi dell’apertura la gente entrava e rimaneva letteralmente affascinata dai colori, dagli spazi, dagli arredi e, ovviamente, dalla carne (oltre alle argentine trovi anche la T-bone e il controfiletto statunitense). I calciatori sud americani lo prendevano d’assalto, Tevez veniva spesso da Torino e ancora più spesso ordinava qui i filetti per i suoi barbecue privati. C’erano poi gli altri, come Rodrigo Palacio, ancora in attività in Italia e che torna volentieri. I “nuovi” clienti si chiamano Pepe Reina, Lucas Biglia e Cristiano Ronaldo: si, lui. Saletta privata, due bodyguard, poi un buon chorizzo e una entrana gustosissima. Per la cronaca, pure lui come Tevez si è fatto poi recapitare della carne a casa, con il corriere. CR7 conosceva bene El Carnicero perché ci andava in quello di Ibiza, 300 coperti e numeri da sballo: siccome è un abitudinario,
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Enrico Bartolini Che arrivi la terza
Foto: Monica Cordiviola
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mettere in pratica quello che prima non ci riusciva. Ci siano dati degli obiettivi ben precisi, a cominciare dal design del dehors fino alla stanza della pasticceria e al modo di cucinare, difatti stiamo insistendo sul tema della caccia, tema a me molto caro, visto che ho degli zii cacciatori. Abbiamo rinunciato al sottovuoto, per la primavera stiamo perfezionando un menù a base di pesce e crostacei, mentre per l’estate puntiamo ad un menù impostato sulle verdure. - Come potremmo caratterizzare il Mudec? - Il Mudec si trova in una città internazionale e lussuosa, per cui la cucina poteva solo essere contemporanea e concreta, di grande personalità. Alcuni piatti si evolvono, vedi l’alice, un piatto che abbiamo cambiato e perfezionato tante volte fino Il famoso piatto patata soffice uovo e uova a farlo diventare un sol boccone: prima gli elementi erano sparsi, dispersivi, uomo è geniale. In più è una macchina da guerra ora invece vedo come il nostro lavoro sia stato valorizzato e da fatturato. In cucina ha raggiunto livelli al massimo, non solo dal punto di vista estetico. La sala sta semplicemente commoventi, fuori non sbaglia un migliorando, prima oscillava fra due stelle e mezzo e una e colpo: colleziona stelle come nessuno e ora tutti si mezzo, ora invece noto una continuità straordinaria, merito di aspettano la terza per il suo Mudec, che sarebbe meritatissima Sebastien Ferrara. Abbiamo molto migliorato anche la carta dei visti gli ultimi menù. Lo spaghetto all’anguilla affumicata e vini, non dico che sia la migliore in Italia, però di sicuro non calamaretti spillo è tutto quello che uno possa sognare, chiedere manca nulla ed è ricca di idee. Può sembrare una banalità, però e immaginare quando si siede in un ristorante del genere: i adesso stiamo togliendo il tappo in un modo più armonico, così profumi ti avvolgono come una sinfonia, chiudi gli occhi e come i bicchieri mi sembrano più adatti al contesto moderno del respiri profondamente, assimilando la fragranza vigorosa ristorante. Da agosto in poi abbiamo avuto un cambio di passo dell’anguilla. Ti sembra di assorbire gli odori con la pelle, è di notevole, c’è una energia particolare, la sala spinge forte, ogni una bontà straziante, ti tocca l’anima. Lui spera che diventi il gesto va misurato, siamo in tanti per pochi ospiti ed è giusto piatto dell’anno, per noi lo è già, consapevoli di fare un piccolo così. Ognuno ha un suo ruolo ben definito, tutto viene spiegato torto alle altre opere d’arte, per esempio il risotto e latte e comunicato nel migliore dei modi: prendiamo per esempio il lodigiano, civet di lepre ed essenza di melograno. Perché se lo pane, ha una sua storia, deve essere servito in un certo modo. spaghetto ti “stende” subito (l’impatto estetico è letale), il risotto La clientela apprezza, capisce che i ragazzi sono bravi, c’è una è ingannevole, ti pare un piatto banale e poi arriva la botta, una grande empatia. straordinaria aggressione, un gusto potente da morire che ti - Pare davvero contento di come stiano andando le cose. devasta e ti insegue per il resto della giornata. A noi il risotto ha - È tutto perfetto o quasi, sento mio il ristorante al cento turbato oltre ogni immaginazione, anestetizzandoci dal piacere, per cento: all’inizio poteva sembrare leggermente austero e è uno di quei piatti che non puoi raccontare, devi viverli. I suoi monotono, poi sono arrivate le poltrone di Baxter e le opere del classici, seppur geniali, ci permettiamo di metterli leggermente pittore spagnolo Borja Bonafuente Gonzalo, che hanno cambiato in disparte, nel senso che sarebbe un delitto continuare a ordinarli a discapito delle new entry, anche se la prima volta che abbiamo avuto la sensazione che meritasse le tre stelle fu quando assaggiammo il risotto alle rape rosse e il sontuoso patate di uovo e uova, ora entrambi compresi nel menù dei ricordi.
L’
DA NOI é vietato
- Partiamo proprio dalle tre stelle: per esclusione, lei è rimasto fra i pochi papabili a non averle ancora conquistate: prima Norbert, ora Uliassi, in principio quest’anno dovrebbe toccare a lei. - Da noi è vietato parlare delle tre stelle: se pensi di meritarle commetti un peccato d’arroganza Intanto sono onorato di far parte della categoria dei bistellati e mi sento fortunato a lavorare in Italia: nessuno ha i nostri macellai, i nostri cacciatori e nemmeno i nostri pescatori. Poi, sono davvero soddisfatto per quello che riusciamo a fare in questo momento, siamo in grado di
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PARLARE delle tre stelle: SE PENSI di meritarle commetti un PECCATO
D'ARROGANZA
Foto: Monica Cordiviola radicalmente il ristorante, aggiungendo eleganza, dinamismo e frizzantezza. Uno dei quadri mi ha fatto perfino cambiare idea sul colore ocra, che ora si trova perfino nei bordi delle poltrone e in alcuni piatti. Per alcuni potrebbe sembrare un argomento secondario, però siamo riusciti a spostare il bagno dal piano di sotto, il che è un sollievo e mi rende contento, perché prima, scendendo, cambiava l’atmosfera, era come se finisse l’incantesimo. Ora è tutto come dovrebbe essere. - Prima di passare al Casual, apriamo una parentesi su Remo Capitaneo, che è più di un sous chef. - So dove volete arrivare: se un giorno andasse via, come farei senza di lui. Rispondo: non andrà via, ne parliamo spesso, siamo insieme da otto anni, la sintonia è incredibile. Confesso, non avrei mai immaginato di essere in grado di sviluppare un tale rapporto umano e professionale. Considerarlo sous chef è sminuente, riduttivo, cerco di coinvolgerlo in tutti i nostri nuovi progetti, come quello che vedrà la luce l’anno prossimo: gli chiesto se fosse interessato a diventare executive, si vedrà.
LA SALA sta
migliorando, PRIMA OSCILLAVA fra due STELLE E MEZZO e una e mezzo, ORA INVECE NOTO una continuità straordinaria, merito di SEBASTIEN
FERRARA
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- Teme di perderlo? - No, perché ha capito che insieme riusciamo a muoverci bene, mentre andando ognuno per conto nostro siamo più deboli. Mario, il fratello di Remo, lo ha vissuto sulla propria pelle: è andato via per un paio di anni, per poi tornare. - Casual, dunque. - Nei miei ristoranti vorrei che gli chef splendessero di luce propria. Certo, l’apertura è complicata, tutti sanno che si tratta di un ristorante di Enrico Bartolini e all’inizio spingo sui miei classici, però tempo un anno l’executive deve tirare fuori le sue idee ed i suoi piatti, deve raccontare il territorio, instaurare dei rapporti con gli artigiani locali, difatti Alex Manzoni va spesso nelle valli a cercare i prodotti. In cucina é un marziano, poi la sala funziona a meraviglia: Marco Locatelli sa come trattare la nonna e il bambino, abbiamo un grande numero di famiglie che vengono lì da noi a cena oppure a pranzo. Il posto è molto bello, siamo a Bergamo Alta, c’è il parcheggio, l’interno è grazioso, le poltrone comode, i tavoli anche, la cucina pure, la vista è splendida: il posto ideale. - La Trattoria, in Toscana. - Lì abbiamo una brace fantasmagorica, le cotture sono straordinarie: carne, pesce, erbe, viene tutto in maniera diversa, stupenda, è un altro mondo. - Glam. - A Venezia sto impazzendo, nel senso che Donato Ascani dimostra delle qualità e una personalità straordinarie, mi fa venire rabbia per quanto è bravo, nel senso che alla sua età io ero lontano anni luce. È un gigante, ogni suo piatto mi provoca la salivazione. Si esprime in maniera splendida, difatti lì non esiste un
budget, se trova una seppia particolare e costosa la può e la deve prendere perché so già che inventerà dei piatti divini. Mi ha insegnato ad apprezzare le sue qualità, riesce a dare ai piatti una sapidità pazzesca. Una volta ho impiegato due giorni per capire un suo piatto a base di patate dolci e nocciole, poi ci sono arrivato: va detto che in un primo momento lo avevo bocciato, poi mi sono ricreduto. Per la cronaca, Glam è il primo dove ho tolto i miei classici. - Sant’Uffizio. - Da Gabrielle Boffa ho mangiato i migliori plin della mia vita, dopo quelli assaggiati da Ugo Alciati, che sono inarrivabili: la pasta, il ripieno, è tutto straordinario, compresa la golosità. - Pandenus. - Per ora ho messo le mani solo in due locali, quello di Via Mercato e quello in Piazza Gae Aulenti: si trovano in pieno centro, ci sono tanti turisti, di conseguenza mi pareva giusta una proposta gastronomica con una forte connotazione milanese. Per gli altri Pandenus si vedrà più avanti, ora proviamo a dare una forte identità ai due: il progetto mi piace molto. - Passiamo a Dubai: Spiga. - Mi sento molto ascoltato qui, così come da Roberto’s, che esisteva già al mio arrivo. Teniamo fede al gusto e alle golosità locali, sappiamo che le carni devono essere leggermente più cotte e che loro amano tanto le spezie: quando mettiamo piede fuori dall’Italia siamo dei ristoranti etnici, non dobbiamo dimenticarlo. - Capitolo personale. - Dobbiamo abolire il pessimismo: se un ragazzo è scontroso non vuol dire che sia anche un cafone. Ci sono ragazzi che si scoraggiano dopo mezzora e altri che vanno avanti, integrarli è un processo faticoso, ma io non faccio fatica. Da noi ci sono delle regole: appena arriva un nuovo stagista gli si presenta il personale, i capi partita raccontano chi sono, quello che stiamo facendo e come, il tutto con educazione, calma e chiarezza. Certo, non possiamo fare il training, quello lo si fa a scuola, però più li aiutiamo più impareranno in fretta. Per quello che riguarda lo staff non badiamo a spese, investiamo tanto. Ho capito che i ragazzi sono molto più attenti se acquistiamo le migliori materie prime possibili, si sentono importanti e diventano ancor più ambiziosi. Ai miei capi partita dico sempre che se riescono a fare bene per tre anni poi diventano i primi candidati per le future aperture. Però mi lasci dire, è penalizzante fare ristorazione in Italia: rispetto ad altri paesi il costo del lavoro è doppio e il numero di coperti è inferiore, perché qui non si possono fare Linguina all'anguilla due turni, figuriamoci tre.
- La sensazione è che oggi la vita in cucina sia molto più facile rispetto a prima: induzione, aria condizionata, padelle che non ti bruciano la mano. - Aggiungerei la facilità di viaggiare e di scoprire il lavoro degli altri, grazie alla tv e a internet. - Però i ragazzi di oggi la prendono in modo assai approssimativo e alla leggera. - Guardando indietro pure io ho fatto degli errori. Quando lavoravo in Francia mi sono permesso di rispondere ad uno chef, poi ai tempi di Alajmo mi sarebbe piaciuto essere più maturo: certo, ero uno serio, però avrei potuto esserlo ancor di più. - Guardando indietro, si sarebbe aspettato di toccare vette così alte? - Ho iniziato nella cucina di mio zio: a quei tempi
A VENEZIA, da Glam, STO IMPAZZENDO, nel senso che Donato Ascani dimostra delle QUALITÀ E UNA PERSONALITÀ straordinarie, mi fa venire rabbia PER QUANTO
É BRAVO
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Foto: Monica Cordiviola sognavo di riuscire a preparare i maltagliati e il coniglio con la frittata. Certo, ne ho fatta di strada. Il primo choc, gastronomicamente parlando, l’ho avuto a Parigi, quando andai come cliente da Pierre Gagnaire: spesi una fortuna, 3300 franchi, ero devastato da tanta bontà e mi resi conto di non aver capito nulla della ristorazione: mai avrei immaginato di arrivare ad un livello del genere - I suoi piatti storici, la gente li chiede ancora? - Parte li trovi nel menù dei ricordi, altri non ci sono più in carta però a richiesta li prepariamo senza problemi. - La sua cucina è cambiata, oppure si è solo evoluta? - Si è evoluta, ora tutti gli ingredienti dialogano nel piatto, prima non accadeva. Adesso invece posso affermare con assoluta certezza che riesco a trasmettere delle emozioni e le trasmetto esattamente come vorrei, prima forse mi mancava quella intuizione che fa la differenza. - Lei passa per un grande imprenditore della
ristorazione, non sbaglia un colpo e riesce a far andare tutti i suoi locali in attivo: si è ispirato a qualcuno, ha studiato, ha osservato, come ha fatto? - Un imprenditore deve saper leggere e capire le proprie capacità, in base a questo si cerca di sviluppare dei progetti. Quando ero a Le Robinie ricordo la frustrazione di non essere in grado di assicurarmi uno stipendio fisso. Ecco, ho sempre nella mente quei momenti e cerco di trovare delle soluzioni per non tornare mai a vivere quelle problematiche. - A lei dove piace andare a mangiare, quando non fa il giro dei suoi? - Sono stato di recente alla Cascina Guzzafame, al ristorante gourmet: molto divertente, Takeshi mi sembra un ragazzo giapponese ben inserito nella nostra realtà. Un altro dove mi piace andare è l’Antica Trattoria Magenes: cucina concreta e sincera, viene proprio dal cuore e lo si percepisce subito. In assoluto però preferisco sedermi e mangiare da Donato Ascani.
IL MUDEC si TROVA IN UNA CITTÀ internazionale e lussuosa, per cui la CUCINA POTEVA solo essere contemporanea E CONCRETA,
DI GRANDE PERSONALITÀ
Risotto alle rape rosse, altro piatto iconico
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Imagò amaro Divorzio avvelenato
H
a fa molto ridere. Davvero. Dunque Francesco Apreda (chef assolutamente straordinario, uno dei nostri preferiti) molla su due piedi il ristorante Imagò. L’Hotel Hassler emette un comunicato stampa surreale, da sbellicarsi dalle risate e che trasuda tanta, tanta disperazione e dilettantismo a iosa. In pratica, ammettono di non aver trovato un sostituto, di essere rimasti senza chef. In più, ed è qui che viene il bello, leggete lo scivolone comico, ovviamente involontario: “Nella gastronomia di alto livello è sempre necessaria una fase di transizione, che porti alla crescita personale di ogni collaboratore”. What? E’ come dire che da domani Allegri non allenerà più la Juve e al suo posto per sei mesi non prendiamo nessuno, tanto lo staff se la cava comunque ed è anche un bene perché così dimostrano cosa sanno fare. Ok, l’esempio è giusto a metà perché se va via Allegri si porta via anche lo staff, però ci siamo capiti. Fra l’altro, seguendo la stessa filosofia lungimirante Armani ha perso la stella, non vorremmo accadesse anche con Imagò: il precedente c’è, basta aspettare per capire, va da sé che ci spiacerebbe. Fin qui la goffaggine del comunicato (c’è Francesco Apreda ancora chi fatica a capire il nostro malessere nei confronti degli uffici stampa?). Sarebbe da approfondire come mai un capitano esperto e navigato come Roberto E. Wirth, il direttore dell’albergo, sia scivolato sulla frase “incriminata”. Forse non è stata una sua idea, chi lo sa, fatto sta che la dichiarazione porta la sua firma. Si poteva (e si doveva) concludere tutto in due frasi, ringraziando lo chef per il magnifico lavoro svolto e per la stella conquistata e poi mantenuta per anni. Invece no: è un susseguirsi di frasi melense e anche difficili da comprendere, scritte male e in maniera che più noiosa non si può (vabbè, che ti aspetti). E poi, eccoci al secondo punto della questione, ancor più dolente: abbiamo provato a trovare un articolo, uno soltanto dove qualcuno raccontasse per davvero come sono andate le cose o per lo meno dire il nome del sostituto o al massimo cercare di notare che la situazione sia assai grave. Niente. Motivo? Per un giornalista è meglio tenere saldo il rapporto con la proprietà e la direzione che non con uno chef che oggi c’è e domani non si sa. Perché rischiare un rapporto che ti porta inviti a eventi, quando si può stare zitti e comodi? Tanto lo stipendio corre. Non fa una piega, è così da sempre.
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Mille articoli forforosi e senza senso e nessuna domanda lecita del tipo “Ma domani chi cucinerà per gli ospiti che pagheranno un botto per sedersi da Imagò”? Perché poi la gente vorrebbe sapere questo: se domani si va a cena, chi ci cucinerà? Silenzio, e per un ristorante e un albergo di tale portata non è una questione di poco conto. Intanto, si dimostra mancanza di rispetto per il cliente, che andava appositamente per i piatti di Apreda. In compenso, lo si legge sempre dal comico comunicato, Apreda era arrivato all’Hassler in tenera età. Ovvero, quanti anni aveva il buon Francesco quando varcò la porta dell’albergo? Sette? Dodici? Diciassette? Massì dai, mettiamo delle parole a caso, tanto per. Intanto la parola grazie non compare nel comunicato: qualcosa vorrà dire, sul come e perché si sono lasciati. Dopo 13 anni e una stella, sarebbe stato il minimo. La classe, questa sconosciuta.
SEGUENDO la stessa FILOSOFIA LUNGIMIRANTE Armani ha perso la stella, NON VORREMMO ACCADESSE anche CON IMAGÒ
Claudio Liu Iyo sono io
AJI NON È UNA COSTOLA di Iyo, È UNA ATTIVITÀ INDIPENDENTE. Il locale lo GESTISCONO Yin Lu e Federico Zhu, DUE RAGAZZI CHE HANNO lavorato PER
ANNI CON ME
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Foto: Monica Cordiviola
IL NUOVO IYO in Porta Nuova? Un RISTORANTE GIAPPONESE dove lo scontrino MEDIO SARÀ PIÙ ALTO RISPETTO ALL’ATTUALE,
PURE IL TARGET SARÀ DIVERSO
E’
entrato e rimarrà nella storia della cucina italiana. Per sempre. Il motivo è semplice, oltre che risaputo: il suo ristorante, Iyo, è stato il primo così detto “etnico” a conquistare la stella Michelin. Va detto che la famiglia Liu si merita il primato, eccome: volendo, è un premio per la tenacia del padre. La sua storia l’abbiamo pubblicata sul numero passato ed è diventata un cult: in breve, nel 1986 un signore cinese di 26 anni ottiene un visto turistico per l’Europa e parte con 100 dollari in tasca. Nessuno sa quanto abbia impiegato con la Transiberiana, forse un mese o giù di lì. Di mestiere falegname, è riuscito a fare un bel gruzzolo in Italia prima lavorando come lavapiatti e poi con un laboratorio di pelletteria e affini, per poi aprire un ristorante in Via Ravizza a Milano, la zona residenziale più in e difficile. Risultato? 300 coperti a sera. “Però”, aggiunge Claudio, il figlio più grande nonché proprietario di Iyo, “la gente a volte voleva la pizza e quando entrava e vedeva mio padre, girava i tacchi e se ne andava: non sembravano di apprezzare l’idea di una pizza in un ristorante gestito da un signore cinese, per me era sconfortante e demoralizzante”. E’ l’unica piccola macchina, l’unico piccolo rammarico di una vita straordinaria, una vita piena di successi favolosi, a cominciare dal fatto che i tre figli siano in vetta della ristorazione meneghina. Di Giulia e Marco ne abbiamo parlato a lungo nel numero passato, Claudio invece lo abbiamo lasciato alla fine: in tal modo troviamo un motivo valido per poter raccontare ancora una volta di loro: si, siamo di parte e lo ammettiamo, ma come si fa a non fare il tifo per la famiglia Liu? Sono un tema da studiare all’università, un case history, sono tutti da standing ovation. Dei tre lui è il più mite, forse anche il più saggio, come vuole la tradizione del fratello più grande. Claudio ha avuto il compito più difficile: è stato il primo a staccarsi dal ristorante di famiglia. Aveva 23 anni quando ha aperto le porte di Iyo, in Via
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Piero della Francesca: “23 anni e tanta paura di deludere mio padre, che aveva investito su di me”, ricorda oggi. - Partiamo proprio da qui, dal tuo padre: in Cina faceva il falegname, in Italia ha svoltato come ristoratore. - In Francia ha iniziato come lavapiatti, poi ha studiato ed è diventato cuoco, ricordo che a casa, durante le feste, cucinava lui. Per il resto, mia madre la faceva da padrona, cuoca eccezionale. - Tu come hai iniziato? - In Via Ravizza facevo il cameriere, mentre la domenica preparavo le pizze. - Poi hai deciso di aprire da solo. - Ero giovanissimo, sulla ristorazione iniziavo a vederla in maniera diversa rispetto a mio padre, era in atto il solito conflitto generazionale, così che ho preferito di cercare una mia strada, aprendo qui, in Via Piero della Francesca. 48 posti, poi diventati 78 nel 2011, dopo aver preso lo spazio lasciato
Foto: Monica Cordiviola
libero da una agenzia immobiliare: così siamo arrivati ad avere sette vetrine. All’inizio il servizio era molto easy, i camerieri servivano in jeans e tshirt, mentre la clientela proveniva prettamente dal quartiere, fra l’altro molto ben frequentato. Fin dall’inizio sono stato aiutato da mia moglie, Ilaria, già con una buona esperienza nel settore, visto che aveva lavorato al Kanadoo, ristorante molto ben avviato in Viale Corsico. - Come possiamo definire il tuo ristorante? Fusion, asiatico, fonda m ent a l m ent e cinese, oppure giapponese? - E’ tutto riduttivo. Io e i miei fratelli ci sentiamo figli del mondo, possiamo aprire un ristorante in qualsiasi parte del globo perché
ALL'INIZIO ERAVAMO il ristorante più FREQUENTATO DAGLI CHEF, venivano TUTTI DA NOI LA DOMENICA SERA: Ciccio Sultano, Cracco, Berton, Sadler, POI
PERBELLINI E DI CORATO
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oggi trovi delle materie prime straordinarie ovunque, per cui abbiamo uno stile che si adatta con facilità. Come base diciamo che siamo un ristorante giapponese, avendo ben chiaro in mente il fatto che siamo in Italia. - Da 1 a 10, quanto ti rappresenta il ristorante? - 8. Il ristorante dei miei sogni lo vedrete in Porta Nuova. - Quando aprirai? - Fine dell’estate, inizio dell’autunno. Sarà un ristorante giapponese dove lo scontrino medio sarà più alto rispetto all’attuale, pure il target sarà diverso. - 8 pare un voto assai basso, visto il successo e la stella. - Abbiamo rifatto le cucine nel 2013, quando eravamo in 9-10, ora siamo in 12, più i cinque del banco sushi. Mi piacerebbe un acceso più veloce e facile alla cantina e più spazio per il bar. La mia idea di ristorazione presuppone l’aperitivo, poi la cena e dopo il distillato, per questo abbiamo preso lo spazio adiacente all’Iyo, i lavori inizieranno in estate: io ci credo tantissimo nel momento dell’aperitivo. - Ci sono differenze fra voi e Nobu? - Lì regna una grandissima organizzazione, noi puntiamo più sull’esperienza culinaria. - Voi avete preso la stella, loro no.
- Non abbiamo mai lavorato per la stella, anche perché sarebbe stato una follia solo pensarlo. Però eravamo il ristorante più frequentato dagli chef, venivano tutti da noi la domenica sera: Ciccio Sultano, Cracco, Berton, Sadler, poi Perbellini e Di Corato. Qualcosa significava, no? Comunque, quell’anno la Michelin decise di organizzare la cena evento proprio da noi, accadde il giorno prima dell’assegnazione delle stelle. Ci dissero che pensavano ad un cambiamento, ad una novità, un ristorante etnico e non uno dei soliti: confesso che non ebbi sentore di quello che sarebbe successo. Verso mezzanotte mi si avvicina Josephine, la pr della Michelin e, sorridendo, mi chiede: “Ma davvero non hai capito del perché siamo qui?”. “No”, risposi. “Hai preso la stella, sei il primo ristorante etnico ad averla conquistata, ci pareva normale portare tutti qui, per conoscerti meglio”. - Come hai festeggiato? - Aprendo un Dom Perignon Rosè del 2003 e non solo. Per la cronaca, a quei tempi in cucina avevamo Haruo Ichikawa. - Com’è cambiata la vostra vita dopo la stella? - Confesso che non capivo il mondo delle stelle, ricordo solo che la gente iniziava a prenotare con più anticipo e che lo scontrino medio aumentava in maniera considerevole. Per mantenere le attese ho reinvestito l’intero guadagno: più personale, una carta dei vini più ricca, tanto da arrivare a 200 etichette, mentre prima ne avevamo una novantina. - E’ cambiata anche la clientela? - Poco, nel senso che eravamo già pieni prima, figurarsi dopo: però si, qualcuno ha smesso di venire. - C’è un segreto nella ricetta vincente di Iyo? - Il personale, ma è il segreto di ogni azienda, la differenza sta tutta lì. - Cosa cerca e cosa pretende dal personale? - Ci troviamo in una situazione ideale, nel senso che abbiamo abbinato l’eleganza italiana alla disciplina e la disponibilità asiatica. Vi faccio un esempio. In Asia il personale si accorge perfino se hai gli occhiali leggermente appannati, portandoti subito un panno. Chi viene qui deve essere consapevole e sicuro di sé e di quello che
LA RICETTA VINCENTE DI IYO? Il personale, ma è il segreto dI OGNI AZIENDA, la
DIFFERENZA STA TUTTA LÌ
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Foto: Monica Cordiviola
vuole. Voglio gente positiva, non importa se arriva con poche conoscenze, quelle vengono lavorando sodo e volendo imparare. Mi piace avere in sala e in cucina gente che accetta le critiche, portata per il lavoro. - Scegli tu il personale? - Per quello che riguarda la sala se ne occupa il direttore, per la cucina decidiamo io e lo chef, Michele Biassoni. - Passiamo al Aji, il take away. - Intanto facciamo un po’ di chiarezza: Aji non è una costola di Iyo, è una attività indipendente. Il locale lo gestiscono Yin Lu e Federico Zhu, due ragazzi che hanno lavorato per anni con me e che avevano manifestato da tempo l’interesse di partecipare a dei progetti futuri: ecco, io li ho aiutati ad aprire l’attività, mantenendo una minima quota. Yin è stato da Iyo per 12 anni, lavorava in cucina, mentre Federico dimostrava una grande bravura per il servizio in sala. A Milano mancava un take away del genere: per la verità c’è anche un tavolo sociale, una decina di posti. E’ aperto a pranzo e cena, chiuso solo il mercoledì. Lo scontrino medio va dai 40 ai 60 euro, con 40 euro puoi prendere dei ravioli misti, un piatto di sushi-sashimi, un tempura e un dolce. Secondo me questo genere di posto rappresenta il futuro della ristorazione. - I piatti sono gli stessi che possiamo assaggiare da Iyo? - Ni. Poi ora stiamo sviluppando, e tanto, la “collezione” dei ravioli ed i secondi. - Tornando al tuo padre, cosa ti ha insegnato? - Che il cliente è sacro. E poi il senso del dovere, quando si inizia un progetto lo si porta a termine, prendendosi la responsabilità, soprattutto quando si sbaglia. Lui è cresciuto così, con quattro fratelli e una sorella, senza il padre, scomparso quando aveva cinque anni. - Hai un motto nella vita? - Un motto no, però il mio credo sta in tre parole: passione, impegno, determinazione.
CONFESSO che non CAPIVO IL MONDO DELLE STELLE, ricordo solo che la GENTE INIZIAVA A PRENOTARE CON PIÙ ANTICIPO e che lo scontrino medio aumentava in MANIERA
CONSIDEREVOLE
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It, Milano La seduzione è qui
I
t. Via Fiori Chiari 32, Brera. Ha aperto. Voto? 100. E’ un locale unico nel suo genere. Molto Londra ricca e New York danarosa. Non è Zuma, ma il senso sarebbe quello. E’ modaiolo, testosteronico, carico. Hostess da mille e una notte. Una dj che fa sfracelli. 60 dipendenti che si muovono sotto la guida di Carlo Tinelli, ex Trussardi e grande amante di locali del genere, non a caso ha lavorato per anni a Dubai. Zona bar da uomini che vestono su misura e donne che profumano di paradiso. L’estetica ci vuole, anzi, è quasi un criterio di (auto) selezione. Bellezza e carisma, perché It non fa per bellezze decorative e basta: è posto da vibrazioni. I prezzi? Sotto la media. Si, sotto la media (un cocktail non arriva ai 20 euro). Cocktail raffinati, Marco Tavernese, il bar manager, sa il fatto suo: è felpato e attento, presente e preparato. Il ristorante è molto losangelino, ma potresti anche essere a Hong Kong. A Milano mancava un luogo del genere, più di 1000 metri quadrati pieni di fascino e ricchezza. Si inizia con la zona bar, poi volendo si passa al ristorante. Gennaro Esposito è qui e sarà qui per lunghi periodi. Certo, di cucinare cucinerà Aldo Ritrovato, ex Bulgari. A proposito, l’apertura di It metterà in crisi proprio Bulgari. Comunque, c’è spazio per entrambi. Continuando, il sommelier del ristorante è Giacomo Morlacchi, compagno di scuola di Carlo Tinelli ed ex Mudec. L’investimento è stato pauroso, posti e gente del genere vanno ammirati e applauditi. Di sicuro non troverai mai un tavolo, già ieri, secondo giorno dall’apertura, era tutto full. Certo, c’era il salone del mobile, ma non pareva gente interessata all’ultimo modello di sedia. Il dopo cena si svolge al piano sotto: difficile capirlo quando è vuoto, per cui aspettiamo. Dopo The Fisher, ecco It. Fascino, lusso, eleganza, un po’ di sfrontatezza. Milano vola alto, chi si ferma è perduto.
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IL RISTORANTE è molto LOSANGELINO, MA POTRESTI anche essere a Hong Kong. A Milano MANCAVA UN LUOGO DEL GENERE, più di 1000 METRI QUADRATI PIENI DI FASCINO
E RICCHEZZA
Mauro Uliassi Eros tristellato
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“L
a mia cucina? Erotica, contemporanea, gioiosa. Sì, c’è tanto eros. Il mangiare è l’unica attività, insieme al sesso, che coinvolge tutti e cinque i sensi. Quando cuciniamo, lo facciamo pensando esclusivamente al piacere che regaleremo alle persone”. Il nostro innamoramento platonico nei confronti di Mauro Uliassi inizia con le parole appena lette e risale all’epoca pre-tristellata: lo si fa, il cibo e l’erotismo sono i punti cardini della nostra esistenza, il nostro mantra personale e professionale. Ed è proprio da qui che inizia la nostra conversazione con lo chef: “L’idea risale al 2004, eravamo a San Sebastian ad un congresso e abbiamo presentato dei piatti che puntavano proprio sull’erotismo. La mia idea è che superata la volontà e la necessità di nutrirci e di fare dei figli ci si aprono dei territori sconosciuti, viviamo in maniera più libera, curiosa e spensierata. A quel punto puoi davvero gustarti il cibo e l’eros con tutti i cinque sensi. Avete fatto caso? L’arte pittorica coinvolge solo due o tre persone, la musica idem, guardare un film anche. Quando mangi è diverso, avete presente quel “mmmmm”, quel miagolio felice? Ecco, parte tutto da lì, penso i nostri piatti in base alla piacevolezza che possano regalare ai clienti: c’è sempre il caldo e il croccante, il morbido e il freddo, il dolce e il salato. Quando creiamo un piatto lo vogliamo bello da vedere e al tatto, prima che al contatto con il palato. Un esempio? Il pancotto con ricci di mare, ne troverai infinite consistenze: le note marine, la spuma di mandorle, il freddo dei ricci, le varie consistenze del pancotto, dal duro ma non troppo al più morbido. Un altro esempio? Il piatto “Benvenuto al mare”, una madeleine marina, un brodo caldo che ti ricorda il mare e le onde per via delle vongole, le cozze frullate e le alghe fresche”. Mauro Uliassi è un inno alla felicità, un fiume in piena anche se, lo ammette senza problemi, non si è ancora ripreso dalla sbornia post Parma, dove il 16 novembre gli sono state conferite le tre stelle: non sa ancora come gestirà il tutto, perché la situazione sta diventando assai complicata da maneggiare: “Mi chiamano da tutte le parti del mondo, chiederò un consiglio a Bottura e Alajmo per capire come hanno fatto loro”, ci dice al telefono. - Quando ha saputo della terza stella? - Cinque minuti prima, pensavo mi avessero invitato a Parma per cucinare. E invece, eccomi salire sul palco. - Le prime impressioni, i primi pensieri? - Il nulla, avevo la classica faccia da ebete, senza poter aprire la bocca. Sono e siamo stati travolti dalla felicità degli altri. Tornati a casa, a Senigallia, vedevamo gente sorridente e contenta ovunque, come se avessero vinto pure loro. - Un momento che le è rimasto impresso? - La felicità della gente, le congratulazioni di tutti, questa condivisione trasversale, le chiamate degli amici e degli altri chef. - Aveva sentore di nuova stella? - Sapevamo di essere sotto osservazione: noi, poi Bartolini, Ciccio Sultano, Guida, Don Alfonso e il Capri Palace. Erano quattro anni che il nostro nome circolava come papabile per le tre stelle. - Quando aveva conquistato la seconda? - Nel 2008. - Si dice che un bistellato si trova in una situazione assai ambigua, né una né tre: lei come si è sentito? - Da una parte eravamo consapevoli di essere conosciuti e apprezzati dal mondo intero, da un’altra non sapevamo cosa fare per ottenere la terza, nessuno viene a dirti cosa manca e come comportarti per conquistarla. - Lei cosa ha fatto?
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LA MIA CUCINA? Erotica, CONTEMPORANEA, gioiosa. Sì, c'è tanto eros. Il MANGIARE è l'unica attività, INSIEME AL SESSO, che COINVOLGE TUTTI e cinque
I SENSI
- Nell’ultimo periodo ho rinunciato a tutte le consulenze ed i congressi, mi sono e ci siamo concentrati e dedicati esclusivamente sul ristorante. Niente cene e collaborazioni all’estero, ogni giorno al ristorante, per capire dove si poteva migliorare. - E dove si poteva migliorare un ristorante che aveva già due stelle? - Abbiamo insistito sulla costanza, abbiamo assaggiato di più, insistito sulla motivazione della sala, sulla comunicazione, sul sito, il magazzino, ci siamo concentrati perfino sul come potevamo migliorare la contabilità, lo spogliatoio e il rapporto con i fornitori. - Si dice che il difficile inizi ora…
QUANDO HO SAPUTO della TERZA STELLA? Cinque minuti PRIMA, pensavo mi avessero INVITATO A PARMA PER CUCINARE e invece mi hanno
FATTO SALIRE SUL PALCO
MIA SORELLA ILARIA e io abbiamo INIZIATO senza alcuna pretesa. L’INVESTIMENTO INIZIALE lo aveva fatto mio padre e lA MIA PRIMA OSSESSIONE era di ripagare
LA SUA FIDUCIA
- Ma va, ora è tutto in discesa. Michelin ha premiato la nostra costanza, per cui non c’è nulla da cambiare. Semmai ora vorrei capire per bene cosa significa avere la terza stella, consolidarla. - Siete pronti per l’assalto della clientela? - Sì e no. Da una parte ci siamo abituati, dall’altra arrivano richieste da tutto il mondo, perfino dalla Thailandia e dall’America del Sud: dobbiamo organizzarci meglio, difatti ho chiesto ad Alajmo e Bottura come hanno fatto, una volta conquistata la terza. - Si immagina che ora piovano e pioveranno offerte per aperture altrove. - Sì, ma non se ne parla, nel caso volessimo investire lo faremmo qui, da noi. Sono sicuro di un fatto: se avessimo iniziato a fare mille cose non avremmo mai conquistato la terza stella. E offerte allettanti ne abbiamo avute, penso solo a quella
Spaghetto affumicato con pomodoro e vongole
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Pancotto con ricci di mare arrivata da Hong Kong nel 2008: abbiamo preferito concentrarci sul nostro ristorante. - Guardando indietro, quando ha iniziato sperava di arrivare qui? - Figuriamoci, mia sorella Ilaria e io abbiamo iniziato senza alcuna pretesa. L’investimento iniziale lo aveva fatto mio padre e la mia prima ossessione era di ripagare la sua fiducia, per cui volevo solo riempire il ristorante, difatti facevamo 150 persone a servizio pur non avendo un menù scritto: lo si diceva a voce, recitato. Lo scontrino medio si aggirava sulle 40-50.000 lire, 20-25 euro di adesso, tutto a base di pesce. Era il 1991, quattro anni dopo arrivò la prima stella. - Cosa ricorda di quel periodo? - Che non abbiamo alzato i prezzi. La vera svolta è arrivata dieci anni dopo, riducendo drasticamente il numero di coperti: difatti siamo arrivati a non più di 70. - A parte le tre stelle, ricorda un riconoscimento che l’ha resa davvero felice? - Nel 2008 la guida dell’Espresso ci ha conferito il premio per il miglior piatto: a dire il vero il nostro spaghetto affumicato con pomodoro e vongole faceva davvero faville. - C’è una materia prima che le piace “maneggiare” in maniera particolare? - La selvaggina e le frattaglie. - Domanda quasi offensiva per uno chef: il piatto nel quale si identifica di più, che sente più suo? - Gli ultimi, sei sempre affezionato agli ultimi che hai creato. In assoluto però penso che il mio piatto cult sia il Brodetto, un classico dell’Adriatico: la mia ricetta prevede tredici tipi di pesce, il tutto preparato nel coccio.
- Ci dica un ristorante meno famoso dove ama andare a mangiare. - Abocar a Rimini. - Chef, dopo le tre stelle ha ancora qualche sogno del cassetto? - Vorrei far sognare sempre di più la clientela. Intanto fattemi capire bene cosa significa avere tre stelle.
QUANDO CREIAMO un piatto LO VOGLIAMO BELLO da vedere e al tatto, PRIMA che al contatto CON IL PALATO. Un esempio? IL PANCOTTO
CON RICCI DI MARE
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Bon wei
Bollicine e costine
Le e Guoqing Zhang, padre e figlio
“B
ollicine di altissimo livello e dei piatti ricchi, succulenti, gustosissimi, alcuni addirittura indecenti, che ti incendiano i sensi. Gli gnocchi con astice e zenzero sussurrano segreti e scivolano sensuali in bocca, con il sapore che sboccia sul palato. Stesse sensazioni per le costine imperiali che sono un must, idem per l’anatra laccata e i gamberoni argentini”. Scrivemmo così, alla fine della nostra prima cena da Bon Wei. Sono passati quattro anni e nulla pare cambiato: i piatti su citati vanno ancora per la maggiore, il cuoco è sempre Zhang Guoqing, l’atmosfera è la stessa, il target alto e la capienza del ristorante, una settantina di posti, sembra che non basti mai. “Sono contentissimo, il locale è ben avviato, la clientela é molto fidelizzata, apprezzando il nostro servizio e le pietanze che proponiamo: va detto che siamo stati i primi ad aver introdotto un menù regionale, non era così scontato che sarebbe stato accolto positivamente”.
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A naso però vengono preferiti i classici: lo gnocco con l’astice, abbinato ad un Ruinart Rosè. è la fotografia del ristorante, l’instagram moment, la polaroid e l’evergreen che oltretutto rispecchia perfettamente la filosofia del ristorante. “Lo champagne va forte qui da noi”, racconta Zhang Le, uno dei due soci (all’apertura qui c’era Yike, suo socio e cugino, poi andato ad occuparsene di Dim Sum, ne abbiamo parlato ampiamente nel numero passato). “C’è chi pasteggia a bollicine dagli antipasti fino alle costine imperiali”. A proposito della clientela, come la possiamo inquadrare? “Un terzo sono giovani entro i trent’anni, il resto per la gran parte dai 45 fino ai 60”. Il primo ad aver creduto in loro fu Paolo Panerai, editore e produttore di vini: “La prima volta venne da noi come ospite, poi tornò perché avevamo messo in carta i suoi vini ed era curioso di sapere qualcosa in più su di noi. Successivamente mandò qui un giornalista di Gentleman che scrisse un bell’articolo: ai tempi ci aiutò molto, eravamo agli inizi”.
Già, come furono gli inizi? “Pieni di pregiudizi e stereotipi, ci chiedevano l’anatra alla pechinese e il rombo in crosta con le verdure, poi pian piano siamo riusciti a far capire e imporre la nostra filosofia, ora posso affermare che abbiamo davvero compiuto una rivoluzione, gastronomicamente parlando. Siamo molto fieri di quello che stiamo facendo, anche se ora è molto più difficile viste le tante aperture, prima dell’Expo eravamo in pochi”. Proprio per questo Zhang continua a innovare e a migliorare, viaggiando in cerca di idee e ispirazione: “A Londra ci torno spesso perché alcuni ristoranti cinesi sono di altissimo livello, a me piacciono molto Mister Chow, Yauatcha, famoso per i suoi dim sum e Hakkasan, ristorante per un target altissimo e con una stella Michelin, specializzato in cucina cantonese”. Bon Wei ha poco da invidiare agli altri, oltre ai piatti pure il servizio è di prim ordine, felpato e garbato: “Rispetto agli inizi siamo dieci passi avanti, mentre mediamente in Italia la sala sta peggiorando. Noi ci riteniamo fortunati, abbiamo trovato la chiave per stimolarli, vedi per esempio i bonus che offriamo se vengono con delle idee per dei nuovi ravioli e dim sum. Abbiamo cambiato solo il sommelier, voleva decidere tutto lui, ma qui non funziona così”. Bon Wei si trova a pochi metri distante da Iyo, lui e Claudio si vedono spesso: “Da lui ruberei la location, agli inizi aveva tre vetrine soltanto, ora è arrivato a sette. Mi piace la sua sala d’attesa e anche lo spazio per il cocktail. Siamo molto amici e anche molto diversi, lui parla poco e riesce a farsi seguire, imponendo la disciplina senza aprire bocca”. Comunque la notizia, ormai nemmeno tanto d’attualità, è che la Cina si sta imponendo con forza sulla scena gastronomica milanese: “Non solo”, conclude Zhang, “ci stanno perfino copiando, vedo spesso ristoranti che usano il legno birmano antico, portato in Italia da noi”. Una volta erano i cinesi quelli che stavano copiando. I tempi cambiano.
GLI GNOCCHI con astice E ZENZERO sussurrano segreti e SCIVOLANO SENSUALI in bocca, CON IL SAPORE che sboccia
SUL PALATO
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Madame Caramelia
Rita Busalacchi
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a sua parola vale doppiamente. Il motivo? E’ laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche, di conseguenza conosce per davvero le materie prime, il che è un vantaggio, oltre che una necessità da molti ignorata. Sembra una sciocchezza al limite dell’inverosimile, eppure è tutto vero: i pasticceri non conoscono i prodotti. Grazie a persone come lei la situazione può cambiare, anche se il cammino è lungo e tortuoso. Intanto, lei va avanti con un entusiasmo straordinario, lo percepisci appena la senti al telefono. E pensare che ai tempi dell’università nulla lasciava presagire una storia d’amore con il mondo dei dolci: é arrivato come logica conseguenza, all’inizio forse per curiosità, poi ci fu il classico momento sliding doors, ovvero il libero di ricette di Stefano Laghi. “Comprai il suo libro, le provai tutte e mi sono riuscite completamente”, racconta fiera e divertita.
SE VAI DA
DUCASSE A PARIGI
vedrai che in CUCINA HA 22 PASTICCERI, in Italia invece il pasticcere DEVE FARE tutto,
DAL PAN AI DOLCI
- Iniziamo dal principio, chi ha studiato chimica parte con un vantaggio: è d’accordo? - Rovesciamo il principio: il problema è che nelle scuole non si studia. Non si approfondisce nemmeno la farina, figuriamoci la panna e il burro da centrifuga e da estrazione. I ragazzi imparano
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come si prepara il pan di spagna senza sapere e senza saper spiegare perché si fa in un certo modo. Alla lunga è una strategia perdente, perché poi inizi a lavorare sul serio e sei come un criceto, vai avanti di fretta e smetti di farti delle domande. - Di chi è la colpa? - Io non vorrei colpevolizzare troppo le vecchie generazioni, a quei tempi mancavano le scuole, però va detto che manualmente erano bravi. Fatto sta che oggi mi pare grave che i giovani non conoscano la materia che stanno maneggiando. - Tu sei giovanissima e conosci le materie. - Imparo velocemente e poi mi piace capovolgere tutto, cerco delle variabili sui prodotti. Non si impara a memoria. Hai sempre sostenuto di esserti inspirata al libro di Stefano Laghi. - Ricette molto bilanciate. Io faccio dei corsi per amatori, per cui prima di presentarle le realizzo e le decoro, mi metto nei loro panni: ecco, quelle di Stefano sono ideali per chi vuole avviarsi sulla strada della pasticceria. - Si è molto parlato di una tua lettera a Maurizio Santin. - Gli chiesi dei consigli su come intraprendere la strada della pasticceria: lui mi rispose, facendomi capire cosa significa far parte del mondo professionale. Mi diceva: tu sei una grandissima mente chimica, però si deve mettere il cuore, perché le ricette sono più amore che matematica. Da quel momento è diventato il mio maestro, mi ha fatto trovare l’equilibrio fra la mano e la mente. - Pensavamo che suo maestro fosse Luca Montersino. - Lui è stato il primo, mi ha dato delle nozioni e mi ha insegnato a ragionare quando ero alla Boscolo Etoile Academy, poi abbiamo lavorato insieme per tre anni.
- Lei parla molto dell’identità di un dolce. - Si, perché vedo troppi pseudo pasticceri che si vantano di aver realizzato una nuova ricetta quando alla fine hanno solo copiato, o meglio hanno solo assemblato quello che hanno visto in giro. Inventare un dolce è diverso, prima te lo devi raffigurare nella mente, è così che assieme a Santin ho creato una crema alle nocciole non molto grassa, consistente e cremosa, avvolgente in bocca. - Com’è oggi la pasticceria moderna italiana? - Molto fredda, però bella da vedere. I francesi invece stanno ancora sul classico, senza però utilizzare il silicone. - A Milano si mangiano pochi dolci. - E’ una piazza particolare, esiste una pasticceria bella da vedere, però mancano i classici. In più non si fanno delle campagne pubblicitarie, per non dire che ci siamo fregati con le nostre mani, c’è tanta ignoranza. Alcuni chiedono il cornetto vegano senza domandarsi come viene fatto: ovviamente con la margarina, che poi leggera leggera non è. La conclusione è che le materie prime spaventano: per un buon dolce ci vogliono dei grassi e del burro, che oggi vanno demonizzati alla grande. - Chi sono i migliori pasticceri d’Italia? - Paolo Sacchetti e Iginio Massari. Le pesche di Prato di Sacchetti sono il più buon dolce mai assaggiato. Poi Gino Fabbri, Alessandro Servida, Fabrizio Galla e Corrado Assenza, il più grande pasticcere del sud, vive e lavora a Noto. - Il livello della pasticceria italiana è alto, altissimo, medio? - La media sarebbe sette, non di più, perché sono in tanti ad abbassarla. - Perché nei grandi ristoranti la pasticceria è sotto il livello dei piatti? - Perché non si dà la giusta importanza, non si vuole nemmeno trovare lo spazio giusto perché possano lavorare come si deve. Se vai da Ducasse a Parigi vedrai che in cucina ha 22 pasticceri, in Italia invece il pasticcere deve fare tutto, dal pane ai dolci. Perché per i piatti veri e propri c’è una brigata mentre per il dolce c’è una sola persona? - Oltre ai corsi cosa fai in questo periodo? - Collaboro con Valentina Mancuso, maitre chocolatier, lei è straordinaria, abbiamo un progetto insieme. Io siciliana, lei valdostana: verrà fuori qualcosa di unico, qui, nella mia Palermo.
VEDO TROPPI pseudo pasticceri che si VANTANO di AVER REALIZZATO UNA NUOVA RICETTA quando ALLA FINE HANNO SOLO COPIATO, o meglio hanno solo assemblato quello CHE HANNO
VISTO IN GIRO
Torta Ace
Torta Valerienne
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Tiffany? No, Varrone
S
ushi e uramaki di wagyu, tacos, pan de cristal e pastrami, poi il tramezzino sempre di wagyu, che poi tramezzino non è. Da dove cominciare, per raccontare l’evoluzione de La Griglia di Varrone? Abbiamo seguito e assistito la crescita e l’evoluzione del ristorante fin dall’apertura: in quell’estate del 2014 nessuno immaginava si potesse arrivare ai risultati odierni: certo, le carni erano le migliori in assoluto, il ristorante era una vera e propria rivoluzione rispetto agli altri, però oggi il locale è molto più di un posto dove si possono assaggiare le prelibatezze portate in Italia da Massimo Minutelli. Certo, già l’angus americano, il maialino iberico e la rubia gallega valgono la cena, però il plus di Varrone sta nella ricerca continua di piatti, contorni e snack. Era pienissimo già nel primo anno, ora lo è ancor di più perché il posto é come una droga, crea dipendenza e torni perché non ne hai mai abbastanza e non si riesce ad assaggiare tutto in una sola visita in Via Tocqueville a Milano. L’ultima volta che ci siamo regalati un pranzo da Massimo abbiamo fatto una prova, ordinando solo pietanze creative, golosità calde e fredde che mettono allegria e liberano la mente: il risultato? Uno sballo troppo gustoso e troppo indecente, al limite della palpitazione. Niente portate “classiche”, bensì solo bocconcini deliziosi e tapas squisitissime, in pratica
IMPRESSIONA
il continuo CRESCENDO qualitativo, OGNI VIAGGIO di Massimo in Spagna è una GARANZIA DI NOVITÀ sfiziose,
LUSSURIOSE E GUSTOSE
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una sorte di menù degustazione cromatico e creativo a base di wagyu. Abbiamo scelto tre fotografie, per darvi un’idea di quello che si possa assaggiare nel regno di Minutelli: guardate e poi diteci se avete mai visto qualcosa del genere. La domanda è retorica, ovvio che no. Impressiona il continuo crescendo qualitativo, ogni viaggio di Massimo in Spagna è una garanzia di novità sfiziose, lussuriose e gustose: attenzione, potrebbe farne a meno e invece lui insiste ed è qui la sua forza e la sua unicità, perché cerca di reinventare un mondo, quello dei ristoranti a base di carne. Va, assaggia nei migliori ristoranti, fa visita a Joselito e altri, chiede, guarda, poi torna e cala gli assi. Vive per sorprenderti e per emozionarti, fa di tutto per farti sentire al settimo cielo e ci riesce grazie a questa ricerca spasmodica del tocco di classe, della sorpresa, è uno che vive per il cibo e riesce a trasmetterti la sua passione folle per la carne e affini. I piattini che vedete nelle fotografie, dunque: sushi di wagyu, uramaki della stessa carne pregiata e poi il bocconcino prelibato, una via di mezzo fra snack, club sandwich, tramezzino e cibo di strada, ovviamente sempre a base di wagyu. All’ora di pranzo basterebbe per farti esplodere di gioia, perché un bocconcino ti fa solo venire l’appetito, quattro ti saziano e ti regalano la felicità immediata. Poi ci sarebbe la new entry, la sashi, considerata la
wagyu europea: proviene dalla Finlandia ed è molto simile alla rubia gallega. Tecnicamente, si tratta di due razze di manzi allevati nel paese nordico: la frisona (classica chiazzata bianco e nera) e l’ayrshire (chiazzata bianco e rossa proveniente dalla Scozia). Guardate che spettacolo, ma d’altronde da Massimo Minutelli è tutto uno show.
MASSIMO prende e va, ASSAGGIA NEI MIGLIORI ristoranti spagnoli, FA VISITA a Joselito E ALTRI, CHIEDE, GUARDA,
POI TORNA E CALA GLI ASSI
Veuve e Michelin Il premio boomerang
L
a storia della miglior chef donna irrita non poco. Immaginate cosa sarebbe successo se ci fosse un premio per il miglior chef maschio. Urla, militanze infinite e non richieste, isterie senza fine, ipocrisie e articoli dove si mente a gogo (ci siamo abituati di sentire l’opinione privata dei giornalisti, molto diversa dall’articolo pubblicato: non è dato sapere il perché, o forse sì). Ha davvero senso un premio del genere? Veuve lo organizza in quanto sponsor della guida Michelin (la chef viene scelta dalla guida, non dalla maison) e in quanto omaggio alla loro fondatrice, la Ponsardin: fin qui nulla da eccepire, hanno pagato e di conseguenza spetta per contratto di premiare qualcuno, lo fanno anche gli altri, seppur a novembre, quando di scoprono le nuove stelle. Ma ha senso dividere gli chef in chef donne e chef uomini? No, uno chef è bravo oppure no. A voi importa il sesso della persona che vi ha cucinato la triglia? Ovviamente per nulla. E’ un premio forzato A proposito, ha vinto l’ottima Martina
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Martina Caruso Caruso del ristorante siciliano Signum), che, paradossalmente, penalizza chi vince, soprattutto in un periodo dove si sta perfin troppo attenti a non turbare la sensibilità delle minoranze: tradotto, storcono il naso sia i maschi che le donne. I maschi perché non esiste un premio dedicato, le donne perché vorrebbero “gareggiare” alla pari e invece eccole far parte di una categoria a parte. Le discriminazioni, se esistono, esistono solo all’incontrario, come nel caso del premio di Veuve. Che poi la manifestazione in sé è carina, la direttrice commerciale e marketing di Veuve è fantastica, nulla da dire. Certo, alcune edizioni sono andate in vacca, vedi quella di due anni addietro quando le vincitrici arrivarono con due ore di ritardo e quando il catering iniziò verso le 23, quando tutti erano già andati via, ma qui la maison non ha colpe, semmai chi organizza i loro eventi.
Basara Milano
Sushi e good vibes
Hirohiko Shimizu e Danilo Migliarese
“E’
tutto iniziato per gioco o quasi. Ho conosciuto Hiro frequentando assiduamente il locale dove lavorava a quei tempi, Mizu: prima di incontrarlo non avevo mai avuto a che fare con la ristorazione. Siamo insieme dal 2011 e non abbiamo mai litigato, ci completiamo alla perfezione, fra l’altro siamo entrambi del capricorno, per cui testardi e ambiziosi”. A sentire Danilo Migliarese sembra tutto facile, lo ascolti e ti pare sia ignaro del fatto che tantissime attività iniziate “per gioco” e con un socio siano andate male, per usare un eufemismo. Certo, ognuno vive la sua vita, semina e raccoglie secondo i suoi valori, per cui visti i risultati possiamo convenire che Danilo e Hirohiko Shimizu abbiano indovinato tutte le mosse: i loro ristoranti sono sempre pieni, la loro ascesa dirompente: di recente hanno aperto il terzo Basara milanese, in Via Washington al 70, ora stanno già pensando alle prossime. “Star fermo mi agita”, racconta sorridente Danilo. “Fino al 2010 mi occupavo di tutt’altro, vendevo intimo da donna, Cotonella e Pierre Cardin. Avevo il pallino dei locali, un giorno ho incontrato Hiro ad una cresima, mi raccontava che fare il dipendente ormai gli stava stretto. Era dicembre del 2010, tre mesi dopo avevamo
IN CORSO ITALIA solo di DELIVERY FATTURIAMO 600.000 euro l'anno: abbiamo investito nei mezzi, I CORRIERI sono nostri,
già aperto il nostro primo ristorante, in Via Tortona. Ho studiato la zona per settimane, mi piazzavo sul ponte che attraversa la ferrovia e mi annotavo il numero di persone e soprattutto il target. Così, giorno dopo giorno mi rendevo conto che la location fosse quella giusta per una clientela trasversale e medio alta, dove uno si potesse sentire bene pur venendo da solo. Certo, il posto era assai piccolo, 28 posti, per cui eravamo consapevoli che la sola ristorazione non sarebbe bastata: è così che nasce l’idea della pasticceria, che è per di più salata. Ho fatto un po’ di autopromozione, andavo in giro a farmi e farci conoscere, la zona è piena di show room modaioli”. Danilo va avanti che è un piacere, lo ascolti e capisci che se una attività viene messa in piedi senza follie ed errori può avere successo fin dall’inizio. “Dopo il primo ristorante abbiamo aperto il secondo, in Corso Italia, dove solo di delivery fatturiamo 600.000 euro l’anno: abbiamo investito nei mezzi, i corrieri sono nostri, con la divisa di Basara. Ora mi concentro molto sul terzo, in Via Washington, un giocattolo straordinario, nel
CON LA DIVISA DI BASARA
No 28
Il Basara di Venezia
ALCUNI PIATTI
senso che il banco è davvero una roba da sballo, i piatti si muovono e girano senza che tu possa capire il meccanismo, ci sono delle calamite che girano sotto, credo che nessun’altro possa vantare uno così. Lo volevo proprio così, come un giocattolo dove tutto si muove”. Funziona tutto e funziona a meraviglia, al di là del banco: i locali milanesi sono pieni, idem quello di Venezia e, nei mesi estivi, pure il ristorante di Porto Cervo: “siamo sul lungomare, non esiste nulla di più bello”, racconta sognante. “La cucina è uguale ovunque, stessi piatti, tutti creati da Hiro. Alcuni sono diventati dei veri e propri cult, prediamo per esempio l’astice gratinato e il bignè di seppia con tartare di gambero siciliano. Aggiungo i nostri pasticcini a base di pesce, favolosi. Il prezzo medio si aggira sui 4550, bevande escluse, tutti si possono permettere una cena da noi, a pranzo invece lo scontrino va sui 25”. “Confesso: sono molto contento dall’atmosfera che si respira nei nostri locali, ci sono delle good vibes. Se invece dovessi trovare un aspetto leggermente meno felice direi la mancanza di entusiasmo di alcuni ragazzi, trovare personale con voglia di fare è assai dura, ma non mi lamento”, continua Danilo. “Mi piacerebbe aprire anche a Firenze e poi in un posto di mare vicino a Milano, poi magari a Ibiza. Non vorrei andare oltre le sette aperture, è il mio numero fortunato, me lo sono perfino tatuato”. Per concludere, un moto nella vita? “Non saprei. So solo che vado avanti per la mia strada e ho capito di essere in grado di fare tutto quello che mi propongo”.
sono diventati dei veri e PROPRI CULT, prediamo per esempio L'ASTICE GRATINATO e il bigné di SEPPIA CON TARTARE di
GAMBERO SICILIANO
Giancarlo Morelli C’era una volta
C
opiamo e incolliamo il post di Giancarlo Morelli, pur non essendo d’accordo fino al midollo: i tempi cambiano e dobbiamo farcene una ragione. Però sui figli inadatti, sottoscriviamo. Matteo 70 anni. Praticamente 60 li ha passati a sfornare pagnotte. Aveva un piccolissimo negozio di alimentari davanti casa mia. Era un punto di riferimento per la gente del paese. Due fettine di mortadella, una manciata di olive secche, uno spicchio di formaggio, ma non era cibo qualsiasi. Era il suo. Che selezionava, comprava e rivendeva. E se non ti andava bene era con lui che parlavi: niente mail, niente reclami, niente posta prioritaria. Ti faceva assaggiare un cucchiaio di ricotta appena arrivata, o una fettina di prosciutto tagliato al coltello. Sempre un buongiorno e sempre una buonasera. E un sorriso ai passanti. Nei tempi duri faceva credito alla gente del paese: “ma si Aurora non si preoccupi a fine mese mi pagherà tutto!” La bottega di Matteo era famosa per l’odore della focaccia calda che sfornava la mattina e che a pezzetti incantava e teneva sul bancone perché noi bambini la prendessimo al volo prima di andare a scuola. La carta marrone un po’ unta e il sale che bruciava le labbra. La più buona al mondo e poi dentro alla cartella impataccava i libri. Una goduria. Matteo ha chiuso la sua bottega in fondo alla via. I suoi figli non ne vogliono sapere di svegliarsi quando tutti dormono per
No 29
impastare il pane, meglio un posto fisso in un ufficio qualsiasi di un paese qualsiasi. E così ha chiuso l’orologiaio che tutte le mattina sull’uscio della bottega salutava noi bambini gridando ...presto che è tardi !!!! Mi piange il cuore pensare che i nostri figli non conosceranno certe realtà. Incontri mattutini, relazioni personali, rapporti umani semplici e sinceri. Abbiamo lasciato il posto ai grandi magazzini. Mille commessi ogni giorno diversi. Ti occorre uno spicchio di formaggio? Vai nel frigo e stai lì a ravanare da solo tra le vaschette di plastica per mezz’ora e porti a casa un cibo senza’ anima. La fortuna sono state le tradizioni. La nostra storia fatta anche di artigiani e bottegai, di piccole realtà e maestranze. Del ciabattino come il maniscalco. Difendiamoli.
L’Alchimia
Cocktail e costolette
C
osa cercate in un piatto, quando andate al ristorante? Noi inseguo visceralmente la frivolezza e la leggerezza, la spensieratezza e l’effetto wow, il battito forte, il cuore che impazza, la testa che viaggia, il palato che esplode per poi estasiarsi e rilassarsi. Ecco, le moeche fritte che abbiamo assaggiando con infinita voluttà da Dim Sum sono tutto quello che desideriamo e sogniamo spasmodicamente. Piatto da assaggiare assieme ad una donna appena conosciuta, quando la passione tocca vette altissime. O con la donna dei sogni, perché in quei casi le vette altissime le tocchi ogni momento della tua vita. E’ uno dei mille motivi per i quali vale la pena andare da loro, in Via Nino Bixio: il ristorante è il parente stretto di Bon Wei, stessa proprietà e stessa clientela, solo che qui hanno aperto nel 2013, tre anni dopo l’altro. Lo gestisce Yike Weng assieme alla moglie Chiara: imprenditori seri, instancabili, attenti e ossessionati a migliorare sempre. Hanno creato un gioiello diventato forse troppo piccolo viste le richieste. Raccontiamo un solo episodio, anche se estremo. Pochi mesi addietro si presentano Chiara Ferragni assieme a Fedez, clienti fissi e fidelizzati, come d’altronde il novanta per cento dei coloro che cenano qui. Lei posta una foto, con il ristorante già strapieno: in meno di un’ora c’era la coda per poter avere un tavolo, il telefono di Yike pareva impazzito, arrivarono perfino da fuori Milano disposti a tutto pur di poter mangiare quella stessa sera. E’ l’effetto dei Ferragnez ma anche merito di Dim Sum, perché la gente non sarebbe venuta in un posto mediocre.
E’ davvero difficile trovare qualcosa che non va, tantissimi invece i punti di forza: proviamo a elencarli e raccontarli. Cominciamo dalla costanza. Alcuni piatti sono rimasti nel menù fin dai primi giorni: le costine di maiale e soprattutto i ravioli, quelli di cristallo per esempio. Poi seguono i raviolini con all’interno ripieno di calamari, cernia e zenzero, da sempre presi d’assalto, così come le ultime creazioni, vedi quello con crema di branzino, sedano e rapa. Otto minuti di cottura e materie prime strepitose, perché Yike ha capito ben presto che la Milano bene esige la qualità assoluta, girandoti le spalle in caso contrario. “I nostri hanno una identità ben precisa, forte, sono i migliori in città”, continua. “Lo sapete che c’è gente che viene e ordina solo ravioli? Ne prendono anche una trentina, pasteggiando a champagne. E’ vero, costano non meno di 3,50 uno, però dietro c’è tanta, tantissima ricerca e un lavoro immane”. Ne siamo certi, la prova del gusto lo dimostra. Sono delle caramelle intriganti, ti pare di essere da Tiffany e non in un ristorante, sono perfetti. “Resiste” da anni anche la zuppa agro-piccante con frutti di mare, piatto cult e richiestissimo. “La nostra è di una ricchezza che difficilmente incontri altrove, dentro ci mettiamo gamberi, calamari, in più usiamo l’aceto di riso nero”, racconta il patron. Portiamoci avanti e arriviamo alle moeche fritte, altro piatto da novanta, di cui abbiamo parlato all’inizio: ci sono clienti che prenotano e le chiedono in anticipo, via whatapp. Sono erotiche, sublimi, l’unico problema è che la loro stagione finirà a breve. Fritte, dicevamo: ecco, da Dim Sum si frigge tanto e bene. “Usiamo olio di arachidi, che è caro, 60 euro per un bidone che contiene 25 litri”. In più, e questo lo diciamo noi, lo cambiano
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DAL PANE alla
COTOLETTA È TUTTO SQUISITO, ben presentato, rilassante, poi ci sono gli ACUTI COME GLI STRACCETTI DI PEPERONE, IL RISOTTO Milano-Roma e il lombo DI AGNELLO Gli straccetti di peperone di Davide Puleio perfino troppo veloce, quasi per il timore di non essere all’altezza della clientela. Capitolo vini e bollicine. Il ristorante non ha un sommelier vero e proprio, è Yike a gestire la carta: nessun volo pindarico, tanta sostanza e la consapevolezza di essere competitivi pur non proponendo centinaia di prodotti. Si va tanto a suon di champagne, soprattutto Perrier Jouet, per via di un accordo favorevole con Antinori, che lo distribuisce in Italia. Leo Damiani, il factotum della maison nella Penisola, è uomo di mondo e ha capito al volo le potenzialità di Dim Sum e di abbinare la cucina cinese alle bollicine di primo livello. Eccoci, la cucina cinese: Yike non si nasconde, non vuole proporre contaminazioni o altro, niente imitazioni. “Mantengo intatta la tradizione”, sostiene fiero e pacato. “Altri hanno preso delle vie diverse, forse ingolositi dalla stella Michelin o altro, noi invece abbiamo intrapreso una strada e non intendiamo cambiare rotta, anche perché i risultati ci premiano”. Tradotto, ammiriamo Iyo e Gong, e tanto, ma qui si resterà, gastronomicamente parlando, nei confini dell’ex impero. Tornando un attimo ai ravioli: “Tutti parlano ed esaltano, giustamente, la Raviolieria di via Paolo Sarpi: sono straordinari, però propongono un prodotto che ha le origini nel nord della Cina, dove il clima è più freddo e di conseguenza i ravioli vengono realizzati con delle farine diverse per una pasta più spessa. Ecco, i nostri sono più morbidi e leggeri”, spiega il boss, sempre a voce bassa. “Li abbinerei con un vino bianco, friulano”, conclude. Il personale. Ovviamente e interamente di origini cinesi, con la gran parte di loro nata e cresciuta qui. “La lingua a volte è ancora un piccolo ostacolo, so bene che la clientela è molto esigente e non tollera quando un cameriere fatica a dare tutte le spiegazioni in un italiano perfetto, per fortuna mia moglie sa gestire e dominare la scena in maniera sublime. Forse in futuro dovremmo assumere qualche italiano e magari un sommelier, per ora gli spazi non lo concedono, stiamo già stretti così, con i nostri 60 coperti. Comunque abbiamo gli stessi problemi di
tutti, nel dover cercare e trovare il personale giusto: la gran parte dei coloro che si presentano ai colloqui ha delle esperienze in ristoranti etnici di basso livello e non riescono a capire quello che chiediamo. Claudio Liu è il primo che ha osato con personale italiano, noi lo seguiremo a breve”. Il locale. La firma è di Carlo Samarati, lo stesso che aveva colpito i milanesi con gli interni di Bon Wei: nel 2010 passò per una vera e propria rivoluzione. Per gusti personali preferiamo il Dim Sum, raccolto e sobrio, perfetto per i milanesi che lo prendono d’assalto. Suggerimenti. Lo scontrino medio viaggia sui 65 euro: può, vale e merita di salire ancora un po’. Oltre alle moeche vi consigliamo le costine imperiali e il filetto di manzo in salsa di soia fermentata. A meno che non siete di quelli che volete cenare esclusivamente a base di ravioli e pasteggiare a bollicine.
L’ALCHIMIA, regno
di Alberto Tasinato. É IDEALE PER IL MASCHIO deciso che vuole GRATIFICARSI con un COCKTAIL
INTRIGANTE
Il cocktail La Bella e la bestia
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Le comiche
Qualità e quantità
RASPELLI SI LAMENTA della cucina moderna e delle porzioni, dimenticandosi che al mondo esiste anche gente che
LA VEDE DIVERSAMENTE
I
l personaggio è difficile e soprattutto non accetta critiche. Lui è lui, un gradino, anzi, due, sopra dio o giù di lì. Una qurantina di anni addietro passava per uno influente (lo era), ora lo è di meno. Proprio per questo cerca di far parlare di sé in tutti i modi. Si sa già come andrà a finire, i suoi pretoriani ci diranno di ogni, per cui anticipiamo: “chi vi credete di essere”, “non sarete mai alla sua altezza”, “sparate solo cavolate”, “vergognatevi a criticare uno come lui”. Se ci siamo dimenticato qualcosa, ci scusiamo, aggiungete pure. Ora, i fatti. Raspelli Edoardo lo conoscete tutti. Noi, che siamo in Italia da 25 anni, abbiamo sentito parlare per la prima volta di lui quando si mise una sonda blu nel deretano o qualcosa del genere. Ci dissero che è uno forte con un palato finissimo. Sarà, per noi rimane quello con la sonda blu nel sedere. L’ometto va a mangiare da Terry Giacomello, l’unico italiano che ha lavorato per anni accanto ad Adrià: piaccia oppure no, è stato lì quattro anni e mezzo. Da tre lavora a Parma, all’Inkiostro: lo sappiamo, siamo di parte, lo apprezziamo molto e apprezziamo tanto anche la proprietaria, Francesca Poli.
Dunque, l’omino con la sonda blu si siede e chiede tre piattini del meù degustazione. Tre su quattordici. Gli dicono: guardi che sono piccoli, fanno parte di un menù di 14 portate, per forza di cose le quantità sono ridotte. Lui insiste, Terry dice va bene, se lei preferisce così… Poi l’omino con la sonda ordina altre due, tre cosine, si alza assieme alla compagna e se ne va. Giorni dopo scrive su La Stampa un articolo dove attacca Terry per le porzioni. Premessa: già nel 2002 scrisse su di lui e scrisse in maniera negativa, il che vuol dire che si è cercato la “preda” per bene. L’omino con la sonda si lamenta della cucina moderna e delle porzioni, dimenticandosi che al mondo esiste anche gente che la vede diversamente e se lui ama le porzioni da camionista tanto di capello, ma non è che tutti la devono pensare come lui. Il problema è proprio questo, la gente come l’omino con la sonda non prende nemmeno in considerazione che possa esistere un’altra opinione tranne la sua. Fa parte di quella categoria di permalosi e con il complesso di superiorità, che guarda tutti con disprezzo e con quel viso da giudice supremo, convinto che la propria opinione sia legge.
No 32
Poi però ti chiedi come mai non possa apprezzare la filosofia di uno come Terry: basta fare una breve ricerca per capire. Leggete qui, non facciamo altro che un umile copia incolla di un suo articolo dove ci raccontava felice come un bambino il suo scarno e austero pasto natalizio: “culatello di Zibello artigianale, prosciutto crudo di Riano di San Daniele e di Norcia, giardiniera di Penango d’Asti, scaloppa di fegato grasso, storione allevato a Cassolnovo, caviale di Calvisano, salmone irlandese, grana padano, spaghetti di Lari, gallina ripiena, costata chianina di Toscanella di Dozza, lenticchie di Col Fiorito, panettoni di Costabissara e di Isola Rizza, mandorlato di Dolo di Venezia, torta di nocciole di Cortemilia, violette candite di Borgo San Dalmazzo”. Forse scrivendo di fretta si è dimenticato qualche pietanza ma possiamo dire che bastano queste per avere un’idea sui gusti dell’uomo con la sonda nel sedere. Ora si capisce perché non gli garba la filosofia di Terry, lui è per ingozzarsi con la gallina ripiena come se non ci fosse un domani. Ed è qui che nasce il vero problema: uno che ama questo tipo di cucina riesce a capire quello che fa Adrià? Per noi no: difatti Francesca Poli lo ha ammesso in un post lapidario: “Raspelli non ha gradito il tipo di cucina che proponiamo”. E te credo. Chi si insozza di salsicce e si macchia di ragù sulla canottiera ha tutto il nostro rispetto e immaginiamo anche il vostro, ma come fai a passare dalla gallina ripiena ai piatti di Adrià e Terry? E’ impossibile, impossibile, assolutamente impossibile, per non dire dell’immagine che uno dà si sè. Dimenticavamo: nello stesso articolo “il” Raspelli, felice come un bambino, dice che durante quelle feste aveva messo su cinque chili. Onore al merito, tutti in piedi a battere le mani, bravoooo Dodo, ma poi ve lo immaginate seduto da Terry a mangiare con le pinze oppure a degustare la sua anguilla? Noi no, sono due mondi distanti anni luce: due mondi fantastici, però lontanissimi. Questa pare una parodia, una commedia con Louis de Funès, oppure con Totò e invece stiamo parlando della critica gastronomica italiana che fino a pochi anni fa dettava legge e condizionava l’andamento o la chiusura di un locale. Critico abituato a ingozzarsi pure le sedie, a mangiare i tappeti per dolce va ad assaggiare di fino da un allievo di Adrà e non gradisce le pietanze. Caspita, chissà come mai ciò? Per decenni lui e altri come lui hanno terrorizzato i ristoratori e gli chef, i quali, per il timore di venire tartassati e trattati male si sono sdraiati per terra, offrendo cene e soggiorni, salumi e formaggi: ecco, un po’ di volta stomaco ti viene. E poi per concludere l’argomento del sondino blu, siamo andato a cercare l’articolo: per chi non l’ha letto ai tempi (2009), eccone uno stralcio, dove lui ha la geniale idea di proporre a Mediaset un reality sul suo sondino blu che si trasforma in palloncino una volta “arrivato” nello stomaco: “Venerdì 24 alle 11, all’ospedale Policlinico di Milano, prima al padiglione Beretta Est e poi allo Zonda, il dottor Ezio Lattuada (della Società italiana di chirurgia dell’obesità e del¬le malattie metaboliche) con i suoi colleghi inseriranno nel mio stomachino un palloncino ripieno di acqua blu che dovrebbe farmi dimagrire.. Il tutto sarà ripreso dalle telecamere di Videonews (direttore Claudio Bra¬chino) che per Canale 5 preparerà un reality che seguirà il mio auspicabile massiccio Strano che poi il reality non andò in onda, chi non avrebbe voluto sedersi sul divano dopo cena e godersi il palloncino ben fissato nello stomaco del nostro? Anzi, come scrive lui stesso, nello stomachino.
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QUESTA PARE
UNA PARODIA, una COMMEDIA con Louis de Funès, oppure con Totò e invece stiamo parlando della critica GASTRONOMICA
ITALIANA
Terry Giacomello
Nuove idee
Adattando l’Atelier
P
robabilmente è un modo di fare ristorazione che in Italia non prenderà mai piede, a parte qualche situazione nei centri delle città più importanti, dove gli affitti aumentano giorno dopo giorno. E’ ovvio che un posto del genere ha poco senso se parliamo di una città di provincia, però a Milano si inizia a pensarci. In breve: prendendo spunto dall’Atelier di Robuchon si cercherà di capitalizzare al massimo la superficie affittata e di ridurre al minimo i costi del personale. Tradotto, i cuochi cucineranno, spiegheranno i piatti davanti alla clientela e saranno anche camerieri, visto che si troveranno di fronte agli ospiti: lo chef, altri due in brigata e poi un paio di ragazzi per servire, sparecchiare e simili, poi stop. Che sia chiaro, l’Atelier offre un ottimo servizio, ma si cerca di prendere come esempio il banco, adattandolo alle esigenze odierne: tutti sanno che da Robuchon il servizio è ottimo e che il personale abbonda. Certo, la maniera godereccia, rilassata e ospitale della ristorazione italiana è tutt’altra cosa rispetto al banco, qui non siamo a New York e nemmeno a Londra, ma proprio il marketing americano insegna che si deve calcolare, e bene, quanto ti rende ogni metro quadro. L’esasperazione del business non ha mai fatto impazzire gli italiani, ma è arrivato il momento dei conti fatti bene e non più in maniera approssimativa. Perché oggi un ristoratore di alto livello fatica a
PRENDENDO spunto DALL’ATELIER DI ROBUCHON si cercherà di CAPITALIZZARE al massimo la SUPERFICIE AFFITTATA e di RIDURRE AL MINIMO
I COSTI DEL PERSONALE
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mantenere l’intero personale in sala e in cucina, fatica a portare avanti un progetto economicamente sostenibile: da qualche parte di deve tagliare senza che poi si venisse a intaccare la qualità. Come si potrebbe fare? Prendendo uno spazio commerciale di dimensioni inferiori e massimizzando gli incassi. Prendendo spunto da Robuchon, alcuni iniziano a ipotizzare un ristorante del genere, con lo chef in mezzo e altri due cuochi pronti a dargli una mano. I clienti al banco, tutti, a pochi centimetri di distanza, in tal modo da non essere necessario un esercito di camerieri. Ci sono dei pro e dei contro. I vantaggi sono prettamente economici, gli svantaggi invece hanno a che fare con l’idea stessa di accoglienza. Perché in Italia vogliamo tutto senza curarci troppo delle problematiche altrui: vogliamo il confort, il servizio, la distanza fra i tavoli e la privacy e fin qui ci mancherebbe altro, andiamo a cena per avere ciò. Peccato che spesso il ristoratore non riesce a farcela e a quel punto deve inventarsi una formula che possa tenerlo a gala. La lista dei pro è più breve, quella dei contro più corposa, a meno che non si faccia uno sforzo e si inizi a concentrarsi sul piatto senza badare troppo agli orpelli. Un posto del genere è più giovanile, ovvio che le generazioni passate faticheranno e non poco a stare sulla sedia alta e mangiare, la prendono come un affronto. Però il mondo va avanti, i cambiamenti sono inevitabili: magari fra cinque, sei anni ci sembrerà normale un posto del genere. Ovvio che all’ora di pranzo c’è più possibilità di avere successo, si mangia veloce per mere questioni di tempo, la sera invece vogliamo rilassarci di più e di conseguenza preferiamo una comoda poltrona e star seduti ad un tavolo vero e proprio. E’ tutto diverso, questo è evidente, però non è la fine del mondo stare su una sedia alta, comunque comoda. Si vedrà. Intanto nelle metropoli è una prassi assai diffusa e i ristoranti sono pieni. E nessuno si è mai lamentato di stare seduto su una sedia alta da Robuchon.
Fabio Tammaro Kitchen Confidential
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hi non ha letto il libro di Anthony Bourdain, fra l’altro il suo primo, che lo ha reso famoso, aprendoli una carriera a quei tempi insperata? Per certi modi rozzo e volgare, raccontava un mondo borderline, dove i cuochi ne combinavano di ogni e vivevano al limite dell’autodistruzione: alcol, notti insonne, droghe, il tutto in ambienti di lavoro che oggi griderebbero allo scandalo. La situazione è cambiata, ma solo in parte. Certo, le cucine sono totalmente diverse, fra induzione e padelle con manico che non ti brucia la mano, fra aria condizionata e ambienti che sembrano sale d’ospedale. Nel libro di Bourdain c’era l’inferno, ma l’inferno vero. Ricordiamo un solo episodio, con cuochi che svenivano a metà del servizio per via delle temperature altissime: da una parte c’era la fila con le postazioni per i primi, con le pentole piene d’acqua per la pasta, dall’altra i fuochi per le carni: in mezzo c’erano loro. Oggi, grazie alle nuove tecniche e tecnologie, le nuove generazioni stanno approcciando la cucina in un modo più rilassato. In più, Masterchef e la vita di tutti i giorni hanno fatto sì che all’esterno si avesse un’opinione scanzonata e spensierata sugli chef, ma è davvero così? Ovviamente no, perché nella stragrande parte del mondo si suda ancora da matti, gli spazi sono stretti e la tensione è alta, altissima, visto che ti giochi tutto in due ore di servizio. “In cucina Dio non c’è per darti una mano”, scriveva Anthony, e aveva ragione. Fra gli chef che conosciamo a ammiriamo c’è il Bourdain italiano, letteralmente parlando: si chiama Fabio Tammaro e, per la seconda volta, raccogliamo i suoi pensieri. Il cuoco ha la barba di una settimana, le vene varicose, la schiena a pezzi, le ginocchia e i polsi operati. E’ divorato dallo stress, sta tre giorni filati senza vedere la sua famiglia, continuando a rimandare ogni impegno casalingo. Ha la lampadina dello sgabuzzino di casa da cambiare da due mesi; il garage invece è zona franca, repubblica indipendente. A mezzanotte o alle due di notte, beve una bottiglia di vino, ma alla svelta perché deve andare a letto che l’indomani arriva il tecnico della lavastoviglie alle 8:00 e deve passare in posta a pagare l’ennesimo bollettino. Mangia 10 volte al giorno senza mai sedersi a tavola, ingurgitando qualsiasi cosa gli passi sotto al naso, tipo aspirapolvere: dalle prove dei piatti agli impasti crudi. Pretende il massimo della qualità nei suoi piatti ma spesso mangia di merda, cibo freddo e per niente invitante. In piedi. Sempre. Ha sempre una percentuale di alcol del sangue, qualunque sia il momento della giornata.
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Il suo gruppo sanguigno è 0 RH DOCG. Quando fa le analisi del sangue, ogni 30 anni più o meno, dai risultati esce che sa di tappo. Dorme cinque ore a notte, si sveglia almeno sei volte e ogni volta controlla l’orologio, fino a ritrovarsi in cucina. Ha gli occhi viola, le mani gonfie ed è sprovvisto quasi del tutto di pazienza. Non ha tempo per controllare la propria salute e spesso neanche quella delle persone che gli sono accanto. Non ha tempo. Mai. Puzza sempre di cibo ed è costantemente in ritardo col il Mondo che lo circonda. Trascorre la vita a programmare e a calcolare il millimetro, il grammo e il centesimo, senza accorgersi che è totalmente incapace di calcolare la sua. È costantemente giudicato da chiunque e in ogni modo, forma e mezzo possibile. Ha migliaia di varianti ed una sola costante: la sua cucina. Vi state ancora chiedendo perché abbiamo dei caratteri “un pò” particolari?!?!
LO CHEF TRASCORRE la vita A PROGRAMMARe e a CALCOLARE IL MILLIMETRO, il grammo e il centesimo, SENZA ACCORGERSI che è totalmente incapace di
CALCOLARE LA SUA
Puglia,
mon amour FELIX ha IL GRANDE MERITO di aver osato, PROMUOVENDO CON ORGOGLIO lo STREET FOOD della sua REGIONE E PROPORLO nel suo ristorante stellato di PIAZZA DUOMO
La coppa di maiale di Felix Lo Basso
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ci pare di rivedere nel menù di Michele una traccia, un tocco di Lo Basso. Sarà per via dei prodotti, sarà per la bravura dei due, fatto sta che la Puglia trova in loro la massima espressione in terra milanese.
Le pappardelle di grano d'arso dell'Osteria Contadina
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a qualche settimana ci turba un quesito: i ristoranti e la cucina pugliese vincono a mani basse per via delle materie prime o per via degli chef? O per via di entrambi i fattori? Quanto incide la mano e quanto il prodotto? Felix Lo Basso, Olio, Puglia in Brera, I Salentini, ora perfino il terzo ristorante di Tony Ingrosso, Osteria Fornello Contadino: dal livello più alto a quello più popolare stanno facendo impazzire la clientela per via di questo mix straordinario, ovvero piatti succulenti e materie prime che da sole, senza alcun intervento in cucina, valgono già il prezzo. Certo, sulla piazza milanese ci sono tanti altri grandi chef di origini pugliesi, alcuni di un livello altissimo, vedi Antonio Guida, ma lui propone una cucina francese, senza molte tracce mediterranei. Felix invece insiste proprio sul territorio e sui profumi che conosce meglio: la sua matrice pugliese è netta e avvolgente, la differenza la fa lui, a prescindere dai prodotti, anche se pure qui ci sarebbe da aprire un discorso sul tema. Prendiamo lo gnummared, involtino di frattaglie, ovvero il piatto più popolare possibile: ecco, Felix lo ha incluso in uno dei suoi menù degustazione, ritoccandolo appena. Ogni stagione cerca di abbinarlo ad altro, asparagi oppure cime di rapa, però di base resta la bontà di un prodotto povero portato ad un livello stellato: visto che le lavorazioni sono minime (però le cotture sono davvero determinanti), qui possiamo premiare l’intuizione della cucina tradizionale e non il genio di Felix, il quale ha comunque il grande merito di aver osato, promuovendo con orgoglio lo street food della sua regione e proporlo nel suo ristorante stellato di Piazza Duomo. Tradotto, “sono fiero della mia terra e so che pure voi apprezzerete, godetevi lo gnummared così com’è, con un semplice contorno. Non è quello che solitamente ci si aspetta in uno stellato, quasi fa a botte con la creatività spinta, però vi garantisco che impazzirete per il piacere”. Sottoscriviamo. Da parte sua Olio, una delle rivelazioni dell’ultimo anno, un ristorante che promette tantissimo e che cerca delle strade interessanti, è diventato una bandiera del Made in Puglia. Qui sono riusciti a elevare i prodotti addirittura oltre il loro valore, grazie alla mano gentile e sicura di Michele Cabozzi. Le carni dei Fratelli Varvara, il capocollo, gli agrumi di Gargano, la ricotta forte e il caciocavallo: l’insieme è formidabile, il posto vale tanto e merita molto. Uno chef all’altezza (d’altronde proviene dalla Enoteca Pinchiorri) e materie prime baciate dal sole e dal mare: non si è sempre detto che fosse questa la strada maestra? Eccola. E comunque non è un caso che abbiamo messi uno accanto all’altro Felix e Michele (a onor del vero l’idea dell’articolo ci è venuta proprio per via del paragone fra i due): sempre più spesso
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A proposito, i gnummared si trovano pure da Olio, nel menù agnello: ovviamente arrivano dai Fratelli Varvara, la loro azienda è ormai un marchio di fabbrica della regione, una firma prestigiosa e irrinunciabile del Made in Puglia. Teniamolo d’occhio, il ristorante di Angelo Fusillo, pugliese fino al midollo e fiero di esserlo, gastronomicamente parlando. Poi ci sarebbe il livello più popolare e verace, dove impera la mano di Donata Rizzo, la cuoca dell’Osteria Fornello Contadino: qui è proprio la cucina tradizionale pugliese a fare la differenza, con quella forte vena casalinga e godereccia. Donata l’avevamo conosciuta due anni addietro, quando aprì Puglia in Brera, sempre di proprietà di Tony Ingrosso. A proposito: l’uomo sa il fatto suo come pochi. Apre ristoranti fintamente poveri, con quelle pareti bianchissime, solo in apparenza grezze, e qui il merito va anche alla moglie Francesca Micoccio, bravissima nel trovare il dettaglio chic. Il discorso vale anche per i menù di Donata che sembrano altrettanto ruvidi allo primo sguardo, poi ti rendi conto che è tutto studiato, i contrasti sono semplici e straordinari, i piatti goduriosi all’ennesima potenza. I loro sapori sono forti, intensi, gustosi, i piatti porcellosi e succulenti. Dove iniziano i meriti di chi è in cucina e quanto incide la materia prima? E’ come chiedere se Messi fa vincere il Barcellona o viceversa. La risposta conta relativamente, conta il risultato finale. Che è straordinario.
OLIO é una delle RIVELAZIONI dell’ultimo anno, un ristorante che PROMETTE TANTISSIMO e che CERCA DELLE STRADE INTERESSANTI, diventando una bandiera del MADE IN
PUGLIA
Un piatto del ristorante Olio
Critica e media
L’approccio sbagliato
D
i lei ne abbiamo scritto spesso e forse lo faremo ancora. Per decenni è stata un punto di riferimento, oltre a essere la critica gastronomica più forte e potente in assoluto. Quando arrivò al New York Times disse ai suoi direttori: “Avete un approccio sbagliato verso la ristorazione. Calate il giudizio dall’alto, sembrate certi di non sbagliare mai. In più, le vostre recensioni sono rivolte alla gente che frequenta già i ristoranti che visitano. Ma quanti dei vostri lettori andranno a mangiare da Lutèce quest’anno? Un migliaio? Ammesso che sia così, rimangono fuori oltre un milione di lettori. E in un momento in cui la gente si interessa al cibo e ai ristoranti come non mai, è un peccato mortale. Non bisogna scrivere per la gente che va a cena nei ristoranti alla moda, ma per tutti quelli che vorrebbero poterlo fare”. I direttori le risposero: “Lei ci dice che noi stiamo vendendo ristoranti, mentre il nostro mestiere sarebbe quello di vendere giornali”. “Esatto”. Ecco, ora non per paragonare la Reichl alle altre, perché sarebbe folle e sminuente nei confronti di Ruth stessa: il punto è che tanti, mentre scrivono, guardano solo al proprio ombelico, sono autoreferenziali fino all’inverosimile: al lettore non pensano minimamente, anzi, il lettore non esiste perché il soggetto sono loro, i giornalisti. Una specie di “Ciao come sto” che stizzisce assai. E’ un continuo “guardatemi come sono colto, guardatemi che prosa forbita, guardatemi come sono diverso dagli altri. Io sono di un livello superiore, so spiegare come nessuno la ricetta dello chef ics, io sono il più sofisticato e preparato”. Tutto nella loro mente, perché all’atto pratico in pochi riescono a capirli e ancor meno hanno la voglia di leggerli. La sensazione (per la verità più di una sensazione) è che stanno o vogliono porsi ed essere visti come quei critici cinematografici di una volta, oppure quei critici d’arte spocchiosi, con la verità in tasca, quella gente insopportabile, saccentina e insofferente, spesso con la forfora, denti gialli e smorfie sprezzanti ad ogni dove. Ci stanno riuscendo, eccome. Si autoconvincono di dettare
legge, di contare molto, di poter decidere i destini degli chef e dei ristoratori: guai a non considerarli delle autorità in materia (peccato che nessuno chiede loro un parere), guai a non pendere dalle loro labbra. Io io io io all’ennesima potenza, oltre il ridicolo, sempre e comunque, giorno dopo giorno, sfiancando il mondo intero senza rendersi conto di ciò. Vivono in un mondo autoreferenziale, dove hanno acceso (avessi detto) solo i coloro che battono le mani, gli adulatori di mestiere, quelli che per il proprio tornaconto ti coprono di finti elogi. Chi sono gli adulatori? Gli uffici stampa, che temono di non veder più pubblicati articoli sui ristoranti che rappresentano. Poi? Alcuni chef che pure loro vivono con il terrore di essere trattati male in caso di mancato baciar le mani. A proposito dei critici d’arte: qualche anno addietro ebbero un sussulto, sperando in un momento di gloria, quando si iniziò a chiedersi se la cucina creativa potesse essere considerata arte. Si sono subito autoinvitati nelle discussioni, sdottorando tristemente sull’argomento, facendo capire che solo loro sono in grado di fare dei paragoni a argomentarli filosoficamente. Peccato che lo hanno fatto con una tale boria da far trasformare la cucina creativa in un funerale. Speravano di arrivare sotto i riflettori, di uscire dall’angolo buio e senza platea: tentativo fallito, alla fine si sono rivolti ai soliti tre gatti. Ecco, se i critici gastronomici suddetti intendono calcare le orme e scrivere pure loro per dieci persone soltanto, facciano pure. La strada imboccata è quella giusta.
AVETE UN APPROCCIO sbagliato VERSO LA RISTORAZIONE. Calate IL GIUDIZIO DALL’ALTO, sembrate certi di NON
SBAGLIARE MAI
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tradizione come se fosse l’àncora di salvezza e la risposta a tutto, una specie di “Apriti sesamo”. Più semplicemente si stanno barricando contro l’avanzata delle nuove tendenze portando come scusa la tradizione, quando la realtà nuda e cruda è che sotto i nostri occhi: non essendo bravi danno la colpa agli altri per i propri insuccessi. Per colpa loro (che urlano e la mettono ovunque) la parola tradizione rischia di inflazionarsi e di creare l’effetto del gesso sulla lavagna. Stanno quasi obbligando gli altri a non rispondere per paura di vederli ancor più invasati. Non è che la gente è scema se mangia sushi e diventa intelligente se mangia i tortellini. La gente semplicemente vuole mangiare bene e soprattutto in santa pace.
L’ossessione
per la tradizione
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opo gourmet, bistrot, eccellenza, location, unico, c’è un altro termine che rischia di inflazionarsi a dismisura e di perdere la sua vera connotazione. Ormai ci viene l’orticaria solo a leggere e a veder scritto ovunque la parola tradizione. Anzi, “tradiiizioooneeee”, perché è urlata istericamente, con aggressività estrema. E’ ormai utilizzata a random, come se fosse una garanzia di bontà. Tradotto, se io invoco la tradizione tu zitto che non puoi più ribattere. E’ un tabù, come la parola pizza: guai a toccarla e a provare a spiegare una tua ricetta. Non si può. “Ci vuole la tradizione”. Punto, anche se nel 2019 non è dato sapere cosa volesse dire. Per fortuna la clientela silenziosa la vede diversamente e sceglie dove mangiare in base ad altri criteri, perché è proprio qui il punto: non basta sbraitare la parola tradizione con gli occhi fuori dalle orbite, la ristorazione si divide fra quella buona e quella cattiva. Aggredire rumorosamente e imporre con volgare violenza verbale la parola tradizione è un boomerang, peccato che i buontemponi non se ne accorgono, impegnati come sono a perorare la propria causa. Perché loro sono convinti di avere ragione a prescindere, quasi quasi ci condannano e ci impongono a mangiare soltanto orecchiette con cime di rapa e tortellini di zucca. Onore al merito, tutto buono ma senza isterismi. E poi sarebbe troppo facile se potesse bastare una semplice parola (“tradizione”, in questo caso) per avere il ristorante pieno: si può essere vuoti pur abusando della parola. La sensazione è che si ha il timore di non riuscire a intercettare le nuove generazioni e di sentirsi superati dai tempi, di non sapere più a che santi rivolgersi per invertire la rotta: è un po’ come quei slogan “Volate Alitalia, volate italiano” e pazienza se i biglietti vengono a costarti il doppio con il confort a metà. Ognuno è libero di cucinare quello che meglio crede, quello che più sente suo, ci mancherebbe: poi cambia molto se hai un ristorante in una grande città, oppure in un paesino, se sei in pieno centro, oppure sul lungo mare. Non esiste una sola verità anche se i talebani della cucina unica lo vorrebbero, eccome. Stanno distruggendo una parola e un concetto che aveva e ha tutt’ora un senso, si aggrappano al termine
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STANNO distruggendo UNA PAROLA e un concetto che aveva e HA TUTT'ORA UN SENSO, si aggrappano al termine TRADIZIONE come se fosse L'ÀNCORA DI SALVEZZA e la
RISPOSTA A TUTTO
Gente felice
e pranzi solitari
“T
orneresti qui?”. “Si, mille volte”. Sono delle parole sussurrate che immaginiamo sempre quando guardiamo una coppia che sta cenando felice. Ok, sarà per via dell’ottimismo, o perché al ristorante andiamo sempre sognanti e carichi di aspettative, però semplificando ed estremizzando, siamo arrivati alla conclusione che le coppie scelgono il ristorante in base al loro tipo di rapporto e al, diciamo così, grado di innamoramento. Ovvero, quelle davvero felici di stare insieme, esuberanti, che amano dialogare e condividere preferiscono, magari involontariamente, andare dove l’atmosfera rispecchi il loro stato d’animo. L’abbiamo notato di recente da Gong, l’unico ristorante asiatico dove si parlotta caldamente e dove vedi sorrisi quasi ad ogni tavolo: tante coppie, tantissime, quasi tutte entusiaste di trovarsi lì. Niente musi lunghi e silenzi infiniti, niente tavoli morti. L’ultima volta che ci siamo stati si poteva toccare con la mano la felicità della gente, avevamo la netta sensazione che una coppia fiacca e priva di entusiasmo non avrebbe nemmeno pensato di prenotare lì. Sempre involontariamente si sarebbero sentiti fuori posto, preferendo magari un ristorante ingessato e rigido, più adatto a loro, oppure uno di quelli storici, pesanti e polverosi, per nulla frizzanti e con dei piatti scialbi, seppur corretti. Certo, può sembrare un’analisi approssimativa, però fateci caso: la gente felice sceglie i ristoranti dove oltre ai piatti miagolanti c’è anche un’atmosfera straordinaria, dove le good vibes del posto si sposano a meraviglia con il proprio stato d’animo, dove i piatti sono colorati e intriganti, dove piace scambiare opinioni sui bocconcini e le forchettate (certo, tasche permettendo e livello sociale anche). La gente meno passionale, o che attraversa una fase poco intensa dal punto di vista emotivo evita luoghi euforici, anche se dovrebbe accadere esattamente il contrario. Preferisce locali rassicuranti, silenziosi, spesso tristi. Tutt’altra storia quella raccontata da Arianna Huffington, giornalista americana diventata famosa soprattutto grazie al sito che porta il suo nome. Ebbene, di recente scriveva che almeno
una volta la settimana le piace pranzare, oppure cenare da sola: condividiamo appieno, visto che poi si tratta di una scelta e di non di mancanza di compagna. Certo, se uno dovesse pranzare sempre da solo sarebbe uno strazio e, come scrive Arianna citando uno studio dell’Oxford Economics, tutto ciò porta all’infelicità (per la cronaca non c’era bisogno di scomodare la celebre università, lo poteva dire anche un bambino). Perché pranzare in solitudine ha qualcosa di vacanziero, di evasione, di libertà totale, è come una conquista, un regalo a te stesso. Una pausa di un’ora, oppure due, ti cambia la giornata e non solo, se trovi un posto adatto e dove si mangia divinamente: forse da soli è ancora meglio che in compagnia. Certo non sempre, altrimenti sarebbe un peso. Professionalmente parlando, preferiamo attovagliarci in perfetta solitudine: si assaggia meglio, si analizza meglio e se poi se devi anche prendere appunti e recensire, non c’è gara, andare da soli è quasi un obbligo: niente compagnie e conversazioni che potrebbero distrarci. Certo, gran parte delle persone ha letteralmente paura della solitudine e non capiranno le parole di Arianna e ancor meno le nostre. Difatti, noi ci rivolgiamo ai coloro che sanno godersi la vita in qualsiasi momento.
ARIANNA HUFFINGTON SCRIVEVA DI RECENTE che almeno UNA VOLTA la settimana le PIACE PRANZARE, oppure CENARE DA SOLA: condividiamo
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Allarme a Milano I fondi non vinceranno
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l quadro è complicato e chiaro allo stesso
tempo. Poche le sfumature, tante però le tinte fosche. Okei, direte che già regna la confusione, e invece no. I fatti: aperture una dietro l’altra, per molte si capisce che sono state spese somme a dir poco ingenti, ma chi, come e perché riesce a supportare tali somme? Semplificando al massimo, la ristorazione milanese vede tre categorie di protagonisti: i ristoratori veri (che vivono degli incassi), poi i locali aperti dai fondi (che è un modo come un altro di investire i soldi, oggi in ristoranti domani in squadre di calcio oppure aziende di moda) e i ristoranti aperti per dei motivi poco puliti (soldi arrivati da chissà dove e da chissà chi, in breve riciclaggio). Sono tre categorie, ma solo una ci rimette: quella dei veri ristoratori. Le altre due si possono permettere di andare in pareggio e perfino di perdere un po’. Il guaio è che le due categorie rosicchiano la clientela dei ristoratori veri: certo, nessuno può impedire ad un fondo di investire come meglio crede, però loro arrivano con dei modi di gestione assai discutibili e approssimativi, drogando il mercato. Tradotto, un vero ristoratore non avrà e non troverà mai un milione di euro per ristrutturare la sala e la cucina, i fondi invece investono a cuor leggero, sapendo già che un giorno rivenderanno e guadagneranno: l’unico loro piano è di incassare subito per poi trovare un compratore. Non fa una piega, i soldi prima di tutto. La situazione rischia di sfuggire di mano, nel senso che il ristoratore autentico, pur di stare al passo, si vede costretto a fare delle operazioni folli pur di stare a gala. Soluzioni? Superata la frustrazione, sarebbe utile affidarsi al buonsenso e alla calma, con la convinzione che se fai bene il tuo lavoro la clientela continuerà a venire: inutile concentrarsi sulle altre aperture, uno deve pensare a sé stesso e cercare di non disperdere energie altrove. Certo, la curiosità spingerà la gente a provare i nuovi ristoranti, qualche flessione è da prendere in considerazione, ma poi solitamente si torna dove si mangia bene e si è trattati divinamente. Perché, non dimentichiamolo, fondamentalmente si va al ristorante per i piatti e pazienza se non riesci ad acquistare le attrezzature più moderne per stare al passo con le altre due categorie, che dispongono di disponibilità economiche superiori. La chiave è tenere alto il livello e la qualità, perché i fondi, a parte poche eccezioni, sono freddi come atmosfera e assai privi di una forte identità e personalità. Solitamente si concentrano su
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catene e format, dove solitamente il fattore umano è secondario (con le dovute eccezioni). Certo, rimane il fatto che portano via la clientela, anche se un numero esiguo: però due oggi, tre domani, ecco il danno. Stando davanti al computer è più facile suggerire soluzioni, questo è indubbio: però oltre a cercare di far miagolare per il piacere la clientela non si intravedono delle vie alternative. Fare sconti non è mai stata una scelta vincente, acquistare delle materie prime meno pregiate nemmeno: si gioca tutto sulla qualità.
LA CHIAVE È TENERE ALTO IL LIVELLO E LA QUALITÀ, perché i fondi, a parte poche eccezioni, SONO FREDDI COME ATMOSFERA e assai privi di una forte identità
E PERSONALITÀ
Paragoni insensati Fra Alajmo e il ragù
SPORCARSI le labbra di rosso, di quel rosso TIPICO DEL RAGÙ, piatti porcellosi e veraci, GUSTI E PROFUMI CHE RIEVOCANO la memoria: eccolo, il “compito” delle osterie E DELLE TRATTORIE
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hi sbraita con gli occhi fuori dalle orbite urlando istericamente che non pagherà mai 150 euro per una cena in uno stellato, perché lui ha un cuggggino dove con 20 euro si riempie la pancia e rotola, è un personaggio assai folcloristico e per di più in malafede. Si illude di passare per uno furbo e sveglio, addirittura intelligente (lo crede lui), ma è solo uno sprovveduto. Stanno sprecando energie e soprattutto si rendono ridicoli nel comparare una carbonara con una genialata di Massimiliano Alajmo, di Antonio Guida, di Andrea Berton, Giuseppe Iannotti o di altri. Sono mondi completamente diversi, il che non significa meglio o peggio: sono diversi, non hanno alcun punto di incontro. Sono due strade parallele, due filosofie diverse, lo scopo però è lo stesso, farti star bene. I ristoranti si dividono fra posti dove si mangia bene e posti dove si mangia male. Smettetela di paragonare le due situazioni, sono quasi due sport diversi, piaccia oppure no (tanto fa lo stesso se siete contrari). Sporcarsi le labbra di rosso, di quel rosso tipico del ragù, piatti porcellosi e veraci, gusti e profumi che rievocano la memoria: eccolo, il “compito” delle osterie e delle trattorie, non importa se classiche o moderne. La raffinatezza, la ricerca spasmodica e le cotture scientifiche spettano invece ai ristoranti “costosi”, anche per una questione di disponibilità economica, perché una osteria non si può permettere (e nemmeno vuole) di fare ricerche su ricerche: non è attrezzata, non ha il personale necessario.
Certo, può accadere che una trattoria classica indovini un piatto d’avanguardia e di sostanza, così come un ristorante “costoso” possa avere nel menù dei piatti sbrodoloni (in questo Felix è quello che più riesce a trovare la formula magica, mixando ricerca e gusti popolari). Per cui mettete una pietra sopra questo discorso falso e fazioso in partenza. Invocare e urlare la vostra predilezione per i piatti abbondanti non vi rende scaltri, smaliziati e intelligenti, inutile che ci proviate. Idem per chi si considera superiore solo perché bazzica ristoranti di alto livello. A tutti piace la pasta con un ragù struggente, perfino ai coloro che apprezzano e frequentano i “costosi”. Chi ha la possibilità di cenare in un ristorante “costoso” non è che sdegna la carbonara. Guardate questa pasta al ragù di maiale, salsa di cime di rapa e crema di parmigiano: credetemi, piacerebbe anche a Bottura e ai suoi seguaci. E’ verace e sofisticata, piace a tutti, chi ama mangiare ama mangiare e stop, non fa differenza se da Berton oppure al ristorante I mori, dove abbiamo assaggiato il pacchero che vedete nella foto piccola (di loro e dello chef Alberto Faranda ne abbiamo parlato sul numero passato). Le persone davvero intelligenti (ok, serve anche la disponibilità economica) vanno ovunque, un giorno qui, un giorno lì, senza snobismi. Per cui andate dove volete, non siete nè più furbi né più stupidi se spendete 20 o 150.
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Tecnica erotica
ome e perché sono nati i libri di cucina? Agli inizi perché i cuochi non avevano la possibilità di viaggiare molto e così, acquistando i libri dei maestri, potevano capire e imparare, rubare qualche idea e alcune tecniche. Ora ci pare preistoria, ma fino a una quindicina di anni fa funzionava così. Enrico Bartolini ci raccontava che, giovanissimo, non vedeva l’ora di acquistare Gran Gourmet, la rivista diretta da Luigi Cremona: “Ero impaziente di poterla sfogliare e ispirarmi a qualche ricetta pubblicata dai miti dell’epoca”. Ecco, l’idea della nuova rubrica si ispira a quei tempi, senza voler essere solo didattica. E’ una sorte di doppio commento, uno tecnico e l’altro, diciamo così erotico-ludico-estetico. La parte tecnica spetta a Stefania Corrado. La ragazza ci sa fare,
e bene, mille cose. Scrive libri di cucina, ha studiato economia per poi lavorare in una agenzia pubblicitaria di prim ordine, è una docente con fiocchi: insomma, è un pezzo da novanta, conosce la ristorazione più della gran parte dei ristoratori e le materie prime più della gran parte degli chef. Una di cui fidarsi, e tanto. D’ora in poi proveremo a raccontarvi lo stesso piatto ognuno a modo suo: lei vi aiuterà a capire il lavoro in sé, la preparazione e le operazioni, noi proveremo a farvi sognare. Per la prima puntata abbiamo scelto due piatti completamente diversi uno dall’altro: l’arancino siciliano proposto da Alberto Faranda al ristorante I mori e il maialino di BA Asian Mood, dove regna la mano di Bryan Hooi.
Partiamo dall’arancino. “Ludicamente “ é un bocconcino magico, pieno di sorprese, che ti inonda la testa e ti porta sulla spiaggia, un piatto che vale tutto e che mangeresti ogni santo giorno. E’ una esplosione delicata e indimenticabile, una carezza elettrica, una scossa saporita siciliana che non delude, come spesso capita. Più lo assaggi e più vorresti continuassi, perché è ricco, gustoso, davvero ben fatto. “Professionalmente” invece (eccoci al contributo di Stefania) in questo piatto c’è tutto: dalla scelta delle materie prime passando per la tecnica; dalla memoria al gusto. A prima vista può sembrare semplice, anche perché i sapori sono pochi, diretti e netti; è tutto molto chiaro.
Passiamo al maialino di BA Asian Mood: visto che secondo il calendario cinese questo sarebbe l’anno del maiale, è quasi doveroso esagerare e non poco. Per cui eccoci raccontare del maiale sensuale. Si può dire? Si. Si può dire maiale eccitante? Si. Si può dire maiale esplosivo? Sempre si. Piatto sbalorditivo, anzi, maiale sbalorditivo, leggero come la panna montata e saporito come un bacio. La “professoressa” Stefania cosa ne pensa? “Questo è un piatto figlio di tecniche e lavorazioni che richiedono molto tempo e impegno. Partiamo dal maialino, marinato in una brina con sale e spezie per un giorno; poi cotto sottovuoto e a bassa temperatura per 48 ore. Nel momento del servizio occorrono 55 minuti per rigenerarlo e renderlo croccante sulla cotenna. La salsa di aglio nero parte da una fermentazione a 50 gradi che dura un mese, regalando all’aglio un sapore che si avvicina a quello dell’aceto balsamico; viene fatto poi un brodo con le bucce d’aglio, filtrato, ridotto e legato con la hoisin sauce che da un tocco di dolcezza”.
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In realtà questo piatto semplice non lo è affatto. Cominciamo con il cous cous, di grani antichi siciliani: va incocciato rigorosamente a mano e poi cotto a vapore con alcuni odori per circa un’ora e mezza. La triglia richiede addirittura un lavoro di giorni: devono essere freschissime, vanno poi pulite minuziosamente. Bisogna ricavare un ragù e con “gli scarti” si fa un fondo a regola d’arte, stando attenti a mantenere il colore vivo attraverso lo shock termico: il tutto va poi filtrato e ben ridotto per concentrare il suo sapore. Ed eccolo qui l’arancino di cous cous al ragù di triglia: tutta l’energia della Sicilia in pochi bocconi.
Idee balzane
I
e nomi da fenomeni
l nome non prometteva bene. “This is not a sushi bar”. Uno dice: Madonna, che idea, questi vogliono fare i fenomeni a tutti i costi. Però è meglio studiare per bene e assaggiare prima di sentenziare, così che ci siamo informati, scoprendo che è uno di quei posti dove si paga (o non si paga) in base ai follower. Pareva una catena di discreto successo, di conseguenza andiamo a vedere e a mangiare di persona, in Via Sanzio. Risultato? Posto angusto e spersonalizzato, forse più da take away, qualità bassa e piattini identici a quelli che puoi comprare comodamente al supermercato allo stesso prezzo, anzi, da This is not a sushi bar paghi 3-4 euro in più. Per cui di tornare non se ne parla. La questione dei follower è assai complicata: da 1.000 in su hai il secondo piatto gratis e se abbiamo ben capito sono esclusi i dolci e le bevande (che poi le bevande sono la Coca Cola, l’acqua e la birra). Se invece hai -mettiamo- 50.000 follower a quel punto mangi tutto gratis, sempre tranne i dolci e le bevande. Ma uno con tanto seguito va a scroccare in un posto del genere? No, anzi, gli viene offerta la cena ovunque. Procediamo, perché non è che fai vedere il numero di follower e hai gli uramaki gratis: no, devi postare una storia e non cancellarla. Insomma, per un piatto da 10 euro ci pare una situazione assai complicata e soprattutto sfiancante, visto che solitamente si va a cena per rilassarsi non per conteggiare e farsi conteggiare.
Il gestore pareva assai pieno di sé, fra le altre ci ha detto che un instagramer aveva provato a fare il furbo, cancellando il post, così che lui, il gestore, lo ha segnalato a repubblica.it (e dunque?). In più ha perfino sostenuto che iniziano a copiare l’idea, tralasciando che i primi ad aver copiato sono stati loro (dalla serie tv Black Mirror). Morale, un’idea balzana per poi mangiare del sushi scadente e uramaki senza alcun gusto particolare. Meglio pagarti il secondo piatto ma che sia per davvero buono. A proposito, This is not a sushi bar è un vero e proprio sushi bar.
I soldi di papà
L’
argomento è delicato e proprio per questo non serve la diplomazia: più si è diretti, più si ha la possibilità di far arrivare il messaggio agli interessati. Cari uomini con ampia disponibilità economica, voler aprire un ristorante al figlio e alla moglie “perché così hanno qualcosa da fare” è una follia, oltre a una perdita di soldi pazzesca. Non è come comprare una borsa, una casa al mare oppure una macchina, non è uno sfizio da togliersi una tantum: questo è un lavoro, per di più difficile. Non si tratta tanto delle ore trascorse in un ristorante bensì del savoir faire e della passione che se manca, è la fine. E di solito la moglie e il figlio mancano di passione e ancor più di determinazione, perché vedono tutto come un giocattolo e perché è stato un regalo, di conseguenza non sentono nemmeno il peso dell’investimento, figuriamoci aver la voglia di stare ogni giorno sulle barricate. Qualcuno verrà a contestarci fornendo degli esempi contrari: come sempre, si distoglie l’attenzione dal tema, puntando sulle eccezioni, meritevoli ma sempre eccezioni.
Morale? Non buttate via i soldi così. Mandateli in vacanza per sempre e vi costerà molto meno. Una settimana all inclusive in Repubblica Dominicana non supera i 2.000 euro, al mese sono 8.000, all’anno 100.000. Costa di meno tenerli lì sulla spiaggia che non aprire loro un ristorante che tanto si stufano dopo due mesi o al massimo un anno. Fatto conto che per allestire e aprire un ristorante si spende minimo mezzo milione, si arriva alla conclusione che mantenerli a vita risulti più conveniente. Pensateci, prima di dire di sì con immensa facilità.
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Il “caso” Bros
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artiamo da un presupposto semplice semplice: la ristorazione è una attività commerciale. Si acquista la materia prima, la si trasforma e la si vende, pensando ad un incasso che possa portare degli utili. I ristoratori di una volta nemmeno prendevano in considerazione di rimettere dei soldi e, difatti, erano tutti con il conto gonfio. Certo, altri tempi, meno ristoranti e dinamiche diverse, meno controlli e quasi niente tasse, ma il concetto rimane quello. Oggi però si è persa un po’ la ragione principale per la quale si apre un locale, ovvero il profitto. Ognuno può gestire come vuole i flussi di danaro e se si rimette, sono gli affari loro. Però non sarebbe male ripetere qualche dato, assai inquietante. La media di incassi di un ristorante con una stella Michelin è di 700.000 euro l›anno, ovvero una miseria, spalmati vuol dire 2.000
euro al giorno: una pizzeria media incassa molto di più. Però è la media, il che vuol dire che alcuni fanno addirittura meno. Uno di questi è il ristorante Bros, amatissimo dai giornalisti, però non frequentato dai clienti. Ha dalla sua tutta la stampa prezzolata e istituzionale (i motivi sono assai incomprensibili, poi chiediamoci perché i giornali chiudono), un marketing che spinge ma nonostante questo la clientela non risponde. Per mesi abbiamo controllato e chiesto a tanta gente del posto e dintorni, le risposte sono sempre le stesse: hanno una media di 6 coperti, e sono chiusi tre giorni a settimana. Certo, dietro ci sono investitori facoltosi, il che li fa stare tranquilli, ma l’attività non decolla. In molti li difendono (a prescindere e a spada tratta, va detto), altri invocano l’arretratezza del sud e la poca abitudine per una ristorazione del genere. Tutto vero, ma il punto non è questo, bensì un altro: ovvero, ci sono casi dove la stella non ti cambia la vita. In base alla città, al paese, quello che volete, sta di fatto che inseguire il riconoscimento della Michelin porta spesso ad una grave perdita di danaro. Morale, avere la stella è bellissimo, incassare è ancora più bello. Perché, ricordiamocelo sempre, la ristorazione è prima di tutto una attività commerciale
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Rivenditori arroganti
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è una categoria di venditori che sta perdendo, e tanto, il senso della realtà. Sono i rappresentanti di vini, che si presentano nei ristoranti come se fossero tutti distributori di Romanée Conti. Arrivano e pensano che l’ordine va fatto solo perché loro sono loro e perché si sono presentati, spesso senza alcun appuntamento. Calcano la mano, tirano fuori il listino come se si trat tasse di un obbligo da parte del ristoratore, manco fosse una tassa da pagare. In più, non hanno la minima idea che un ristorante vive uguale con o senza il loro vino o bollicina: si vive senza Cristal e Krug, figuriamoci senza un prodotto medio, o anche medio buono. Il punto centrale sta proprio qui, non hanno davanti agli occhi il quadro generale: i ristoratori sono pieni di prodotti, grandi maison e altre di nicchia, non cambia se mettono in carta 70 bollicine oppure 71. In più la clientela si adatta assai facilmente, senza storie: manca il Krug? Pazienza, ci sarà qualche altra bollicina pregiata, vale anche per i vini: finito il Gaja? Datemi uno simile, siamo qui per goderci la serata. Certo, ci sarà sempre un simpaticone a rovinare il clima e a scandalizzarsi per la mancanza di un nome importante, ma non ha senso perdere del tempo con figuri simili. Tornando ai rivenditori, non sono in grado e nemmeno interessati a empatizzare (al massimo fanno quelle due domande di comodo, tanto per far capire che si preoccupano), spesso sono maleducati (ma ovviamente non lo sanno), sono pesanti e irritanti, a volte arroganti. In tutto questo chi ci rimette è la maison che mette nelle loro mani il proprio prodotto. A naso però non ci sono soluzioni, d venditori bravi ce ne sono pochi e chi vuole cambiare quelli sborroni non sa con chi.
Serena e Lorenzo, Rosa e Carlo
VEDERE DUE COPPIE così, INSIEME, è un caso PIÙ UNICO CHE RARO: DUE CHEF e le loro mogli adoranti,
OVVIAMENTE RICAMBIATE.
S
arà per via della nostra perenne vena romantica, sarà perché si tratta di un fatto raro, sarà perché tutti sognano di avere accanto una persona così. Comunque, importa poco. Di loro due avevamo già parlato in altre occasioni: Lorenzo Cogo e la sua fidanzata, la sua ombra, il suo scudo, il suo filtro e il suo factotum, ovvero Serena Righele. Per dei motivi che ci sfuggono, i due non vengono sempre visti di buon occhio: aggiungiamo un “ma chi se ne importa”, si vive per vincere e se agli altri piaci poco sarà mica un problema tuo. Di felicità non è ancora morto nessuno, di frustrazione invece sì. Di sicuro Lorenzo paga il fatto di essere stato il più giovane chef italiano ad aver conquistato la stella Michelin: aveva poco più di 24 anni. L’esposizione ai media e all’attenzione del mondo gastronomico gli ha attirato tante cattiverie e invidie: in più, paga anche il fatto di essere stato considerato il nuovo genio della cucina italiana (pure qui, qualcuno ha esagerato con i complimenti, ma mica è colpa sua). Non dimentichiamo la sua stretta amicizia con Carco Cracco, vicentino come lui:
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lo ha presso sotto la sua ala protettiva e hanno un rapporto davvero speciale, possiamo confermarlo in prima persona. Fai uno più uno e capisci che a qualcuno può andare giù di traverso la sua carriera, le sue amicizie e perfino il nuovo ristorante aperto nel centro di Vicenza: pazienza, non ci pare turbato, forse perché ha accanto lei. Ci convinciamo sempre di più che la forza di Lorenzo si chiami Serena: sono arrivati a Milano per qualche ora, li abbiamo “studiati” da vicino mentre stavano scattando per la prossima copertina di GOOD LIFE. Guardateli nella foto: sono solari e sognanti, giovani e belli, felici e ambiziosi. Appena vista la foto lei dice: “Com’è stanco, Lorenzo”. Lo protegge sempre, non so voi però a noi queste situazioni piacciono da morire. Prima di fare le foto siamo stati tutti insieme da Cracco, altro esempio di coppia di ferro. Rosa, la compagna dello chef, può dare lezioni al mondo intero per come si dovrebbe gestire un “impero” e un personaggio del genere: mai una parola di troppo, mai un “io io io”, mai nulla di appariscente eppure è sempre, sempre, sempre presente ed é sempre sorridente. Vedere due coppie così, insieme, è un caso più unico che raro: due chef e le loro mogli adoranti, ovviamente ricambiate. Per la cronaca, era da tempo che non vedevamo Cracco così rilassato. Non si può quantificare in percentuali, ma la presenza di Rosa fa tanto, ma tanto tanto. Per quello che riguarda Lorenzo, la presenza di Serena fa ancor più “tanto tanto”.
Mimma Posca, Pommery
Only the brave
C
i sono due notizie correlate, entrambe importanti. Dura decidere se iniziare da lei oppure dalla guida, per cui proviamo a metterle insieme, forzando un po’ la frase: “Il Pommery di Mimma Posca entra a far parte del mondo patinato della Michelin, sponsorizzando la guida dedicata esclusivamente agli stellati”. Proprio così, “Il Pommery di Mimma Posca”, perché è indubbio il fatto che, almeno per quello che concerne l’Italia, la maison venga identificata non con un prodotto, bensì a lei, l’amministratrice delegata dell’azienda. Forse suona un po’ strano e anche un po’ spiazzante: di solito un marchio del genere va avanti grazie al nome, al prodotto e alla tradizione. Appunto, di solito. La vita di Pommery in Italia ha un percorso leggermente diverso rispetto ai competitor. I motivi sono tanti, a cominciare dal fatto che, fino a dieci anni addietro, la maison non viveva di vita propria: si appoggiava ad un distributore, il che toglie forza, charme e prestigio presso ristoratori e consumatori finali. Per farla breve, toglie l’anima. Mimma ha ridato a Pommery proprio questo, l’anima. Si è ripartito da qui. Ha poi aggiunto carisma, personalità, autorevolezza, in pratica ha trasmesso i suoi valori al marchio. La presenza sul territorio e sui media incide molto, come incide anche la bontà di un prodotto. Ed eccoci al secondo motivo, ovvero la mancanza di un’ammiraglia, uno di quegli champagne aspirazionali per i quali basta la parola per far sognare il palato e scatenare gli acquisti. Adesso ci si può vantare con Cuvèe Louise, bollicina da standing ovation, da intenditori veri, duri e puri: non a caso i ristoranti di altissimo livello la ordinano e soprattutto la propongono. Ora la situazione è cambiata, e di tanto, ma le premesse erano d’obbligo per raccontarvi il punto di partenza di Mimma Posca nella sua avventura impossibile, ovvero ridare dignità ad un marchio storico, trattato male o non trattato affatto dalle nostre parti. Sono passati dieci anni, forse tanti o forse pochi per dare, trasmettere e imporre una rotta, di sicuro oggi si naviga piacevolmente:
diciamo che la vera corsa inizia ora. Ci sono voluti dieci anni e non è stato facile, anzi, però Pommery Italia ce l’ha fatta a entrare nel mondo che conta: i competitor correvano a velocità doppia, ora si gareggia alla pari o quasi. Qualsiasi corso di marketing americano insegna che un marchio, per essere riconoscibile, ha bisogno di un nome e un volto da associare: ecco, Pommery viene associato al nome e al volto di Mimma Posca. È un bene, oppure un limite? Un bene per chi predilige i rapporti diretti e personali, un limite perché una multinazionale di tale portata dovrebbe essere percepita come un’icona, un colosso: appunto, dovrebbe. E invece l’icona è lei. L’abbiamo presa un po’ alla larga per arrivare al dunque, ovvero la nuova guida Michelin, l’edizione dedicata esclusivamente agli stellati. A pensare bene è la guida che conta di più, perché in 256 pagine trovi solo gli indirizzi, le caratteristiche ed i nomi dei ristoranti e degli chef premiati, mentre la Michelin classica è un tomo di 1092 pagine che comprende segnalazioni, alberghi, trattorie e perfino pizzerie. Mimma Posca e la Michelin, dunque: non Pommery e la Michelin, perché alla presentazione, avvenuta nello show room della maison, i presenti identificavano la maison esclusivamente con Mimma e non con il marchio. Anzi, è lei il marchio. Roba da titani, da numeri uno, da donne Alpha: lei lo é.
MIMMA ha RIDATO
A POMMERY un'anima. HA POI AGGIUNTO CARISMA, personalità, AUTOREVOLEZZA, in pratica ha TRASMESSO i suoi
VALORI AL MARCHIO
No 47
Julia Skalozub
C
ontinua il nostro viaggio erotico, la ricerca di scatti che mette insieme cibo e immagini. Se sosteniamo da sempre che il sesso e il cibo sono Julia Skolazub la conosciamo praticamente da sempre. Quando viveva a Milano era alla perenne ricerca di posti e luoghi dove poter svestire le sue modelle e farle camminare nude. Piazze, fontane, viuzze, cortili, terrazze: era quasi ossessionata, intravedeva ovunque un’occasione. D’altronde le sue fotografie parlano chiaro, sono a dir poco esplicite: forse non ha mai fotografato una donna con degli abiti addosso. Una volta le abbiamo chiesto perché sceglie sempre il nudo: ci guardò stranita per poi risponderci con disarmante schiettezza e semplicità, “Perché no?”. Per lei è naturale, come agli altri viene altrettanto naturale gridare allo scandalo. Julia farebbe la fortuna di qualsiasi rivista, invece in tanti preferiscono puntare su argomenti dannatamente grigi e privi di interesse (ne parliamo anche nella pagina accanto). Già che ci siamo, quando è successo, quando hanno sentenziato che il maschio non vuole più vedere donne
DUE donne
nude, SEduTE, rilassate, che PARLOttaNO e MORSICANO pigramente una mela, COSA PUÒ ESSERE DI PIÙ
INTRIGANTE?
No 48
nude in copertina? E soprattutto chi ha avuto l’idea malsana e in base a cosa? All’improvviso dei sapientoni hanno decretato che l’uomo (inteso come maschio alpha, quello che decide, impone, produce e spende) è interessato solo a salvare il pianeta, a mangiare bio e a guardare in tv documentari sui ghiacciai. Il risultato è che dal momento le riviste hanno avuto un calo notevole, alcune hanno chiuso. Per fortuna qualcuno sta ancora ragionando e si immedesima nel lettore: difatti Julia sta continuando a pubblicare in giro per il mondo, soprattutto nei paesi dell’est europeo, dove le persone hanno voglia di vivere senza freni artificiali, ignorando e deridendo il politically correct. La fotografia che pubblichiamo è di almeno tre anni fa, l’abbiamo salvata già ai tempi per poi aspettare il momento giusto: eccolo. E’ un insieme di irriverenza e talento, di immaginazione e sensualità. Julia piace per questo, perché si spiazza e ti lascia sempre a bocca aperta. Due donne nude, sedute, rilassate, che parlottano e morsicano pigramente una mela, cosa può essere di più intrigante? A proposito, non ha mai fotografato un maschio in vita sua. Ma se le chiederete il motivo, risponderà con un “Perché mai dovrei?”.
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Il Vero Lusso è Concedersi la Qualità. Sempre.