Max D'Andrea Le mie strane idee
Foto: Monica Cordiviola
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NELLA GEOGRAFIA DEL MONDO ALLA SCOPERTA DELLA NATURA E DELL’UOMO
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Editoriale
Tre flash e una certezza
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ine aprile, una giornata piovosa e tre flash che raccontano molto, o forse tutto, sulla ristorazione attuale. Di buon mattino su Facebook arriva la notifica sui ricordi degli anni passati. Fra queste, un breve paragrafo di un libro a dir poco iconico, Kitchen Confidential. Lo pubblicai tempo fa e da allora, ogni anno, lo ripropongo: eccolo. “In cucina non è possibile mentire. E non c’è neanche Dio. Non potrebbe comunque aiutarvi. Nessuna credenziale, nessuna cazzata, nessuna bella frase o nessuna supplica cambierà le cose. La cucina è l’ultimo baluardo della meritocrazia, un mondo di assoluti”. Anthony Bourdain ha ragione da vendere, fin qui è evidente. Quello che colpisce è il modo crudo ed esauriente con il quale riesce a denudare un mondo che troppo spesso si pavoneggia e si guarda allo specchio. Quante volte non sentiamo o leggiamo di chef che raccontano esperienze dai migliori del mondo, tranne poi scoprire che sono dei bluff totali? “Ho lavorato da Blumenthal, da Gagnaire, da Robuchon e Redzepi”. Ok, intanto per quanto tempo? Hai fatto uno stage di due mesi o ci sei stato per tre anni? Curriculum pieni zeppi di nomi altisonanti, poi alla prima prova cadono sull’omelette. E qui arriva il secondo flash, a metà strada fra spavalderia e incoscienza: “No, perché sai, con la mia esperienza non mi va più di lavorare per gli altri, voglio sprigionare la mia creatività, voglio trovare un imprenditore che possa credere ciecamente in me e nella mia esperienza”. “Quanti anni hai?” “26”. Avete capito? Tutta la tua esperienza. A 26 anni. Fra l’altro il ragazzo ama un tipo di cucina che è in
crisi, quella creativa, qualsiasi cosa volesse dire la parola creativo. Ecco, sognare la stella e le pagine dei giornali non è proprio un buon inizio per una carriera. E’ da capire, vista la giovane età, ma non si arriva da nessuna parte pensando alla gloria: certo, l’ambizione individuale, la voglia di imporsi. Ma così pare superficialità, ed è un peccato. Qui arriva il terzo flash: sono stato a pranzo con un bistellato in odore di terza. Siamo andati da un suo collega leggermente meno blasonato, ma bravo e in ascesa. Commento del bistellato, riferendosi ai piatti del collega: “mi piace che non assembla i piatti, ma che cucina tutto insieme. Il pesce è stato cucinato con il tagliolino, non accanto”. Per alcuni sembrerà banale, però mi sembra utile ribadire che si nota subito chi fa le cose per bene e chi invece no. Da far leggere al ragazzo di sopra. E, per tornare a Bourdain, è proprio quello che lui sostiene: se sei bravo lo dimostri. Sennò, ti restano le parole. Vuote.
IN CUCINA non È POSSIBILE mentire. E NON C’È NEANCHE DIO. Non potrebbe comunque aiutarvi. La cucina È L’ULTIMO BALUARDO DELLA MERITOCRAZIA,
UN MONDO DI ASSOLUTI
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Il pesce scimmia di Trussardi A DUE MESI di DISTANZA ABBIAMO capito COSA VOLESSE dire trattoria di lusso: IL MENÙ PREVEDE LA COTOLETTA a 50 euro, IL FILETTO a 45, piccione a
40 E MERLUZZO A 40
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l signor Trussardi Tomaso ci scuserà, ma noi continuiamo a non capire la sua rivoluzione gastronomica: parliamo del ristorante della maison, dove fino a due mesi fa regnava Roberto Conti. Era un punto cardine della Milano fine dining fin dall’apertura con Andrea Berton in cucina, quasi dieci anni addietro: si arrivò a due stelle Michelin e lo chef ha sempre sostenuto che se fosse rimasto per un altro paio di anni sarebbe arrivata perfino la terza. In effetti, il livello era davvero altissimo. Di recente la maison è stata ceduto ad un fondo di investimenti (QuattroR) e come logica conseguenza ci furono dei cambiamenti anche per quello che riguarda il ristorante. In una intervista tutta fanfare (e tutta in ginocchio, vabbè), Tomaso raccontava della nuova filosofia del locale: “Basta cucina stellata, si cambia, ci sarà una trattoria di lusso”, diceva alla giornalista che batteva le mani felice. Umilmente avevamo chiesto cosa fosse esattamente una trattoria di lusso e si infuriò assai. Lo capiamo, forse abituato a domande e stampa tappetino, ma era una domanda lecita e legittima. A due mesi di distanza abbiamo capito cosa intendesse dire: il menù prevede la cotoletta a 50 euro, il filetto a 45, piccione a 40 e merluzzo a 40. Tralasciando sui prezzi, l’offerta non pare allettante. Ha senso tutto ciò? Pensavamo a qualcosa di sorprendente, piatti intriganti e coinvolgenti, proposte da non poter dire di no, un cambio di rotta forte e frizzante, vigoroso e clamoroso. E invece la montagna ha partorito un topolino. Forse è presto, chi lo sa. Il nuovo chef, Paolo Begnini (arrivato da Bergamo, da La Brughiera) si è insediato da poco, ma comunque il primo
menù avrebbe dovuto essere spumeggiante, si trattava del suo biglietto da visita. Quello che fa un po’ specie è che in carta c’è anche il menu degustazione, che però appartiene a Roberto Conti, a Parma già da due mesi. A proposito: mai visto un menù presentato in una maniera più sciatta e superficiale, passate davanti al ristorante per vedere e credere. Un foglio word qualsiasi, la divisione dei piatti in “I pesci” e “Le carni”, errori di punteggiatura e anche di traduzione, per non dire della goffaggine di alcune situazioni, come per esempio informare la clientela italiana che la bistecca viene calcolata all’etto, mentre alla clientela straniera viene detto che si calcola al grammo. Noi abbiamo fatto la foto ma non intendiamo pubblicarla, sarebbe umiliante. Per la cronaca, non avevamo mai letto in vita nostra qualcosa come “I Pesci”: meschino davvero. Poi piccola osservazione, la rana pescatrice si traduce monkfish, non monkeyfish, ammesso che la nostra parola potesse valere qualcosa. E poi “catalana style”, insomma, cosa sarebbe? Con lo stuolo di consulenti, manager food and beverage, ufficio stampa, pr e tutto il resto ci pare il minimo presentare un menù scritto correttamente. Mancanza di stile, di passione: chi l’avrebbe mai detto, solo qualche mese addietro? Si sta ripetendo, quasi alla pari, la situazione del ristorante Armani di un anno addietro. Facciamo ciao ciao con la manina alla stella Michelin, d’altronde al signor Trussardi non interessa più, lo ha dichiarato lui stesso nella medesima intervista in ginocchio.
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Max D'Andrea THE FISHER
È UN RISTORANTE particolare, NON ITALIANO, bensì internazionale, per gente che ama DIVERTIRSI E MANGIARE bene, per un PUBBLICO ADULTO, di spessore. DICIAMO CHE è un posto che non può lasciarti INDIFFERENTE
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Max D’Andrea The Fisher é straordinario, è un posto ricco di fascino, ideato e costruito senza un punto debole, è un luogo formidabile, dove tutto può accadere e dove si mangia bene, dove non si spende tanto e dove hai una voglia verace di tornare già domani. È un posto per nulla italiano, è più losangelino, oppure londinese, è un po' anni Trenta e tanto cosmopolita, la gente entra sognante ed esce frastornata dal piacere. In mezzo a tutto questo Max D’Andrea ci sguazza, gli piace vedere la gente contenta e fa di tutto per accontentarla
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Matteo Metullio C he arrivi la seconda, aspettando la terza. Se lo merita.
Intanto, l’uomo è già entrato nella storia dell’Italia gastronomica: è stato il
Matteo Metullio
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più giovane chef ad avere conquistato la stella Michelin, quando aveva appena compiuto 24 anni. Un predestinato, insomma. Matteo Metullio ha tutte le carte in regola per una carriera brillante, fra l’altro già in essere: se dovessimo scommettere, metteremmo una grossa somma sulla sua terza, di stella. Non domani, non dopo, ma nell’arco di dieci anni potrebbe arrivare.
Gianfranco Vissani Doveva essere una chiacchierata di cinque minuti, per una breve scheda. Ma quando chiami Gianfranco Vissani il tempo vola e soprattutto si spazia, perché l’uomo è sempre in vena di commenti veri e acidi, duri e puri, diretti e schietti. E’ un vulcano, a tutte le ore. Un gigante buono, con un cuore d’oro e con una mano raffinata. Forse il suo linguaggio turba le anime belle, ma è proprio per questo che va difeso, sostenuto, apprezzato e applaudito.
Gianfranco Vissani
Stefano Cerveni
Stefano Cerveni Da Rovato nel centro di Milano. Dalla nonna alla Michelin. Dalla trippa al
bowl vegetariano. Dall’anguilla psichedelica alla focaccia 12. La provincia e la tradizione, che ti portano in cima al mondo e nel posto più chic della città più cosmopolita d’Italia. Tanta gavetta, ma ne è valsa la pena, perché ora si gusta il successo con la consapevolezza di aver creato qualcosa di solido e duraturo, di gustoso e intrigante. Due Colombe, Terrazza Triennale, Gud: Stefano ha seminato bene e ora raccoglie le soddisfazioni, gastronomiche ed economiche.
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Sogni d’estate
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artiamo dai fatti, prima che dalle emozioni. La foto è stata pubblicata nel libro “Krug x Fish - Un mare di racconti”, il quarto della serie proposta dalla maison di champagne. La “trama”: dodici chef, rigorosamente ambassador Krug, sono stati portati in mare aperto alla ricerca di un singolo ingrediente per poi creare una ricetta da abbinare, ovviamente, alle bollicine della maison. C’è tutto in una sola immagine: il sogno, la vacanza, il mare, lo champagne, automaticamente pensi anche alla persona che vorresti accanto per una cena a base di Krug e pesce, in un posto ovviamente vista mare. Perché, si sa, i confini fra l’amore e l’appetito a volte sono così labili da confondersi completamente. E poi non si può separare l’erotismo dal cibo, non esiste alcun buon motivo per farlo. La vita ideale, o per lo meno i momenti ideali. Intensi, romantici, indimenticabili, vibranti, eccitanti, da pelle d’oca, per chi vive con l’ossessione di una instancabile
appetito di sensazioni. C’è una vita intera in un solo attimo, soprattutto se l’attimo è così carico di passione. Fin qui l’idea straordinaria della maison. Poi ci sarebbe un discorso molto collegato, ma che ovviamente non riguarda Krug, bensì il mondo della comunicazione e del marketing in generale: solitamente sfornano zero idee. Non arriverebbero mai a creare qualcosa d’impatto. Pochi giorni addietro uno dei più importanti uomini dell’editoria ci ha fatto vedere tre offerte di collaborazione. In pratica tre giganti industriali gli hanno proposto un contratto per occuparsene della comunicazione. Ovvero, oltre ai vari manager, uffici marketing e chi ne ha più ne metta, volevano anche lui, che poi probabilmente sarebbe stato quello che avrebbe risolto e creato tutto. Ci vogliono le persone giuste per creare la magia, l’effetto wow, il sogno: guarda caso, quasi mai sono quelle pagate per farlo. E sempre gente esterna.
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Max D’Andrea Il mago delle good vibes Di Dominique Antognoni Foto: Monica Cordiviola
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on so voi, io però me lo chiedo sempre, anche tante volte nell’arco di un’ora. “E’ qui che voglio trovarmi, al miliardo per cento?”. La domanda vale quando sono assieme ad una donna, quando mi trovo, spesso mio malgrado, con altre persone e perfino quando mi trovo in un ristorante. Se la risposta è no, allora giro i tacchi e me ne vado, la vita vale solo se vissuta al miliardo per cento con chi vuoi e dove vuoi, altrimenti meglio lasciare stare subito. Avere accanto e attorno persone
che non ti piacciono e non ti esaltano completamente è uno spreco di tempo imperdonabile. Un’altra domanda ricorrente è “Qual è stata la miglior giornata della mia vita? Quella di oggi può diventarla? Ho fatto abbastanza perché lo fosse?”. Siccome si vive esclusivamente per essere leggeri e spensierati, sognanti ed entusiasti, mi trovo sempre alla ricerca della giornata indimenticabile, solo che uno si deve pur muovere nella direzione giusta perché ciò accada. Ecco, andare a cena al The Fisher é una garanzia in tal senso. In questo momento
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IL MENÙ è
non esiste a Milano un altro posto che possa caricarmi e farmi sentire così felice: l’atmosfera è a dir poco ipnotica fin dall’ingresso. Appena entri hai la cucina a vista davanti a te, mentre sulla destra si intravede il tavolo da gioco utilizzato come banco del bar. Dietro al bancone c’è lei, Angelica, è già ti pare di trovarti in una fiaba, come le pubblicità d’antan di Campari e simili. E’ una fiaba lei, è una fiaba quel ronzio piacevole della gente che parla felice: l’ho già scritto e lo ripeto, perché in un locale c’è qualcosa che non si può comprare, ancor meno imparare, oppure insegnare: le good vibes. Qui ce ne sono a non finire, anzi, strabordano, più ci torni e più le percepisci, in un crescendo di emozioni e vibrazioni che non ti basta mai e sarebbe un delitto ti bastassero. L’ultima volta che ci sono stato era tutto così bello, intenso e adrenalinico da sembrarti di vivere la miglior giornata della tua vita, tanto per tornare alla domanda iniziale. Pareva di essere a Capodanno e invece era un qualsiasi giovedì di inizio giugno: man mano che il tempo passava mi sentivo come ipnotizzato dalla gente e dall’atmosfera, c’era in aria quel rumore piacevolissimo, la gente sprigionava la felicità assoluta. Il merito va a Maximilian D’Andrea, è uno dei pesi massimi della ristorazione italiana e non solo, visto che El Carnicero a Ibiza sforna numeri da sballo (fra l’altro è il ristorante più capiente dell’isola, non a caso si arriva a 500 coperti ogni sera). Le vibrazioni non si comprano, dicevo, non si impara e non si insegna come trasmetterle, uno ha questo dono oppure no. Lui ci riesce, forse nemmeno lui sa come. Certo, i piatti di Rafael Rodriguez aiutano, e tanto, tantissimo, ma hai la sensazione che pure lui si lascia trascinare da Max in questa impresa
MOLTO ARTICOLATO, non ci SIAMO LIMITATI AI SOLITI PIATTI CHE TROVI nei classici ristoranti DI PESCE, non a caso ho portato qui RAFAEL
RODRIGUEZ
fantastica chiamata The Fisher. Poi certo, c’è Angelica e anche Joy, l’altro bartender, perché Max sa come toccare le corde giuste, dove insistere e dove far colpo, accontentando sia le donne che gli uomini in cerca di forti sensazioni, visivamente ed esteticamente parlando. Alle 21 il piano terra era stracolmo (il locale ne ha quattro, di piani), la gente sprizzava felicità da tutti i pori, avevi la sensazione che nessuno intenzionasse minimamente di lasciare quel posto così carico di bellezza, di sensazioni e di piacere. E’ straordinario, è un posto ricco di fascino, ideato e costruito senza un punto debole, è un luogo formidabile, dove tutto può accadere e dove si mangia bene, dove non si spende tanto e dove hai una voglia verace di tornare già domani. E’ un posto
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per nulla italiano, è più losangelino, oppure londinese, è un pò anni trenta e tanto cosmopolita, la gente entra sognante ed esce frastornata dal piacere. In mezzo a tutto questo Max ci sguazza, gli piace vedere la gente contenta e fa di tutto per accontentarla. Il giorno successivo, alle 19.30, con il locale deserto, ma con Angelica già pronta per mescolare i suoi cocktail magici, eccomi a parlare con lui, in una sorte di casino creativo, con cuochi che iniziano a preparare la linea e camerieri che girano senza soste, ultimando la mise en place e aspettando la clientela. - Si aspettava un successo del genere, già da subito? - Onestamente me l’aspettavo più facile, oggi la concorrenza è feroce, qualche anno fa avrei avuto una vita più in discesa. - Comunque sono visceralmente convinto di poter fare la differenza con questo locale, vivo per questo. - Finora si può considerare contento di come vanno le cose? - E’ presto per dirlo. - Vista l’importanza dell’investimento e la grandeur del posto, The Fisher è un punto d’arrivo? E’ la sua opera definitiva? - Per nulla, è solo un punto di partenza. - Possiamo fare un primo bilancio e inquadrare The Fisher, a otto mesi dall’apertura? - E’ un ristorante particolare, non italiano, bensì internazionale, per gente che ama divertirsi e mangiare bene, per un
pubblico adulto, di spessore. Diciamo che è un posto che non può lasciarti indifferente. Se lo capisci ed entri nel mood lo apprezzi, altrimenti lo critichi. Il menù è molto articolato, non ci siamo limitati ai soliti piatti che trovi nei classici ristoranti di pesce, non a caso ho portato qui Rafael Rodriguez. - Di lui e del vostro incontro mi aveva già parlato due numeri fa.
E' UN RISTORANTE CHE VEDREI BENE a Miami, a LOS ANGELES, a New York, DUBAI, BUENOS AIRES e
OVVIAMENTE A IBIZA
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Causushi, ovvero omaggio alle patate peruviane
- Sono sempre più convinto di aver fatto la scelta giusta, puntando su di lui. Come le ho già raccontato nel passato, io sono cresciuto fra Venezuela e Miami, per cui ho sempre assaggiato e amato la cucina sud americana e contaminata. - A Miami andavo quasi sempre in un ristorante peruviano, Ceviche 105, mi piaceva da matti. L’estate scorsa mi trovavo in Sardegna, Rafael lavorava da quelle parti, ho assaggiato due piatti e gli ho fatto subito una proposta, per fortuna ha accettato subito. - The Fisher è replicabile altrove? - Si, certo, però è impegnativo, non è un format facile da portare altrove, ci vuole la gente giusta. Di sicuro è un ristorante che vedrei bene a Miami, a Los Angeles, a New York, Dubai, Buenos Aires e ovviamente a Ibiza. - E’ un ristorante nato e creato in base ai suoi gusti? Si, perfin troppo. E’ un limite e un vantaggio allo stesso tempo. Un limite perché solitamente devi immedesimarti nel cliente, un vantaggio perché lo vivo in maniera più viscerale, sentendolo mio al milione per cento. Diciamo che ho pensato che tutti fossero come me e che avessero i miei gusti, con il sennò di poi un po’ mi fa sorridere. - Quando l’ha immaginato e disegnato, a chi pensava in maniera particolare? Mi dica un nome, un personaggio che aveva in mente di vedere seduto qui al The Fisher. - Cindy Crawford. - Proviamo a scegliere tre aggettivi per raccontare il ristorante. - Eclettico, sensuale, diverso. - Già che ci siamo facciamo una veloce carrellata sugli altri ristoranti che possiede: El Carnicero, come lo possiamo definire?
THE FISHER é un RISTORANTE PARTICOLARE, non italiano, BENSÌ INTERNAZIONALE, per gente che AMA DIVERTIRSI E MANGIARE BENE, per un pubblico adulto,
DI SPESSORE
- Friendly, vincente, chic. Parlo per quello in Via Spartaco, quello in Corso Garibaldi invece è più commerciale e per un target over 40. - Tornando al The Fisher, chi le piacerebbe avere a cena come cliente? - Donald Trump. Da vincente a vincente.
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Rafael Rodriguez Da Lima con amore
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o chef è contento, lo si capisce al volo, basta guardarlo come sorride quando parla della sua brigata, dei clienti e di Maximilian. Però mette le mani avanti: “Siamo ancora in rodaggio. L’idea è quella di proporre una cucina europea e mediterranea con qualche tocco peruviano, Nikkei e giapponese, però ci vuole ancora un po’ tempo per essere dove vogliamo. Abbiamo cambiato tanto, sono rimasti solo i ragazzi con una mentalità aperta, che hanno voluto allargare i loro orizzonti. Ora c’è davvero una grande sintonia in cucina, con Max l’empatia è totale, la clientela ci trasmette una carica infinita, l’atmosfera è straordinaria”. - Lo senti tuo, The Fisher? - Si, tanto. Mi piace l’entusiasmo dei ragazzi, la clientela, il fatto che pian piano hanno accettato i miei piatti e le mie contaminazioni, le mie idee. - Non è facile arrivare in un posto del genere e soprattutto a Milano, dove la gente è assai conservatrice per quello che riguarda il pesce. - Difatti è difficile che il cliente milanese possa andare oltre il branzino, l’orata e il rombo. Il mio primo “compito” è stato quello di capire i loro gusti: pian piano sto riuscendo a convincerli, spostando i gusti verso le mie terre, e non parlo solo del pesce. - Un esempio? - Il risotto al camarillo, che ha sostituito lo zafferano. - Quali sono i piatti più richiesti? - Ovviamente i carpacci, le tartare, mentre per quello che riguarda i caldi va tanto la pasta al crudo, il risotto nero di seppia, la catalana e l’anticucho di polpo, ovvero degli spiedini. - Solitamente quanti piatti prende un cliente? - Gli uomini tre, le donne due. Lo scontrino medio viaggia sugli ottanta, novanta euro. - I tuoi piatti sono assai difficile da abbinare ai vini, vista l’acidità e il resto: cosa suggerisci e cosa va già per la maggiore? - Anna Maria Clementi si abbina perfettamente, idem il Perlé di Ferrari. - La soddisfazione più grande finora? Un cliente ha intinto il dito nella salsa, ha preso un foglio di carta per poi scrivere “Complimenti”.
I PIATTI più RICHIESTI? OVVIAMENTE i carpacci, le tartare, MENTRE PER QUELLO che RIGUARDA I CALDI va tanto la PASTA AL CRUDO, il risotto nero di SEPPIA, la CATALANA e
L’ANTICUCHO DI POLPO.
Rafael assieme a Kasumi Soga (a sinistra) e Marco Spada (a destra)
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Terry Giacomello L’erede di Adrià
Cuore di razza rendena marinato in succo di rapa rossa
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a nuova scuola di cucina sta all’antica arte culinaria come il cubismo alla vecchia pittura”. Lo diceva un secolo addietro Guillarme Apollinaire, lo dovrebbe leggere Edoardo
Raspelli. Chi ha sfogliato l’ultimo numero se lo ricorderà, l’articolo su Terry vittima di un attacco a dir poco pittoresco e fuori luogo, firmato proprio Raspelli Edoardo. In pratica, per chi non ha letto e per chi ha rimosso l’essenza dell’articolo: il critico gastronomico va al ristorante Inkiostro con le idee ben chiare, parlar male di Terry ed esaltare le trattorie con piatti di pasta da 200 grammi e sugo abbondante. Un patetico tentativo per avere un po’ di attenzione, magari qualche like, tentativo andato malissimo, come sempre, perché perfino un bambino sa che in certi luoghi non vai per placcare la fame, bensì per assaggiare, tant’è vero che è meglio andarci senza un appetito verace. Sarebbe stato un episodio di poco conto se non fosse che, a pochi giorni di distanza, siamo andati pure noi da Terry. Appena entrati, abbiamo guardato nella sala per vedere se Raspelli fosse tornato. In pratica ci aveva condizionati, ovviamente in negativo: lo immaginavamo come a fatica riusciva a capire quella cucina fine, estrema e raffinata.
D’altronde, ad ognuno il suo. Va detto che poi, superato il disorientamento iniziale, siamo tornati a essere sognanti e felici di trovarci lì e aspettavamo, altro condizionamento, di vedere spuntare Ferran Adrià. Lo si sa, Giacomello è l’unico italiano ad aver lavorato per così tanto tempo con Ferran, quattro anni e mezzo. Ci aspettavamo di incrociare anche Andrea Grignaffini, uomo colto e critico gastronomico di livello altissimo, uno che abita dietro e che in pratica è di casa all’Inkiostro. Non c’era, però gli abbiamo chiesto di “inquadrare” lo chef con le sue parole sapienti: “Terry è un cuoco che se con la testa e la parola va ai mille all’ora, sull’approccio al piatto invece è metodico, passista, perfezionista. Ossessivo per l’esotico sia come tecniche che come ingredienti sposta la sua cucina sul fronte global molto più rispetto al local. Maniacale nel dettaglio, se prende spunti dai cuochi planetari le sue opere restano assolutamente personali dacché la sua altra ossessione è di essere sempre originale, originalissimo. Poi dettagli ed estetica: i suoi piatti - complicatissimi evocano la brillantezza e la luce risultando tra i più belli e nitidi e definiti della cucina contemporanea”. Visto che non si poteva scrivere e pretendere un’introduzione
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migliore, noi passiamo direttamente alle domande e alle risposte. Prima però una breve annotazione: tanto di cappello a Francesca Poli, la proprietaria del ristorante Inkiostro: scegliere una strada così difficile, ovvero la ristorazione d’avanguardia, comporta dei rischi notevoli, ma il vero imprenditore è proprio questo. Ha saputo aspettare, ora vede il ristorante pieno. Non che prima ci fosse una certa diffidenza nei confronti di Terry e della sua cucina, ma è difficile, numericamente parlando, stare a Parma e avere clienti a iosa per un determinato tipo di ristorazione. Dieci e lode, nulla da dire. E ora partiamo. - Si è mai pentito di aver intrapreso una strada così tortuosa e piena di resistenze? - Non possiamo vivere per sempre ripetendo a manetta “la mia nonna lo faceva più buono”, prima o poi si dovrà pur guardare avanti. Attorno a noi è tutto cambiato, solo in cucina stiamo a sospirare sognando il sugo della mamma. Certo, è tutto gustoso, rassicurante, goloso, ma siamo nel 2019 e rimanere fermi non si fa una bella figura. E’ vero che siamo un popolo vecchio e attaccato alle radici, il che è per certi versi ammirevole, ma la cucina deve guardare avanti, come la tecnologia e il resto. A pensar bene perfino nella ricerca l’Italia è agli ultimi posti, per cui qualcosa di vero c’è, in quello che dico. Si può andare oltre, credetemi. - Difatti tornato in Italia non fu facile, a La Siriola ci furono dei malintesi. - Ricordo che nel 2010 presentai un piatto fuori carta al signor Wieser, un baccalà cotto sotto olio, con brodo di pastasfoglia tostato, aglio nero e ciliegie Umeboshi: mi disse che una creazione del genere non poteva uscire in sala. Risposi: “Se il piatto piace alla gente resto, se non piace me ne vado un secondo dopo”. Ovviamente, piacque e restai: due giorni dopo mi chiese come mai non abbiamo il piatto in carta. “Perché a lei turbava assai il mio tentativo di osare e opponeva resistenza”. - Non deve essere facile dover affrontare sempre critiche e bacchettate. - All’inizio si oppone sempre resistenza, è normale. Spesso si viene prevenuti, e qui vado oltre alla visita di Raspelli: giorni fa un cliente prese il piatto “muffa in una mela”. Mi chiamò sdegnato e disse, con quel complesso di superiorità assai irritante: “Sa di cadavere”. “Beato lei che sa com’è il sapore del cadavere, io non lo so”, risposi. Che altre avrei potuto dire? - Con un menù del genere non si rischia di veder venire meno le coppie e di avere solo avanguardisti solitari? - Solitamente quando si viene in coppia uno prende a la carte, l’altro il menù degustazione.
STUDIO e scopro SEMPRE INGREDIENTI NUOVI, ora sto sviluppando delle TECNICHE LEGATE ALL’EVAPORAZIONE del sale e degli zuccheri, LAVORO sulle
RESINI DEGLI ABETI
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STAMATTINA ho VISTO IL PIATTO di uno, NON FACCIO IL NOME: ostrica con la sua perla. E’ una CREAZIONE di
ADRIÀ DEL 2005
- La tua cucina come si è evoluta? - Studio e scopro sempre ingredienti nuovi, ora sto sviluppando delle tecniche legate all’evaporazione del sale e degli zuccheri, lavoro sulle resini degli abeti e poi ci sarebbe un progetto che per ora tengo per me, finché non lo perfeziono al massimo. - Su cosa mette l’accento, in questo periodo? - Ho fatto una pasta con la farina di fieno, in pratica il jus sa di paglia tostata, mentre il ripieno è a base di salame. Vorrei sviluppare il progetto con la Barilla, siamo vicini di casa. - Adrià lo sente ogni tanto? - Non più di tanto, ha molto da fare, ci siamo visti l’anno scorso, sento spesso Oriol Castro e Albert, che sono andati per conto loro, aprendo dei ristoranti. - E’ finita l’epoca di Adrià? - Stamattina ho visto il piatto di uno, non faccio il nome: ostrica con la sua perla. E’ una creazione di Adrià del 2005. La ripropongono a 15 anni di distanza, passandola per nuova. - Cosa rimane di quell’epoca?
- Saper guardare oltre, vedere e immaginare gli ingredienti da una luce diversa. Rimangono i concetti, le tecniche. - Lei come arrivò alla sua corte? - Sentivo in giro delle critiche feroci su questo chef spagnolo, Ferran Adrià. Non lo conoscevo, però mi intrigava l’astio degli altri, Così che nel 2002 andai a Torino e lo braccai, era al Salone del gusto. Lo bloccai e gli chiesi di prendermi da lui come stagista. Mi disse di chiamare Albert Raurich, il proprietario di Dos Palillos, lui parlava un po’ l’italiano perché aveva lavorato assieme ad un friulano. Un anno dopo mi presero, come promesso, ma senza incassare un euro. Pochi mesi e mi chiesero se fossi interessato ad essere assunto: era l’agosto del 2003, per esattezza il 10 di agosto. - Quando sei andato da lui ti sentivi pronto? - Stavo già lavorando con Corrado Fasolato, lui aveva fatto uno stage con Adrià, per cui avevo qualche idea su quel mondo. - Pronti via cosa hai dovuto imparare e preparare, lì da lui? - Ero sotto Jordi Parra, ci occupavamo della parte fredda: sferificazioni, tartare di seppia, prosciutto di tonno. L’atmosfera era fantastica, tanto che dopo tre giorni volevo già rimanere a vita. - Lui come si comportava con voi? Spiegava, parlava a bassa voce, urlava, sbraitava? - Per prima cosa la mattina ci ricordava di non abbassare mai la guardia. Poi ci diceva, faccio un esempio, oggi è arrivato un ingrediente particolare dal Giappone, proviamo a inquadrarlo e a capire come possiamo prepararlo. Eravamo in sei, massimo otto a preparare i nuovi piatti, sotto la guida di Oriol Castro: ognuno diceva la sua, poi Ferran decideva se il piatto andava in carta oppure no. Poi no, non urlava, era ed è davvero umilissimo. - Da lui si ambiva alla perfezione? - Si ambiva, ma la perfezione non esiste, perché la zucca che ti arriva oggi domani non è la stessa. Di sicuro era tutto pesato al grammo, dalla farina al gambero, ed eri agevolato nel fare
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le cose per bene, vicini alla perfezione. - A quei tempi era uno dei pochi ristoranti con lunghe attese, voi come vivevate tutte queste aspettative della gente? - Quando sai che ti arriva gente da Sydney e Tokio sei consapevole del fatto che non puoi sbagliare, sai che si aspettano tantissimo, d’altronde eravamo il miglior ristorante al mondo. - Quanto si pagava ai quei tempi? - Nel 2007 lo scontrino medio si aggirava sui 250 euro senza vino, un’enormità per quei tempi. - In quanti eravate in cucina? - Dai 36 ai 42. - Quante volte cambiava il menù? - Una volta l’anno. - Cosa l’ha impressionato di più in quel periodo? - Due cose: la prima, era vietato leggere libri di cucina, perché secondo Ferran se guardavi i piatti degli altri potevi essere influenzato e dunque si rischiava di copiare. La seconda, per davvero lì ti sentivi parte di una grande famiglia. - Oggi chi fa ancora quel tipo di cucina? - Andoni Mugaritz, Alinea a Chicago, Oriol Castro al Disfrutar (lì ci sono in tre, gli altri due sarebbero Eduard Xatruch e Mateu Casanas), poi Angel Leon all’Aponiente, Redzepi e Matias Perdomo. Fra questi Redzepi è quello che sperimenta di meno. - Terry, perché ha lasciato Ferran? - Sarei rimasto a vita, però volevo volare da solo. Ecco, aggiunga anche Inkiostro, fra quelli che fanno ancora la cucina di Adrià.
Mezze maniche di prosciutto
ERA VIETATO LEGGERE libri DI CUCINA, perché secondo Ferran se GUARDAVI I PIATTI DEGLI ALTRI POTEVI essere INFLUENZATO e dunque si
RISCHIAVA DI COPIARE
Pacchero con calamaro, aglio nero e olio alla vaniglia
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Matteo Metullio
Spaghetti freddi e stellati
Toast di scampi e pollo di Bresse affumicato
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he arrivi la seconda, aspettando la terza. Se lo merita. Intanto, l’uomo è già entrato nella storia dell’Italia gastronomica: è stato il più giovane chef ad avere conquistato la stella Michelin, quando aveva appena compiuto 24 anni. Un predestinato, insomma. Matteo Metullio ha tutte le carte in regola per una carriera brillante, fra l’altro già in essere: se dovessimo scommettere, metteremmo una grossa somma sulla sua terza, di stella. Non domani, non dopo, ma nell’arco di dieci anni potrebbe arrivare. Considerando che a 28 anni ne aveva già due (ai tempi di La Siriola), ci pare assai normale pensare che lo step successivo sarà la terza, ci pare quasi inevitabile aspettarcela e da parte sua provarci visceralmente. Certo, nulla è scontato e prevedibile, la Michelin ha i suoi principi, ma sarebbe soltanto una giusta e logica conseguenza. È uno di quelli che vive per fare della ristorazione uno spettacolo, uno che difficilmente gira a vuoto, che sa il fatto suo e che non ha tempo da perdere in discorsi e percorsi superflui e superficiali. È uno deciso, tosto, con la testa sulle spalle, che sta andando
diritto per la sua strada. Guardate l’Harry’s Piccolo & Bistrò di Trieste: ne ha preso le redini, trasformandolo in un gioiello straordinario, gastronomicamente parlando. Per capire fin da subito il personaggio, sentite la storia del suo piatto più rappresentativo, lo spaghetto freddo a chilometro 4925. Iniziamo da qui, perché vi farete un quadro assai completo su di lui, le sue conoscenze, il talento e la voglia che arde in lui. - Dunque, lo spaghetto freddo. - Confesso, la parte più difficile è stata la scelta della pasta. Abbiamo fatto una ricerca spasmodica, fermandoci a sei tipi, per poi sceglierne uno soltanto. Perché la pasta quando si raffredda diventa o troppo al dente, oppure troppo poco, in base alle caratteristiche di ognuna. Risolto questo, siamo passati ai pomodori: all’inizio mettevamo i vesuviani, poi i pomodorini del Piennolo, poi abbiamo deciso per entrambi, tranne poi cambiare idea e passare al pomodoro Piccadilly e infine al San Marzano. Dopo tanti tentativi siamo arrivati alla perfezione, difatti ora utilizziamo tre tipi, frullati in parti uguali: sono i
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Piccadilly, i San Marzano e i Piennolo. I problemi compaiono quando finisce la stagione: certo, congeliamo l’acqua al pomodoro, ma non è esattamente la stessa cosa. Abbiamo trovato un compromesso, nel senso che abbiamo ideato il risotto con gli stessi ingredienti, che è subito diventato un must, qui all’Harry’s. - Come cambia la vita dopo la stella, soprattutto quando sei un ragazzo di 24 anni? - La stella è una opportunità, entri a far parte di un club esclusivo. Però secondo me la vita cambia soprattutto quando passi da una stella a due, il mercato ti guarda con occhi diversi, aumenta in maniera considerevole il tuo valore. Certo, la differenza sta sempre fra avere due stelle e il cassetto del ristorante pieno, oppure averle con il cassetto vuoto: diciamo che più che i riconoscimenti della Michelin si deve provvedere agli incassi, badare al sodo. - Torniamo alla prima stella. - Diciamo che La Siriola ce l’aveva già, era da tempo uno di quei posti iconici, per lo meno a livello italiano. Ci erano già passati chef di primo livello, vedi Terry Giacomello, Corrado Fasolato, Nino di Costanzo e Claudio Melis, per cui io ho solo dato continuità, Da sinistra: Alessandro Buffa, Davide De Pra e Matteo non me la sento di prendermi troppi meriti, anzi. - Come sei arrivato lì? è UNA - Avevo fatto quattro anni al St.Hubertus, partendo dalla posizione OPPORTUNITÀ, entri a far PARTE DI UN di commis. A La Siriola arrivai come CLUB ESCLUSIVO. Però secondo me la vita sous chef di Fabio Cucchelli, che poi lasciò all’improvviso. Mi trovai CAMBIA SOPRATTUTTO quando passi da solo proprio il venerdì prima di Pasqua: il signor Wieser, titolare della struttura, mi diede fiducia e poco dopo il periodo festivo mi chiese se mi sarebbe piaciuto diventare - Guardando indietro, ti vedi maturato, rispetto al periodo executive chef. Così, nell’estate del 2014 creai il mio primo della prima stella? menù, un mix fra sicurezza e osare, venticinque piatti nuovi: - Penso che lo fossi già a quei tempi, umanamente e ero davvero al settimo cielo e soprattutto molto orgoglioso. professionalmente parlando: poi ovvio che se guardo indietro La famiglia Wieser è stata straordinaria, non solo perché mi vedo bene la mia crescita, diciamo che oggi non riproporrei ha lasciato fare senza interferire, ma non abbiamo mai avuto un buon 85 per 100 dei piatti di quel periodo. Mi rimane una discussione e non ho mai sentito sul collo il loro fiato. in mente però la variazione del foie gras, un piatto spinto Pensate che il direttore della guida Michelin chiamò in prima e tecnico, all’avanguardia. È diventato uno dei miei iconici, persona per avere delle rassicurazioni sul cambio in cucina. Per un gran piatto: c’è la creme brulé con le pere Williams, la la cronaca, Stefan Wieser si occupava lui stesso del servizio in scaloppa di foie gras, un pan brioche meraviglioso. Un altro sala, la sua presenza è stata totale e fondamentale. Se posso che ho lasciato in carta fino alla fine è stato il pacchero di aggiungere una cosa, l’anno successivo avevo lasciato in carta trota affumicata con la stracciatella di burrata, dove la solo sei piatti di quei venticinque.
LA STELLA
DA UNA STELLA A DUE
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pasta veniva cotta in un’acqua all’amatriciana. - Con la seconda stella cos’è cambiato? - Tutto. In carta avevamo cinque, dico cinque, menù degustazione. Alcuni clienti abituali non sono tornati, dall’altra parte però arrivavano da tutto il mondo. C’era gente che partiva da New York, atterrava a Venezia, poi veniva per una cena da noi e il giorno seguente per una da Norbert, dopo di che ripartivano. Fra l’altro è successo che noi Matteo Metullio siamo passati da una stella due nello stesso anno nel quale Niederkofler è passato dalle due alle tre. - Poi, un anno dopo, hai detto stop. - La situazione era diventata impossibile da gestire. Elena era già incinta di Nicolò quando ho preso la seconda, difatti ha partorito quattro mesi dopo, nel febbraio del 2018. Per alcuni mesi ho fatto su e giù, avanti e indietro, perché lei era andata dai suoi, a Viterbo. Quando è nato Nicolò sono partito dall’Alta Badia alle 23, per arrivare a vederlo in mattinata, avevo la febbre. Non voglio fare la vittima, ma ero sempre in viaggio, fra ristorante, trasferte all’estero e Viterbo, mi pareva di fare un torto a tutti: a malincuore ho dovuto scegliere di lasciare il ristorante. Diciamo che il signor Wieser è stata la persona giusta nel momento sbagliato. Loro, la famiglia, dopo 40 anni di attività, hanno deciso di mettere la parola fine, non se la sono sentita di continuare senza di me, era tutto impostato in un modo perfetto, dalla sala del ristorante a quella cioccolato dove si serviva il dessert. Ci eravamo dati delle abitudini, non si immaginavano il locale senza di me, non avevano le energie
per ricominciare con un altro chef. Il giorno dopo abbiamo chiamato insieme la Michelin dando loro la notizia: la presero bene, ci fecero i complimenti per tempistica e correttezza. Comunque l’albergo è ancora vivo e splendente, ci sono altri quattro ristoranti all’interno della struttura (Ciasa Salares, ndr). - E così ti sei trovato ad avere tutto il tempo del mondo per te, Elena e Nicolò. - Non proprio, avevo già preso la consulenza all’Harry’s, non mi pesava pensare i menù per due ristoranti perché La Siriola era stagionale, solo sette mesi l’anno. Mi consultavo spesso con Remo Capitaneo, mi diceva che è dura all’inizio, quando si imposta la cucina, poi va tutto in maniera più tranquilla. - Ecco, l’Harry’s: cosa si mangia? - Ci sono due opzioni, una gourmet e l’altra meno impegnativa, al bistrot. In pratica si tratta di due modi di intendere la buona cucina, tant’è vero che la clientela opta per entrambe, in base
LA FAMIGLIA WIESER è stata straordinaria, NON SOLO PERCHÉ MI HA LASCIATO fare senza interferire, ma NON ABBIAMO MAI AVUTO UNA DISCUSSIONE e non ho mai sentito sul collo IL LORO
FIATO
Piccione, foie gras, insalata di fragole e lamponi
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al tempo che ha a disposizione e al mood del giorno. Non sempre si ha voglia di un menù degustazione, spesso si viene per solo due piatti. - Chi c’è con te in cucina? - Questa è una storia da film hollywoodiano. Nell’inverno del 2012 incontro Davide De Pra in un locale notturno in Val Badia. Pochi mesi dopo mi ritrovo da solo a La Siriola, al ridosso della Pasqua: lo chiamo, viene subito, poi in seguito viene anche l’ex sous chef di Nino Di Costanzo, Savio Perna. Con Davide ho fatto la stessa scuola alberghiera, lui ha quattro anni più di me, poi ci siamo ritrovati quando lavoravo Alle Codolle, lui faceva il maestro di sci e lo chef come extra. - Hai mai pensato di aprire un domani un ristorante tutto tuo? - Si, prima di venire all’Harry’s. Qui ho davvero tutto quello che mi serve per essere felice e performante, in più lavoro con Davide, che è più di un fratello. Gli do spazio, anche mediaticamente, in più siamo entrambi soci del locale, seppur in piccola parte. Siamo chef e manager, il massimo, in più sono a casa mia, a Trieste. - Facciamo l’elenco degli chef che ti hanno “segnato” la carriera. - Sono cinque. Norbert Niederkofler, per la sua capacità organizzativa. Giancarlo Perbellini, per come riesce a rivedere e riproporre i grandi classici, alleggerendoli. Antonio Guida, perché da lui ho passato la miglior serata della mia vita, gastronomicamente parlando. Massimiliano Alajmo, per la sua semplicità esplosiva. Nino di Costanzo, per come riesce a mettere insieme il bello e il buono.
Lo spaghetto freddo a km 4925
C’ERA GENTE che PARTIVA da New York, ATTERRAVA A Venezia, POI VENIVA PER UNA CENA DA NOI A La Siriola e IL GIORNO SEGUENTE per una da Norbert, dopo di che
RIPARTIVANO
Fra qualche anno i giovani parleranno allo stesso modo di Matteo.
Harry's Bistrò
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Bob Noto
L’amico di Ferran
S
ono passati due anni e due mesi dall’ultima mail a Bob: “Allora, ricordati quelle foto con Adrià”. Perché Ferran era il suo grande amico e a quei tempi lo spagnolo stava disegnando il suo nuovo locale, quel laboratorio poi aperto grazie al sostegno di Lavazza e altre aziende. Bob non rispose per un semplice motivo: spirò all’improvviso. Siamo stati fortunati nel conoscerlo, anche se non come avremmo voluto. Era un genio, davvero. Poi quando tirava fuori l’attrezzattura diventavi matto, non ti capacitavi per quanto fosse semplice ed essenziale il suo modo di fotografare. Una macchinetta digitale d’antan, una lampadina, un cavalletto e un panello bianco opaco. Tutto qui, e poi quei modi scanzonati e il mezzo sigaro sempre in bocca. Vederlo all’opera era uno spasso, una volta eravamo a La Madernassa, il regno di Michelangelo Mammoliti. Il ragazzo era emozionatissimo perché cresciuto guardando i libri di Bob, quasi non ci poteva credere che ora il fotografo era lì per i suoi piatti. Non possiamo vantare un’amicizia, forse nemmeno una forte conoscenza, di sicuro abbiamo sempre pubblicato le sue fotografie e ascoltato le sue storie. Speravamo di poterlo fare per anni, e invece…
Bob aveva qualcosa di speciale, aveva quel tocco magico impossibile da spiegare e raccontare. L’immagine del piatto di Bottura è davvero iconica, ipnotica. Il dolce di Fabrizio Galla anche. La trovata per l’insalata di ostrica di Carlo Cracco, idem: a onor del vero lui destrutturava spesso i piatti, voleva far vedere e capire cosa c’era dietro. Quando ci siamo incontrato per la prima volta ci disse: “Johann Willsberge é stato il mio idolo, nel 1986 ha fondato la rivista Gourmet, inventando la moderna foto gastronomica. Come ho iniziato? Amavo la fotografia fin da ragazzo, poi mi sono appassionato alla cucina: facendo uno più uno, eccomi a scattare il food. Nel 2000, alla fine di una cena, una mia amica giornalista mi chiese le foto dei piatti, come ricordo della serata. Il giorno dopo, per puro caso, le fa vedere al suo capo: il resto è storia. Evidente che oggi c’è una maggior attenzione per l’architettura del piatto, ma alla fine degli anni settanta Gualtiero Marchesi già creava il suo riso foglia d’oro. Dieci anni fa ho realizzato per la casa editrice Cucina e Vini un libro che vende tanto ancora oggi, si intitola Sei. Abbiamo scelto, appunto, sei cuochi che secondo noi sarebbero diventati famosi e posso vantarmi di aver visto giusto: Carlo Cracco, Paolo Lo Priore, Davide Scabin, Moreno Cedroni, Massimo
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Un piatto di Massimo Bottura. Nella pagina accanto un dolce di Fabrizio Galla
IN ASSOLUTO, i piatti PIÙ DIFFICILI
DA FOTOGRAFARE sono i risotti e le zuppe, mentre mi esalto TANTISSIMO SCATTARE GLI SPAGHETTI: hanno qualcosa DI PERVERSO, di proibito, QUASI DI TRASGRESSIVO No 21
Bottura, Enrico Crippa, a quei tempi fu quasi un libro all’avanguardia. In assoluto, i piatti più difficili da fotografare sono i risotti e le zuppe, mentre mi esalto tantissimo scattare gli spaghetti: hanno qualcosa di perverso, di proibito, quasi di trasgressivo. Fra i colleghi tenete d’occhio Sergio Coimbra, tecnicamente il migliore e la francese Amelie Lombard”. A proposito di Ferran, un giorno Bob ci raccontò: “Sono stato da lui 80 volte e ho assaggiato 1498 piatti”. I due si conoscevano dal 1993, prima ancora che esplodesse il fenomeno Adrià. Scherzando ma non troppo, lo chef spagnolo lo considerava il miglior palato del mondo, non a caso lo invitava spesso in Catalogna, al ristorante di Roses. Era ironico da morire, sensibile, colto e spesso anche triviale. Un grande. Non smetteremo mai di pubblicare i suoi scatti.
Food Week, ma anche no
C
he senso ha Food Week? Per chi è stata pensata? Gli sponsor sono contenti? Le aziende hanno un ritorno? Domande al vento, nessuno risponderà, anzi, sarà il solito tripudio, prevedibile e zuccheroso: “Presenze in aumento, un grande successo di pubblico”. D’altronde chi mai si prende la briga di contradirti e di sindacare? Per noi la la Food Week è un flop colossale. E’ tutto deprimente e senza senso. Non abbiamo mai partecipato o seguito gli eventi: per farci un’idea basta vedere le fotografie scattate qua e là. Cooking show deserti, organizzati in giro per la città senza un minimo senso, chef con un nome e una carriera esposti a delle umiliazioni tremende (cinque gatti che vengono a guardare). Piovono inviti, però nessuno ci va. Anche perché chi mai e per quale motivo dovrebbe dedicare del tempo e attraversare la città per vedere un cuoco a cucinare live? Riceviamo fotografie con degli chef abbandonati in mezzo
al nulla, dove per nulla mettiamo anche la Piazza Duomo all’ora del tramonto, già deserta. Ci sono tanti altri contesti dove nessuno presta attenzione agli eventi del Food Week. Perché? Manca il lato glamour, manca l’effetto wow, non c’è ritmo e non ci sono colori, pare una roba di poco conto. Ci fa una certa impressione vedere chef importanti portati qua e là ed esposti alla gogna, perché dopo 20 anni di carriera e qualche stella non puoi stare in mezzo al nulla e raccontare un piatto a sette persone. Immaginiamo che la stampa batte le mani, come sempre, non sia mai a inimicarsi un organizzatore di eventi e poi alla fine dello show cooking c’è un piatto gratis, il che vale più di qualsiasi cosa.
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Rosanna Marziale La pizza all’incontrario
“S
ono una mangiatrice sensuale”. Basta questo per far diventare Rossana uno dei nostri idoli assoluti, senza nemmeno conoscerla e senza neppure assaggiare le sue meraviglie, dove la mozzarella è la regina assoluta. Sentite l’armoniosità e la musicalità delle sue parole, una mangiatrice sensuale: c’è tutto una vita in questa espressione. Le emozioni, i piaceri, i gusti, l’effetto wow e quel mmmmm che non si può spiegare ma lo si legge sui visi delle persone felici. E’ una donna straordinaria, passionale e la sua pizza all’incontrario lo dimostra: ricetta da urlo, effetto da sballo. “L’idea mi è venuta nel 2010, volevo coniugare i tre elementi primordiali della mia terra, ovvero il pane, la mozzarella e il pomodoro, però farlo a modo mio. Nasce così la finta pizza, con il pane cafone da sostegno, tostato con l’olio extravergine per dare quell’effetto della croccantezza. Ho scritto subito ad un famoso chimico molecolare francese, chiedendogli cosa avrei dovuto fare per ottenere quella leggera bruciacchiatura, se poteva essere utile il cannello: mi rispose di sì. Poi come mozzarella ho preso inizialmente quelle da un chilo e
mezzo, ovviamente quella di buffala campana dop: tagliandola a fette riuscivo a creare la base per la pizza, mentre le rimanenze le utilizzavo per il cornicione. Però non era la situazione ideale, così che ho chiesto ai nostri casari di farci appositamente delle pettole di mozzarella, pur consapevole che non facessero parte del disciplinare. L’impasto è elastico e versatile, diciamo che avevo già l’esperienza della rimozzatura, sapevo come muovermi. Dopo prove e prove, siamo riusciti ad arrivare ad un buon risultato, con il tempo è diventato ottimo. Mi piace leggere lo stupore sui visi dei clienti, a dire il vero non aspetto altro, quell’effetto sorpresa è straordinario: pensi di assaggiare qualcosa che poi si dimostra tutt’altro. Alla gente piace, e tanto, perché i gusti sono molto riconoscibili e nonostante questo ti dici che non è possibile una tale esplosione di gusti. A proposito, i pomodorini sono quelli di San Marzano e niente fritti con salse, nulla di tutto questo. Chi assaggia resta estasiato, io vorrei avere sempre una telecamera per sorprenderli nel momento del primo morso: dalle facce si capisce il loro gradimento, ovvero se è altissimo, oppure se lo è molto di più. Io vorrei che fosse molto molto molto alto.
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Stefano Cerveni Manzo stellato
Il ristorante Due colombe
D
a Rovato nel centro di Milano. Dalla nonna alla Michelin. Dalla trippa al bowl vegetariano. Dall’anguilla psichedelica alla focaccia 12. La provincia e la tradizione, che ti portano in cima al mondo e nel posto più chic della città più cosmopolita d’Italia. Tanta gavetta, ma ne è valsa la pena, perché ora si gusta il successo con la consapevolezza di aver creato qualcosa di solido e duraturo, di gustoso e intrigante. Due Colombe, Terrazza Triennale, Gud: l’uomo ha seminato bene e ora raccoglie le soddisfazioni, gastronomiche ed economiche.
ERO UN FIGLIO di papà, MI CONSIDERAVO UN FENOMENO e invece non lo ero. QUANDO MISI PIEDE al Miramonti l’altro capì che AVEVO ANCORA tantissima STRADA DA FARE"
Sì, Stefano Cerveni di Rovato, provincia di Brescia, è un uomo felice e realizzato: lo sa. Non si ferma mai e non vuole scendere dalla giostra delle stelle e del divertimento gastrochic. Sa evolversi, trasformarsi, adattarsi in base ai format e alla clientela, capisce al volo come ammaliare la clientela e come farla tornare da sé. Parentesi: solitamente quando parli di uno chef lo fai dopo aver assaggiato parte o gran parte dei suoi piatti iconici, noi invece dobbiamo ancora andarci. alle Due Colombe, di conseguenza l’intervista non ha alcun riferimento ad una sua creazione stellata, sarebbe assurdo parlare per sensazioni e per sentito dire: certo, lo fanno in tanti e in tanti lo faranno, ma non ci pare un buon motivo per parlare a vanvera. Di conseguenza niente frasi e metafore sulle cotture, i profumi, sulla morbidezza del suo manzo e via dicendo: promettiamo che ci andremo a breve e che torneremo sull’argomento, d’altronde i suoi piatti fanno gola anche a noi, eccome. Abbiamo invece assaggiato le sue pietanze proposte alla Terrazza Triennale e al Gud, quest’ultimo presente nelle pagine successive. Per ora domande e risposte su vita, carriera, filosofia e progetti. - Partiamo dalla nonna Elvira e dalla sua osteria. - 30 coperti, più nove stanze da letto. Si mangiava tanta trippa, bigoli e lumache. La gente veniva per il mercato del bestiame,
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LA MIA CUCINA? Il PRANZO della DOMENICA. Abbondare con il sugo, PERCHÉ LE MIE RADICI sono queste, SONO IL
NIPOTE DI MIA NONNA
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si fermava da lei per tutto il tempo necessario, era un via vai incessante, l’attività era fiorente, io sono cresciuto lì, giocavo con la pasta fresca, era tutto scritto. - Difatti ha iniziato lì. - Si, con mio padre Giuseppe, che poi si è ritirato, lasciandomi fare di testa mia, poi però nel 2000 ho trasferito il ristorante in un vecchio mulino. - Lei passa per uno che va in giro e spende parecchio dai colleghi. - Ero un figlio di papà, mi consideravo un fenomeno e invece non lo ero. Quando misi piede al Miramonti l’altro capì che avevo ancora tantissima strada da fare. Idem quando andai da Heinz Beck, fu in quei momenti che mi resi conto di voler lavorare per avere la stella. Per la verità, inizialmente con Heinz ci siamo conosciuti qui in Franciacorta, nel 2006: venne per un evento a base di culatello e bollicine, ci siamo messi a parlare fino alle sei del mattino. Mi incoraggiò: “Hai molto da dire, non avere paura di esprimerti e di prendere la tua strada”. - La stella arriva nel 2009. - A quei tempi l’assegnazione era diversa, l’anno prima ricevevi la cosiddetta nomination: se tutto andava per il verso giusto, se rispettavi le attese, quello successivo la conquistavi. Fu un anno particolare, perché la cerimonia ebbe luogo nel ristorante di Berton, al Trussardi alla Scala: lo spazio era ridotto, così che non c’era posto per tutti, di conseguenza la Michelin ci ha chiamati solo nella stessa mattinata della cerimonia, centellinando gli inviti. - Si è fatto un’idea sul perché ha preso la stella? - L’ho presa quando ho fatto la mia cucina. Io sono uno che mangiava la trippa a colazione, ho dovuto prima capire chi ero e cosa ero in grado di esprimere. - Cosa si mangiava da lei ai tempi della nomination? - Alcuni piatti li trovi anche ora: i bigoli con pestom, un ragù a base di salame fresco e vino rosso, poi i ravioli di coniglio ala
bresciana, l’anguilla psichedelica, il manzo all’olio. I gourmet chiedono i piatti classici, i clienti fidelizzati preferiscono le novità, per cui posso tenere in carta sia i piatti di una volta che le nuove creazioni. - Come potremmo caratterizzare la sua cucina di quei tempi? - Il pranzo della domenica. Abbondare con il sugo, perché le mie radici sono queste, sono il nipote di mia nonna. - In quel periodo quasi tutti imitavano Ferran Adrià, lei come si è comportato? - La clientela mi ha fatto capire cosa e come avrei dovuto proseguire, ovvero non cambiare. Mi dicevano: “Bello, buono, ma la terrina ce l’hai ancora?”. Certo, sono rimasto pure io ammaliato dalle schiume e dal resto, però non le sentivo mie, per nulla. - Forse ha incontrato Marchesi al momento giusto. - Venne per tre volte qui da me, la prima ordinò uno dei risotti e a fine cena disse: “Buono, ma non farti troppe pippe”. Mi ha aperto gli occhi. Io invece andai da lui per la prima volta nel 1999, lo ricordo come ora, spesi 300.000 lire. Alla fine ci siamo messi a parlare, quasi non ci potevo credere, Gualtiero che mi dedicava mezz’ora. - Cosa vuol dire oggi proporre i piatti della tradizione? - Significa cercare di alleggerirli, ma non tanto. La gente ama ancora quei piatti di una volta, tipo la zuppa di cicoria, la pasta e fagioli, la trippa di vitello in umido. Ho la fortuna di poter fare quello che voglio, qui alle Due Colombe. - Subito dopo la stella lei si trasferisce nel borgo della famiglia Gozio. - Avevo appena preso la stella, ci siamo incontrati ad un evento, io facevo il catering: mi hanno chiesto se avessi il piacere di andare assieme a loro e vedere un borgo che stavano ristrutturando. Appena l’ho visto mi sono innamorato perdutamente, ci stavano lavorando da nove lunghi anni: sono ancora lì.
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- Progetto Triennale, com’è successo? - Da una parte io cercavo nuovi sbocchi, perché la ristorazione oggi impone avere più attività, per poter stare a galla. Però non avrei mai pensato di poter aprire un ristorante nel Parco Sempione, è come stare a Central Park, chi l’avrebbe mai immaginato? Vidi il posto a ottobre, era tutto così romantico, fra foglie color ruggine e il resto, una poesia. Mi sono detto: “Sarebbe un delitto non provarci”. - Qui è diverso rispetto alle Due Colombe. - Eccome. Target diverso, numeri diversi, la cucina anche. Non è stato facile trovare la quadra, ho avuto bisogno di tempo per capire cosa vogliono i milanesi e cosa no. Siamo entrati in punta di piedi, per tentativi, ci è voluto del tempo. Poi ho avuto la fortuna di trovare un ragazzo come Matteo Ferrario, l’attuale resident chef: gran parte dei piatti sono suoi, ci sentiamo e ci consultiamo ogni giorno. - Poi è nato il Gud. - Si, sempre con le stesse persone con le quali abbiamo aperto la Terrazza Triennale, ormai siamo inseparabili (gli altri soci sono Ugo Fava e Marco Giorgi, ndr). Il penultimo aperto, zona City Life, è un gioiello, voleva essere un chiringuito da spiaggia, con sdraio, social table e il resto, è andata e va oltre le nostre più rosee previsioni, facciamo 600 piattini e 400 cocktail durante il weekend. Gli altri Gud sono il Darsena, ovvero l’ex Social Market Fish and Chips, poi quello aperto alla Stazione e infine il Gud di Via Eustachi. Ho pensato a dei piattini veloci, golosi e gustosi, chic, ficcanti, vedi il chirashi che qui chiamiamo Cirasci Milano, ovvero riso Carnaroli cotto con il metodo del sushi, ma poi condito con delle materie prime mediterranee, oppure il Sea-ciliano, a base di mazzancolle e
pesto di pomodoro, fatto da noi. Praticamente sono dei bowl, un’evoluzione del poké, poi si aggiungono le focacce e i panini, super studiati e infinitamente deliziosi. - Che momento vive la ristorazione italiana? - È un momento non esaltante, Milano a parte. È dura, durissima. - C’è un personaggio per il quale vorrebbe cucinare? - Per Zucchero e per mia moglie. - C’è stato un episodio che le è rimasto impresso, in tutti questi anni come ristoratore? - Si, una lettera ricevuta da una neo sposa: “Chef grazie, mi hai salvato il matrimonio”. In pratica lei e il marito stavano per annullare le nozze: l’incantesimo si era rotto, mentre cercavano il ristorante giusto avevano capito di avere dei punti di vista diversi sulla vita. Come per magia, sono riuscito a farli tornare insieme. Il buon cibo riconcilia perfino i nemici, figuriamoci gli innamorati.
Patata viola e gambero rosso
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LA STELLA? L’ho presa QUANDO HO FATTO LA MIA CUCINA. IO SONO UNO CHE MANGIAVA LA TRIPPA A COLAZIONE, ho dovuto PRIMA CAPIRE CHI ERo e cosa ero IN
GRADO DI ESPRIMERE
I feel Gud SEA-CILY: è una EVOLUZIONE DEL POKE, made by Srefano Cerveni: RISO ROSSO INTEGRALE, mazzancolle, PESTO SICILIANO AI POMODORI SECCHI, capperi croccanti, BASILICO,
MOZZARELLA DI BUFFALA
C
ity Life, siamo seduto fuori, al Gud. Il silenzio è assoluto, come piace a noi. Gente ancora poca, arriverà pian piano. In sottofondo c’è una delle nostre melodie preferite, niente parole e tanta armonia, si chiama Rise of Angel, un remix di Angelo Oliva. Ti pare di essere a Ibiza, sei in centro Milano. Il posto è davvero cool. Con il bel tempo fanno 400 aperitivi al giorno, nel weekend 600 piatti. Ecco, i piatti: sono di Stefano Cerveni, uno dei soci. Abbiamo preso quello che più ci garba, a dir poco fiabesco, Sea-cily. C’è una tale armonia in questo piatto che ci vien da commuoverci e non esageriamo. Ok, non sarà solo per il piatto, ma per quello che stiamo ammirando davanti a noi. E’ una copia di giovani, lei avrà 2728, lui forse 35. Sorridono entrambi, lei è bellissima davvero, ha i capelli lunghi, è delicata, magrina, raffinata, si vede che è di buona famiglia. Viso pulito, solare, sorride sempre, innamorata persa. Lui forse è ancor più innamorato, o per lo meno trasmette questa sensazione. E’ arrivato lui per primo: appena l’ha vista, le
è corso incontro. Lei, dall’altra parte della strada, ha fatto altrettanto. Non volevano aspettare che il semaforo diventasse verde. Avevamo visto e vissuto una scena simile anni fa, in Via Solferino. I due di oggi sono ancora più belli. Lui pare uno deciso, vestito bene, dal gusto sicuro. Giacca sartoriale, camicia bianca, jeans, scarpe chic, penso siano delle sneakers Berluti. Nel frattempo in sottofondo c’è un’altra delle nostre preferite, Go that Deep. E’ tutto una favola, il sole e il caldo fanno il resto. Intanto, Sea-cily: è una evoluzione del poke, ovviamente made by Srefano Cerveni: riso rosso integrale, mazzancolle, pesto siciliano ai pomodori secchi, capperi croccanti, basilico, mozzarella di buffala. Ci sarà anche dell’altro ma non riusciamo a concentrarci, siamo rapito dalla bellezza e dalla felicità dei due. Incredibile, quello che vorremmo raccontarvi del piatto è lo stesso che vorremmo raccontarvi di lei: è armonico, sofisticato, sensuale, raffinato, fresco, leggero. Il piatto dei sogni e la donna dei sogni. Da Gud.
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Franz Botrè Il cliente ideale
T
re miti. Ne abbiamo tre, per quello che riguarda il mondo dell’editoria. Tyler Brulé, David Granger e Franz Botrè. Li seguiamo sempre e da sempre, sorbendo e assorbendo ogni parola che scrivono e dicono. Leggendo e ascoltare i tre hai la sensazione di fare un master in editoria e giornalismo. Il sogno é di creare, anzi, di dedicare una rubrica a ognuno di loro: ci proveremo, sarebbe fantastico. Per noi e soprattutto per voi. Si vedrà. Intanto siamo riusciti a parlare con Franz Botré, l’ideatore di Monsieur (poi trasformatosi in Arbiter) e di Spirito di Vino, due riviste che sono opere d’arte assolute, curate
fino all’inverosimile. Potremmo dilungarci all’infinito sul personaggio e sulle riviste che riesce a creare, l’amore sconfinato per il mondo dell’editoria lo si percepisce appena le sfogli: poi vai nei suoi uffici e rimani ammaliato. Ricordi, ritagli, fotografie appese, l’immancabile sigaro e il bicchiere di whisky, la musica classica in sottofondo: sono mondi e atmosfere d’antan. L’uomo sa il fatto suo, segue la sua strada, crede ciecamente nel mondo della qualità assoluta e vive così dalla mattina alla sera, senza compromessi e senza alcuna intenzione di farli. “Se apri Arbiter sei a casa mia, vedi come vivo”. È una delle frasi che ci disse una quindicina di anni fa e che tuttora
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La Locanda Castevecchio
cerchiamo di seguire alla lettera: spesso, ci riusciamo. Sulla ristorazione è molto più che preparato, con molti chef stellatissimi ha rapporti di amicizia fraterna. Bottura lo conosce da lustri, la famiglia Cerea idem, gli Alajmo pure, anche se i suoi preferiti sono Oldani, Pierino Penati e soprattutto la Trattoria Masuelli. Fossimo dei ristoratori chiederemmo a lui una consulenza, anziché ai MASUELLI, Da tanti che millantano conoscenze senza Vittorio e Pierino averle. Le sue risposte Penati. DA LORO sono la dimostrazione di tutto ciò. In più MI SENTO COME incarna alla perfezione l’identikit del cliente SE FOSSI A CASA ideale.
LA MIA TOP 3?
MIA. Aggiungo IL RISTORANTE AZZURRA DI RICCIONE, hanno una delle cantine
- Iniziamo dalle sue preferenze: gli chef che più apprezza in assoluto. - Giancarlo Morelli, perché ha portato in città gli stessi piatti che proponeva in provincia, rimanendo fedele ai suoi principi. Poi Davide Oldani, più o meno per le stesse ragioni. Enrico Cerea e Massimiliano Alajmo, perché pur avendo tre stelle non parlano quasi mai e non si atteggiano a guru. Per quello che riguarda l’estero sono un grande fan e cliente
MIGLIORI D’ITALIA
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di Alain Ducasse, così come lo ero di Paul Bocuse: andai da lui nel 1984 e ricordo ancora quello che mi disse: “Quando voi, gli italiani, capirete il potenziale che avete, diventerete i numeri uno”. Poi vado spesso da Martin Zimmermann, a Vienna, fa la miglior cotoletta al mondo. - Esteticamente, quale tipo di ristorante preferisce? - Intanto non mi piacciono quelli asettici. Amo i posti carichi di storia, come L’Ambasciata di Mantova e La Locanda di Castelvecchio, a Verona. - Questo quando riesce a lasciare la città, mentre per la ristorazione quotidiana cosa preferisce? - I posti dove si mangia per davvero e dove c’è spazio per l’aggregazione, dove si può parlare tranquillamente con gli amici, possibilmente dove si possono riscoprire i sapori di una volta, perché a me piacciono la cassoeula e la cotoletta. - Cosa guarda appena entra in un ristorante? - L’elenco è lunghissimo: le tovaglie, perché non sopporto i ristoranti senza, così come non mi piace vedere dei brutti bicchieri. Poi il personale, perché devono essere educati, pettinati, puliti, senza orologio, portare le calze. Non tollero quando mi si dà del tu. Ovviamente il bagno, perché racconta molto di un locale. - Generalmente, cosa manca nel mondo della ristorazione? - Una identità. Parlo soprattutto della cucina, tutti fanno tutto senza saperlo fare. - Domanda quasi filosofica, in pratica una variante di “siamo quello che leggiamo”: noi siamo quello che mangiamo? - Si, decisamente, al cento per cento. Quello che mangiamo è un’estensione di noi stessi. Io sono un curioso di natura, difatti al ristorante sperimento, prendo quasi sempre un piatto che so già che non mi piacerà chissà cosa, però ci provo, mi informo. Bazzico in questo mondo dal 1984, a quei tempi andavo assieme ad un magrissimo Edoardo Raspelli, la curiosità me l’ha trasferita e inculcata lui. - Tornando al mondo del giornalismo, si è fatto un’idea del perché si scrive sempre in maniera positiva di chef e ristoranti? - Essendo ospiti si deve scrivere bene. I giornali non possono pagare le spese e le cene, di conseguenza o si accetta l’invito del ristoratore, oppure non si riesce a scrivere, perché è impensabile che il giornalista possa pagare sempre di tasca sua. Se pagassero, sarebbero liberi di esprimere opinioni scomode e invece non lo sono. Probabilmente si dovrebbe andare per due, tre volte prima di scrivere una recensione definitiva, però mi pare pura utopia: nessuna redazione sarebbe in grado di sostenere tali spese. In più, i giornalisti sono accomodanti, soprattutto le nuove leve. Le generazioni d’antan erano diverse, si scriveva per l’amore del cibo, oggi lo si fa per dei tornaconti. È tutto markettato e ghettizzato, soprattutto nel mondo del vino.
Paolo Vizzari, Giancarlo Saran, Luciano Ferraro del Corriere della Sera e Daniele Cernilli del Gambero Rosso. - Con Spirito di Vino è sbarcato a Hong Kong: in un recente editoriale lamentava la scarsa partecipazione degli imprenditori italiani del settore alle iniziative da voi promosse. - Guardi, da quelle parti vivono il vino in un modo diverso. Ci sono i così detti wine master, in pratica dei sommelier molto più preparati, hanno conoscenze incredibili e approcciano il mondo del vino diversamente. Il livello e l’asticella si sono alzate tantissimo e molti italiani non vogliono capirlo, anche se dobbiamo ammetterlo, la distanza dalla Francia si è ridotto sensibilmente. - Che momento vive il mondo dell’editoria culinaria? - Il troppo stroppia. E’ un tourbillon che trascina tutto al cospetto della qualità. - Non ci resistiamo: per favore, ci faccia la sua Top 3. - Masuelli, Da Vittorio e Pierino Penati. Da loro mi sento come se fossi a casa mia. Aggiungo il ristorante Azzurra di Riccione, hanno una delle cantine migliori d’Italia e non solo.
NON MI PIACCIONO
- Lei si trova all’opposto, le sue riviste trattano la ristorazione e il vino in una maniera colta, a volte perfin troppo. - Lo faccio e lo facciamo per erudire il lettore. Non mi interessa salire in cattedra, però chi scrive per me è gente che sa cos’è il cibo. Diciamo che abbiamo due compiti: far scendere sulla terra gli chef, farli tornare umani. E poi far capire ai lettori la difficoltà di certi piatti, insegnare l’abc dell’alta cucina. - Al di fuori della sua redazione, chi apprezza nel mondo della ristorazione culinaria? - Luigi Cremona, un ingegnere applicato al mondo della ristorazione. Poi Andrea Grignaffini, possiede una cultura del gusto come pochi altri. Poi Davide Paolini,
i RISTORANTI ASETTICI. Amo i POSTI CARICHI DI STORIA, come L’AMBASCIATA DI MANTOVA e La Locanda di Castelvecchio, a VERONA Il ristorante di Alain Ducasse a Parigi
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Gianfranco Vissani Fra Vatel e Adrià
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oveva essere una chiacchierata di cinque minuti, per una breve scheda. Ma quando chiami Gianfranco Vissani il tempo vola e soprattutto si spazia, perché l’uomo è sempre in vena di commenti veri e acidi, duri e puri, diretti e schietti. E’ un vulcano, a tutte le ore. Un gigante buono, con un cuore d’oro e con una mano raffinata. Forse il suo linguaggio turba le anime belle, ma è proprio per questo che va difeso, sostenuto, apprezzato e applaudito. Lui è così, prendere o lasciare, per noi è da prendere, i motivi sono infiniti. Ne mettiamo due: dice quello che pensa la gran parte dei cuochi, con la differenza che lui si espone pubblicamente, mentre gli altri lo dicono piano, sottovoce, solo in privato. Quanti cuochi amano privatamente i vegani? Però in pubblico si guardano bene da esprimere un giudizio netto: Vissani lo fa, e lo fa sempre. Niente filtri, niente politically correct, niente manfrine e frasi melense. Il secondo motivo è che sa cucinare in maniera verace, ha portato la cucina povera a dei livelli bistellati. Ecco, l’espressione cucina porcellosa gli si addice come a nessuno. Quando poi inizia a raccontarti del salame che ha ricevuto dai suoi amici, della pasta a fagioli che studia ancora e della beccaccia cruda, ecco, ti sciogli subito, ti emozioni, perché non finge, non sa farlo. Quando parla di materie prime, di olio d’oliva, di gamberi di fiume e della carne percepisci che parla con tutto sé stesso e a quel punto ti immedesimi, è come se fossi stato tu ad assaggiare il tutto. Nelle conversazioni con lui ci sono sempre delle parentesi legate al mondo delle donne e ai suoi rapporti, ma forse è meglio se iniziamo dal salame.
LEI HA VISTO RATATOUILLE? IL CUOCO come si chiama? GUSTEAU, QUESTA la
DICE LUNGA
- Buongiorno chef, come va? - Benissimo, grazie. Dei miei amici mi hanno portato un salame inarrivabile, pazzesco. Me lo mandano dal ristorante - La Villetta di Palazzuolo, è commovente. - Chef volevamo chiederle dei suoi piatti iconici. - La beccaccia cruda, la pasta ai fagioli, il morone. - Lei è uno dei pochi che cucina il morone. - E’ un pesce di fondale, lo trovi a 2000 metri sotto il mare, è come il black code. - La pasta ai fagioli poi la fanno in pochi, figuriamoci a questi livelli. - Senta, Adrià ha rovinato la cucina, perché la sua non ha gusto. Ecco, lui e le sue schiume hanno distrutto tutto. Il vero cuoco era Vatel. Certo, noi cuochi siamo dei maiali, è risaputo, ma diamo piacere alla gente, ora la cucina sta morendo, non c’è più gusto. Lei ha visto Ratatouille? Il cuoco come si chiama? Gusteau, questa la dice lunga. - Lei ha avuto dei maestri?
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ERRAN F ADRIÀ ha ROVINATO LA CUCINA, perché la sua non ha gusto. Ecco, lui e le sue SCHIUME HANNO DISTRUTTO tutto. Il vero
CUOCO ERA VATEL
- Macchè maestri, io vengo dalla vecchia scuola, quando si lavorava come matti. Sono sulla breccia dal 1970, lo scriva. Sa, il primo articolo su di me lo scrissero nel 1977, su Il Messagero. Titolo? “Troppo cara la gita sul lago di Corbara”. Non mi sono mai curato della stampa, è stata ed è la mia fortuna. Non me ne frega nulla, i miei sentimenti sono per le persone vicine, ovvero per i familiari e per i clienti, non ho tempo per altri. Ho lavorato al Majestic di Cortina, all’Excelsior di Roma e di Venezia, erano ristoranti d’albergo, dove ti facevi un mazzo così Ha visto i cuochi di oggi? Manco sanno sfilettare un pesce. Però se li vedi come si atteggiano, mamma mia. - C’è ancora qualcosa che la fa emozionare, in cucina? - Un sacco di cose. Per esempio lo scrocchio della pasta fresca, tutto quello che porta al ricordo. Poi l’olio extra vergine d’oliva. Sa, anni fa fece scalpore il fatto che lo mettevo nel risotto: mi presero per matto. - Il suo ristorante come va?
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- Male, siamo in crisi. - Ma dai, non può essere. - Siamo in Culonia, si può scriverlo? Non siamo mica a Milano, è dura arrivare fin qui, siamo in un paesello, c’è poca gente. - E’ una zona sempre in crisi. - Cosa pensa delle guide? - Sono importanti per il business, perché oggi è tutto un business. Pure Tripadvisor conta, ha 300 milioni di followers, si dice così, no? - Si, si dice così. Tornando alla pasta ai fagioli… - La studio ancora, sono uno all’antica. - Chef, indossa ancora le scarpe rosse? - Certo. Ha ancora i piatti e le tazze di Hermes? - Ovviamente. - Casa Vissani sarà pure in Culonia, però il livello resta sempre altissimo.
L’aristocrazia a tavola Giorgia Fantin Borghi
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apiti. Rapiti, conquistati e incantati. E’ successo per caso, scorrendo distrattamente Instagram in una serata di inizio estate, ascoltando il profumo del gelsomino. All’improvviso, una tavola carica, ricca, ricchissima di dettagli, niente portate ma tante posate, bicchieri e piatti, atmosfere d’antan e una classe infinita. Era come se il tempo si fosse fermato anni addietro, tanti anni addietro, tranne poi rendersi conto che si trattava di Instagram e non si un dipinto dell’ottocento. Ecco, ti sembrava di guardare e scorrere le immagini di un Instagram d’epoca. Da veri e irriducibili romantici dei tempi che furono, quelli delle buone maniere e dell’educazione assoluta, ci siamo messi a curiosare, con l’intento di scoprire di più sull’autore dei post. Eccola, Giorgia Borghi Fantin. Il nome ci era noto, sarebbe impossibile il contrario: la signora domina da anni la scena dell’alta società milanese e non solo. Il resto è venuto di conseguenza: l’abbiamo contattata, ci siamo incontrati e, anche se forse è leggermente
prematuro pensarlo, ci piacerebbe diventasse una presenza costante nelle nostre pagine. Porterebbe tutti, noi e voi, ad un livello superiore, perché, come già detto, la sua classe è infinita e le sue conoscenze pure. E’ colta, raffinata, elegante, decisa e preparata. Gesti lenti come carezze, modi aristocratici, Giorgia ci racconta il suo mondo dal suo ufficio in pieno centro meneghino, un vero e proprio regno della raffinatezza, un luogo fiabesco e poetico, una via di mezzo fra una bomboniera e show room. “Tutto accadono intorno a un tavolo: amori, emozioni, contratti, progetti, amicizie, collaborazioni, perfino litigi e vendette. La tavola è come la musica, cambia continuamente, non è mai la stessa perché la decliniamo ogni volta in modo diverso. La convivialità influenza e definisce il nostro modo di vivere, il nostro linguaggio, i gesti che ci caratterizzano, tanto nella quotidianità quanto nei momenti speciali”, racconta Giorgia Fantin Borghi, padovana di nascita e soprattutto nipote di una maestra di buone maniere. Esperta di galateo del matrimonio e di storia della
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tavola, è una delle professioniste più affermate nel wedding planning e nell’organizzazione di eventi legati all’arte del ricevere e dell’apparecchiare. Se apparecchiarla è un’arte, farlo con creatività, eleganza e buongusto è anche una professione. “Vestire la tavola è un po’ come scegliere un tipo di abbigliamento per sé stessi, un giorno mi va di essere elegante, l’altro casual, un altro minimal e un altro ancora rock”, continua. “Mentre apparecchiamo comunichiamo, è un modo per esprimersi, un linguaggio non verbale, ma non per questo meno esplicito”. Milanese di adozione, laureata in filosofia, si è avvicinata al mondo degli eventi seguendo da vicino le attività di un noto ambasciatore (il nome deve restare anonimo, of course), per poi diventare l’organizzatrice regina delle serate ufficiali e mondane della banca d’affari Merryl Lynch. Tornando agli scatti di life style, come si apparecchia oggi? “Una mise en scene attuale tende sempre più spesso a rispecchiare la personalità di chi la cura, dando spazio alla creatività, ma privilegiando il recupero delle tradizioni e del bon ton riletti in chiave contemporanea. Oltre alle norme derivanti dal buon senso la tavola è fondamentalmente bellezza, equilibrio ed estetica. In un periodo come l’estate, in cui il relax e la ricerca di un po’ di fresco sono imprescindibili, sarà perfetto l’utilizzo di colori chiari e delicati per tovaglie in puro lino accostate a dettagli vivaci dai colori brillanti.” E per la decorazione? “Non solo fiori ma anche piccoli oggetti: coralli, rami, conchiglie, agrumi e frutta di stagione, invitante e coloratissima, composta su alzate o in recipienti di cristallo. Il vetro è un materiale perfetto per l’estate,
VESTIRE la TAVOLA è un po' COME SCEGLIERE un TIPO DI ABBIGLIAMENTO PER SÉ STESSI, un giorno mi va di ESSERE ELEGANTE, l’altro casual, un altro minimal e UN ALTRO
ANCORA ROCK
facilmente accostabile a molti altri materiali, versatile nell’uso, prezioso se sottile e di forma elegante.” Domanda da rivista femminile del vorrei ma non posso, con la differenza che noi possiamo: “Il trucco per la tavola estiva perfetta?” “Tenere i bicchieri capovolti fino all’arrivo degli ospiti. Non si rischieranno le corse dell’ultimo minuto e i calici rimarranno perfetti e intonsi, perché non c’è nulla di più bello che vedere le risate di chi amiamo riflesse sul vetro dei nostri migliori bicchieri scelti apposta per loro.” Non ci avremmo mai pensato, lei invece sì. Non a caso lei è Giorgia Fantin Borghi.
LA TAVOLA è come LA MUSICA, cambia continuamente, non È MAI LA STESSA PERCHÉ LA DECLINIAMO ogni volta in
MODO DIVERSO
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L’Alchimia
Cocktail e costolette
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osa vuole un maschio in carriera e dal gusto sicuro? Poche cose, però di alto livello. Un uomo del genere insegue il comfort assoluto, la qualità totale e la certezza di potersi godere in santa pace la sua vita. Prendiamo per esempio, l’ora dell’aperitivo, perché l’aperitivo in sé è sacro. E’ quell’ora, quell’ora e mezzo che dedica solo a se stesso, di conseguenza vuole trarre il massimo piacere. Okei, però dove può andare, in centro a Milano? Ci sono pochi posti dove uno si sente perfettamente a suo agio, fra comodissime poltrone e cocktail sublimi, dove l’atmosfera è allo stesso tempo piacevole e non troppo invadente. Ce ne sono pochi, pochissimi, giusto un paio. Ora si sta facendo largo un altro, L’Alchimia, il regno di Alberto Tasinato. E’ davvero ideale per il maschio deciso che vuole gratificarsi con un cocktail intrigante. “La bella è la bestia” è uno di questi, l’abbiamo provato e riprovato,
piacendoci sempre di più: é un long drink potente e adrenalinico, trasmette forza ed eleganza. Ora Valerio Trentani, il bartender e bar manager, sta studiandone un altro, da dedicare agli avvocati di prim ordine che abitano e che soprattutto lavorano nei pressi del locale di Via Premuda (il tribunale è a due passi, così come Via Conservatorio, Viviani, Via della Passione, stracolme di studi legali di altissimo livello). Si chiamerà The Lawyer o qualcosa di molto simile, avrà forti note di tabacco e sarà a base di whisky. A dire il vero il locale pare impostato e arredato per piacere proprio a loro: poltrone comode, colori caldi, un’atmosfera che ci ricorda molto le serie americane di successo, dal Boston Legal a Suits, dove i protagonisti sono avvocati ricchi e ben vestiti, trasudando potere, gusto, carisma ed raffinatezza. Fra poco verrà allestito anche il dehors, a quel punto uno potrà anche accendersi un Cohiba e gustarsi al meglio il
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DAL PANE
alla COTOLETTA È TUTTO SQUISITO, ben presentato, rilassante, poi ci sono gli ACUTI COME GLI STRACCETTI DI PEPERONE, IL RISOTTO Milano-Roma e il lombo
DI AGNELLO
Gli straccetti di peperone di Davide Puleio
drink. Perché l’uomo ha bisogno di poche cose per essere felice, ma devono essere di un livello notevole. Cocktail, macchine, sigari, donne: tutto deve splendere, con buona pace dei coloro che sostengono che oggi il maschio vuole altro, tipo salvare il pianeta e guardare documentari su piantagioni bio. Da Alchimia trova quello che desidera, all’ora dell’aperitivo e non solo, perché il posto è prima di tutto un ristorante. In cucina Davide Puleio, arrivato da Roma con grandi sogni e voglia di stupire: in pochi mesi ha trovato la quadratura del cerchio, proponendo una via di mezzo fra trattoria e cucina creativa, in pratica una trattoria moderna, scenografica, gustosa e ricca. Ottima la sua mano, ottime le materie prime e anche il ristorante in sé, elegante e senza orpelli, austero senza essere spartano, ovvero ideale per il milanese di un livello medio alto, che non vuole dare nell’occhio e che allo stesso tempo apprezza la qualità. Dal pane alla cotoletta è tutto squisito, ben presentato, rilassante, poi ci sono gli acuti come gli straccetti di peperone, il risotto Milano-Roma e il lombo di agnello, più una carta vini snella e ricca allo stesso tempo, merito di Alberto Tasinato, socio di riferimento e soprattutto uomo di grande esperienza nel settore. A proposito della costoletta, è il piatto che secondo noi più rappresenta il ristorante: alta, con osso, succosa (vitellini
giovanissimi), croccante, esteticamente invitante. In altre parole qui sono stati ruffiani, nel senso positivo della parola: hanno conquistato e convinto i milanesi con il loro piatto più rappresentativo. Dove trovi una costoletta del genere torni spesso, perché consideri il ristorante una garanzia. E l’Alchimia lo é. Buona co(s)toletta e buon cocktail a tutti.
L’ALCHIMIA,
regno di Alberto Tasinato. É IDEALE PER IL MASCHIO deciso che vuole GRATIFICARSI con un COCKTAIL
INTRIGANTE
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Inviti
fra utopia e realtà
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orse si dovrebbe fare un po’ di chiarezza sulla faccenda dei giornalisti invitati nei ristoranti, che è lontana anni luce dal fatto che molti si autoinvitano con consorte e prole, spesso a ripetizione: non facciamo confusione. Partiamo da un presupposto: oggi nessun quotidiano ha le possibilità (e l’intenzione) di sostenere le spese di un giornalista che segue e scrivere di alta ristorazione. Facendo un esempio pratico, se uno ha la possibilità e lo spazio per scrivere sei volte al mese, significa che va minimo sei volte al ristorante. Facendo una media di 150 euro per ognuno, sono 900 al mese, 10.000 all’anno. E’ utopia pura, nei giorni nostri. Certo, fa impressione sapere che la critica gastronomica del New York Times, Ruth Reichl, andava anche quattro volte nello stesso prima di emettere un giudizio, però parliamo di altri mondi e altri tempi. In molti, in maniera pittoresca, sbraitano istericamente contro i giornalisti, accusandoli di non pagare di tasca loro, ma sarebbe una follia, per di più improponibile: sborsare delle somme di danaro per lavorare è un po’ un controsenso, per non dire che non avrebbero nemmeno la possibilità, visti gli stipendi attuali. Si deve pagare quando si va per conto proprio, ma questo è un altro discorso. Pure qui: con i propri soldi uno non va alla scoperta di nuovi ristoranti, va solo dove gli garba, perché va per piacere. Il lavoro è un altro mondo, con altre esigenze. Dunque, che soluzione rimane? Che gli chef, oppure i ristoratori, li invitino. E qui non si tratta di “andare a ufo”, come diceva un pittoresco signore qualche giorno addietro. Se uno chef ti invita, lo fa perché così ti racconta cosa fa e come, la propria filosofia. E’ un compromesso, certo: tu essendo ospite non puoi bastonarlo, non hai la libertà che avresti se fossi andato a spese tue. Certo, non per questo lo devi incensare, ma è chiaro che sei frenato, un po’ anche dal buonsenso e dall’educazione. Poi va detto che il 99,99 per cento sono arrendevoli e timorosi, sperando che più esalteranno più verranno invitati: é qui che scatta l’allarme rosso. Però se non fossero gli inviti, i giornalisti non avrebbero il modo di scrivere alcunché. Ci sono modi e modi, alcuni più professionali, altri più beceri, tipo gli inviti di gruppo, con 30 persone in un colpo solo: lì non si tratta più di giornalismo, lì è una sagra e si scende nel grottesco, o nel ridicolo. Alcuni chef lamentano che la stampa non
segue da vicino la loro evoluzione nel tempo, dimenticando il fatto che, solo a prendere i ristoranti e gli chef più importanti, siamo a quota 500. Pur volendo, non si riesce a seguire tutti in maniera costante. Morale, il punto non è essere invitati, ma come ci si comporta dopo. Chi ha personalità riesce a essere sobrio ed equilibrato, chi no parla di piatti formidabili a gogo. Il che per carità, spesso accade, ma per alcuni accade sempre, ad ogni occasione. Ci sarebbe anche l’altra faccia della medaglia, che è un bel grattacapo: non puoi invitare tutti, devi scegliere e qui iniziano le invidie, le cattiverie degli esclusi, che appena si sentono fuori dal giro degli invitati scatta l’operazione sabotaggio. Ci sono valanghe di giornalisti che si sentono offesi se non vengono invitati per primi, o non invitati e basta, come se fosse un dovere. Le esagerazioni sono queste, non un invito cortese per assaggiare i nuovi piatti.
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CI SAREBBE anche L’ALTRA FACCIA della medaglia, CHE È UN BEL GRATTACAPO: NON PUOI INVITARE TUTTI, devi scegliere e qui iniziano le invidie, LE CATTIVERIE
DEGLI ESCLUSI
Chef stellati e guadagni paralleli
E’
impossibile convincere un cuoco. Quando si mette in testa di saper e poter gestire un ristorante, tanto vale lasciarglielo fare: lo farà comunque. Cucinare e gestire sono due mestieri diversi, troppo diversi, che richiedono delle competenze specifiche: è così evidente, eppure non si riesce a farglielo capire. Per quello che riguarda i bar, nove su dieci chiudono per la mancanza di conoscenze gestionali, lo dicono i fatti e gli studi di settore. Per quello che riguarda la ristorazione non siamo a questi livelli, o per lo meno non ancora. Morale? Saper cucinare è una, fare il manager un’altra, anche se è pieno il mondo di esperti e laureati che hanno rovinato ristoranti. La soluzione? Che i cuochi seguissero dei corsi di gestione e di management, oppure imparare da quei pochi chef che sanno fare anche gli imprenditori. L’esempio più eclatante è quello di Alain Ducasse: okei, qui voliamo altissimi, però trent’anni fa se volevi imparare questo modo di agire dovevi andare da lui, era quasi l’unico. Berton lo racconta sempre: “Va bene che a 19 anni sono andato da Marchesi, ma io cercavo qualcosa di diverso, uno chef imprenditore, ed è per questo che poi ho scelto di lavorare da Ducasse, é lì che ho scoperto il mio mondo”. Robuchon era un altro di questo livello, girava con l’ipad e vedeva in tempo reale il numero di coperti in giro per il mondo, sapeva l’incasso della giornata prima che il servizio iniziasse. Oggi é pura follia pensare di gestire un ristorante con modi approssimativi. Andava bene trent’anni fa, quando non esisteva la cassa, gli scontrini erano pura utopia e i controlli erano molto allegri. Non ci sono più nemmeno i tempi dove su 100 euro spesi dal cliente, 30 entrano nelle tasche del ristoratore, andava così fino a una quindicina di anni addietro. Lo sanno in pochi, però anche i ristoranti stellati perdono soldi: i motivi sono infiniti (pochi coperti, niente doppio
turno, personale numeroso). L’aspetto gestionale è uno di questi, anche se incide relativamente, i limiti sono più che altro oggettivi, è dura trovare la quadra: tant’è vero che tutti rimangono a gala grazie al catering, alle cene private, agli eventi, alle consulenze e soprattutto alle settimane passate in giro per il mondo, fra Taiwan, Singapore, Hong Kong e Dubai. 5.000 euro qui, 7.000 euro lì, tutto pagato subito e in contanti. Senza questi incassi chiuderebbero bottega e andrebbero a fare i dipendenti. Ogni giorno una valanga di chef stellati, anche famosissimi, mandano mail insistenti nei posti su citati cercando e quasi implorando per una consulenza, oppure una settimana da quelle parti: “devo lavorare”, scrivono. Quasi quasi si ha la sensazione (e la Michelin non apprezza) che uno ambisca alla stella solo per poterla monetizzare. Non è illegale, ma è contro il senso stesso della guida: loro premiano un ristorante e uno chef con l’intenzione di informare e indirizzare la clientela verso l’eccellenza, una eccellenza che però viene a mancare una volta conquistata la stella. Ci sono casi, e tanti, dove lo chef, appena sceso dal palco, abbia iniziato a mandare mail e messaggi alle varie aziende per proporsi come testimonial. I soldi arrivano così, per cui non fattevi ingannare: spesso il ristorante stellato è una vetrina, come i negozi delle maison di moda in Via Montenapoleone.
QUASI TUTTI RIMANGONO
a GALA GRAZIE AL CATERING, alle cene private, agli eventi, ALLE CONSULENZE E SOPRATTUTTO ALLE SETTIMANE PASSATE in giro
PER IL MONDO
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Cambio menù Avanti piano
A
volte lo si fa per la voglia di strafare, altre per superficialità e altre per ignoranza vera e propria. Fatto sta che alcuni chef e ristoranti cambiano un po' troppo spesso il menù, per di più inserendo dei nuovi piatti per nulla all’altezza: la fretta è cattiva consigliera, ma vai a spiegarlo. Ci capita un po' troppo spesso di vedere e sentire situazioni al limite della schizofrenia: chef stufi, a sentir loro, di proporre gli stessi piatti per più di qualche settimana, come se il cliente dovesse sentirsi stufo anche lui. Se tu in cucina hai fatto e rifatto lo stesso piatto non è che pure il cliente lo ha mangiato e rimangiato. Ci sembra un concetto elementare e invece, a quanto pare, non lo è. Cambiare, cambiare, cambiare: da dove viene questa folle volontà di stravolgere il menù? E soprattutto perché? Spiegazioni logiche non ce ne sono. Di illogiche invece ne troviamo. Fa impressione come chef pluristellati continuano a tenere in carta alcuni piatti iconici, mentre cuochi semi sconosciuti agiscono in maniera compulsiva, stravolgendo tutto con una frequenza inquietante. Qualche mese fa Enrico Bartolini ci raccontava di come fosse finalmente riuscito a portare alcuni piatti alla perfezione. “Prima gli elementi non riuscivano a comunicare fra di loro,
ora invece è tutto armonioso”. Piccola aggiunta: la perfezione è arrivata nel corso degli anni. Morale, cambiando spesso non si arriva mai a rifinire un piatto e farlo diventare iconico. Per non parlare della costanza, elemento a dir poco fondamentale per fidelizzare la clientela. I più giovani pensano che proporre sempre dei piatti nuovi è sinonimo di creatività e di energia. Puoi apprezzare l’entusiasmo, ma per il resto si tratta di superficialità e nulla più: mille idee non vuol dire mille nuovi piatti di successo. Abbiamo la sensazione che pensano troppo poco al piacere del cliente, in cambio si guardano allo specchio e si autocongratulano per la bravura (quale?). C’è una sottile differenza fra spavalderia e faciloneria. La mancanza di esperienza fa sì che alcuni non si rendano conto, per questo è utile avere qualcuno accanto che possa tirargli per la giacca. Un piatto è il risultato di studi, prove e riprove, non c’è spazio per l’improvvisazione coatta: la gente annusa e percepisce la fretta e la spocchia. E ti punisce, non tornando. Ogni tanto ricordiamo che la gente paga. E non ama essere presa in giro. Nella foto il risotto rape rosse e gorgonzola di Enrico Bartolini: è un suo must, è nel menù da anni e comunque riesce a migliorarlo sempre. A proposito della serietà e la costanza.
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I PIÙ GIOVANI PENSANO che proporre SEMPRE DEI PIATTI NUOVI È SINONIMO di creatività e di energia: puoi APPREZZARE L’ENTUSIASMO, ma per il resto si tratta di SUPERFICIALITÀ
E NULLA PIÙ
Alessandra, il grande amore
Q
uando ci siamo visti per intervistarlo, prima di
Natale, ce lo aveva accennato. “A febbraio uscirà il mio nuovo libro, dal titolo “La mia storia con il cioccolato”. Da lì anche il nostro di titolo, per il numero con lui in copertina: “Io, me e il cioccolato”. Sono passati tre mesi ed eccoci qui a parlare ancora di lui e, ovviamente, del suo ultimo successo editoriale. Più di 250 pagine di ricette golosissime e ricchissime, ma questo era scontato. Quello che ci ha colpiti è stata la dedica alla sua moglie Alessandra. Ci piace sempre quando un personaggio del genere pensa agli altri in un momento dove tutta la scena spetti a lui: solitamente gli chef sono così egocentrici e presi da loro stessi da dimenticare, volutamente oppure no, che parte delle fortune sono spesso merito di chi sta accanto. Per cui già dopo le prime pagine eravamo incantati. Sfogliando lentamente il libro siamo arrivati alla pagina 147. Il nome della torta? Alessandra, il grande amore. Avete indovinato, è il nome della moglie. Altro punto a favore di Ernst. Per la cronaca, si tratta di una torta a base di pasta frolla, confettura di ciliegie, due strati di morbidone, mousse di cioccolato bianco e vaniglia, bagna e inserto di amarene, e crema chantilly. Per qualcuno sono dettagli privi di importanza, per noi invece sono dei gesti straordinari, che ti fanno capire perché alcuni vincono nella vita. Forse a furia di vedere in giro gente che parla di se stessa e solo di se stessa non eravamo più abituati a gentilezze del genere, fatto sta che ci siamo commossi. Sarà un caso, ma la gente di successo parla sempre bene della propria moglie, in pubblico e in privato. Non per finta e non per ruffianeria, lo si percepisce subito. Sono grati e pazzamente innamorati ed è (anche) per questo che hanno successo. Tornando al libro in sé, “La mia storia con il cioccolato”, cosa possiamo dire? Carta patinata, una copertina lussuosissima, all’interno settanta ricette spiegate e raccontate dallo chef. Fotografie stupende, con atmosfere forse troppo dark. E poi come ultima pagina di copertina avremmo forse scelto proprio la torta Alessandra: dettagli. Breve elenco delle torte che avremmo voluto assaggiare mordendo le pagine: Monte Knam, Anna, Gualtiero, Wow, Sangria, Tris arlecchino, Ceviche, Extreme Bianca, Albicocche, Cappuccino al cioccolato, Arancia extreme, Foresta nera, Samba. Le assaggeremmo una per una, andando nella storica pasticceria di Via Spartaco.
LA CHIAVE È TENERE ALTO IL LIVELLO E LA QUALITÀ, perché i fondi, a parte poche eccezioni, SONO FREDDI COME ATMOSFERA e assai privi di una forte identità
E PERSONALITÀ
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L’identità,
questa sconosciuta PROVATE DI AVERE un’idea BEN PRECISA, che rispecchi al MILIONE PER CENTO LA VOSTRA IDEA DI RISTORANTE e soprattutto la VOSTRA
PERSONALITÀ
I
dentità, identità, identità e ancora identità. Il ristorante, intenso come design e stile, é il vostro biglietto da visita, racconta tutto di voi. Dovrebbe essere un mantra, anzi, il mantra: e invece succede il contrario. Tante, troppe parole si sono svuotate, perdendo il significato per via di un uso eccessivo, retorico e ipocrita. Nell’ambito ristorativo la più importante è la parola identità, che poi è un concetto che ti cambia la vita, perché un ristorante con una identità racconta molto di te stesso, dei tuoi valori, del tuo carattere e della sua personalità. E’ il tuo biglietto da visita, così come un piatto è il biglietto da visita dello chef. “In cucina non esiste Dio”, diceva Anthony Bourdain e aveva ragione: i fatti contano più di mille parole. Idem per il locale che state aprendo. Appena uno entra si fa già un’idea su di te e sui tuoi gusti. Troppe volte abbiamo visto posti senza alcun charme, privi di calore e di colori. In pratica, non c’è scampo: vuol dire che voi siete così, altrimenti avreste optato per un altro tipo di interno, di tavoli, di piatti e via discorrendo. Non ci sono scuse e spiegazioni. E’ vostro, lo avete ideato voi, avete avvallato
voi i progetti. E’ un dato di fatto, un locale senza una forte identità non riuscirà mai a coinvolgere la gente e di conseguenza non si arriverà mai ad avere quelle good vibes, quell’atmosfera che fa sì che la gente torni con piacere. Per di più ci si innamora troppo e troppo spesso delle idee di un progettista, dimenticando che il ristorante debba rispecchiare la vostra idea e non la loro, perché l’architetto una volta finito il lavoro incassa e soldi e se ne va, mentre voi rimanete con la patata bollente in mano. Spesso ci capita di vedere ristoratori frastornati dal risultato finale, come se non si riconoscessero. Per cui provate di avere un’idea ben precisa, che rispecchi al milione per cento la vostra filosofia e soprattutto la vostra personalità. Poi a qualcuno magari non piacerà, ma questo è un altro discorso. Facciamo un esempio, il ristorante di Andrea Berton: rispecchia, appunto, al milione per cento la sua personalità. E’ esattamente come lo ha sempre desiderato. Elegante, senza orpelli, linee pulite, essenziale e anche raffinato. Lo ha voluto proprio così, entri e riconosci subito il suo stile, i suoi valori, i suoi gusti e la personalità. Lui è così. E il suo ristorante è il suo miglior biglietto da visita. Vale anche per la recente apertura di Cracco in Galleria. Lo ha voluto a tutti i costi e lo ha voluto così. Quando ti parla del suo ristorante gli si legge la felicità negli occhi. Quanti possono dire la stessa cosa?
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Copiare non paga. Mai
N
on copiate. Né piatti, né concetti di ristorazione. Non copiate perché non funziona e in più vi coprite di ridicolo. Cercate una propria strada di cui essere fieri, nella quale credere visceralmente. Quando uno copia si sente meno coinvolto: è come se, inconsciamente, si vergognasse. Perché, in effetti, ha rubacchiato. Scimmiottare vuol dire perdere, già in partenza. Due esempi? Ha appena aperto un ristorante asiatico che, dicono, “vogliono essere il concorrente di Gong”. Intanto è sbagliato come idea, ognuno deve correre per conto suo, mica è una gara. Poi, oltre a voler fare la concorrenza (in cosa, poi?), hanno ripreso e riprodotto per bene quasi tutto. La domanda è: che senso ha? Il mondo è piccolo, per cui chi frequenta Gong magari ci va per curiosità e scopre la copia scialba dell’originale, perché, va
detto, se stai copiando sarai sempre più scialbo dell’originale, ti mancherà sempre qualcosa (l’anima dell’originale, tanto per iniziare). Difficile pensare che uno torni in un posto del genere, avendo carpito l’antifona. Hanno copiato le schiume di Adrià e si sono fatti ridere addosso, hanno copiato mille altre situazioni con risultati patetici. Trovate una vostra identità, rubare l’identità altrui è da perdenti, oltre che frustrante per il cliente. Certo, per avere un’identità ci vuole una visione e non è da tutti. Proprio per questo esistono consulenti e altro. Affidatevi a loro, se non avete le idee chiare. Ma non copiate. Non paga mai.
Michelin,
appunti e puntualizzazioni
O
vunque ti giri vedi saccentini che “sanno”. Non smettono mai di dire la loro, come se fosse la verità assoluta (in base al nulla, poi). Urge un po’ di chiarezza sulle stelle. Non si possono comprare, per almeno due motivi. La scelta è collegiale, ovvero si deve decidere all’unanimità. Metti che hai corrotto uno, rimangono sempre gli altri ispettori: assai improbabile pensare che un ristoratore, oppure uno chef, riesca a dare il malloppo a degli ispettori che probabilmente non conosce nemmeno. Per la prima stella ci sono almeno tre ispettori che vanno a provare il ristorante, diciamo che uno dei loro si presenta, ma gli altri due no: dunque, chi paghi e come? E’ pura follia (lo sappiamo, ma i tuttologi “sanno”).
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Il secondo motivo è di buon senso. Alla Michelin sostengono giustamente che nessuna persona sana di mente potrà mai volere la stella senza meritarla. “Che soddisfazione puoi provare se sai che l’hai comprata, con che faccia sali sul palco?”. Per non dire che, qui ci ripetiamo, un’azienda che fattura 21 miliardi non ha la minima intenzione di sporcarsi l’immagine per una stella: la Michelin è nettamente superiore alle altre guide proprio per via della credibilità, giocarsela non avrebbe alcun senso. Concludiamo dicendo che in questo periodo la Michelin preferisce di premiare la cucina creativa (non estrema, creativa nel senso di concetti nuovi e idee). Siccome la propongono i giovani, ecco spiegato perché ultimamente sul palco sono saliti prevalentemente chef under 35. Ma non c’è possibilità alcuna di vedere premiato un ristorante perché sul tavolo propone l’acqua San Pellegrino (anche perché l’azienda serve la gran parte dei ristoranti, di conseguenza le stelle dovrebbero essere a migliaia).
Wicky che pizza
Q
uando una pizza diventa molto più di una pizza? La pizza potrà mai essere qualcosa di più di una pizza? Quando diventa nobile? Potrà mai diventare nobile? R isposta, di parte: la pizza diventa nobile e molto più di una pizza quando la crea Wicky Pryian. Guardatela, l’ha presentata durante Identità Golose. Non era il primo tentativo di Wicky, ne avevamo assaggiata una due anni fa: fu una prova, poi lui abbandonò l’idea. Solo in apparenza. Qualche mese fa andò ad un incontro con dei pizzaioli, nel Veneto se non andiamo errati. In pratica provò a suggerire loro di osare, di impreziosire, di cambiare la pizza, perché, va detto, la pizza non è un tabù. In pratica sussurrò loro come andare oltre. Tutti apprezzarono. Ecco la sintesi di quell’incontro, la pizza presentata a Identità. L’impasto era di alto livello, ma non è questo il contributo di Wicky: eccolo. Cime di rapa, salsa verde (basilico e prezzemolo più due ingredienti che rimangono segreti), pinoli, cetriolo marinato con mizo per tre (tre!!!) anni, olio, cipolla francese saltata con salsa di soia e aceto balsamico, tonno marinato con sake Mirin e soia, branzino marinato con alga Kombu, sgombro giapponese marinato con aceto di riso w sale sugar, infine polvere di umami. Certo, non è una quattro stagioni e ancor meno una prosciutto e funghi, ma oggi la pizza è molto altro. Wicky è il futuro della pizza. O la pizza del futuro.
Food porn
alla siciliana
T
arda mattinata di una giornata priva di impegni. Uno si mette a leggere pigramente Isabel Allende. “Il nero di seppia è così erotico che sarebbe sconveniente servirlo a monache e vedove”. Frase non progressista e non politically correct, esclude minoranze: aia aia aia, già immaginiamo le femministe con la rivoltella puntata. Chi se ne, la vita è altrove. E poi il pensiero rimane al nero di seppia. Dove, a pranzo? Ricordavamo uno spaghetto mortale, con appunto nero di seppia e ricci. Piatto tipico siciliano, la prima volta lo assaggiammo da Vincenzo Candiano, chef autodidatta e bistellato della Locanda Don Serafino. La Sicilia è un po’ lontana per essere raggiunta in tempo per il pranzo. C’è invece una Sicilia più vicina, in Via Archimede. Pure qui c’è il piatto con nero di seppia e ricci. Ed è uno spasso. Un orgasmo. Una goduria. E’ spasmodico. Ricco. Ricchissimo. Gustoso. Lussurioso. Struggente. Devastante. Lascia il segno, eccome. Di Alberto Faranda ne abbiamo già parlato, merita essere ancora elogiarlo. Ha la mano sicura, propone una cucina
positiva, solare, viva, colorata, emozionante. E’ qui al ristorante I mori da meno di cinque mesi, però è già riuscito a riempirlo: la gente apprezza, e tanto. Non potrebbe essere altrimenti. Piccola aggiunta: abbiamo chiesto un parere ad una sommelier di grido, Anna Cardin, eletta come migliore l’anno scorso. Ci ha suggerito come abbinamento il Viognier di Fina. Food porn, davvero.
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Scorrettezza stellata
A
bbiamo ospitato già due volte le incursioni letterarie di Fabio Tammaro, chef e patron del ristorante Officina dei Sapori, a Verona. Ora invece vorremmo pubblicare un suo sfogo legato alla scorrettezza di alcuni suoi colleghi. Per carità, è tutto lecito, non è contro la legge, però non è il massimo dell’eleganza. Da un’altra parte Fabio dovrebbe essere fiero della squadra che ha creato e della loro fedeltà. “Un noto chef che lavora in un altrettanto noto ristorante sulla ancor più nota costiera anconetana, noto, nota, note...è venuto durante l’ultimo Vinitaly ad omaggiarci della Sua visita. Tavolo splendido, con tante bottiglie stappate e meravigliosi complimenti che porterò sempre nel mio cuore. Dopo un giorno mi arriva la sua richiesta di amicizia e ovviamente la accetto. Attraverso il mio profilo, rintraccia tutto il mio personale di sala, ripeto, tutto il mio personale di sala, offrendo ad ognuno di loro un ruolo fondamentale nel ristorante che punta alla stella Michelin in estate e il conseguente bistrot in inverno. Vitto, alloggio e stipendio più che dignitoso. Adesso, senza fare polemiche. Questi sono gli stessi che si lamentano che i dipendenti sono poco seri perché accettano la prima offerta buona che
gli si propone; poi vanno in giro a fare il gioco del rialzo sottobanco. I miei ragazzi hanno avuto una meravigliosa offerta di lavoro di fronte al mare, con tutte le spese pagate e un ottimo stipendio, in uno dei locali più suggestivi della costa. Allora mi chiedo, perché sono rimasti da me?! Ve lo dico io: perché esiste una piccola cosa nella vita che non potrete mai comprare coi vostri soldi. Si chiama rispetto. Quello che i miei ragazzi hanno verso di me e io verso di loro. Lo stesso che invece non riuscirò mai ad avere per gente come voi, poveri mercanti in fiera. E sono stato bravo a non chiamarvi in un altro modo. Buona fortuna ed evitare di fare le cose sottobanco che in ambienti familiari - come la mia officina - ci si dice tutto”.
Uffici stampa,
C
che sciagura
he siamo contrari all’idea di avere un ufficio stampa solo perché lo si deve avere lo sanno anche i muri. Il problema non siamo noi, bensì i danni che riescono a fare ad un’azienda. L’esempio fatto nella pagina accanto, che riguarda il ristorante Trussardi è lampante: il menù ha più errori di traduzione e punteggiatura che piatti (mai vista una roba del genere, mai vista), e pensare che hanno a disposizione manager, food and beverage, pr e, ovviamente, un ufficio stampa. Nessuno che abbia notato gli errori, per non parlare dell’estetica del menù stesso (altro che maison di moda e Made in Italy). Però ci sono tante situazioni dove la scarsezza dell’ufficio stampa penalizza, e fortemente, l’azienda che rappresenta. Prendiamo i ristoranti di altissimo livello che, a guardare dalle foto, non danno la sensazione di essere tali. Uno dei più forti ristoranti di Milano, sempre pieno, ma sempre sempre pieno, ci rimette per via di un ufficio stampa scialbo,
senza verve e senza immaginazione, corretto ma scolastico, in pratica non serve a nulla. Certo, nessuno si riconoscerà in questo articolo, perché tutti hanno un’immagine fantastica di sé, ma è inconcepibile che gli sforzo di uno chef e di un ristoratore possano essere penalizzati dalla mancanza di idee e di charme di un ufficio stampa. Abbiamo letto recentemente un comunicato che recitava più o meno così: “il locale apre definitivamente e propone dei cocktail disegnati da….”. Dobbiamo aggiungere qualcosa? Si, il fatto che il profilo Instagram e le fotografie postate e pubblicate sono l’immagine del ristorante, se una persona si vuole informare prima di decidere di andarci guarda le immagini e si fa un’idea. Non esiste al mondo che un ristorante possa essere percepito negativamente per mano di un ufficio stampa non all’altezza. Morale, state attenti a come scegliere: chi lavora per voi, con voi, dovrebbe avere la stessa sensibilità e talento, vederla allo stesso modo. Sennò, vi manda in rovina.
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Amor
ma non troppo LA PIZZA di Alajmo, IL DISEGNO DI STARK, la fanfare incessante DELLA STAMPA (vabbè, prevedibile), TUTTO TI FACEVA PENSARE ad UN LOCALE CHIC, COOL, da frequentare spesso:
E INVECE...
U
na delusione atroce. Davvero. Tutto, dall’ambiente fino alle pizze, rasenta quasi la depressione. Le pizze sono tristi, tristissime, le porzioni minuscole, quasi da bambino da asilo. La così detta amatriciana è molle, mollissima, mollississima, la margherita croccante invece è uno scherzo stracolmo di salsa al pomodoro e tre fettine di mozzarella: esteticamente, una sciagura. Ti pare da essere all’Autogrill e invece sei da Amor, strombazzato locale ideato da Philippe Starck: a proposito, quanti milioni di pezzi molli e tristi si dovrebbero vendere per pagare il cachet dell’architetto? Già l’impatto è una delusione tremenda. Non ce lo aspettavamo. Okei, le maschere dorate sulle pareti sono carine. I tavoli a mò di banco sono poveri, i prodotti esposti come se fossi all’autogrill. Effetto wow? Inesistente. Forse siamo andati con delle aspettative esagerate perché si trattava di un locale della famiglia Alajmo, geni in cucina e anche in affari (fatto molto raro, per cui chapeau). Si era parlato così tanto del concept che uno si aspettava qualcosa di indimenticabile fin dalle vetrine, e invece una delusione atroce. Si, atroce, perché tutti incensavano il lavoro di Philippe Stark e il nome, Amor, prometteva bene: ti portava con il pensiero ad un posto incantevole e rilassante, emozionante e colorato. E invece niente colori e niente emozioni. Il servizio invece encomiabile,
No 46
nulla da dire. La pizza di Alajmo, il disegno di Stark, la fanfare incessante della stampa (vabbè, prevedibile), tutto ti faceva pensare ad un locale chic, cool, da frequentare spesso. E invece. Va detto che le fotografie ingannano, è uno di quei casi dove le immagini sono meglio del posto stesso. Poi entri e sulla sinistra trovi esposto il “masscalzone”, una sorte di pizzatramezzino di rara bruttezza. Prima di ordinare conti fino a dieci, sei tentato di uscire, però torni sui tuoi passi, almeno assaggi per poter scrivere l’articolo. E’ l’unica ragione, perché di invogliare non invoglia. Ed eccoci, con le foto accanto. La così detta margherita croccante, con salsa di pomodoro che abbonda e straborda, poi l’amatriciana che è molle, molle, molle e triste, triste, triste. Certo, c’era tanto altro da scegliere, ma due possono bastare, tanto le altre sono sulla stessa falsariga. Lo diciamo con tutto l’amore e il rispetto per Massimiliano Alajmo e per la sua famiglia, davvero strepitosi, geniali, straordinari: non avremmo mai immaginato una tale pizza. Certo, qualcuno verrà a raccontarci l’impasto con il solito tono e atteggiamento da primo della classe, però il nostro giudizio è talmente negativo da non voler più sentir parola. Siamo usciti con la morte nel cuore, delusi e abbattuti.
Foto: Monica Cordiviola
Francesco Martucci
Martucciland, Caserta
H
a iniziato a lavorare a dieci anni, ora ha 36 persone che lavorano con lui e una pizzeria con 156 posti a sedere, una cucina di 320 metri quadri che sembra una centrale atomica: affumicatori, abbattitori, forni, macchinari vari. Fanno 1000 pizze al giorno, nel weekend anche 1250. Francesco è una macchina da guerra e gli piace esserlo. “Sempre in prima fila, a dare l’esempio. A proposito, complimenti, ho letto quello che ha scritto su Beniamino Bilali, non ha avuto il timore a scrivere che un ragazzo albanese fosse il miglior pizzaiolo: lo è, dopo di me”. Un fiume in piena, Martucci. Sa di essere bravo e lo dice senza problemi, senza sembrare presuntuoso: “Sono il numero uno”. Come dicevamo ha iniziato a lavorare a 10 anni, perché, come racconta lui stesso, “a casa nostra mancava perfino la corrente e c’era bisogno di darsi da fare”. Ha cominciato lavando i bagni e i piatti, poi pian piano è riuscito a sviluppare delle
conoscenze fino a diventare un mito assoluto e un mostro sacro e ad aprire I Masanielli, a Caserta: la Martucciland, come la chiama con un misto di orgoglio e affetto, di commozione e autocompiacimento. Ha puntato tutto sulla disciplina e sulla voglia di regalare emozioni alla clientela, riuscendoci: difatti quell’effetto mini crunch è un suo marchio di fabbrica. - Come possiamo definire e caratterizzare la sua pizza? - Semplicemente è la pizza di Martucci. Scherzi a parte, c’è quell’effetto mini crunch che poi si scioglie al contatto con le labbra. - Come si è evoluto il mestiere e il ruolo del pizzaiolo? - Si è evoluta l’intera società, prima si andava al ristorante per saziarsi, ora è diverso. Chi si è evoluto sta facendo la differenza - La sua pizza preferita? - Quella pizza che mi racconta qualcosa, che mi emoziona e che sa di cultura. - La miglior pizza che ha mangiato? - La miglior pizza è la Margherita di Gabriele Bonci, quella al taglio. - Il miglior pizzaiolo in circolazione? - Il migliore sono io, che domanda. - Quali sono le caratteristiche e le conoscenze che deve avere un pizzaiolo moderno? - Prima di tutto deve capire quello che vuole la gente, perché in quell’ora che passa da te si vuole emozionare, vuole capitalizzare quel tempo al miliardo per cento. Poi deve dare l’esempio e stare a lavorare sul banco, più di tutti, davanti a tutti. Io lo faccio ogni giorno. A proposito, non ne abbiamo sbagliata una, di pizza. E poi una pizzeria arci piena è una opportunità, non un problema: lo scriva, perché alcuni si lamentano.
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Sommelier o no?
Sorrisi, non discorsi UNA HOSTESS che parla CON IL SORRISO e dice IL MINIMO INDISPENSABILE metterebbe d'accordo tutti, farebbe sognare in tanti e aumenterebbe
LA TEMPERATURA DELLA SERATA
L’
idea ci è venuta guardando per l’ennesima volta un film straordinario, pieno di gente ambiziosa, di successo, bellissima, incantevole. E’ del 2006, si chiama Un’ottima annata: donne mozzafiato e atmosfere sognanti, più una sommelier da fantascienza. Starring, Russell Crowe e Marion Cottilard, al massimo del suo splendore. In un ristorante londinese, il vino lo serve una ragazza da mille e una notti, forse sommelier o forse no. Ecco, i sommelier: quanto incide la piacevolezza della persona, fisicamente parlando? Perché ok, ci stanno aggredendo ferocemente con questo insopportabile politically correct, dobbiamo mentire per il quieto vivere e dobbiamo dire che sono tutti uguali, belli, bravi e tutto il resto delle menzogne, ma per fortuna esiste il privato e lì non si scappa. Inutile negarlo, l’aspetto fisico conta da uno a dieci mille. Se la sommelier fosse di una bellezza folle, o per non turbare le anime belle diciamo di un piacevolissimo aspetto, se fosse elegante e sexy, se ci parlasse con voce suadente e se ci sorridesse, siamo sicuri che i suoi discorsi sul vino verrebbero considerati troppo lunghi e noiosi? La buttiamo lì: se invece dei sommelier ci fossero delle hostess a raccontarci il vino? Tacchi alti, vestiti attillati, sorrisi ammalianti? Perché poi si tratta di una vendita e per vendere ci vuole fascino. In tal caso faremmo un sforzo e staremmo a sentire frasi inutili sull’annata, sulle temperature basse a febbraio e sulla grandine a giugno? Decisamente sì. Provocazione (ma non troppo) a parte, il discorso ha un senso ed é un segnale, oltre a essere un grido di disperazione. Sempre più gente mostra insofferenza verso il servizio rigido di alcuni stellati e non. Quella cerimonia ingessata sta allontanando le persone, le donne per prime, che spesso si annoiano alla quinta spiegazione minuziosa. Poi ognuno fa come gli pare, ma la gente pagherebbe ancor più volentieri la stessa somma richiesta per un menù degustazione se si potesse fare a meno di lezioni su vini e cantine, come se si fosse a scuola. La gente è mediamente educata e in quel minuto finge di essere interessata alle parole sull’annata e sulla provenienza, quando invece ne farebbe volentieri a meno. Chi è interessato chiede, chi no subisce. Una hostess che parla con il sorriso e dice il minimo indispensabile (“Buonasera signori, ecco il vostro Sassicaia del 2013, buon proseguimento”), metterebbe d’accordo tutti, farebbe sognare in tanti e aumenterebbe la temperatura della serata. Perché al ristorante si va (anche) per questo.
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