MARCO B. BUCCI
THE FALL Opera magica in dodici storie
Illustrazioni di JACOPO CAMAGNI
MARCO B. BUCCI
THE FALL Opera magica in dodici storie
Illustrazioni di JACOPO CAMAGNI
Al Vero Amore, che è la mia Pietra Filosofale. Marco A chi nella vita è caduto almeno una volta e ha trovato la forza per rialzarsi e cambiare il proprio destino. Jacopo
CAPITOLO I
BECKY
Il tuffo al cuore è solo per chi il cuore ce l’ha in petto.
Non per Becky, che cadde nel vuoto senza sentire nulla. Come a volte si precipita nei sogni, solo molto più velocemente, senza il tempo di pensare. Sentì solo il cornicione di cemento mancarle sotto i piedi e in un attimo era due piani più giù. Non ci aveva pensato troppo: era stata lei a gettarsi, a deciderlo, a credere in quello che era. Si sforzò di guardare il cielo tra le cime dei palazzi sul quale era steso un maestoso tramonto. Poteva percepirlo appena. Non aveva mai visto in vita sua il colore di un’alba o distinto quello di una giornata serena da quello di una uggiosa. Tutto si riduceva a luce e buio, e in quel momento la luce se ne stava andando. Proprio come lei. Dov’era il barbagianni? Gettarsi era sembrato un bel modo per provocare i sogni. Una scorciatoia per scoprire tutta la verità su se stessa e sul potere che continuava ad agitarsi sotto all’ingessatura. Come un prurito, o peggio, come una creatura vivente che le strisciava sotto
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CAPITOLO I – BECKY
pelle. E allora perché aveva ancora una volta così tanta paura di morire? Dove cazzo era quel maledetto barbagianni?! Rebecca sentì l’aria tendersi con uno strattone e subito si levò attorno a lei un gran fragore. Era un frullo d’ali, una cascata di frammenti di vetro, un levarsi di bandiere percosse dal vento, di foglie agitate e d’acqua feroce, capace di spazzare via ogni cosa mentre scende a valle. Perché continuava a cadere? Perché non era come nei film dove la magia ferma il tempo, fa levitare le gocce d’acqua con la telecinesi o divampa in fiamme colorate? Serviva una formula? Una bacchetta? Una scopa? Perché il Barbagianni non veniva a salvarla? Nessuno le aveva detto che le streghe volavano o che potevano farlo semplicemente gettandosi da un cornicione. Stupida, stupidissima, Becky. Il rituale di Lady Macbeth e di Fer avrebbe potuto insegnarle qualcosa, ma lei aveva scelto di gettarsi dalla torre di astronomia di Hogwarts, saltando tutte le lezioni. Becky chiuse gli occhi velati di paura all’altezza della grande insegna retroilluminata che campeggiava sul palazzo. NETWORK, a caratteri cubitali. Poi buio. Nei sogni vedeva le lettere un attimo prima di svegliarsi, mentre in quel momento stava accadendo l’esatto contrario. Un’ultima parola prima di prendere sonno. Che ironia. Si schiantò così forte da sentire la vibrazione propagarsi in tutto il corpo, dentro e fuori. Sembrava che ogni suo remoto angolo si fosse disposto a comporre una cassa di risonanza. Becky si sentì un grande strumento musicale improvvisamente risvegliato dopo anni di inutilizzo e costretto a emettere la sua nota più bassa. Il tremore si diffuse da lei alla terra nuda 10
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sotto la schiena, umida e fredda, e stranamente continuò oltre, scendendo in profondità. Lo sentì agitarsi ancora, dopo qualche attimo di silenzio, ma era già un rombo lontano. Il tuonare di una tempesta che l’aveva attraversata ed era diretta verso le profondità della terra. Becky si rotolò sul lato spalancando i polmoni con un violento colpo di tosse e spargendo capelli arcobaleno sul fango nero. Durante il secondo colpo di tosse venne accecata da una luce a pochi passi da lei. Un cespuglio buio e ritorto era grottescamente carico di frutti rossi. Erano così intensi e così fuori posto tra le fronde bluastre da sembrare piccole fiammelle immobili. Spaventosi come lo sono a volte i ceri sulle lapidi. Un attimo prima era a Manhattan. Ora si trovava in una palude. - No, no… NO. Il teletrasporto no, cazzo. Cercò di stropicciarsi gli occhi, ma una volta riaperti incontrò un fungo poco più in là che era di un brillante color rubino macchiato di bianco. In mezzo al pantano, al legno marcio e alle pietre, diverse muffe ricoprivano le superfici con una gamma di verdi chiari e violetti. Nonostante la palude che la circondava fosse l’ultimo posto dove si sarebbe immaginata di poter ammirare colori sgargianti, Becky ne venne presa d’assalto, come le accadeva solo nei sogni. Erano ovunque, resi ancora più vividi dal fango, dalle pietre e dai rami a terra totalmente neri. Ora sapeva che cos’erano le tonalità di cui tutti le avevano sempre parlato. I colori erano la magia e il sogno, la stregoneria e le visioni. Aveva scoperto da pochissimo che anche lei, nonostante l’acromatopsia, aveva sempre potuto vederli. Non 11
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durante la veglia, o nella vita di tutti i giorni, ma solamente nei sogni. E certamente non in un acquitrino nero immerso nella nebbia. Cercò di scollarsi dal fango pastoso, costellato di piccole e morbide escrescenze fungine, ma sprofondò d’improvviso nel terreno fino a mezza coscia. - Oddio… Si tirò su ma sentì smottare ancora il fango sotto di lei. - Cazzo! La terra, cominciò a gorgogliare pigramente, facendola sprofondare. - Eccomi Artax, stupido cavallo…
- Hai un cavallo? Il ragazzo sgusciò fuori dalla nebbia con un grande carico sulle spalle. Scivolò tra i cespugli con un paio di balzi, scostando giunchi, erbe spettrali e bassi arbusti spinosi. Sembrava alto una spanna in meno di Becky, con appena un filo di carne attorno alle ossa e un corto gonnellino di lino. La carnagione, di un rosa ciclamino sgargiante, gli donava l’aspetto più innaturale che Becky avesse mai visto. Brillava nella nebbia come quelle creature marine bioluminescenti nei documentari del National Geographic. Un colore che apparteneva solo alle gomme da masticare o allo zucchero filato delle fiere. A esso ben si abbinavano corte creste ossee sulla sommità della fronte. Una testolina totalmente liscia e due occhi enormi re12
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stituivano il ritratto di una creatura bella, ma che non aveva niente a che fare con il genere umano. Alzò una mano in direzione di uno spiraglio di luce trai fumi insalubri e gli effluvi di decomposizione. - Se ti sei persa, i campi sono di là. La voce era tranquilla, per niente affaticata, nonostante trasportasse una grande fascina di rami e giunchi che ora riposava accanto a lui. - Non sono sicura di essermi persa. Dev’essere un sogno, anche se non sembra uno dei miei… soliti sogni. Becky stava per aggiungere altro quando vide saettare dietro il ragazzino qualcosa d’ingombrante e serpentino. Tra il fango strisciava una lunga coda da coccodrillo rosa. Il ragazzo aveva la coda. Da coccodrillo. Rosa. - A volte si arriva qui passando dai sogni, può succedere. Aggiunse lui. - Così come il contrario. Ci sono due porte: una di corno e una d’avorio. Tu da quale sei passata? Becky, che stava per urlare, si finse disinvolta. - Caduta. Sì, sono caduta. Cado spesso, però mi riesce male morire. Ho una certa esperienza. - Morire? Lui inclinò la testa sgranando gli occhi. Poi annuì, gravemente. 14
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- Morire. Già. Ho questo vizio. La sua tasca della giacca vibrò facendola trasalire. Becky tirò fuori lo smartphone guardando sorpresa l’ultima notifica di Instagram non letta. - Ma wow… PRENDE IL CELLULARE. - Non so cosa sia un cellulare. Però in questo posto si finisce spesso da morti. Forse sei qui per lavorare. Sempre che tu non abbia i tuoi ushabti, coloro che rispondono al richiamo. Loro lavorerebbero per te. Il ragazzo si avvicinò con disinvoltura, sprofondando nel fango fino alle ginocchia e spargendo un intenso profumo di iris. Becky cercò d’improvvisare. - Vediamo… ushabti hai detto? che forma hanno? - Sono piccoli servitori, di solito in pietra brillante. Non ne puoi portare qui più di uno per ogni giorno dell’anno, è la regola. Becky sbloccò il telefono e aprì la galleria immagini. Le sue dita danzarono sullo schermo per qualche secondo e poi rivolse il dispositivo verso il ragazzo rosa. - Tipo… questi? Sul monitor apparve un tavolo imbandito di miniature di Warhammer e Blood Bowl. Ogni pezzo era dipinto alla perfezione.
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- Esatto! Che maestria! Sembrano vigorosi lavoratori e anche potenti guerrieri. Sei fortunata, Signora. I tuoi ushabti sono temibili. Becky sorrise e per un istante si dimenticò del salto nel vuoto, del pantano nerastro, di Taranis e del suo cuore perduto. - Hey… Grazie. Mi ci è voluto un sacco a dipingerli. Dovresti vedere i miei Gundam! Comunque mi chiamo Becky. - Il mio nome è Ialu PièDiGiunco, sono l’hem di Tameret, cantatrice di Amon e di Mut, Signora di Asheru. Sei caduta davanti al suo tempio. Indicando in modo eloquente la distesa paludosa senza edifici, alberi e forme di vita. - Almeno non ho schiacciato nessuno con una casa. - Con una casa no, ma forse hai usato la parola chalòm per viaggiare, che vuol dire sogno ma che è simile a chalòn, che vuol dire finestra. Potresti aver usato quella per cadere qui. Dalle finestre si cade. - Non fa una piega. Becky sgranò gli occhi come se avesse realizzato in ritardo mostruoso qualcosa che era davanti ai suoi occhi sin dall’inizio. - Ok fermi tutti, Ialu… che lingua stiamo parlando? - Non lo so. Io ne parlo molte. Qui non arrivano solo i figli di alcuni, ma anche i figli di tutti.
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- Bene. Scommetto che nessuno qui parla inglese e che forse anch’io, in questo momento, non sto parlando inglese… ma STIAMO CALMI. Traduzione simultanea effetto Tardis, finto trapasso parte terza, tu sei un demonietto rosa poliglotta e io… e io come cavolo so che il colore della tua pelle è ROSA?! In risposta la terra tremò violentemente sotto di loro. Era come stare in equilibrio sopra a un’enorme creatura mostruosa, che lentamente si spostava sotto terra facendo cedere le fondamenta di qualunque cosa. Poi la scossa finì e a Becky scappò un urlo strozzato, sicura com’era che le sabbie mobili tutt’intorno a lei si stessero per aprire al solo scopo d’inghiottirla. Ialu fu il primo a rialzarsi, annusando l’aria come un’astuta preda decisa a vendere cara la pelle. La sua espressione però si distese e il ragazzo abbozzò un sorriso. - Tameret! Tameret-Signora-di-Asheru vuole vederti! Non sapevo che fossi giunta qui per lei. - Ah se è per questo nemmeno io. Ialu prese per mano Becky per tirarla fuori dalla pozza, entusiasta. La pelle di lui era morbida e calda, profumata e pulita. C’era qualcosa che lo rendeva appetibile come un dolce. Come se il suo intero corpo, perfettamente umanoide e proporzionato, fosse in un qualche modo commestibile. Becky arrossì, mentre lui l’aiutava a rialzarsi. - Lei è saggia e bellissima. Io sono solo una canzone che la serve. Tutte le altre canzoni stanno venendo dimenticate, ma lei mi renderà eterno. - Tu, Ialu, sei… una Storia?
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- Una Canzone. Parlo del viaggio che porta al Campo dei Giunchi dell’Eternità. L’ultima avventura di ogni mortale oltre le porte del Tempo. La divina Tameret mi ha accolto nella sua dimora per non perdermi e non mi lascerà mai solo. Il minuto ragazzo coccodrillo raccolse le fascine e se le caricò nuovamente in spalla. A Becky l’idea stessa di eternità sembrava una gran fregatura. Era un po’ come tirarsi su il morale pensando al lieto fine dei film di Natale o ai messaggi dei biglietti di auguri. Sollievi per un’altra epoca, probabilmente tramontati oltre l’orizzonte dei buoni sentimenti. Dopotutto ben poche cose erano davvero “per sempre”, figurarsi quelle buone. - Perché sento che c’è qualcosa che non voglio davvero sapere di tutta questa faccenda? - Puoi non sapere nulla, niente di niente, però ti prego seguimi nel labirinto, Signora dell’Armata Splendente. Becky si prese un attimo per pensare poi sfoderò nuovamente lo smartphone e rispose decisa con lo schermo ben in vista davanti a sé. - Ok Ialu. Ma se mi freghi ti faccio vedere la mia armata da molto vicino. Ialu guardò la miniatura di un orco armato d’ascia occupare tutta la superficie dell’oggetto splendente che la ragazza puntava contro di lui. Becky ingrandì con lo zoom le fauci del guerriero. Il ragazzo coccodrillo deglutì cercando con un mormorio i suoi Dei. 18
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L’ingresso era un buco nella terra indistinguibile dalla tana abbandonata di un animale di grossa taglia. Una galleria stretta e sinuosa che s’inabissava in prossimità della carcassa di un albero cavo ormai interamente divelto e collassato su se stesso. Tra la terra nera, il legno disfatto e i rami abbattuti nel fango crescevano muschi di palude, ciuffi di giunchi e matasse di licheni lanosi. A ben guardare c’erano disseminati un po’ ovunque dei piccoli frammenti bianchi simili a ossa, ciocche di crini animali e spesse ragnatele che avevano intrappolato insetti e qualunque tipo di sporcizia. Tutto faceva pensare a un brodo primordiale nel quale prima o poi ogni cosa sarebbe sprofondata per poi disciogliersi. Probabilmente anche Becky, se Ialu non l’avesse tratta fuori dall’acquitrino, avrebbe fatto la stessa fine divenendo parte di quella melma nerastra. La discesa nel buio della tana non sembrava per nulla rassicurante, ma dopo qualche passo Ialu accese una fiammella dentro a una ciotola di bronzo. L’odore di legno profumato e un debolissimo bagliore si diffusero nel cunicolo svelando alti gradini irregolari e una scanalatura nelle pareti che fungeva da primitivo corrimano. Non c’era più traccia di liquami, sudiciumi, funghi e putrefazione. La strada che scendeva ripida nel vuoto era stata modellata in una grotta dello stesso colore del fango, ma di una materia dura e compatta, opaca e uniforme. Il cunicolo era incredibilmente liscio, come se l’acqua lo avesse scavato e lucidato nel corso dei secoli. Abili artigiani dovevano aver dato forma ai gradini in modo impeccabile, ignorando però la lunghezza media degli arti inferiori umani. Ogni gradino era troppo stretto e troppo alto. 19
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Becky faticava a stare dietro al ragazzo coccodrillo che invece scendeva in equilibrio sugli spigoli smussati con grande tranquillità. Una macchia di colore sgargiante che fluttuava nel buio e nel silenzio. Quel luogo, e forse anche quella guida, cominciavano ad affascinarla. - È marmo? Disse accarezzando una parete, non particolarmente fredda al tatto. - La chiamano Ambra Nera, ma so solo che è una pietra calda che ha ricordi della superficie, proviene da lì. Si dice che un tempo fossero alberi. Il tempio ne è circondato: sopra, sotto e tutt’intorno… Ma al suo interno tutto è di marmo tebaico rosso e di basalto nero. Becky si fermò un istante ad annusare la pietra. Sapeva in effetti di legno scaldato dal sole. - Secondo Plinio è stato costruito da Petesuchos Pnepheros, ma in realtà la maggior parte delle grotte qui sotto erano esattamente come le vedi da ben prima che arrivassero i padri dell’architetto, e anche i padri dei loro padri. Il tempio ora è la casa di Tameret. - Ma è una tomba? Cioè, ho la sensazione che questa Tameret che vive sotto una palude non sia proprio una… come le altre. - Lei non è come nessuno e non ha mai smesso di essere viva. Ciò che dici però è accorto: qui sotto ci sono molte tombe. Dodici Re hanno le loro stanze eterne, e molte di più sono quelle dedicate a contenere i coccodrilli sacri che qui riposano. Vi sono anche dodici Cortili del Silenzio, che hanno 20
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porte e cancelli opposti tra loro. Sei aperture devono essere rivolte verso nord e sei verso sud, questa è la regola. Anche se questo luogo talvolta si presenta diversamente da come lo vedi ora, certe cose non cambiano mai. Ognuno dei cortili contiene oggetti che non possono essere spostati, statue che io devo tergere, vestire, adornare con gioielli e truccare con i colori che mi indica la mia Signora. Tutto ciò di cui mi occupo deve rimanere immutato. Quindi c’è tanto da fare, anche nel Labirinto. Becky annuì, come se sapesse perfettamente a cosa Ialu si stesse riferendo. - Ho sognato più volte un labirinto, ogni volta differente. È uno dei pochissimi sogni ricorrenti che faccio, e ti assicuro che ricordo molto bene i miei sogni. - Sei benedetta da Khonsu, allora. Signora Becky. Becky arrossì di nuovo, ancora una volta con quello strano appetito in bocca. - Ma tu vivi... qui sotto? Cioè… com’è la tua vita? - Io non ho una vita, io sono. Posso smettere di esistere, ma non posso morire. Non ho bisogno di riposare, solo di sbrigare tutti miei compiti. Becky sbuffò perché cominciava a riconoscere come certe creature soprannaturali evitassero risposte dirette. - Sì, ok, ma cosa fai per te stesso? Non ti annoi mai? Ialu ci pensò per qualche passo. 21
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- Ho un grande privilegio. Assisto alle partenze di tutti coloro che oltrepassano le Porte del Tempo e parlo con tutti coloro che giungono ai Neri Pantani di Sacro Limo. - Limo? Quello di cui sono ricoperta? FANTASTICO. Non è che finisco nei casini per essere piombata nell’orto della tua signora, vero? Ricordati della mia Armata Splendente… - No i fanghi appartengono a chiunque, ciò nondimeno rimangono sacri. Pensavo ti fossi solo smarrita, ma sbagliavo. Sei attesa e non devi temere alcunché. Ho male interpretato i segni perché chi giunge qui grazie all’invito porta sempre con sé un corvo, un globo di piombo e una giara. - Ok… tipo doni? Cioè, dovevo portare un regalo? - Tutti hanno un dono, anche chi non sa di averlo. Anche tu. Il buio venne spazzato via dalla luce delle torce, davanti a Becky prese forma un palazzo sotterraneo.
Gradini e archi, volte e colonne, architravi e capitelli. Sotto la luce delle fiamme tutto aveva un aspetto antico nonostante fosse in perfette condizioni. Al duro granito erano state date le forme più disparate, come fosse stato morbida creta. Statue e altorilievi erano ovunque, tanto che non esisteva un solo spazio sgombro da essi. Anche le pareti e i soffitti sembravano reggersi unicamente sulle figure di pietra e questo rendeva il buio pieno di facce, occhi e bocche spalancate. Ialu non le dava il tempo di soffermarsi sui dettagli, ma era inevitabile rallentare il passo di tanto in tanto. 22
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Becky doveva evitare di continuo il protendersi di una mano, le spire di una coda, l’ampia apertura di un battito d’ali. I lunghi corridoi erano sovraffollati di personaggi inanimati d’ogni forma e dimensione. Non si poteva più parlare di cunicoli o tunnel perché i limiti di pavimenti, pareti e volte erano scomparsi nel caos delle forme rappresentate. Dagli altorilievi, presenti anche sui bassi soffitti, scendevano figure mitologiche per amoreggiare o dar battaglia alle altre che fuoriuscivano dalle pareti accanto. Era come leggere geroglifici, ma al posto della stilizzazione tipica della scrittura egizia c’era un virtuosismo di forme e volumi che solo l’arte neoclassica aveva saputo rappresentare. Un continuo cercarsi, strattonarsi, trafiggersi o penetrarsi a vicenda. Un’intera epopea di guerre, amori e desideri, scolpita tutt’intorno a Becky, che tuttavia non aveva il tempo di fermarsi a leggere. Sgranò gli occhi solo un paio di volte, pensando di essersi sbagliata a interpretare due corpi avvinghiati fantasiosamente l’uno all’altro. Passò qualche camera con numerose file di statue disposte su piedistalli squadrati, ben lontane dalle bolge che si svolgevano sulle pareti precedenti. Gli ambienti non erano mai arredati o spaziosi, ma la presenza di tutte quelle figure scolpite li rendeva ugualmente maestosi. Era un tempio edificato sui corpi pietrificati dei protagonisti di quella mitologia. Ed era, a tutti gli effetti, un intricato labirinto. Becky si sentiva arrivata a un capitolo fondamentale della sua storia. Oltre l’ennesimo arco, una stanza dal soffitto a cupola custodiva un trono. Non si poteva chiamarlo in altro modo, nonostante non fosse effettivamente fatto per sedersi. Si trattava di una catasta piramidale di corpi, perfettamente intrecciati l’uno all’altro. Sulla sua sommità stava una figura, in carne e ossa. Una donna formosa, nera più del limo, con il corpo pesante adorno di simboli d’oro e monili di legno e pietra. 23
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I capelli erano raccolti in trecce ma si perdevano oltre le sue forti spalle, nel buio. Era proprio così che Becky aveva immaginato da bambina una dea di tutte le madri. O almeno era quello a cui pensava mentre osservava la fotografia di una venere paleolitica stampata sul suo libro di storia. Una statuetta con ventre e seni prominenti modellata da uomini di venticinquemila anni fa. La genitrice fatta di terra e carne, legno e pietra prese vita e si mosse. - Avvicinati, Figlia di Naya. La voce era morbidissima, come una carezza non desiderata. Becky si guardò intorno e andò per esclusione. - S- sarei io? Il silenzio che seguì fu una risposta sufficente. - Ovviamente sono io. Mi chiamo Becky, comunque. Fece un passo avanti, poi un altro, ma rimase comunque a distanza, accostandosi a una delle torce che illuminavano vivacemente la stanza e la riempivano di crepitii. - E sono confusa… Ialu le passò accanto, lasciando la fascina ai piedi della piramide di corpi pietrificati e cominciando lesto a scalarla per raggiungere il punto in cui era seduta la donna. Si aggrappò a cosce, seni, ali e corna di pietra, continuando a salire fino a raggiungere la schiena di un uomo che leccava una lunga coda 24
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di serpente. Lì si acquattò, guardando Becky dall’alto, accanto alla sua signora. - Pochi attimi basteranno per farti capire ogni cosa, Figlia di Naya. Non ne sono mai serviti di più. Becky sentì una voce lontana, come un’eco, provenire da qualche parte in alto sopra di loro. Chiamava il suo nome: avrebbe giurato si trattasse di Fer, ma scacciò quel pensiero poco gradevole. - Perché sono qui? Se dovevano parlare, era ora di farlo. - Perché il Sentiero è sempre sotto ai tuoi piedi, e l’ovunque è già qui. La donna lasciò che quelle parole sacre rimbombassero nella camera del tempio. Poi continuò lasciandosi trasportare dai suoi stessi pensieri. - Sai come muoverti nei mari argentei della Visione e come attraversarli in un attimo, a cavallo di una Tempesta. È con essa che ti sei schiantata sulla mia terra. Il rombo sta ancora sprofondando, sotto di noi, nel buio. Tra poco non sentiremo più la sua voce. Andrà oltre. Becky aggrottò un sopracciglio, senza capire una parola. - Se invece mi stai chiedendo il motivo che ti ha spinta a essere qui suppongo che tu debba interpellare te stessa e le tue intenzioni. Io sono immobile, tu invece hai attraversato molte insidie per raggiungermi. Immagino tu abbia una sensata motivazione… 25
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Becky si rimangiò la battuta sarcastica che stava per fare, espirando lentamene. Forse il salto aveva significato qualcosa. Forse la sua mossa priva di senso era stata a tutti gli effetti una magia. Aveva usato il suo potere? Non nel modo che immaginava, senza consapevolezza, come quando si era rialzata nel bagno del diner viva, ma senza il cuore in petto. Una forma di potere incontrollato e involontario. Prese coraggio, misurando le parole. - Ok, sembrerò una che non ha la più pallida idea di quello che dice… Si masticò lievemente il labbro inferiore. - …e in effetti non sapevo della tua esistenza, né di questo posto. Ma devo essere comunque arrivata qui in qualche modo. Sempre che il “qui” significhi qualcosa. Tutto sembra reale eppure è troppo simile ai miei sogni. Non può essere la semplice realtà. Cioè… quella nella quale vivo. Io ho un disturbo che non mi permette di vedere le cose così… Ecco perché ho bisogno di risposte, dopotutto ho appena scoperto di essere una… Il silenzio tornò a frenare le sue parole, inghiottendole. La voce di Tameret riempì forte e chiara il vuoto lasciato da Becky. Era come se la donna stesse leggendo nell’aria le parole che con solennità enunciava. - Grandi e rotondi capi con occhi di fiamma sporgenti. Becchi adatti a spezzare le schiene delle prede, penne di luna e artigli uncinati, per fare scempio di carni tenere. Voliamo di notte, attaccando i bambini privi di sorveglianti. Ne distruggiamo i corpi rapiti dalle loro culle. 26
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Laceriamo le viscere degli indifesi lattanti con i nostri becchi grondanti, e stridiamo, con la gola piena del sangue bevuto… Streghe… Becky non riuscì a trattenersi. - Aspetta. Cominciava a perdere la pazienza. - Ma… sei seria? La donna sulla cima della piramide si lasciò scappare una breve risata. - Questa è una vecchia storia. Stiamo parlando di uomini spaventati, perlopiù maschi, che vedevano ciò che non riuscivano a capire, e riportavano ad altri ciò che avevano totalmente frainteso. Ovviamente qualcuna di noi si nutre di sangue. Ma, da che ne ho memoria, non è un tratto che può in alcun modo definirci come stirpe. Conosco nostre simili con ogni tipo d’abitudine: che rifuggono la carne in quanto impura o che si nutrono solo di fegato strappato dai corpi ancora urlanti delle loro vittime. Molte di noi si possono trasformare in rapaci, ma anche in serpi, in cani o… sebbene di rado, in gatti. Aver l’ambizione di darci una forma, stilare le nostre abitudini, istruire altri su come ucciderci o proteggersi da noi è un tratto tipicamente maschile… La stanza intera sembrò trattenere il respiro per un attimo. - …e tragicamente umano. - Ok. Ci sono. Su questo non c’è dubbio, anche perché a casa mia o sei ferrato in Gender and Women’s Studies o ti rinchiudono a 27
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Berkeley per la riabilitazione. Ho più “zie” laureate in questo tipo di argomenti che veri parenti in vita. Quindi abbasso il patriarcato dell’uomo bianco e tutto il resto. Sono ferratissima. Scusa se te lo chiedo così ma sei anche tu… una… - Strega. Puoi usare quella parola. Con lo stesso significato ne esistono migliaia e questa è in assoluto una delle più innocue e meno pericolose. Si può dire che tu e io siamo parenti, congiunte nel sangue. - Ok. Becky rispose prima ancora di aver realizzato davvero cosa le era appena stato detto. Inspirò dal naso cercando la forza di continuare. - Allora… ti prego spiegami con parole semplicissime, le più semplici che hai, cosa sta succedendo. Non ne posso più di sentirmi dire cose a metà con il tono da oracolo. Sembra che tutti vogliano farmi sapere che sanno molto più di me… Il tono non era più arrabbiato, solo esausto. - …ed è VERO. Sapete tutti MOLTO più di me. Io non ci ho mai nemmeno provato a competere con voi. È un gioco al massacro: mezze frasi, mezze verità, ammonimenti, strani modi di chiamarmi… sono stanca Tameret. Stanca di non capirci niente. Se sei come… come… che ne so, una Zia morta o qualcosa del genere, aiutami. Io ho DAVVERO bisogno di una mano qui, zia Tameret. A capire come funziono io, principalmente. Poi tutto il resto lo posso gestire, ma non sapere perché sono qui in… Egitto? Non so nemmeno dove sono! Cos’è successo a Fer? E a Lady Macbeth? È frutto del rituale? Di qualcosa che ho fatto io? Com’è possibile che io sia arrivata qui senza un graffio buttandomi da un palazzo?! 28
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La raffica di domande risuonò negli spazi bui senza lasciar mai spazio alle risposte. Con il fiato corto Becky si posò una mano sugli occhi, chiudendoli per un istante. Si sentiva schiacciata dal peso del panico e della paura. Poi le dita si chiusero a pugno appoggiandosi con le nocche alle labbra socchiuse. Per la prima volta, da quando era uscita dal bagno del diner con le sue gambe, aveva voglia di piangere. Dal buio un’altra mano la fece trasalire e riaprire gli occhi. Una mano calda, inaspettata. Tameret era molto più alta e massiccia di lei. In un solo attimo le era comparsa dinnanzi, a un passo di distanza, lasciandosi alle spalle la piramide di corpi e Ialu. Tutto il resto della stanza sbiadiva se paragonato alla sua presenza fisica, all’oro che le marchiava i seni neri, agli occhi castani e ai capelli grondanti pietre, gioielli di legno e anelli d’oro. Aveva un’espressione amorevole. Posò il palmo prima sulla spalla di Becky. Poi lo spostò delicatamente sul suo petto, all’altezza del cuore, come se cercasse qualcosa. - Come ti chiami davvero? - Rebecca. Deglutì. Il suo nome non le era mai parso così distante. - Rebecca. Tu sei una giovane donna. Ciò che ti è richiesto per vivere non è troppo diverso da quello che è necessario a chiunque altro. I tuoi bisogni sono mortali, ma le tue aspirazioni non possono esserlo del tutto. Non sei nata nella consapevolezza di una famiglia istruita da noi. Non sei cresciuta nella protezione di un cerchio o di una congrega. Sei estranea alla nostra gente, eppure sei una delle poche in vita, se non addirittura una delle ultime. 29
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Nessuna abita più il mondo che conosci, fingendosi un essere mortale. È una scelta che ci limita, ci confina e ci mette in pericolo. L’avambraccio di Becky, intrappolato nell’ingessatura, cominciò a bruciare, irradiando un bagliore verde sui volti di entrambe. - Il potere si agita dentro di te perché vuole uscire e sta per farlo. Rebecca, stai per lasciare andare tutta la magia che hai sempre trattenuto. Stai condensando in una sola formula tutti gli incantesimi che non hai mai enunciato da bambina. Ogni fiamma che non hai acceso soffiando sullo stoppino. Ogni specchio nel quale hai guardato senza vedere qualcun altro al posto della tua immagine. Ogni rametto che hai sollevato da terra per giocare a fare la maga senza liberare davvero la magia che nascondeva. Tutto questo ha ingigantito il tuo potere rendendolo glorioso. E vorace. Tameret era così calda che il punto dove Taranis aveva affondato i suoi artigli prese a nutrirsi di quel calore. Come un buco senza fondo che svuota ogni cosa entra in contatto con esso. Tameret non mostrò alcun segno di sofferenza, ma Becky lo sentiva: le stava facendo male. - Chiunque ti abbia tolto il cuore non ha la più pallida idea di cos’abbia innescato. Tu sceglierai uno strumento. Qualunque cosa può essere strumento e no, non esistono strumenti innocui. Tu ne porterai il peso e lo userai, portando disgrazia ai tuoi nemici e sollievo ai tuoi alleati. Becky sentì le lacrime salire e velarle gli occhi. - Ricaverai prodigi dal legno e dalle pietre, dal fango e dalla pioggia, dalle ossa e dalle fiamme. Sposerai elementi che la natura tiene separati, getterai il seme in ciò che è arido facendo partorire 30
CAPITOLO I – BECKY
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nella meraviglia le materie di cui hai bisogno. Riconoscerai in esse l’Anima di tutte le cose e troverai il modo di nutrire i Draghi ai quali dovrai dare le ali. ASCOLTAMI, attentamente. Non sono solo parole, queste, Rebecca. Qui, nelle profondità di questo fango nero stai bruciando, mentre fai il tuo primo passo verso colei che sarai. Tameret le accarezzò le guance, inumidendosi le dita. - A volte dovrai compiere delle scelte, altre solo lasciarti andare. L’ingessatura cominciò a sgretolarsi. La luce di un verde brillante, sotto di essa, la stava sbriciolando come una creatura vivente che fa a pezzi l’uovo che l’ha protetta per settimane. - Riconosco in te la fase, il momento, l’attimo potenziale. Vedere la luce della tua Magia oggi è come trovarsi all’inizio di un viaggio. Sei dinanzi alla Prima Materia, custodita in una montagna che contiene una quantità spaventosa di piccole e grandi opere. In questa terra sconosciuta si può trovare ogni tipo di sapere esistente al mondo. Non vi è nessuna scienza o conoscenza, sogno o pensiero che non sia contenuto in essa. Anche se non puoi vederla, ora è alla tua portata, e tu hai il diritto di prendere ciò che vuoi. Di plasmare dall’hyle ciò che farà di te una Strega. Non ascoltare chi parla del tuo cuore, della tua morte, del tuo destino. Non sanno cosa stanno dicendo. Tu non sei mai stata così viva. Becky con un singhiozzo si piegò su se stessa. Tameret la sorresse per non farla cadere. Ai loro piedi la pietra divenne fango e da essa salirono dei piccoli tasselli di legno. Le lettere formavano una parola che Becky non conosceva. [N] [I] [G] [R] [E] [D] [O] 31
Si sentì strattonare da una forza che la tirava di sotto. Oltre le sabbie mobili che la stavano avvolgendo, lontano. Solo le braccia di Tameret le impedivano di cadere. - La tempesta sta tornando a prenderti. Stai per lasciarci. Becky sorrise con ancora gli occhi bagnati di lacrime ma cercò di non chiuderli, di guardarla fino alla fine. - Grazie, zia Tam. La ragazza fissò la venere preistorica negli occhi. - Grazie. - Ci vedremo là dove bevono le Combattenti, Rebecca, Figlia di Naya. E la lasciò cadere. Becky venne divorata dal fango.
CAPITOLO II
MACBETH
Non è forse la dose, a fare il veleno?
Lo sapeva bene Lady Fatalia Macbeth, che negli eccessi - e nei veleni - aveva forgiato le sue vittorie e le sue disgrazie. Non era mai stato nel suo stile operare con misura. Il mondo era di coloro che avevano il coraggio d’esagerare nelle dosi. Che non avevano paura d’infrangere le regole o di crearne di nuove. Quel potere primordiale che l’assisteva ogni volta che stava per operare qualcosa d’incredibilmente azzardato, ora riposava dentro di lei come un drago sopito sopra al suo tesoro. E il tesoro di Fatalia era un singolo capello sbiadito che ella stessa aveva sottratto di nascosto a Rebecca Kumar durante la sua visita. Il collegamento arcano con la ragazza brillava nello scrigno che teneva in grembo nell’attesa dei suoi ospiti. Aveva bisogno di alleati, nella grande opera che si accingeva a compiere. Il momento dell’incontro era vicino, ma il sole calava lentissimo dietro al profilo delle torri di vetro di Manhattan come se il tempo si rifiutasse di passare, là sulla North Brother Island.
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CAPITOLO II - MACBETH
Fatalia chiuse gli occhi ed espirò lentamente. In quel soffio lasciò uscire una parte della sua coscienza, sottile come un suono grave e vibrante. Abbandonò il suo corpo fisico, composto e immobile, nella sala da pranzo. Mentre si lanciava come un rapace spettrale lungo i corridoi dell’ospedale abbandonato ripassò per intero il suo piano. Superando svelta i decadenti meandri, gli atri e le scalinate raggiunse l’esterno. Sempre grazie alla propria forma astrale, si levò in volo sopra l’isola. Un tempo era stato uno dei luoghi più selvaggi e incantati di tutta la città. I nostalgici l’avevano soprannominata “Emain Ablach”, un’isola fluttuante dove crescevano frutti prelibati e mai si pativa la fame. Per molto tempo era stata questo e molto di più. Ora, la North Brother Island era solo la macabra testimonianza di un passato che non aveva a che fare con la loro gente. Un teatro di malattia e disgrazia, naufragi e guerra. Vicende umane che avevano avvelenato ogni cosa, lasciando intatto solo quel pallido ricordo che non può essere cancellato. Ecco dove si era rifugiata e nascosta ed ecco dov’era stata costretta a ricevere i suoi ospiti. Da un piccolo banco di nebbia emerse una barchetta a remi che sembrava essere appena stata recuperata dal fondo di un lago. Il suo legno nero era stato divorato dall’acqua e nessuno si curava di remare, nonostante procedesse spedita in direzione dell’isola. Fatalia, scese verso di essa, impalpabile come brezza marina. Sul pelo dell’acqua appena increspata correvano piccoli topolini bianchi. Le loro zampette grattavano la superficie come se fosse di vetro, occupati com’erano in una corsa a perdifiato. Ognuno di essi aveva uno spesso filo rosso attorno al collo e ogni filo era legato a un punto diverso dell’imbarcazione. Il mezzo così trainato raggiunse spedito la riva vicino a quello che un tempo era stato il molo. Appena assolto il loro compi36
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to, i topolini salirono a bordo della barca, nascondendosi tra le assi marce. La figura che scese sembrava camminare sul fumo nero che l’aveva avvolta fino a un attimo prima. Era un fanciullo dai lineamenti affilati e uno sguardo serio ma assente. Sotto un sudario così sottile da sembrare una ragnatela s’intravedeva un incarnato bianchissimo, qualche ricciolo nero, tipico dei busti romani custoditi nei musei, e un corpo alto e sottile come quello di una giovane betulla. Una tunica nera stracciata copriva appena il suo inguine e qualche lembo di pelle qua e là. Al collo, appena distinguibile tra i miasmi neri, brillava un gioiello, ma non c’era traccia di cristalli nanici. Non stava camuffando in nessun modo il proprio aspetto. Lasciando che l’ospite s’incamminasse nella direzione dell’ospedale, la dama spettrale continuò a sorvolare la zona. Le grida dei gabbiani la richiamarono sul lato opposto dell’isola, a sud-est, dove le spiagge erano seppellite sotto cataste di tronchi e legna trasportata dal fiume. Là, una figura scura stava uscendo dall’acqua come se avesse camminato sul fondale dell’East River per raggiungere il luogo dell’incontro. Il corpo sarebbe potuto appartenere a una bambina da tanto che era minuto e proporzionato, ma le forme erano decisamente di una donna nel pieno della sua maturità e avvenenza. I capelli neri colavano diritti come inchiostro a terra e si perdevano nel buio, al di là della vista. Era scalza e l’abito da dama arturiana sembrava preso in prestito dal camerino di un vecchio teatro. I suoi passi sprofondavano appena nella neve, come se non avesse peso. Fatalia sapeva che anche lei non stava indossando cristalli per occultare il suo aspetto. I suoi ospiti confidavano che l’isola, come ai bei tempi, fosse salva da sguardi indiscreti. 37
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Lady Macbeth riaprì gli occhi sulla sala da pranzo desolata del Riverside Hospital. Il suo corpo era esattamente dove lo aveva lasciato. Accarezzò lo scrigno con il candido capello al suo interno. - Sono arrivati. I soffitti della sala scricchiolarono in modo sinistro.
- Questo è il piano. Lady Macbeth scacciò i segni che aveva tracciato con il fumo sulla tovaglia. Si dissolsero in piccole spirali tra i cibi e gli strumenti di divinazione che affollavano la tavola imbandita. - Il rituale non è semplice. Sorseggiò il tè fumante scottandosi piacevolmente le labbra, in attesa. Il fanciullo prese la parola, eccitato e gioviale. - Una proposta tipica di voi, Signora Grigia! Aveva il tono dei bambini che provano a scimmiottare gli adulti. - Ha tutto ciò che serve: spregiudicatezza! Sperpero di potere! Uso di oggetti magici leggendari! Ma soprattutto un bel sacrificio umano! - Non ho mai parlato di un sacrificio umano, Baskanos. Fatalia alzò un sopracciglio. - Non l’avete detto Signora Grigia ma lo pensavate! Eheheh! State tranquilla! Lo pensavo anch’io, siete tra amici, nessuno vi giudica… Baskanos era un ragazzino, lo era sempre stato, ma anche un negromante. C’era chi lo chiamava daimon, termine non del tutto errato. Infatti, era una creatura a metà strada tra le divi38
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nità dell’oltretomba e i supplicanti esseri mortali. Personaggio di antiche leggende del Mediterraneo che narravano appunto della Baskanìa, l’arte di concepire fatture mortali e di operare magicamente sulla vita e sulla morte. Era una delle personificazioni dell’archetipo stesso di magia e per questo un eccellente compagno di rituale. Peccato che nessuno dei suoi incantesimi fosse totalmente benefico. Lady Macbeth annuì per compiacerlo. Forse, dopotutto, un piccolo sacrificio sarebbe stato necessario. - Fatalia, amica mia, usare la magia delle nostre genti per destare quella di una strega è un’idea… a dir poco EMPIA. Tanachvil prese una lunga boccata dalla pipa di corno. Il fumo che ne seguì le accarezzò i lineamenti mentre saliva verso l’alto. - Vuoi varcare un confine che tutti noi sfioriamo da secoli ma che ci guardiamo bene dal superare. Non siamo forse noi quegli stessi incantesimi che loro vorrebbero possedere? O quella forma di grezzo potere che fa loro gorgogliare lo stomaco dalla fame? Hai dimenticato che possono metterci al guinzaglio come bestie magiche e chiamarci Spiriti Familiari al loro servizio? Lady Macbeth s’irrigidì sulla sedia, ma rimase in silenzio. - Un’idea empia e OSCENA. Ecco cosa direbbero, se lo venissero a sapere. Aveva labbra bellissime, proprio come il fanciullo, doveva essere un tratto tipico dei loro paesi d’origine. Quelle di lei erano color amaranto e quando si aprirono in un sorriso, snudarono denti leggermente appuntiti. - Se si venisse a sapere nelle Corti perderesti l’ultimo briciolo di credibilità che ti è rimasta. Saresti una traditrice della tua stessa gente. Sento già mormorare i cicisbei: in un futuro possibile sono pronti a farti crollare. 39
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- Sei premurosa, amica mia. Fatalia sapeva che non erano solo avvertimenti, quelli di Tanachvil, ma fugaci visioni di un probabile destino. La profetessa etrusca veniva dall’Italia e portava con sé ogni superstizione, ogni rito scaramantico e tutti i rituali di divinazione che in quella terra erano stati creati e poi custoditi. Tanachvil però non era citata nelle storielle sul malocchio o nelle filastrocche assieme a folletti che tengono lontana la sciagura o che la provocano per capriccio. Ella era vicina a Vanth l’alata, a Charun il Senzapietà e a tutte quelle figure della mitologia etrusca che affollavano il passaggio tra la vita e la morte. Legata al destino era stata per molto tempo compagna di Nortia, maestra di riti lunari che affondavano le radici nello stesso mondo di divinità e simboli dal quale attingevano potere le streghe. Fatalia prese la tazzina che fino a poco prima conteneva il suo tè fumante. Scrutò il fondo annerito dalle foglie e rivolse un sorriso cortese alla sua ospite. - Suvvia, non esagerare, Tanachvil. Hai già prestato anche tu soccorso a delle Streghe, non negarlo. Tanachvil prese una lenta boccata dalla pipa, rimanendo a guardare il fumo che prendeva forme serpentine intorno a lei. - Non lo nego e non me ne pento. Ho ottenuto i miei vantaggi manipolando la loro fiducia, è vero. Ecco perché sono consapevole di cosa significhi. Aiutare donne mortali iniziate alla stregoneria porta sempre lo stesso presagio. Rischi e ripercussioni sono sempre i medesimi. È per questo che ho l’accortezza di non intervenire mai in modo diretto. - Qualcuno vuole del roast beef? Baskanos agitò un coltello con fare festoso, eccitatissimo dalla tensione che riempiva l’aria. 40
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- Ho stretto con lei un patto. Il coltello cadde a terra. La frase risuonò così secca da far fremere l’intero tavolino imbandito. - Un… Patto? Un Patto, Signora Grigia? Un Patto con la Strega? Baskanos aveva gli occhi accesi da una punta di follia mentre estraeva un altro coltellaccio da una mezza forma di cheddar. Nelle sue parole c’era quel macabro divertimento di chi vede una preda ignara avvicinarsi al punto preciso dov’è nascosto un predatore. - Un Patto! Hai sentito Tanachvil? Un Patto con una Strega! Oh Dei, ho proprio bisogno di una fetta di roast beef. - Fatalia dimmi che è uno scherzo. La profetessa aveva la voce notevolmente più bassa e fredda rispetto a poco prima. Non sorrideva più. - Dimmi che NON hai messo te stessa e noi del Cerchio in una… situazione simile. - Taranis sta per stravolgere le regole del gioco ancora una volta. Vuole cambiare un Nome, ma questa volta c’è qualcosa di diverso. Ha raccolto troppo potere e continua a farlo, senza sosta. Non è più il tempo di aspettare e pianificare, dobbiamo usare tutto quello che abbiamo contro di lui… ORA. - HAI FATTO UN PATTO… Una sedia cadde a terra. Tanachvil si levò nell’aria come se fino a quel momento una forza invisibile l’avesse trattenuta a stento al terreno. Ombre di tenebra purissima, che strisciavano tra i suoi capelli, la sostenevano immobile nel vuoto, accarezzandole il viso e vorticando attorno agli occhi che d’improvviso s’erano accesi come tizzoni ardenti. 41
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- …CON UNA STREGA. In un attimo l’aspetto affascinante della donna era stato spodestato da un volto terrificante. Degno di tutte le storie che si narravano sugli spiriti dell’aldilà. Tutto ciò che di vetro e cristallo si trovava sul tavolo si annerì all’istante e prese a tintinnare nervosamente, in procinto d’incrinarsi o andare direttamente in frantumi. Fatalia appoggiò con decisione la tazzina da tè e si alzò in piedi compostamente. - …E tu, amica mia? Non hai forse benedetto le loro veglie funebri? Donato loro le visioni che chiedevano con suppliche e preghiere? Hai fatto cento, forse mille impliciti PATTI con altre Streghe. Senza che venissero formalizzati da una formula, certo, ma pur sempre PATTI. Pensavo che, tra tutti, tu potessi comprendere l’eccezionalità della situazione. Le circostanze. - Hai sempre agito dando la colpa alle circostanze. Sono le scelte che fanno di te ciò che sei, Fatalia Macbeth… e saranno le scelte della strega alla quale vuoi donare il nostro potere a decidere di noi. - Se è sopravvissuta a lui una volta può farlo di nuovo. Ha una qualità che non riusciamo a comprendere. È una strega come tante e non v’è alcuna profezia che la riguarda. Non è destinata a nulla di speciale eppure vive. Senza un cuore, come se nulla fosse. Non puoi ignorarlo. - Non ha importanza! Il tuo interesse nei suoi confronti è malato e pericoloso. Sei soltanto fortunata che io non possa disfare ciò che hai fatto e che io sia legata a te.
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La profetessa toccò di nuovo terra, ma le ombre continuarono a infuriare agitate attorno a lei. I suoi occhi si rifiutarono di perdere la loro pericolosa incandescenza, rimanendo inquisitori e implacabili. - Fintanto che tu avrai il Calderone, io la Ruota e Baskanos il Gioiello saremo legati. Così è. Così sarà. Ma ti sei spinta troppo oltre. Fatalia girò attorno al tavolo, accarezzando le lingue di nero potere sospese nell’aria. Come se stesse prendendo le misure per toccare la spalla di Tanachvil, ma ancora non si azzardasse a farlo. - Ho sempre dovuto prendere decisioni difficili, lo sai. Non chiedo la tua totale approvazione, ma non posso fare a meno del tuo appoggio. Sai quanto sia… difficile. - Essere te? Si lasciò scappare Tanachvil con sarcasmo. - Avrei detto operare di comune accordo… ma sì, essere me. Un filamento di buio, solido come un sottile tentacolo, portò a Tanachvil la pipa di corno tra le mani. Dall’occhio sinistro una lacrima cadde nel braciere, ravvivandolo. Dopodiché gli occhi si spensero, tornando al loro consueto color rubino. La voce della profetessa riacquistò parte del suo calore. - Ti ho messa in guardia per salvare ciò che siamo e che rappresentiamo. Non provo alcun piacere a recarmi da te come ospite per poi comportarmi in questo modo, ma tu mi metti alla prova. Lady Macbeth fronteggiò Tanachvil accorciando ogni distanza. La guardò con fermezza, come se da quello sguardo dipendesse l’esito di ogni loro rapporto.
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- Ho lasciato che Taranis si prendesse la Corona. Non sottovaluterò MAI PIÙ quel piccolo e tedioso infame. MAI PIÙ. - Allora sarà meglio che ti prepari. Se dovessero scoprire il patto che hai stretto non si limiteranno a farti sprofondare al gradino più basso dell’ordine sociale. Le Corti chiederebbero una punizione esemplare. Sai ciò che alberga nel loro e nel nostro cuore. Odio bruciante per i soprusi che abbiamo dovuto affrontare e ai quali molti di noi non sono sopravvissuti. Tu non sei mai stata soggiogata, non ti hanno mai messo un guinzaglio, Fatalia. Pensa a Onchu. Puoi capire solo in parte cosa anima il loro furore. Nessuno avrebbe il potere di salvarti da esso. Inoltre tutti amano Taranis, nonostante sia di umili origini. Anzi: forse proprio per questo lo adorano ancora di più. Ciò che dici di aver scoperto su di lui non verrà ascoltato. Se mai dovessero sapere la verità, sarà la tua fine. L’ultima frase fu poco più che un sussurro. - Sì, ecco, mi avete tolto le parole di bocca. Una fine! Una vita che termina, ecco cosa ci serve! Le due si girarono in direzione del fanciullo che si stava servendo una spessa fetta di roast beef come se nulla fosse. - Maschio o femmina? Non ho mai capito come si fa a vedere se i bambini sono maschi o femmina. Con i fagiani è più semplice… Baskanos azzannò la carne di gusto e rispose a bocca piena. - Insomma pensavate a qualcuno in particolare per il sacrificio o faccio io? Sorrise, rassicurante come una lama mortale che riflette per un attimo la luce della luna. 44
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In un sotterraneo pieno di mobilia accatastata c’erano tre stanzette, adiacenti alla camera delle caldaie. Ogni cosa in quel tetro edificio era inutilizzabile, tranne gli impianti di combustione, una vetusta centrale termoelettrica alimentata a carbone. Facendo economia di combustibile essa continuava a scaldare e tenere asciutte le camere di Lady Macbeth. - Vedo che nulla è cambiato, qui. Impressionante, considerando che sull’isola sei rimasta solo tu. Ti sarai data da fare… personalmente. Tanachvil camminava nel buio con la sicurezza di chi lo fa in pieno giorno, sempre sorretta dalla sua incrollabile ironia. Lady Macbeth faceva risuonare i suoi tacchi come un metronomo. Sorrise tra sé e sé con una punta di amarezza. - Mi ricordi così viziata da non riuscire a rimboccarmi le maniche? Tanachvil le lanciò un’occhiata sorniona. - Ricordo una bellissima padrona di casa circondata da serve, valletti, messaggeri e maestri di cerimonia. Praticamente un generale con le sue truppe. A proposito, non ne è sopravvissuto nessuno? - Chissà, forse. Ma Fatalia sapeva, in cuor suo, che la risposta era un’altra. Aprirono con attenzione una porta di metallo borchiato. In quella che lei chiamava “La Camera dei Cimeli” non vi era nulla di speciale, almeno in apparenza. Tutto era riposto e suddiviso in grandi scatole di cartone complete di etichette. Si trattava di un grande archivio di oggetti 45
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perduti, rubati o dimenticati. Ognuno di essi era contenuto in una busta di plastica o avvolto con cura nella pellicola trasparente, in modo da essere ben separato dal resto. Sembrava il maniacale trasloco di un robivecchi o di un rigattiere, tanto che ci si stupiva quasi di non trovare i prezzi riportati sugli oggetti custoditi. Eppure c’era solo qualche annotazione su cartigli scritti a mano. Poche righe che facevano riferimento alle circostanze di ritrovamento o ai precedenti possessori dell’oggetto. Raccolsero una scatola a testa scegliendola senza leggerne l’etichetta, ma con la stessa attenzione di chi pesca una carta da un mazzo. Fecero ritorno al piano di sopra per riporre le scatole, per poi tornare nei sotterranei. Un tempo Lady Macbeth avrebbe semplicemente chiesto ai suoi servitori di predisporre ogni cosa per il rituale. Ora il mondo era cambiato, dovevano fare le scale. Nella seconda stanza, che lei chiamava “La Camera delle Spezie”, s’avvertiva subito un fortissimo odore di erbe e preparati. Sembrava un laboratorio da alchimista o una di quelle antiche farmacie che si vedono solo nei film. Su alte scaffalature e ampi tavoli di legno erano ordinatamente disposti elementi naturali e altri già lavorati. Dai soffitti penzolavano a seccare fasci di erbe, radici, rami e fiori. Dentro a giare, barattoli e ampolle si potevano trovare semi, polveri, filtri ed elisir di varia natura. Sembrava che in ogni angolo si producesse qualcosa di diverso. Su un banco c’erano persino piccole statuine antropomorfe di cera con accanto, perfettamente conservate, decine di ali di farfalla. Tanachvil prese tutto quello che Fatalia le dettava senza aggiungere una parola. Baskanos invece saltellava tra i tavoli assaggiando polveri mortali e ironizzando sulla forma delle bambole di cera. Poi si spostarono nella terza e ultima stanza che Fatalia amava chiamare “La Camera dei Balocchi”. In essa, neanche a dirlo, 46
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erano custoditi solo e soltanto giocattoli. Molti appartenevano ai primi del secolo scorso, qualcuno era forse ancora più antico. La maggior parte, però, erano tipici peluche degli anni Ottanta e Novanta. Ognuno di loro era esposto come se fosse nella cameretta di un bambino, con il volto rivolto al centro della stanza, ma ce n’erano così tanti da nascondere interamente gli scaffali, le vetrinette e i bauli che li contenevano. Tutta la mobilia era ricoperta da questa valanga di pelo, manine di plastica e occhi luccicanti. I tre, in rigoroso silenzio, scelsero personalmente ogni pupazzo, bambola o peluche, riponendoli in profonde ceste di vimini. Finito il lavoro presero nuovamente la via della superficie. - Ricordate quando non erano solo i bambini a credere nelle Storie? Quando il potere era in ogni cosa ed eravamo noi la magia? Baskanos per un istante smise di fare il ragazzino, rigirandosi tra le mani un gatto di peluche che raffigurava la dea Bastet. Un souvenir del British Museum che aveva tenuto separato dagli altri. Lo strinse al petto come si fa con un talismano, come a volersi scaldare il cuore con esso. - Io sì. E vorrei che il ricordo mi venisse cancellato dalla mente. Perché ricordare fa sempre più male di dimenticare. Ed è un dolore non necessario, il nostro. Quel tempo non tornerà più. È così lontano, così passato, che soffrire per la sua perdita non ha più senso… Eppure siamo ancora qui a parlarne. Che pena che facciamo. Gli umani in questo hanno quasi più dignità: muoiono, si lasciano dietro tutto. Hanno la possibilità di non… diventare così… grotteschi. Le due donne non gli risposero. Ognuna stava toccando involontariamente un oggetto carico di potere. Il potere che i bambini umani avevano riversato in esso, l’afflato vitale che solo loro e i loro atti magici inconsapevoli potevano dona47
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re a quei giocattoli. Fatalia ripensò al piano di Taranis. Stava davvero rapendo bambini? Utilizzarli direttamente in un atto magico significava volersi abbeverare direttamente alla fonte del potere. Prosciugandoli. Come si permetteva però di giudicare il re, non aveva forse fatto lei stessa ben di peggio in passato? Rabbrividì.
In una radura ripulita dalla neve, a poche decine di metri dall’entrata dell’ospedale, era stato portato e disposto tutto il necessario. I peluche e i giocattoli formavano un cerchio, abbastanza grande da includere tutto il rituale. Tre passi all’interno del circolo, in corrispondenza dei quattro punti cardinali erano state disposte figure simboliche a rappresentare i re dei quattro elementi. A est era stata posta la statua di un angelo di pietra senza testa. Ai suoi piedi c’era un incensiere fumante. Di fronte a esso, dall’altra parte della radura, c’era l’ancora di una nave, completamente fradicia e ricoperta di alghe. A un passo da essa una conchiglia ricolma d’acqua, grande come una ciotola e ricoperta internamente da rilucente madreperla. In corrispondenza del sud c’erano i resti semi carbonizzati di un cavallo a dondolo scampato a un feroce incendio. Lì accanto era stato posto un braciere acceso. A nord troneggiava un enorme teschio di orso grizzly su una catasta di ossa ordinatamente intrecciate. Lì accanto, sopra una pezza di iuta, era stata ammucchiata un pugno di terra nera. Al centro faceva bella mostra di sé il Calderone. L’antico pentolone di bronzo aveva fregi che raffiguravano il dio Cernunnos, dalle ampie corna di cervo, che reggeva con una mano il serpente dalla testa di ariete e con l’altra un tor48
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quis, il collare sacro ai re e alle regine. Intorno a lui erano rappresentati gli animali sacrificali, le fiere assetate di sangue e le bestie magiche. Baskanos, Tanachvil e Fatalia erano disposti in cerchio attorno all’oggetto leggendario, completamente nudi. Sulla testa e sulle spalle tenevano solo veli sottilissimi, allo scopo di proteggere il loro lato cieco dagli spiriti malevoli. Fatalia si era tolta il cristallo nanico e il suo aspetto era trasfigurato. Ora una donna potente, nel pieno del suo vigore, aveva preso il posto dell’elegantissima e anziana dama che mostrava ogni giorno. Non abbandonava mai quell’aspetto, se non durante i rituali. - Siamo finalmente tre, come le Figlie di Ecate. Ora tutto può avere inizio. Lady Macbeth lasciò cadere il capello sbiadito nel pentolone e subito s’accese una luce verde sgargiante sul fondo. A essa vennero subito aggiunte erbe, spezie, semi e polveri. Poi venne il momento di tre coppe di vino, tre di acqua e tre di miele. E infine venne alzata sopra al calderone una creatura vivente, che scalciava nonostante fosse fasciata in uno stretto fagotto. Baskanos la teneva ben alta per mostrarla agli spiriti e ne tesseva le lodi decantandone ogni virtù. Fatalia non aveva fatto domande, ma sentiva dall’odore che non si trattava davvero di un bambino, nonostante Baskanos pretendesse così. Un veloce guizzo di lama e con lo scroscio di sangue tutto ebbe veramente inizio. Fatalia si rivolse a Baskanos. - Io ti dono un vento. Lui le rispose cerimonioso. 49
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- Grazie. Sei gentile, sorella mia. Tanachvil incalzò. - E io un altro. Baskanos rispose ancora. - Grazie pure a te, sorella cara. Tutti gli altri venti li ho io al mio comando… Si udì sibilare un coro di mormorii tra gli alberi. Tutti gli officianti si sentirono all’istante osservati. Qualcosa stava assistendo, ascoltando, valutando la loro opera. Baskanos non era più un ragazzino, nei toni e nell’aspetto. Forse non lo era mai stato. La sua voce si era fatta bassa, strisciante, vicina a tutto ciò che nella terra avvizzisce e muore. Le due donne si unirono al suo cantilenare. - Così le tre fatidiche sorelle la mano nella mano, per mare e terra van girovagando, in giro, giro tondo. I Tre fecero un giro intorno al calderone, come danzando, mano nella mano. Baskanos non era più né uomo, né donna, né androgino. Né bambino, né giovane, né vecchio. Né puro, né malevolo, né timoroso. Ma tutto questo assieme. - Tre volte intorno a te, tre volte intorno a me, e per far nove ancor tre volte tre. Un boato da dentro il calderone fece cadere la neve dagli alberi e sollevare quella a terra in un turbine ghiacciato. Quelli che prima erano solo mormorii si alzarono divenendo voci. Gli spiriti erano affamati. Era il momento di offrire i doni. 50
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Le due donne sollevarono i cimeli che dovevano venir sacrificati nel calderone. Lady Macbeth fu la prima a mostrare l’oggetto che aveva estratto a casa dalla sua scatola. - Ho una busta con due medaglie, tre cartoline di guerra, una chiave, un anello e una ciocca di capelli. Risale all’ultima guerra. - Troppa morte stantia. Nostalgia stagnante, ma la guerra le servirà. Getta tutto dentro al calderone sorella mia, fai presto. Tanachvil era già pronta. - Ho un diario segreto senza parole, ma pieno di disegni. Sembrano draghi ma ci sono molte altre creature. L’unico personaggio dalle sembianze umane è un bambino dalla pelle blu, sicuramente un amico immaginario. - Ottimo, sorella cara, ottimo davvero. In esso c’è amore, pazienza ed esercizio, fantasia e delirio. In una parola: creazione. Butta dentro, sorella cara. Lady Macbeth guardò sorpresa ciò che le capitò tra le mani. - Un vecchio orsetto di peluche, sembra meccanico o qualcosa del genere. Si chiama… Teddy Ruxpin e ci sono anche delle musicassette colorate. Ha il pelo sporco, qui, sul lato, credo sia sangue. Il primo sangue di una bambina che è diventata ragazza. Baskanos scoppiò in una risata folle che fece impazzire il vento. - Stai scherzando?! Butta dentro, sorella mia! Con questo le streghe ci vanno a nozze! Facciamo bollire il sangue a quella piccola incosciente! 52
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Tanachvil offrì un foglio che quasi le venne strappato via da una folata. - Sento un potere straziante. È una pagina di un ricettario scritto a mano da un’anziana signora. Si tratta del piatto che ha fatto soffocare il marito. Dopo la morte dell’amato ha strappato la pagina e l’ha gettata via. - LUTTUOSA È L’ANIMA DI QUELLA STREGA BAMBINA! Non sentite cosa ci indica il Fato? GUERRA! CREAZIONE! CRESCITA E MORTE! Ecco cosa offrono le fatidiche sorelle alla strega che nasce! Verità sono state enunciate, augurali prologhi d’un tema, il cui crescendo culmina nel POTERE! Afferrarono per le viscere gli spiriti invisibili che avevano risposto al loro richiamo e ne munsero le forze facendole colare nel calderone. Le loro grida s’innalzarono verso i cieli ramati del tramonto sopra New York. Tutto procedeva come previsto. Stavano risvegliando con la forza il potenziale sopito di una strega bambina. Loro era il potere di sformare, piegare e disfare. Rimuovendo anni di idee, pregiudizi e aride superstizioni che impedivano a Rebecca Kumar di vedere se stessa. Di fare pace con quel dannato potere sacrilego che incarnava. Il calderone cominciò a tremare come non aveva mai fatto prima. Lady Macbeth sentì la magia di Rebecca Kumar traboccare. Si affacciò su di essa, sopraffatta per un istante dalla curiosità. Sgranò gli occhi, incredula. Mai nella sua lunga storia aveva provato qualcosa di simile. Stupore. La meraviglia di una bambina alla quale si mozza il fiato per ciò che sta vedendo. 53
Lady Macbeth perse l’equilibrio. Un attimo prima aveva in mano la situazione, l’attimo dopo ne era vittima. I suoi due compagni di rito la sentirono cadere a metà della formula e provarono a compensare l’improvvisa assenza di Fatalia, innalzando le loro voci al posto suo. Ma non c’era più nulla da fare. Il potere grezzo che aleggiava sopra di loro sfuggì al controllo, ricadendo nel calderone con un vortice e facendolo rotolare a terra sul lato. Il rituale aveva avuto comunque effetto, ma la signora grigia si rese presto conto che sarebbe stato impossibile controllare la ragazza come aveva intenzione in origine. Dal calderone riverso, una matassa di creature simili a serpi di colori sanguigni cominciò a liberarsi in tutte le direzioni. Lady Macbeth ne venne all’istante inondata, con un rantolo.
CAPITOLO III
I CACCIATORI
Manhattan non era esclusiva degli esseri umani, e forse non lo era mai stata.
Tanto sopra quanto sotto alla superficie, negli spazi dimenticati. La cripta assomigliava a quella di una chiesa abbandonata. Un luogo immerso nel profondo della terra, dove nessun uomo mortale aveva messo piede da tempo. Si trattava di una struttura ipogea di grandi dimensioni, che si sviluppava lungo una sola navata circondata da portici. In corrispondenza di ogni arco si trovavano, custoditi in una nicchia, sarcofagi di bronzo o di pietra. I marmi crepati sostenevano a malapena gli stucchi ormai cadenti e screpolati delle volte. Mentre i dipinti e gli affreschi, ricoperti ovunque di macchie d’umidità , raffiguravano imponenti paesaggi o scene pastorali. Nonostante si trattasse certamente di dipinti sacri, sembrava proprio che fossero stati magicamente cancellati tutti i personaggi delle vicende cristiane, come se non fossero mai esistiti. Il luogo era appartenuto agli esseri umani secoli prima, per poi essere reclamato dalla corte fatata di Manhattan. Tuttavia,
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sembrava mantenere le stesse funzioni, come se le fate di Taranis avessero improvvisato rituali funebri con qualunque cosa a loro disposizione, senza sapere davvero cosa questi significassero in origine. Ogni lastra di marmo del pavimento era occupata da cataste di oggetti, libri, candele, fotografie, offerte di frutta, mazzi di fiori e pile di giocattoli. Si potevano notare inoltre cerchi di bambole e peluche, posti l’uno accanto all’altro come in preghiera, e ancora mucchi di cianfrusaglie non meglio identificabili, e bottiglie di alcolici aperte ma non finite. Non fosse stato per uno stretto corridoio di servizio, la presenza di tutto questo inestimabile ciarpame avrebbe reso difficile muoversi senza urtare qualcosa. Il percorso conduceva a un’ampia area rialzata da terra, completamente spoglia eccetto per la presenza di due file di tavoli in pietra. Uno di essi era occupato da un corpo gigantesco, grigio come il fumo, adagiato su un letto di fiori bianchi. Gelsomini freschi fuori stagione, innaturalmente ricoperti di rugiada. Il gigante era stato lavato e preparato, ma non ancora vestito. Lo scempio riportato dopo il combattimento ben visibile. Quel corpo immane era una mappa di lacerazioni, tagli e graffi ma ciò che spiccava di più era uno squarcio che divideva il torace in due parti, dalla spalla sinistra a metà del costato. All’interno di ogni ferita, una debole luce azzurra tradiva un incantesimo in atto. Sembrava che qualcuno avesse voluto ricomporre con esso il corpo, accostando i pezzi l’uno all’altro. C’era qualcosa di amorevole in quel puzzle di carne, eppur straziante. Vegliavano su di esso i due gemelli. Si facevano chiamare con un solo nome, Nidrergi, come se fossero una persona sola. Li aveva raggiunti anche Karabasan, la nuova capocaccia. Erano gli unici visitatori della cripta.
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- Non abbiamo altra scelta… Disse uno dei due gemelli. - …Dobbiamo raccontare la sua Storia dall’inizio. Completò la frase l’altro. Karabasan sospirò e rispose infastidita, come se le stesse costando una gran fatica uscire dai suoi stessi pensieri. - Nessuno conosce davvero la sua storia. Forse Arach sa qualcosa, ma dopo la punizione del ferro non tornerà più la stessa. I gemelli continuarono, con cocciutaggine. - Allora dobbiamo raccontare tutto ciò che ricordiamo noi, sperando sia abbastanza… - …Non possiamo perdere anche lui e non c’è altro modo per farlo tornare indietro. Karabasan tirò fuori un tablet, sbloccandolo velocemente con una breve combinazione di gesti. - Non esiste un libro, o un racconto…? Qualcosa che possiamo scaricare da Internet? So che si trova un sacco di roba utile, raccolta dal Progetto Gutenberg, da Google Books o da Archive.org… Ma Fer Doirich lo ha fatto letteralmente a pezzi. Forse non possiamo che limitarci a leggere qualcosa per aiutarlo nel trapasso. - Esiste un libro nel quale appare... I due fissarono Karabasan con solennità. - …Il Libro di Kells. Lei ricambiò lo sguardo perplessa. - Ah. Lo sai cosa CONTIENE quel libro, vero? I gemelli risposero frettolosamente, con la paura di esser stati fraintesi.
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- Ignora le parole. In esso Onchu è raffigurato tra i capilettera. Non è tanto ma è pur qualcosa. Soprattutto perché compare per quello che era un tempo, prima che gli cambiassero nome… - …Prima che arrivassero le streghe. Forse è grazie a quell’unico volume che è sopravvissuto fino a oggi. Che è sopravvissuto… a loro. Dici che è abbastanza? Karabasan ripose il dispositivo, facendo ripiombare tutto nella fioca luce delle candele. La sua voce si fece più dura e marziale. - Forse. Ma NON ci è stato dato l’ordine di riportalo indietro. Tra poco Sua Maestà sarà qui, e dovremo condurlo al Guardiano di Central Park. La nostra caccia non è conclusa: ho piantato una spina di buio su di lui e solo IO posso rintracciarlo. I due si fecero avanti, sussurrando appena. - Chiudi le porte della cripta. Sigillale con la paura del buio di tutti i bambini di Manhattan se è necessario! - Possiamo fare qualcosa. Il nuovo capocaccia tagliò corto. - Le porte? È una follia. È vietato, e tu lo sai. - È l’unica possibilità che ha. Il Re sta decretando la sua fine… - …Onchu non tornerà mai più se non facciamo qualcosa. La sua vita non merita forse un sacrificio? Il corpo del gigante era immobile. Arach in quel momento veniva torturata. I Cacciatori del re stavano cadendo, uno dopo l’altro e la loro famiglia sarebbe stata distrutta. - Va bene, maledizione! Va bene. Spero che sappiate cosa state facendo. I gemelli reagirono all’istante, esplodendo di rabbia per esser stati apostrofati al plurale. 60
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- Noi non siamo due, siamo uno. IO, sono uno. - …e IO ti dico che se non facciamo qualcosa subito lui sarà perduto per sempre. Lo sai che fine fanno i dimenticati, vuoi che capiti anche a lui? Karabasan cominciò a tracciare nell’aria un simbolo invisibile. - Che tu sia dannato Nidrergi. - Lo sono, Karabasan, lo sono già… - …Ma ricordo i tempi antichi e salverò Onchu, se ne possiedo il potere e ti prego di permettermelo. Karabasan digrignò i denti, sprezzante, per poi compiere un elegante gesto nell’aria. Ampio, nello spazio davanti a sé, come quando si fa volteggiare un mantello per avvolgersi in esso. Una vibrazione spense tutte le candele fino a raggiungere il portale della cripta. La magia di Karabasan lo chiuse con violenza, facendo tremare i cardini e l’architrave stesso, ma non si sentì alcun rumore. Questa era la forza devastante del buio più assoluto che il nuovo capocaccia comandava. Poteva nascondere qualunque cosa, anche i suoni più assordanti. I gemelli abbozzarono un disperato sorriso, sapendo che solo Karabasan poteva vedere in quell’oscurità. Ma non si persero in ringraziamenti. A tentoni scivolarono l’uno alla sinistra e l’altro a destra dell’altare di pietra. In sincrono, come ballerini su un palco, accarezzarono le grandi braccia di Onchu. Dalla punta delle dita alla curva del collo. Infine posarono dito indice e dito medio delle loro mani sinistre sulla bocca del caduto e chinarono i loro volti, sempre trasfigurati dai cristalli nanici che indossavano e non toglievano mai. Fu allora che iniziarono a raccontare. - Si dice che Arcadia fosse quel luogo in cui all’unisono risuonavano idilliaci canti di pace ed epici inni di battaglia. Dove ogni 61
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cosa, anche la più pericolosa, splendeva di una bellezza estranea alla dura terra degli uomini mortali… - …Ai tempi del suo splendore, incantesimi, spiriti e storie avevano corpi in carne e ossa. Niente e nessuno nasceva superiore a un altro. Anche l’entità più effimera poteva riempire la propria coppa alla fonte della saggezza e dell’eternità. In quel luogo ameno, di delizia e giovinezza, si potevano incontrare giganti composti solo da emozioni purissime in lotta tra loro, o draghi fatti di fumo e fulmini che si rincorrevano tra le fronde degli alberi di colori impossibili. Ovunque si guardasse vi erano animali capaci di cambiare forma a ogni battito di ciglia. O varchi aperti su i sogni palpitanti dei suoi abitanti immortali… - …Alcune storie parlano di come le stelle, in quei tempi antichi, soffiassero e modellassero un raro vetro nei propri cuori, accesi come fornaci ardenti. Potevano persino dargli la forma di piccole città perfette in ogni dettaglio, reami di bambola pronti per essere abitati. Le stelle le contemplavano un istante con trasporto e poi le posavano proprio là, ad Arcadia, dimenticandosene. Presto ognuno di quei borghi perfetti veniva abitato e fu così che nacquero città di smeraldo, o di rubino, o di buio e profondissimo zaffiro. Alcuni cantori giuravano di aver visitato, tra una capitale e l’altra, giardini grandi come regni, fatti solo di labirinti di glicini d’oro e di coralli sanguigni. Ci sono storie di tutti i tipi, quando si parla di Arcadia e delle sue meraviglie. - …Come i pericolosi loti neri, che si possono cogliere solo con le barche intrecciate nei giunchi dell’eternità. O i melograni delle piane ctonie, che se mangiati non ti permettono più di vedere ciò che è vivo, ma solo ciò che è morto. Arcadia era un luogo di fonti, palazzi, ricchezze, viaggi lieti e sublimi appagamenti… Non è vero Onchu? Un luogo dove gli dei stessi speravano prima o poi di essere invitati. Scommetto che tu te lo ricordi, che nonostante tutto non l’hai dimenticato. 63
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Il corpo del gigante non si era mosso. Del tutto insensibile al racconto non lasciava alcun dubbio sul suo stato di salute. Solo il bagliore azzurro all’interno delle sue ferite faceva presagire o sperare che ci fosse una qualche forma di forza soprannaturale in lui. Ma non era qualcosa di benefico e vitale, tutt’altro. Era una violenta forma di animazione sospesa, un potere che forse impediva a Onchu di morire del tutto, tenendo insieme i pezzi che Fer Doirich, il Guardiano di Central Park, aveva disseminato nel vicolo. I gemelli erano intervenuti, ignorando il combattimento, contravvenendo agli ordini diretti di Arach, la loro ex capocaccia. Se solo avessero combattuto anche loro forse avrebbero prevalso, ma di certo Onchu sarebbe morto in pochi istanti. Karabasan affiancò i gemelli, guardando con gli occhi chiarissimi il corpo dell’amico senza vita. - Hai provato con i nomi? Li ricordi? Io conosco solo quelli della mia gente, ma non sono in una lingua che per lui avrebbe senso. I gemelli annuirono. Quando ripresero a raccontare, la voce tremava a entrambi dall’emozione. Non si completavano più le frasi a vicenda, ma le ripetevano in coro, perfettamente in sincrono. Cosa che per loro era piuttosto inusuale. - Arcadia è Faerie, la terra delle fate. È Alfheimr, dalle foreste astrali. È Fólkvangr e Dísarsalr, i campi dei guerrieri e degli spiriti muliebri. È l’Annwn, l’altromondo degli abissi, lo ricordi Onchu? Sono le isole dei beati. È il Mag Mell, la piana della delizia. È Ildathach il luogo cangiante. È Emain Ablach, l’isola fluttuante degli alberi di mele… Il corpo ebbe un lieve tremito. Quel tipo di tremore che per un dottore umano non avrebbe mai significato nulla, ma che in quel momento era tutto. 64
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Karabasan stava per dire a Nidrergi di continuare quando un rumore in un corridoio, ben oltre la porta chiusa, destò la sua attenzione. Stava arrivando qualcuno. - Sbrigati. I gemelli guardarono intimoriti la loro nuova capocaccia e annuirono, continuando a salmodiare. - O-ovviamente tutti sanno che è anche Tír Na Nóg, la terra dell’eterna giovinezza. Non puoi averlo dimenticato, Onchu. Tír Tairngire, la terra promessa. È la gloriosa Ynys Witrin, l’isola di vetro. Caer Sidi, il castello ribaltato. Caer Vedwyd la casa dell’eterna baldoria. Cantre’r Gwaelod, il paradiso fertile. Thule, la terra oltre l’orizzonte. Baltia l’isola d’ambra! Non puoi aver dimenticato il colore degli Asfodeli che ne circondavano le spiagge come mura, o quello dei cieli stellati che dividevano quel mondo dal nostro! Il gigante tremò appena. I gemelli sussultarono. Qualcosa stava accadendo, ma non sembrava sufficiente. Karabasan scosse la testa. - Lascia stare dai… è meglio se… - NO. Lacrime di rabbia cominciarono a scendere lungo le guance di entrambi, sempre in perfetta sincronia. Sembravano i due riflessi dello stesso individuo. Qualcuno d’infinitamente triste eppur determinato. Quanti caduti dovevano ancora salutare? Quanti dei loro nomi sarebbero stati dimenticati? Si rivolsero nuovamente al corpo del gigante. - Onchu… Ricordi quando nuotavamo nelle stelle per muoverci da un mondo all’altro? CAPOVOLGEVAMO IL CIELO CON 65
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UN GESTO, AMICO MIO! Lo facevamo assieme! E quando era sotto di noi, accarezzavamo il pelo dell’acqua prima di immergerci. Non era mai troppo fredda. Dimmi che lo ricordi ancora! Perché io ti ricordo, Onchu il Seguiluna, Onchu il Mangiastelle, Onchu Crine di Smeraldo! Nel silenzio che seguì si sentì bussare gentilmente alla porta. Karabasan sibilò. - Maledizione! Grazie al suo incantesimo nessuno poteva udire le parole sue o di Nidrergi ma il palazzo non era un posto sicuro nel quale fare qualcosa all’insaputa del re. - È con permesso? Cacciatori, siete qui? La voce di Lady Devera, la dame blanche di Taranis, suonò zuccherina e accomodante. Ma qualcosa non andava: quella porta non doveva essere chiusa. Nessuna porta poteva venir chiusa a meno che non fosse un privilegio espressamente accordato dal Re. Non esisteva mai nulla di privato, né vi era qualcosa di cui vergognarsi. Erano le regole di corte. La cripta, neanche a dirlo, doveva rimanere accessibile a chiunque, e in qualunque momento. Devera lo sapeva benissimo, ma era una creatura squisitamente affabile e non avrebbe mai palesato il suo disappunto nell’essersi trovata chiusa fuori. - Scusatemi Cacciatori, ma devo chiedervi di aprire la porta. La sua voce era dolcissima ma costernata, come quella di qualcuno che si scusa di non aver abbastanza cupcake al cioccolato per tutti. Definire la dama bianca scrupolosa nelle faccende di corte era, sotto tutti i punti di vista, riduttivo. Era lei a occuparsi di Fortebuio, la Reggia sotto Central Park. Un complesso di grotte, cunicoli, sale, pozzi e corridoi che collegati assieme davano 66
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forma al palazzo delle fate. Grazie a una riverente coorte di famigli, la dama era a conoscenza di tutto ciò che accadeva oltre le porte spalancate del palazzo. Un dominio che si estendeva nel sottosuolo tra l’Upper West Side e l’Upper East Side. Al di sopra del terreno di Fortebuio, si trovava il territorio di Fer Doirich, almeno prima che fosse chiamato traditore e spergiuro. Il re doveva ancora assegnare ad altri la carica di Guardiano di Central Park. Karabasan lasciò i suoi compagni. - Mi invento qualcosa, tu vai avanti. Se dobbiamo essere puniti, preferisco che avvenga per qualcosa che abbiamo fatto, non per qualcosa che abbiamo PROVATO a fare. L’oscurità ti sia lieve, Nidrergi.
Le voci lo raggiunsero. Tagliarono il buio sotterraneo che si affacciava sulle rive di un fiume rosso e brillante, come i petali di un papavero attraversati dal sole. Forse non era un vero fiume, anche se ne aveva l’aspetto, ma di sicuro era un limite. Una linea tracciata tra un mondo e l’altro. Onchu era là, in attesa. Le due voci, perfettamente sovrapposte, erano distorte e inafferrabili. Ogni volta che un suono assomigliava a una parola conosciuta subito andava a perdersi in un guazzabuglio indistricabile di vocali e consonanti. Eppure quelle voci erano dirette a lui e in una certa misura suonavano familiari. Cercò di concentrarsi, con quella pallida forza d’animo che gli rimaneva. Non ne aveva alcuna voglia ma finì per cercare di immaginare cosa volessero dirgli. C’era un tono di supplica e un’enfasi disperata in quella litania. 67
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Senza accorgersene Onchu si trovò a ripercorrere il proprio passato. Era come sfogliare un libro che aveva già letto. Ogni tanto si soffermava su un nome. Di tanto in tanto scorreva un intero paragrafo. Lesse persino qualche pagina intera. Erano le sue memorie, ma dentro di lui non apparivano come veri e propri ricordi. Non sembravano così vicini, nonostante fossero suoi. Ovunque, tra le tante parole che potevano definire ciò che era stato, si trovavano aggettivi che inequivocabilmente definivano il tema del racconto: la schiavitù. Onchu lo schiavo. Ma schiavo di chi? Tra tutte le sue padrone nessuna era mai stata severa come Lady Alice Kyteler, la prima. Fu quella strega irlandese a trarlo in inganno nel modo più crudele. Lo chiamò a sé con un incanto e lo convinse per scherzo a reggersi sulle zampe posteriori e a indossare abiti da umano. Quando prese quella forma lei si mostrò meravigliata e divertita. Gli fece una piroetta attorno, come avessero dovuto danzare da un momento all’altro. Poi, con la sua voce piena di ironia, si rivolse a lui. - Sei proprio un figurino! Bentrovato, Robin Artisson. Da stasera sei mio. Gli donò un nome, uno nuovo, che non gli apparteneva. Fu allora che lui smise di essere una creatura a quattro zampe per divenire qualcosa di diverso. Qualcuno, addirittura, e per giunta civilizzato. Il suo nome era cambiato e la forma di una storia era sempre stata indistricabilmente legata al nome che portava. Ecco perché le streghe avevano il potere di cambiare le storie. Era stata poi l’allieva di Lady Kyteler, Petronella de Meath, a chiamarlo Alphyn. Con il tempo Onchu era divenuto famiglio di un’intera dinastia di streghe, passando da maestra 68
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ad allieva, nel corso dei secoli. Ognuna di esse, per legarlo a sé, gli aveva dato un Nome differente. A volte aggiungendo appena una lettera, ottenendo così da lui una tiepida obbedienza, altre stravolgendolo totalmente, per assoggettarlo senza pietà. Divenne per esempio il celebre Enfield, oppure Onfainn. Ma anche Anchainn, Anfainn, Anfaill e Anfildh furono suoi nomi. Ogni volta che questo cambiamento avveniva si trascinava con sé una parte di lui. Andava così perdendosi la sua forma originaria insieme al ricordo della creatura che era stata in origine. Erano scomparsi prima il pelo, poi la coda e subito dopo gli artigli. Poco a poco il selvaggio lupo color smeraldo divenne unicamente un servitore grigio, un gigante curvo sotto il peso delle catene che le sue signore tiravano quando volevano qualcosa da lui. Non c’era più alcuna traccia di magia, di fierezza o di splendore. Non era rimasto altro che un ingombrante schiavo, un primitivo e obbediente essere apatico, un selvaggio appena addomesticato. Onchu riaprì gli occhi davanti al fiume rosso e sentì il suo orrendo corpo ripiombargli addosso. Lo percepì strisciargli sulle ossa e soffocare il suo respiro, pesante come una coperta sott’acqua. Ruggì di sorpresa e di dolore mentre riprendeva coscienza di sé. Si era separato dalla vita, e dal dolore, nel vicolo dietro al locale. Era spezzato in due, con gli occhi sbarrati su un cielo stellato. Il potere spettrale dei gemelli era riuscito ad afferrarlo, ma per lui era stato troppo tardi. Ora era altrove, in uno dei tanti luoghi tra le realtà. Quel fiume avrebbe potuto condurlo ancora oltre. Dove non l’avrebbero più raggiunto le voci e il dolore, i ricordi e il tormento. Tra i suoi flutti si sarebbe potuto finalmente riposare, salutando per sempre il peso delle catene. Sarebbe stato salvo, alla fine, ma soprattutto libero. 69
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Se solo il suo corpo non fosse tornato. Se solo non avesse ascoltato la voce dei gemelli raccontare la sua storia dall’inizio dei tempi al giorno della sua caduta. Se solo non fossero stati ricordati i suoi tanti nomi. Onchu si girò e diede le spalle al fiume. Poi si gettò a quattro zampe, proprio come un lupo e recise con le fauci le catene che lo accompagnavano da secoli. Il suo corpo ribollì di spasmi e un guizzo di magia verdeggiò nell’oscurità. Una magia non sua. Qualcosa di nuovo e diverso. Sarebbe tornato: a essere vivo, a essere se stesso. Ululò nel vuoto spiccando un balzo in avanti. Sarebbe tornato con qualcosa che aveva dimenticato. Un piccolo segno sull’ultima lettera del suo nome. Un segno che Taranis gli aveva negato e che ora cambiava tutto.
La porta si aprì proprio quando Austri, il piccolo cucciolo di unicorno di Devera, stava cominciando a grattarne la superficie con i suoi zoccoletti caprini. Appena Karabasan la socchiuse lui sgusciò dentro come il più determinato dei segugi, annusando l’aria, sospettoso e invadente. Karabasan chinò il capo, senza perdere tempo in inchini. - Milady… Devera ricambiò con una composta riverenza, sprofondando con grazia nel suo abito di seta color avorio e pizzi scintillanti. - Capocaccia. Sembrava appena uscita da un gran ballo. Come se ogni giorno, per lei, fosse una grande occasione, degna di tutto ciò che si addiceva a una principessa. Sorrise e fece il suo ingresso nella cripta come una fata delle fiabe: circondata da polveri brillanti 70
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e scintille impazzite che come lucciole le orbitavano attorno. Tutte le dame blanche avevano seguiti di questo tipo. A volte erano attorniate di farfalle, altre di falene, c’era persino chi veniva seguita da piccoli stormi di uccellini. Devera aveva uno dei manti ritenuti più regali: quello di lucciole. - Nidrergi è qui con voi, capocaccia? - Piange il nostro caduto. Ci scusiamo per la porta, l’ho chiusa per trattenere i suoi lamenti strazianti. - Oh, sì… la porta. Devera finse di notare solo in quel momento la trasgressione della porta chiusa. - Capocaccia, al re non piacciono i segreti, ed è contro ogni forma di vergogna. Perché mai doveva essere celato l’amore che Nidrergi prova per il caduto Onchu? Liberare il suo pianto non sarebbe stato invece un modo per proclamarlo con orgoglio e donare alla sua partenza maggiore significato? Non devono forse conoscere tutti quanti cosa accade quando qualcuno della corte tradisce il re? Così dicendo cominciò a percorrere la cripta in direzione del corpo di Onchu. Proprio davanti a esso c’erano i gemelli inginocchiati e immobili, come in preghiera, assediati dalle attenzioni del piccolo unicorno che continuava ad annusarli irrequieto. Il corpo di Onchu aveva perso i bagliori azzurri all’interno delle ferite. Insieme a essi se n’era andata anche l’espressione tesa e sofferente. Non c’era più niente di lui, solo resti di carne che stavano perdendo coesione l’uno con l’altro. Proprio quando Devera si trovò a un passo da essi un rumore bagnato preannunciò lo scollarsi della spalla sinistra da tutto il resto del torace. La dama bianca rimase impassibile, ma fece un passo indietro. 71
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Dopo aver lentamente deglutito, cercando di nascondere il disgusto, poggiò con garbo una mano sulla spalla di uno dei due gemelli. - Ma cosa… Nidrergi è freddo come il ghiaccio! Cosa sta accadendo qui, capocaccia? - Ha terminato una preghiera che l’ha sfinito, Milady. La sua tradizione, il cuore del suo mito, è lo stesso vostro. Capirete che non potendo ardere il corpo di Onchu ha dovuto usare tutto il suo potere per permettergli il trapasso… trattenendo le parti insieme con le sue stesse forze… ma ha fallito. È in questo stato da diversi minuti. Devera annuì, con un’espressione di sincera preoccupazione dipinta sul volto. Le sue iridi dorate sembravano sempre riflettere la luce di una candela, anche nella quasi totale oscurità. - Posso capire. Nondimeno, avete infranto un ordine di Sua Maestà il re. Le regole sono regole. Un rumore viscido, come di qualcosa che si stacca, scivola e cade in una poltiglia gorgoliante fece trasalire Devera. Proveniva dal cadavere. Nella penombra un liquido grigiastro cominciò a sgorgare dal naso del gigante portando con sé grumi di sangue rappreso. Devera fece un altro passo indietro, senza più riuscire a dissimulare il suo imbarazzo. - Cacciatori la… situazione è assai penosa. Potrei autorizzarvi a una celebrazione funebre eccezionale sul JKO Reservoir. Chiedete ai goblin una feluca, raccogliete sulla barca ciò che dovete e ardete questo corpo con tutti gli onori. Avete però meno di un’ora di tempo perché al tramonto il re vuole andare a prendere colui che era il nostro Guardiano di Central Park. Ci vediamo al Belvedere a cosa fatta. 72
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Karabasan sgranò gli occhi sorpresa. - Grazie Milady, date prova di grande misericordia. - Di rispetto, capocaccia. È diverso. Al nostro ritorno parleremo della porta chiusa. - Naturalmente, Milady. Devera chiamò con un gesto il piccolo Austri che la raggiunse subito, strofinando il musetto sui pizzi ghiacciati. La Dama lasciò la sala con un sorriso pacato. Un’espressione che non riusciva comunque a celare il velo di tristezza che tradivano i suoi occhi. Una sola cosa turbava Lady Devera: il decadimento. Il crepuscolo della loro gente e la morte che, uno dopo l’altro, li conduceva all’oblio. Appena Karabasan fu sicura di essere sola sferrò un poderoso calcio che mandò in frantumi la testa di uno dei gemelli. Entrambe le statue si sbriciolarono all’istante, seguite da quella sul tavolo di marmo. L’illusione cristallina di Nidrergi era stata magistrale. Karabasan era sempre stata sola e Devera era caduta vittima dell’inganno. Ora aveva tempo fino al tramonto per mettere in piedi un falso funerale vichingo.
I gemelli sbucarono in pieno parco, sotto un cielo che già s’avviava al tramonto. Il tunnel che avevano usato per fuggire faceva capolino sotto la grande pietra della Ramble Cave, a un passo dal lago. Dopo aver dato un’occhiata nelle vicinanze, trascinarono fuori da una breccia un colosso che aveva le fattezze di Onchu, coperto da un panno logoro rubato da un sarcofago. L’improvvisato mantello non riusciva a mascherare 73
del tutto il folto pelo verde foglia che ricopriva il dorso del gigante. Dopo un paio di passi l’orrendo grugno della creatura ciondolò sul lato, respirando a fatica. Assomigliava molto di più a un lupo, che a un mostro. I gemelli lo sorressero a fatica. - Resisti amico mio… - …Sei libero, niente più catene.
CAPITOLO IV
BECKY
Non sono forse i ricordi a rendere possibili i viaggi nel tempo?
La vasca da bagno color ciclamino era piena fino all’orlo di acqua torbida. Sulla sua superficie galleggiavano fiori e bacche, funghi neri, ghiande sbeccate e piccolo rametti. Tutto era in equilibrio perfetto, immobile. Sembrava che qualcuno, il giorno prima, avesse mischiato latte, fango e sciroppi colorati, ottenendo un intruglio di una tinta neutra e indefinita. La stessa che a volte ha il cielo, quando piove. Per un attimo la pozione sembrava grigio perla, ma quello dopo era già più rosata, probabilmente per colpa delle pareti e di tutta la mobilia del bagno, di un rosa delicato. A interrompere quest’alchimia di tinte pastello fu una mano, di un verde accecante, che emerse all’improvviso dal fondo della vasca, cercando qualcosa cui afferrarsi. Trovò subito la tenda di plastica e vi si aggrappò disperatamente, annaspando nell’aria. Com’era prevedibile, la tenda si strappò in prossimità degli anelli di plastica che la tenevano fissata. Becky ricadde all’indietro battendo sonoramente la testa contro il bordo di ceramica. Memore delle sabbie mobili, ignorò
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CAPITOLO IV - BECKY
il dolore e si buttò fuori di peso, imprecando, con ancora la tenda addosso. Era fredda e appiccicosa, impregnata di un odore acre di muffa e di un profumo dolciastro di vaniglia. L’avvolgeva viscida e sottile come la muta di un serpente. Becky se la tolse di dosso con fatica. Quando finalmente riuscì a mettersi carponi, libera, vide che la pellicola davanti a lei non era più la tenda della doccia. A metà strada tra una sindone e una vera pelle di rettile, quella membrana la ritraeva in ogni forma e dettaglio. Aveva fatto la muta, per davvero. Si alzò terrorizzata verso lo specchio e incontrò un volto stanco nel quale galleggiavano lineamenti fin troppo marcati. Sopracciglia troppo spesse, naso piccolo e congestionato, labbra gonfie e livide, occhi arrossati che facevano risultare ancora più alieno il colore delle iridi, quel nocciola chiarissimo, quasi dorato. I suoi capelli erano lunghe alghe decolorate appiccicate su fronte e guance. Non c’era traccia del fango che l’aveva inghiottita davanti a Tameret, ma non c’era nemmeno più traccia della ragazza che ricordava di essere a Manhattan. La sua mano… la sua mano non era verde fino a poco prima? La guardò, libera dall’ingessatura che l’aveva tenuta intrappolata per settimane. Il tempio di Tameret era stato solo un sogno? Che domande inutili, le avrebbe risposto Fer con quell’arroganza tipica di quelli come lui. L’atteggiamento teatrale che avevano le Storie incarnate poco prima di rivelare una delle loro grandi e fondamentali verità. “La veglia non esiste”, dicevano tutti. Forse avevano ragione. Se passi di sogno in sogno, di aldilà in aldilà, non importa più dove ti trovi ma soltanto chi sei. Becky abbassò lo sguardo e rabbrividì. Si allontanò alla svelta dall’orrenda figura che la ritraeva sul pavimento, ma non prima di coprirla e nasconderla alla vista, quasi con vergogna. 78
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Poi, senza accorgersene, s’infilò nell’accappatoio color lavanda di sua nonna. Perché quello, l’aveva riconosciuto subito, era uguale al bagno di sua nonna Emma, nella casa di Almo Square a San Francisco. Un sogno che le apparteneva, finalmente. “Sai come muoverti nei mari argentei della Visione e come attraversarli in un attimo…” le aveva detto zia Tameret. Quel bagno era una delle fortezze che nel corso degli anni l’aveva fatta sentire più al sicuro in assoluto. La roccaforte insospettabile dove lei si era accorta di aver avuto le prime mestruazioni. Sua nonna Emma era una donna che aveva sempre voluto essere raffinata, sognando spesso al di sopra delle sue reali possibilità. Quel bagno era una dimensione parallela di colore rosa, modellato nella ceramica, riflesso nei suoi cristalli e accarezzato da innumerevoli tendine. Nonostante appartenesse a una casa di modeste dimensioni, sua nonna gli aveva donato un’aria sacrale. Il piano del lavabo, illuminato dal sole della prima mattina, era ordinato come un altare. Ogni oggetto era sempre nel medesimo posto e sembrava provenire da epoche passate. Era la prima volta che vedeva quel bagno… a colori. Becky si asciugò il più possibile, godendosi i profumi e il calore di quel momento, ma si rese presto conto che aveva i vestiti fradici ed era tutto inutile. Si sarebbe dovuta cambiare alla svelta. Con addosso solo l’accappatoio, si diresse verso la porta e con un sospiro solenne l’aprì, pronta a tutto. Il corridoio poco oltre apparteneva alla casa sul lago nella quale la portavano le sue mamme da piccola. Era una casetta di legno nel parco di Yosemite, affacciata su El Capitan. Non c’era nulla di speciale nel disimpegno tra le camere da letto eccetto un bruttissimo dipinto di un cervo sbilenco e una presa fulminata. Ma l’odore del camino catturò l’attenzione di Becky e la condusse verso la sala da pranzo, illuminata dalla luce del tramonto. Le pareti della stanza erano di legno scuro, e tutti i 79
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mobili erano ricoperti da un generoso strato di polvere. Becky raggiunse il camino, nel quale scoppiettavano le ultime braci. Aggiunse a esse un ceppo dalla cesta della legna e prese l’attizzatoio per ravvivare le fiamme. Un breve colpo di tosse, alle sue spalle, la fece trasalire. Brandì all’istante l’attizzatoio come una spada. - Chi c’è? La casa era troppo piccola per offrire chissà quali nascondigli. Da qualche parte un orologio ticchettava e fuori si sentiva soffiare il vento tra le assi del tetto. Nessuno le rispose. - Mamma? …Mami? Siete voi? Un rumore di passi furtivi venne dalla veranda. Becky inspirò ancora e si lanciò verso l’ingresso. Spalancò la porta e roteò l’attizzatoio sopra la testa, come la spadaccina allenata che sperava di diventare semplicemente brandendo un’arma di fortuna. Lo strillo acutissimo che la investì non aveva niente di umano. Becky urlò a sua volta e per la sorpresa urtò un vaso che cadde andando in mille pezzi, bianchi come i petali di un fiore. Tuttavia, Becky riuscì a mettere a fuoco la situazione. Non si trovava più nella sua casa di montagna, ma nell’atrio della sua vecchia scuola elementare. Deserta, come poteva esserlo solo di notte. I pavimenti tirati a lucido riflettevano i neon azzurrini sopra la sua testa, e il fulgore bruciante della sua mano destra, con la quale stringeva ancora l’attizzatoio. Splendeva di nuovo, come uno smeraldo. Venne attraversata da un brivido elettrico, che dalla punta delle dita le percorse tutto il braccio. “A volte dovrai compiere delle scelte, a volte solo lasciarti andare.” La voce di Tameret rimbombò nell’atrio e Becky la cercò con lo sguardo. Ma non c’era proprio nessuno. Eccetto una piccola figura rannicchiata dietro una cesta piena di palloni da basket. 80
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Fece in tempo a vedere solo un vestitino di raso bianco con la gonna a ruota, una cascata di capelli neri e una tiara di plastica ben calcata sulla frangetta. La bambina non le diede tempo di reagire. In un gracidare di scarpe da ginnastica sul pavimento appena lavato si dileguò oltre la porta di una delle aule sulla destra. - Ehi… EHI! Ferma! Non ti voglio fare niente! Ma era tutto inutile. Becky la rincorse. Dopo qualche metro, poco prima di uscire, il riflesso della vetrina dei cimeli la fece bloccare sul posto. Specchiandosi, si vide addosso un ampio mantello nero con un cappuccio invece dell’accappatoio. E anziché impugnare un attizzatoio, brandiva una spada di pura energia vibrante. Anche il resto dei suoi vestiti sembrava uscito da un romanzo fantasy particolarmente modaiolo. Ma fu solo per qualche istante. Alla seconda occhiata, accappatoio rosa, jeans bagnati e attizzatoio erano nuovamente al loro posto. Senza soffermarsi oltre entrò nell’aula. - Ehi… È permesso? Non voglio farti del male, ma ero spaventata… mi chiamo Becky e avrei davvero voglia di sapere chi... Era entrata nella cameretta di una bambina di sei anni appassionata di unicorni: la sua. La bambina era rannicchiata sul letto, dietro una barricata di cuscini. Brandiva la piccola riproduzione di plastica della spada laser di Yoda, accesa di una luce led verde e corredata da realistici effetti sonori. Becky conosceva benissimo quel modello, visto che sua Madre gliel’aveva regalato dopo aver visto insieme Episodio 2. - Tu sei… - Rebecca! 81
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Disse la bambina con tono di sfida, aggrottando le spesse sopracciglia nere. - E tu devi uscire dalla mia stanza perché hai le scarpe! Le piccole sneakers di Rebecca erano infatti già state riposte in ordine accanto alla porta. Guai a entrare in camera, salire sui tappeti o peggio ancora sul letto con le scarpe. Becky si sedette sulla piccola sedia che di solito usava sua mamma Claire quando giocavano assieme e cominciò a slacciarsi le sue senza dire una parola, ubbidiente. Poi cominciò a ragionare ad alta voce. - Sai, credevo di avere il superpotere di muovermi semplicemente per dimensioni parallele e ora non ho solo una mano luminosa, tipo radioattiva, ma sto pure viaggiando nel tempo. Si sfilò le scarpe. - Credo di non voler più andare avanti con questa cosa... - Hai paura? Chiese la piccola Rebecca abbassando la spada laser. - Un po’, cioè… dei viaggi nel tempo? Sì, un sacco. Questo preoccupò la bambina che si diresse spedita verso l’armadio dei giochi. - Ho una spada anche per te, ma ha una luce diversa. Mia mamma dice che è blu ma io non so cosa vuole dire. Rebecca si mise a rovistare in mezzo alle spade di legno, ai tubi galleggianti da piscina, agli scettri da maghetta pieni di globi a specchio e ai rotoli di carta colorata da disegno. - Ho già la mia, grazie. Becky tamburellò sul suo attizzatoio, ora abbandonato a terra in mezzo a un corteo di dinosauri e cavalli colorati. Rebecca lasciò perdere la sua ricerca e le si sedette accanto, a gambe incrociate. 82
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- Perché non torni a casa se hai paura? - Perché credo di essermi persa e perché temo di aver fatto una cavolata prima di partire. Ah! ...e perché ora sto parlando con te e beh… tu sei me e io sono te. Non so se mi spiego: tu sei me da bambina. - Può succedere! Ma solo se ti fanno un incantesimo molto potente. Come una maledizione! Rebecca impugnò un dinosauro come una pistola laser e sparò qualche colpo in aria e mimando il suono con la bocca. - PEW PEW! Con la magia si può fare di tutto! Ma meglio non parlarne a Mamma Meera altrimenti si arrabbia e diventa triste. E poi Mami deve portarla fuori a mangiare per tirarla su. PEW PEW! Poi si baciano eh? Si baciano sempre. Becky sorrise, pensierosa. Non si spiegava perché sua madre Meera fosse così terrorizzata ogni volta che si accennava, anche per scherzo, al soprannaturale. Persino innocue serie TV come Buffy o Sabrina l’avevano sempre messa a disagio. Pensando a tutto quello che le era successo nelle ultime ore, e alla preoccupazione delle sue madri, si rabbuiò, scacciando via quei pensieri. - Sei sveglia. - Perché sono una Principessa. Adesso ti spiego tutto. Si alzò e raccolse una cesta piena di giocattoli, alcuni dei quali fecero sussultare Becky di malinconia. Erano i suoi giochi, nella sua stanza e quella probabilmente era stata la sua voce. Tutto combaciava, ed era come guardarsi in un vecchio video, con il dito pronto a cliccare da un momento all’altro fast forward per l’imbarazzo. La piccola Rebecca cominciò a scegliere i giochi e a disporli secondo un ordine, come se entrambe fossero spettatrici di un piccolo palco sul quale veniva messa in scena la storia che lei stava per raccontare. 83
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- Quando mi lasciano a casa da sola per poco, perché ormai sono grande, io gioco e apro tutte le porte, poi le richiudo e poi le riapro anche. Prese la bambola Camille, una Ballerina Volante dalla pelle nera, i capelli cotonati e il ciuffo azzurro. Le mani erano un tutt’uno con le ali da libellula fucsia. - Questa sono io che apro e chiudo le porte. Vedi? Assomiglio alla mamma. - Lo vedo. - Ogni tanto quando apro una porta dall’altra parte c’è un posto diverso. Tipo che entro nel bagno della nonna ed esco nello spogliatoio della piscina. Oppure dentro all’armadio c’è la soffitta della mia amica Angelica, dove ha fatto i cuccioli la sua gatta. Però quando vado là non c’è mai nessuno. - A volte mi perdo perché continuo ad aprire porte e aprire porte e poi finisco da un’altra parte ma oggi no, solo un pochino. Mi hai fatto tanta paura davanti al camino della casa sul lago. Ho pensato che mi volevi uccidere. La bambina prese vari personaggi che mise in campo accanto alla ballerina volante. Prese un vecchio giocattolo di Daphne di Scooby-Doo e lo mise davanti a Camille. - Ecco, questa sei tu che mi vuoi uccidere. - Uccidere? No, Becky… La bambina fece una smorfia. - Rebecca! - Rebecca, scusa. Quindi tu vieni in questo posto che è tutti i posti incollati assieme ogni volta che rimani sola?
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- Mica sempre! A volte gioco a Pokémon sul divano con Tiffany, il mio cane, che è troppo piccola e qui non ci può venire. Da grande, forse. Posizionò accanto alla bambola che la ritraeva un piccolo pupazzetto di plastica di Simba, del Re Leone. Poi continuò. - Però ho fatto una mappa, perché sembra tutto uguale quando ci torno, ma non è mica vero. A volte le stanze si spostano. Quindi ho fatto un cartellone che si stacca e riattacca. Mami Claire dice che diventerò un’architetta! Tirò fuori un foglio di cartoncino azzurro arrotolato da una scansia dell’armadio. Era chiuso con un laccio da scarpe giallo fluo, come fosse una pergamena magica. Prima che lo aprisse Becky conosceva già il suo contenuto. Era la mappa del… - Il palazzo delle fate. Becky si lasciò sfuggire quel nome tutto d’un fiato. Rebecca annuì entusiasta. Quando questo accadde le sembrò quasi di sentire il proprio cuore batterle in petto, fortissimo. Ma era solo il ricordo di quella sensazione. Abbastanza forte comunque da farle accarezzare la pergamena con affetto. - Questo è il palazzo delle fate. Un posto che avevo inventato da piccola e nel quale ambientavo tutte le mie avventure. Era il mio Bosco dei Cento Acri, la mia Fantàsia. Ho ridisegnato questo progetto dieci volte… forse venti! E poi l’ho rifatto in 3D coi LEGO, e poi anche con Minecraft e… poi… all’università, in AutoCAD. Oddio, ero ossessionata da questo posto! La piccola Rebecca aprì il grande rotolo, puntellandone gli angoli con alcuni dinosauri sdraiati. - Ecco ora dormono e ci aiutano. Il foglio azzurro raccoglieva decine di foglietti appiccicati al suo interno con lo scotch arcobaleno, tutti bianchi e a quadretti. I foglietti erano comunicanti tra loro o congiunti con
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svariate frecce colorate che andavano in più sensi. Dall’alto sembrava la mappa di HeroQuest ridisegnata da capo in tinte pastello. Rebecca guardò Becky con orgoglio, forse aspettandosi complimenti per come aveva disegnato e colorato in modo accurato le stanze viste dall’alto. Becky però non sapeva proprio cosa dire. Ogni pezzo della sua vita cominciò a ricongiungersi. Ogni volta che si rivedeva china su un progetto, a scuola o all’università, riemergeva quel luogo. Che fosse un Sogno o realtà non importava. Il palazzo delle fate esisteva, quel luogo tutto suo che racchiudeva tutti i luoghi che la facevano stare bene. E lei finalmente c’era dentro.
Rebecca aveva insistito sulle provviste per il viaggio: pacchi di merendine e succhi di frutta. Insieme, le due stavano stipando uno zainetto a forma di testa di unicorno, che doveva essere costato una fortuna. Rebecca era un’avventuriera previdente, ma aveva precise idee in fatto di stile. Il resto dell’equipaggiamento consisteva in un’ascia da battaglia di gomma parte di un vecchio costume da piccola vichinga, una bacchetta di Sailor Moon con grandi funzionalità - ma con le pile scariche - e un set completo da disegno per modificare la mappa del palazzo in tempo reale. Becky l’aveva aiutata a prepararsi reggendole il gioco con grande serietà. Nascondendole quanta tenerezza le facesse una bambina così piccola che si preparava per un’epica impresa. A dir la verità c’era qualcosa di estremamente legittimo in quello che Rebecca stava facendo, tanto che a un tratto Becky si sentì molto meno pronta di lei ad affrontare i pericoli di quel luogo. Quando finalmente ebbero finito si presero per mano con un po’ di timidezza. 86
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- Ti devo tenere la mano altrimenti ti perdi. Disse Rebecca solennemente. - Grazie. Per risposta le sorrise, e insieme varcarono la porta trovandosi nel corridoio centrale della libreria antiquaria dove lavorava la “loro” madre Claire. Lo scampanellio della porta a vetri annunciò il loro ingresso nel silenzio più totale. Non venne però nessuno a riceverle, nonostante fosse pieno giorno. Nessuno poteva entrare nel palazzo delle fate oltre a loro, giusto? - Non ti spaventa mai stare in questi posti da sola? - No. Io ho la magia e poi le fate sono mie amiche. Le strinse la mano preoccupata. - Ma è un segreto, non puoi dirlo alla Mamma Meera, te l’ho detto. Una volta l’ho vista piangere… Rebecca si fermò davanti a una scansia e prese un libro a caso. Becky la guardò attentamente, sentendo la voce di zia Tamereth oltre la parete di libri: “Stai condensando in una sola formula tutti gli incantesimi che non hai mai enunciato da bambina.” La piccola Rebecca le mostrò il libro che aveva preso. Nonostante la copertina fosse a prima vista convincente, le pagine al suo interno erano completamente vuote. - Sono così tutti quanti sai? Senza parole. Fanno il gioco del silenzio. Ne prese un altro e glielo passò. - Ecco perché ce li devo mettere dentro io i disegni… e le parole! e i nomi delle cose. Altrimenti li buttano via, no? A cosa servono i libri tutti vuoti e tristi… Rebecca aveva disegnato su tutti i volumi senza alcun criterio o cautela e continuava a mostrarglieli con orgoglio. Becky li sfogliava incredula, era un lavoro di anni e immaginare se stessa 87
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da bambina in un’altra dimensione a riempire libri bianchi le sembrava stranamente sempre meno assurdo. Si trovò davanti a creature fantastiche molto dettagliate, realizzate con pazienza a pennarello o con i pastelli a cera. Alcuni erano disegni che una bambina con tanta immaginazione avrebbe potuto fare. Altri erano invece intrecci di linee colorate che assomigliavano a formule, rune e cerchi magici. I colori, neanche a dirlo, erano accostati in modo del tutto folle, quasi psichedelico, ma erano belli. Insieme risultavano stranamente armonici. Non c’era poi da stupirsi più di tanto, visto che Becky, nei sogni, aveva sempre potuto vedere i colori. Al contrario della realtà, dove restava acromata. Incantesimi. Rebecca trasformava i libri in grimori pieni di incantesimi. Stava per dire finalmente qualcosa quando la porta sul retro del negozio sbatté violentemente. Fu così forte da far tremare i cardini ai quali era fissata. Un urlo acuto morì in gola a entrambe e Rebecca si buttò tra le braccia di Becky. Seguì un attimo di silenzio e poi un gran baccano. Qualcuno, nel retrobottega, stava facendo cadere oggetti di tutti i tipi, alcuni dei quali andavano in pezzi. Ai rumori si aggiunsero due voci che imprecavano l’una contro l’altra e poi l’inconfondibile frastuono di un mobile pesante che veniva trascinato di peso. Becky si diresse velocemente verso il bancone e aprì un vano facendo segno a Rebecca di nascondercisi dentro. La bambina ubbidì senza pensarci due volte e si appallottolo abbracciando lo zainetto. - Vado a vedere… non voglio sentirti fiatare, intesi? Come un ninja. Rebecca annuì con gli occhi lucidi dalla paura. - Come un ninja.
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Becky scivolò con cautela lungo il corridoio brandendo l’attizzatoio. Passi corti e delicati. Passi corti e delicati. Come un ninja, proprio come un ninja. I rumori nella stanza nel frattempo si facevano di passo in passo più distinti. Le voci erano due: una molto decisa e l’altra soffocata, poco più di un mormorio. Arrivata alla porta aperta dello stanzino cercò di abbassarsi di lato, lungo lo stipite, per dare un’occhiata oltre. Vide solo una vecchia scrivania che barricava la porta sul retro. I rumori cessarono all’improvviso. La voce pacata chiese qualcosa all’altra, ma non ottenne risposta, solo silenzio. Quello che accadde dopo fu troppo veloce per essere visto davvero. Uno schianto sopra la testa di Becky mandò in frantumi il vecchio stipite di legno che esplose, letteralmente, in una rosa di schegge. Lei si lasciò cadere a terra, d’istinto. Qualcosa nel suo stomaco la spinse a reagire subito, senza fermarsi, rotolando sul lato in modo da schivare il secondo colpo. Era una mazza da baseball di legno pieno, color turchese. Assomigliava alla mazza con la quale giocava da ragazzina nella squadra femminile della scuola. - Dannazione… MUORI! La rabbia che c’era nella voce dell’assalitrice fece gelare il sangue a Becky, ma il terzo colpo incontrò il freddo ferro del suo attizzatoio. Una parata magistrale. Becky sostenne il colpo con entrambe le mani e mollò un calcio. Un colpo goffo, che comunque incontrò la gamba tesa dell’altra e sortì il suo effetto. Finirono a terra entrambe, strette in una lotta ostacolata da armi, accappatoio e fango. La ragazza sconosciuta era fasciata in una tuta da motocross nera e grigia, totalmente lercia di fanghiglia. Il casco riportava, insieme a svariati sponsor, la sagoma di una testa di squalo con le fauci spalancate e proprio al centro di quella bocca spuntava un viso contratto dalla rabbia.
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- Brutta puttana TI AMMAZZO! Puttana? Becky si contorse di rabbia. - NO… TU - puttana - non lo dici più a NESSUNO… testa di cazzo! Mollò all’improvviso l’attizzatoio e usò il suo peso per salire cavalcioni sull’altra. Poi agguantò il casco con entrambe le mani e cominciò a sbatterlo a terra con tutta la forza che aveva in corpo. Il primo colpo le diede una scossa adrenalinica e la fece urlare di rabbia, trionfante. Il secondo strappò un mugolio di dolore alla motociclista che lo indossava. Ma il terzo le ricordò un altro rumore, qualcosa che aveva dimenticato. Il rumore dell’impatto con l’asfalto, dell’incidente. L’ultimo rumore del corpo di Nick. Lasciò la presa e arrancò all’indietro. Ansimando. La testa cominciò a pulsarle forte. Era come se un secondo cuore volesse nascerle dentro al cranio. Sudori freddi, improvvisi, strisciarono sotto i vestiti ancora bagnati e la raggelarono da capo a piedi. I tremori le impedirono di scappare, legandole gli arti e permettendole solo di rannicchiarsi mentre il respiro si faceva sempre più corto. Non sarebbe mai più riuscita a respirare davvero, non abbastanza per sopravvivere. Quante volte, dopo quella notte, aveva sognato di morire? Quanti ultimi respiri aveva sperimentato e quanti ultimi battiti del cuore erano risuonati dentro di lei? Poteva accadere ancora, poteva accadere all’infinito, ma non doveva più sentire quel rumore. Il rumore di un casco sull’asfalto.
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Quando riaprì gli occhi era in biancheria intima, avvolta in un asciugamano, con il soffitto obliquo di una vecchia mansarda a proteggerla da un violento temporale. L’ambiente, tutto sommato, era piuttosto grande, ma comunque troppo opprimente per quattro persone disposte in cerchio. Non c’era nemmeno lo spazio per alzarsi del tutto in piedi senza toccare il soffitto con la testa e ovunque erano appesi i suoi vestiti ad asciugare. Al centro della stanza strapiena di vecchi mobili c’era una lampada led da campeggio che irradiava una luce fredda e opaca. Fuori, oltre una finestra ovale, rimbombò un tuono lontano. Accanto a Becky c’era Rebecca, spaventata e spettinata, con la tiara di traverso e il vestito da principessa ormai malconcio. - Ti sei svegliata! Ti sei svegliata! Le sgattaiolò vicino, sventolando lo scettro di plastica come un’arma. Poi lo puntò dietro di lei dove una ragazza in tuta da motocross slacciata fino alla vita le stava fissando con aria di sfida. Aveva un’età indefinita, a metà tra i venti e i trent’anni, con un corpo muscoloso e i capelli corti e mossi, quasi ricci, tanto decolorati quanto incrostati di fango. Le dita erano fasciate e le mani totalmente ricoperte di tatuaggi. Accanto a lei c’era un’altra ragazza più o meno della stessa età. Era stretta in un abito nero rubato dal set di un film di vampiri, sovrastato da un cappello a tesa larga dello stesso colore. I lineamenti erano nascosti da un pesante cerone bianco e da un velo a lutto che le scendeva sulle spalle. Becky si fece avanti per vederla meglio, ma la prima delle due, quella arrogante, non le diede tempo di notare altro. - Bene. Finalmente. Qui abbiamo un problema. Lo asserì come se il mondo avesse bisogno di questa affermazione per tornare a girare. 91
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Becky non la considerò e accarezzò la testolina di Rebecca raddrizzandole la tiara. - Hai fatto la brava ninja? - Sì sì, non ci credevano che sono un ninja, ma non mi hanno trovata. Poi però le ho fermate io con i miei poteri per dire che non ti dovevano fare male. Mostrò lo scettro, per sottolineare con enfasi le sue parole. - Grazie, Rebecca. Le due si sorrisero, poi Becky si voltò verso la ragazza infangata cercando di darsi un tono, nonostante fossero mezze nude entrambe. - Ora… ditemi che c’è stato un errore e che avete cercato di uccidermi per sbaglio e la chiudiamo qui. Può succedere, a me capita più spesso di quanto possiate immaginare. Io e Rebecca non vogliamo sapere nulla di voi due e del perché siete qui. Ce ne andremo appena i miei vestiti saranno asciutti. Non c’è nessun problema, vedete? La questione è chiusa. La motociclista rise, e c’era qualcosa di estremamente sbagliato in quella risata. - Eh no, povera stronza. Se IO ti dico che c’è un problema, allora mi devi stare ad ascoltare. Sollevò bruscamente la lampada al led e se la puntò in faccia. Becky vide prima il labbro spaccato, poi il livido sullo zigomo e infine tutto il resto della faccia. Le labbra piene ma imbronciate. Gli occhi dal taglio obliquo ma truccati troppo per nascondere le profonde occhiaie blu. Le iridi nocciola chiaro, le sopracciglia folte, nerissime… - Capito testa di cazzo? Becky vide un’altra se stessa. 92
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Si riconobbe in quegli occhi, in quella rabbia. La sconosciuta continuò. - Io sono Bex e lei è Rea. Da sotto il velo si alzò una mano guantata di pelle che rivelò un volto bianco come un osso. Tanto bianco che all’inizio Becky pensò si trattasse di una maschera, invece era solo pelle sepolta sotto uno strato troppo abbondante di cipria. Non c’era altro tipo di make-up. Niente eyeliner da locale gotico o rossetto nero da concerto metal. La faccia sembrava cancellata via da un’uniforme strato di cipria avorio. I capelli erano tenuti corti e irregolari, come fossero stati vittima di sforbiciate distratte. Gli occhi erano piccoli e spenti. - Siamo la stessa persona. Disse Rea con un filo di voce totalmente privo di emozione. - Siamo la stessa persona raccontata in modo differente. L’ho capito subito. Quelle come me, queste cose, le capiscono al volo. Non sforzatevi, non è un dono destinato a tutti. La differenza tra me e voi sta solo in un punto fondamentale. Si guardò intorno, e poi il suo sguardo perso si fermò sull’unico angolo vuoto di tutta la soffitta. - Io posso parlare a Nick, anche se lui non può rispondere. Bex roteò gli occhi infastidita. - Ma stai zitta, deficiente. Ti ho già detto che questa storia non attacca. Becky guardò la ragazza in nero con più attenzione. Sotto al trucco c’erano davvero i suoi stessi lineamenti. Eppure tutto in lei appariva differente, come attraverso uno specchio deformante. Sembrava un’inquietante bambola a grandezza umana. Una sua fedele e vuota riproduzione, qualcosa di grottesco. 94
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Rebecca guardò tutte senza capire. - Chi è Nick? Un attimo prima lo scroscio d’acqua era così assordante da costringerle a tenere un buon volume di voce per potersi sentire. Ma dopo quella domanda non si sentì quasi più nulla, solo un frusciante picchiettare lontano. Fu Bex a risponderle, calmando per un attimo la grinta che sembrava parte integrante della sua voce. - Era un mio amico d’infanzia, il mio migliore amico. Sette anni fa è morto in un incidente di moto. - Ha varcato le Soglie dell’Altrove, l’anno scorso, per la precisione. Puntualizzò Rea. - SMETTETELA, subito. Urlò Becky. Per lei erano passati appena due mesi dall’incidente. Bex sbuffò. - Ve l’avevo detto che qui abbiamo un problema.
La motociclista fu la prima a raccontare. Forse per alleggerire in fretta un peso dalla propria coscienza o, più semplicemente, per togliere il disturbo il prima possibile. - Dopo l’incidente siamo partite, o meglio, scappate. Mia madre Meera aveva dei contatti in Inghilterra e un conto di riserva in banca del quale Claire non sapeva nulla. Non so che casini ci furono dietro a questa cosa o perché mia mamma fosse così paranoica, ma meglio così. Mollammo tutto e basta, fine. Ricominciammo da zero. Sembrava tutto finito. Fino a quando non ho trovato il coraggio di risalire su una moto per superare le mie 95
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paure e andare avanti. Allora è cambiato tutto per davvero. Io sono cambiata. Ho cominciato a fare qualche gara. Ovviamente senza dirlo a casa. Vennero le domande, i chiarimenti e i commenti fuori luogo di Rebecca. La bambina sembrava capire la situazione alla perfezione e gestirla meglio di tutte loro. Becky nel frattempo non riusciva quasi a parlare, grata alla piccola per dar voce ai suoi stessi interrogativi. Si limitava ad annuire, di tanto in tanto. In realtà non voleva essere lì e soprattutto non voleva parlare dell’incidente. Ma venne il momento che più temeva: il turno di Rea, la quale dopo la sua dichiarazione iniziale non aveva più preso la parola. - Vivo in una casa che è anche un centro di… riabilitazione. Un posto molto bello, vicino al bosco. Lo vedo dalla mia finestra. - Ci sono le fate nel bosco? Chiese Rebecca mentre masticava una merendina al cioccolato. - Non lo so. Se ci sono se ne stanno ben nascoste. Dentro la casa è pieno di dottori e alle fate non piacciono i dottori. È un posto che costa un sacco di soldi. La mia famiglia dice di no, ma mentono, lo so. Faccio attività di gruppo per due ore alla mattina e due ore al pomeriggio, ma per il resto della giornata posso fare quello che voglio. Ho un Kindle quindi scarico libri e studio. Tre volte la settimana ho la terapista, la dottoressa Mendell. La sua voce era calma e il suo tono pragmatico. Lo stesso modo di raccontare di chi ha un’idea precisa e sa come rea96
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lizzarla. Becky si aspettava di sentirle dire qualche stranezza. Non sapeva di che tipo. Qualunque cosa purché le facesse immaginare un buon motivo per mandarla in una casa di cura. Eppure non trovò niente del genere. Rea era lucidissima e forse non era pazza per niente. - Il sabato ci portano a fare gite, o picnic e la domenica vedo la mia famiglia. Va tutto bene. Il punto è che continuo a vedere Nick e non posso essere totalmente sincera con i medici al riguardo. Ma sono buoni. Mi lasciano vestire come voglio e leggere quello che voglio. Devo solo imparare a mentire meglio e beh… devo diventare una strega. Se divento una strega andrà tutto bene. Becky vedeva la magia sotto forma di colori. Perché Rea non avrebbe potuto vedere chi non c’era più? La sola idea la fece tremare di nuovo e la crisi di panico che l’aveva stesa nella libreria sembrò coglierla alle spalle con un brivido freddo. Nick? Era davvero lì con loro? Decise di dire qualcosa, qualsiasi cosa. La prima idiozia che le venne in mente: la verità. - Io vedo i colori e i colori sono la magia. Tutte la guardarono perplesse, poi un fulmine rischiarò l’intera soffitta e per un attimo ogni cosa fu argentata e nitida, modellata nella luce bianchissima. Bastò quello per far scattare tutte in piedi. Nell’angolo opposto a loro, vicino alla finestra, c’era qualcuno. Qualcuno che era lì da chissà quanto e che ora le stava guardando. 97
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Nessuno gli aveva mai detto di stare attento a ciò che desiderava.
All’inizio erano solo ragazzi strambi. Quelli che vivono nell’ombra di qualcun altro e che non aprono mai la bocca. Che sorridono imbarazzati, ma che avrebbero voluto dire qualcosa. I timidi cronici, i complessati che ordinano solo una coca al pub, gli insicuri che continuano a guardare l’orologio. A Patrick piacevano proprio da morire. Riusciva a trovarli tra mille, come se fosse capace di fiutare quell’affascinante forma di debolezza già al primo scambio di messaggi in chat. Poi aveva capito di potersi spingere oltre. Si era scoperto a uscire con quelli con le mani troppo grandi, la pelle troppo chiara, i capelli troppo lunghi e i tatuaggi troppo brutti. Quelli che si potevano descrivere solo grazie a tutto ciò che di sbagliato, strano e fuori moda c’era in loro. Questa passione l’aveva portato a bere caffè con una sequela imbarazzante di nerd, aspiranti musicisti, inguardabili ipocondriaci e ossessivi preoccupanti. Con alcuni di loro si era persino chiuso in camera, tra baci goffi, brutte mutande e richieste bizzarre. Tutta
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CAPITOLO V - PATRICK
quella mancanza di conformismo lo confortava. Con questi ragazzi del tutto estranei al mondo e agli standard della comunità gay si sentiva come il fascinoso protagonista di un film romantico in bianco e nero. Usciva di casa con l’entusiasmo di un principe che si finge contadino per trovare qualcuno che lo ami davvero. In fondo non era romantico scoprire la propria anima gemella dietro spessi occhiali e capelli arruffati? Prima della trasformazione finale, ovviamente, sarebbe bastato dire: “Mettiti le lenti a contatto e dammi cinque minuti con un rasoio elettrico… ti mostrerò come sei davvero…”. Non era quello che aveva sempre desiderato? Essere un inaspettato salvatore? Come nei film? Eppure non c’era niente di romantico in quello che lo turbava. Non riusciva a togliersi dalla testa i piedi nudi di Fer. Li vedeva e rivedeva mentre sprofondavano nella neve come zoccoli di un cavallo da traino. Quel singolo dettaglio era capace di cancellare ogni altra stranezza. Il gigante appena conosciuto era ben oltre il livello di stravaganza al quale di solito Patrick era abituato. Innanzitutto Fer aveva un corpo titanico del tutto fuori scala. Come se, per fabbricarlo, avessero raddoppiato la dose di materia prima. Era un uomo antico, da bassorilievo, se non addirittura primitivo, rupestre. Aveva lineamenti tagliati con l’accetta e braccia larghe come tronchi. E poi quei dannati piedi sempre puliti, nonostante girovagassero senza scarpe per le vie di Manhatthan. Erano enormi, capaci di schiacciare una persona, e lasciavano impronte vere. Non quelle di scarpe o di ruote della bici. No, vere orme di essere umano, come se gli esseri umani fossero animali e lui fosse l’unico a rendersene conto. Vide il telefono illuminarsi e prese la chiamata prima che potesse squillare. - Sei a casa? 102
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La voce di Dhara era un soffio, a Patrick sembrava quasi di sentire l’odore della sigaretta. - Per poco. Sto per uscire. Aspetto che mi chiamino. - Il tizio di oggi? Qualcuno suonò il clacson. Dhara stava attraversando la strada. - Esatto! Ha detto che mi chiama se si libera. E poi è un amico di Becky! Assurdo… non sembra per niente uno di quelli che ci provano con lei su WoW o su LoL… Patrick cominciò ad attraversare casa sua avanti e indietro, calpestando sempre le stesse assi di parquet. Immaginava, prima o poi, di poterle consumare con i piedi nudi. Piedi ridicoli se confrontati a quelli di Fer. - Ma il tipo era veramente il manzo del video o era fake? Dhara era curiosa e invadente come sempre ma sembrava con la testa altrove. - No, macché fake. Era lui Dhara, in carne e ossa. Ti dirò… pure troppa, non stava nei divanetti di Starbucks. Ha delle cosce larghe come il mio torace… e mani grandi come badili. Cioè… io non oso immaginare il resto lì sotto. Non ce la faccio. - Ma se te lo immagini SEMPRE come sono fatti lì sotto?! Patrick scoppiò a ridere. - Ok ok…beccato. Ma l’hai visto? Secondo me quello non fa sesso come gli esseri umani, quello si accoppia come una bestia… non saresti nemmeno un po’ curiosa? - Ma anche no. 103
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Patrick continuò a parlare come se non si aspettasse una risposta diversa da quella. - …E ha detto chiaramente di essere bi. Quindi è fatta. Solo che non mi risponde al messaggio e mandarne un altro è da sfigati. Sto a metà tra “preso male” e “sto da schifo”. Dhara diede un ultimo tiro e sbuffò esasperata. - PATRICK. L’hai conosciuto OGGI. Andiamo a bere qualcosa tu e io e finiamola qui. Cioè, non abbiamo bisogno di una scusa per bere, ma facciamolo lo stesso. Posso persino fare finta di consolarti se mi offri la prima birra. - OK. Ma che palle, eccheccazzo! Se ci pensi la storia era perfetta. Ti faccio il film: giovane ragazzo carino fa un video di un presunto attentato nel quale compare un bono inverosimile che sembra il personaggio di un film d’azione. Il giovane ragazzo carino lo mette online. Il protagonista del video, ovvero il bono inverosimile, lo vede e lo rintraccia. I due escono. Era un incipit perfetto! - Su questo hai ragione. Te lo stai già girando nella testa come un porno d’autore. - Ecco. Avere anche la seconda metà del film era chiedere troppo? I due escono di nuovo. Il giovane ragazzo carino si fa accompagnare sotto casa dopo una passeggiata a Central Park, ma resiste alla tentazione e riesce a non farlo salire in casa sua… - Perché non vuoi presentare ai tuoi genitori i ragazzi con cui esci. - Sì, ok è anche perché il giovane ragazzo carino ha due genitori fuori di testa chiamati Darcys che ultimamente sono in agguato a orari assurdi… ma principalmente perché non vuole correre troppo. La settimana dopo i due escono magari per un cinema e poi in un locale, alle due di notte, limonano, quello sì. Il ragazzo 104
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carino presenta il bono inverosimile al suo gruppo di amici. Loro se ne innamorano, per forza, dopotutto è matto e gira a piedi nudi per Manhattan… - Oh… ok. Innanzitutto SMETTILA di parlare in terza persona e di farti tutti questi viaggi. Ho capito il punto fondamentale attorno al quale ruota tutto. I piedi. Patrick, ogni settimana hai un fetish diverso… - Fammi finire. I due si amano ma non riescono a dirselo, principalmente perché la tensione sessuale è alle stelle. Alla fine è il bono inverosimile che confessa al giovane ragazzo carino che non resiste più e finalmente scopano. - Come sei romantico Patrick Darcy. Le tue storie che finiscono con “e finalmente scopano” sono praticamente un “e vissero felici e contenti”. Non esiste niente di meglio… - …e finalmente scopano… come animali e ripetutamente? Patrick trovò il suo volto sorridente riflesso in un piatto d’argento d’esposizione, lucidato come uno scudo. Un oggetto che non aveva mai visto fino a quel momento. Era posto in verticale, grazie a un piedistallo di corno, su una mensola del salotto. La sua casa era un museo deserto e i suoi genitori ne erano i custodi. Quelle poche volte in cui i Darcys erano in casa, ovviamente. Cosa che avveniva molto di rado e di certo non contemporaneamente. Patrick poteva contare le volte in cui si erano seduti intorno al tavolo tutti e tre insieme nell’ultimo anno. Non c’era nemmeno bisogno di scomodare due mani per tenere il conto. Eppure la loro, pur non essendo una famiglia tradizionale, poteva definirsi estremamente funzionale. Convivevano senza mai litigare, dormivano in stanze separate, ordinate come quelle di una 105
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caserma lungo un buio corridoio. Si salutavano, scambiavano qualche opinione su ciò che accadeva nel mondo e poi ognuno usciva per sbrigare le proprie faccende. Il lavoro dei suoi genitori non era importante, non per lui. Aveva smesso di chiedere dettagli o aggiornamenti sulla loro posizione all’interno dell’azienda di consulenza finanziaria da anni. Più o meno da quando si era iscritto al Manhattan College per il corso di Digital Journalism. I suoi non s’interessavano mai e lui ricambiava il favore. Il loro lavoro era solo ciò che garantiva alla famiglia quello che contava davvero: una situazione stabile e un’assurda collezione di piccole opere d’arte che continuavano a spuntare sui costosi mobili di design. Una famiglia che assomigliava alla casa nella quale viveva. Bellissima, efficiente e costantemente curata da qualcun altro. Senza un briciolo di coinvolgimento. I suoi genitori avevano frequentato per anni un terapista di coppia e infine l’avevano sostituito con un pluripremiato arredatore d’interni. Ora, proprio grazie a lui, sembravano aver raggiunto una forma d’equilibrio perfetto. Unico problema: non avevano orari. Potevano essere svegli o a letto a qualunque ora del giorno, in un continuo susseguirsi di video conference, home working, meeting, cene di lavoro, viaggi e power nap. Le porte erano sempre chiuse, qualunque fosse il caso. Ogni tanto si sentiva il padre di Patrick ridere davanti a una webcam con tono confidenziale o il profumo della madre ancora sospeso per l’aria dell’ingresso, vicino all’armadio dei cappotti. - Patrick, ci sei? - Scusa. Quando ci vediamo? Passo da te tra un’ora? Dall’altra parte del telefono si sentì il tipico campanello sopra alla porta d’ingresso di un cafè. Un vociare divertito e un cozzare di stoviglie si sostituì ai rumori della strada. 106
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- Fermo lì, intendevo più tardi, ora ho un altro appuntamento. Mi libero verso le nove. Ci vediamo da Ty’s? - Ehi ehi ehi… appuntamento? Non usi mai questa parola. Come si chiama? - …è complicato. - Radha non ti ho MAI sentito dire che è complicato. Ora crepo dalla voglia di sapere TUTTO. - …Ti odio quando mi chiami con quel nome. Sto uscendo con qualcuno, è vero, ma non è proprio “uscire” come lo intendi tu. Cioè sì, ma… c’è qualcosa che ti devo dire. - È una femmina. - MA TI PARE?! Ho le zie lesbiche e uscire con una femmina è complicato? Io mi sveglio ogni giorno pregando di non innamorarmi più di un ragazzo ma questa volta… - INNAMORATA? - Ci vediamo alle nove, da Ty’s. - Non puoi mettermi giù il telefono così! Radha! - Ti odio quando mi chiami con quel nome. Lo schermo dello smartphone lampeggiò un’ultima volta e si spense, muto. Patrick lo riaccese velocissimo e scelse l’icona di Dhara dalle chiamate veloci, ridacchiando. Nessuno la chiamava mai con il suo vero nome. Becky non lo usava mai mentre Andrew e Sophie non lo conoscevano nemmeno. Era un nome segreto. Non ricevette risposta, eccetto un messag107
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gio che recitava lapidario e senza emoticon: “Alle nove, da Ty’s. Non rompere”. Patrick si accorse solo allora che era in bagno, seduto sul bordo della vasca. I suoi piedi erano freddi e le luci del tramonto invernale si riflettevano sulle finestre facendole risplendere. Ogni superfice lucida sembrava un portale verso un’altra dimensione. I colori della stanza, così ordinari e sobri cominciarono ad accendersi di tinte aranciate. Era come sprofondare in un filtro di Instagram che si faceva di attimo in attimo sempre più acceso. Patrick si alzò. Qualcosa non andava. Incontrò di nuovo il suo riflesso e vide un ragazzo con i capelli ricci e lo sguardo spaventato. Dietro di lui una figura era in piedi, immobile, sulla soglia del bagno. Patrick si voltò di scatto, con la sensazione di essersi sbagliato, di aver frainteso un’ombra o qualcosa del genere. La figura invece entrò nel bagno con passo tranquillo, senza fretta, molleggiandosi sulle proprie sneaker speed nere di Balenciaga. Indossava pantaloni neri lunghi a metà stinco di svariate taglie più grandi della sua. Una maglietta altrettanto oversize e una giacca con cappuccio ben calcata sulla testa. Tra questi strati di tessuti neri, i capelli spiccavano bianchissimi. Dello stesso colore erano le ciglia e le sopracciglia, così fini da sembrare assenti. Sembrava il cantante minorenne di un gruppo musicale. - Di nuovo in un bagno, che déjà-vu... Voce troppo profonda per essere quella di un ragazzino. Patrick scattò indietro. - OCC… CAZ… ZO… chi… chi ti ha fatto entrare?! La domanda gli uscì debole, senza fiato. Il panico lo stava già stringendo in un abbraccio gelato.
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Il ragazzo gli sorrise, con labbra morbidissime. Patrick spinse fuori il primo pensiero che gli venne in mente, urlando, con tutta la forza che gli rimaneva. - FERMO! La sua percezione del tempo si guastò con quell’urlo per via del terrore che lo stava assalendo. In un attimo era tutto reale: uno sconosciuto era nel suo bagno. Un vero sconosciuto era entrato in casa sua… e nel corridoio s’intravvedeva qualcun altro. Tutti i corpi erano perfettamente immobili. Solo che non rimanevano immobili nello stesso posto per troppo tempo. Era come se le immagini si aggiornassero troppo lentamente. Un attimo prima il ragazzo pallido vestito di nero era sulla soglia, quello dopo era fermo al centro della stanza. Quello dopo ancora era davanti allo specchio, al suo posto, mentre Patrick si era allontanato il più possibile appiccicandosi all’alta cassettiera dove tenevano gli asciugamani. - Saltiamo tutta la parte in cui non capisci cosa sta succedendo, mi fai domande alle quali non risponderò e finisco per dimostrarti soltanto la mia superiorità? Mi piacerebbe un rapimento creativo, diverso dal solito. Sei adulto. Comportati da adulto. Ti va? Rapimento. Patrick sentì la morsa gelida penetrargli la pelle e accendersi con un crepitio elettrico. Ma c’era qualcosa di inaspettato nella tranquillità dello sconosciuto. Qualcosa che non hanno i pazzi che si lasciano guidare dal desiderio o i ladri che hanno fretta di terminare un lavoro. - OK, ok… CALMA. Spiegami… cioè… sei appena entrato nel mio bagno. Se mi dici qualcosa… qualsiasi cosa… io posso… io non farò storie. Il ragazzo sorrise, divertito.
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- Mi piacciono i patti. Allora, vediamo. Non so chi tu sia e non credo mi interessi saperlo. Semplicemente mi servi per ottenere ciò che voglio. Ecco perché io e i miei amici siamo entrati in casa tua. Il tempo riprese a scorrere normalmente tutto in una volta. Sulla soglia comparvero due gemelli, pallidi come ossa, vestiti con jeans e giacchette di pelle, simili ma non identiche. Anche le loro facce non erano proprio uguali e Patrick non riuscì a capire se fossero maschi o femmine. Non erano soli, si sentiva muoversi qualcuno in corridoio, ma dietro di loro si vedeva solo il buio del tramonto ormai agli sgoccioli. - Oh… ok, ho capito. È per i miei genitori… vero? Però non… La sua voce tornò a cedere per la paura. - Non deve farsi male nessuno, vero? - Vero. Non deve farsi male nessuno. Il ragazzino era a meno di palmo dallo specchio. Come se cercasse qualcosa su quel bellissimo faccino. Qualcosa che non andava. - Però non hai capito nulla. Ti chiami Patrick, vero? Quanti ne ho conosciuti di Pádraic e di Pádraig. Ma non amo molto i nomi di origine latina, preferisco per esempio Radha… quello sì che è un nome esotico. Non senti che suono interessante ha il vero nome della tua amica? Patrick era pronto a stare al gioco. Non era tanto diverso da quando l’avevano minacciato con un coltello alle quattro del mattino tra la nona e la quarantaseiesima. Anche allora aveva collaborato come un animale ammaestrato continuando a ripetere: “Non deve farsi male nessuno, vero? ” e non si era davvero fatto male nessuno. Ma si era irrigidito appena il ragazzino aveva usato il vero nome di Dhara. Ora che lo guardava bene era molto esile, nonostante fosse molto sicuro di sé. Pro111
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babilmente era armato. I gemelli sembravano DJ tossici che avevano mollato un attimo la consolle alla disperata ricerca di una dose. Anche loro non sembravano tanto minacciosi, anzi erano proprio deboli. Perennemente appoggiati a qualcosa davano l’idea di essere esausti. Patrick pensò di mollare una spinta al ragazzino, un’altra ai due davanti alla porta e poi di fuggire verso l’ingresso. In meno di un minuto poteva prendere la tromba delle scale. No, poteva fingere di farlo e prendere quelle di sicurezza sul retro del palazzo. Meno di un minuto. - Non c’entrano niente i tuoi genitori, caro Pauric… Sto ancora cercando un modo decente di chiamarti. Il ragazzino ridacchiò mentre s’ispezionava con attenzione un occhio azzurro, come se in esso ci fosse qualcosa di sbagliato. - Ma so con certezza che conosci Rebecca Kumar e ora lei è con un mio ex collaboratore molto pericoloso. Voglio solo assicurarmi che lui non le faccia del male e poi scambiare quattro chiacchiere con lei. La voglio prendere in custodia senza che si faccia male nessuno, proprio come hai detto prima. Tu sei solo una garanMa non finì la frase. Un pesante uovo di cristallo si schiantò contro lo specchio mandandolo in mille pezzi. Il ragazzo era vicino, troppo vicino. I vetri si conficcarono, tagliarono e caddero. Lui si chinò soffocando un lamento e nascondendo il viso insanguinato. Patrick era pronto. Lieto che una delle sculture dei suoi si fosse rivelata utile a qualcosa. Evitò il ragazzo dolorante e si buttò di peso contro uno dei gemelli che colto alla sprovvista non riuscì a opporsi alla sua carica. Raggiunto il corridoio vide con la coda dell’occhio altre persone, ombre scure senza faccia che riempivano il soggiorno. Si girarono tutte verso di lui, all’unisono. Patrick si lanciò lungo il buio corridoio senza dedicar loro un solo istante per poi spalancare con uno strattone la pesante porta d’ingresso. Era già con la testa fuori casa, pronto a urlare. 112
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Ma una forza tanto invisibile quanto soverchiante lo prese per i polsi, tirandolo indietro. Vide le proprie mani sollevarsi e tirare. Era come essere tornati bambini e dover combattere con la forza di un adulto. Cacciò un urlo disarticolato che voleva essere una richiesta d’aiuto. Scalciò contro qualunque cosa fosse a suo tiro fino a quando non riuscì a rovesciare una vetrina. Il frastuono che ne derivò fu assordante. Allora la stessa forza che lo teneva per i polsi gli afferrò le caviglie, gli tappò la bocca e gli strisciò sulla spina dorsale. Il corpo di Patrick tremò convulsamente per un istante prima di paralizzarsi del tutto. Crollò a terra, accanto ai cocci di vetro e ceramica della vetrina. Gli occhi gli si velarono di lacrime, ma era difficile persino battere le palpebre. - Chiudi la porta Karabasan e assicurati che non ci siano problemi. Era la voce profonda del ragazzino. Non sembrava affatto dolorante. Qualcuno gli scivolò accanto, nel buio, scomparendo oltre la porta d’ingresso. Nel frattempo il ragazzino era arrivato a un passo da lui e si era chinato. Patrick batté di nuovo le palpebre, singhiozzando per lo sforzo. Quello che vedeva era un volto da copertina deturpato da piccoli frammenti di specchio. C’era sangue dappertutto. Il ragazzino gli sorrise e sollevò la mano dalla quale gocciolava. La prima generosa goccia rossa colpì la guancia paralizzata di Patrick. La seconda gli colpì un punto imprecisato tra naso e labbra. La terza gli colpì in pieno un occhio spaventato, mischiandosi alle lacrime. Il ragazzo scoppiò a ridere. - Avete una cosa in comune, tu e la tua amica Becky. Non mi fate annoiare mai. Forse col tempo potreste addirittura stupir113
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mi. Mi piace un sacco, mio caro Patrick. Ma visto che ci stiamo facendo del male a vicenda… Dall’occhio buono Patrick vide le mani bianche insanguinate cercare e trovare un ciondolo tra le pieghe dei propri vestiti neri. Era una catena d’argento con un cristallo viola. Il ragazzo impugnò la pietra nel palmo e lo guardo fisso negli occhi. - …Rendiamo questo momento MEMORABILE. E si strappò il ciondolo dal collo.
Su un tavolino dello Skylight Diner c’erano due tazze di caffè fumanti e un gigantesco shaker d’acciaio pieno fino all’orlo di beverone proteico. Accanto c’era anche uno Skylight’s Turkey Club Sandwich divorato per metà. - Insomma non è andata proprio bene. Diciamo che è stata una serata come tante ed era quello di cui Becky aveva più bisogno. Ma alle due è sparita, come una pazza, mollando la borsa in mezzo a un vicolo e noi al locale. Senza dirci un cazzo. In crisi totale, zero soldi o documenti e ubriaca marcia. Te lo immagini il colpo che mi sono presa? Mia zia Meera è un mastino e io mi sono vista morta. Dhara guardò per l’ennesima volta la cameriera dai capelli rossi che serviva fette di torta ai tavoli. Era quasi ora di cena ma tutti mangiavano torte. Ne voleva una anche lei, ma non si decideva a ordinarla. Rakim intercettò il suo sguardo e sorrise. Aveva occhi allungati, egiziani, scurissimi. La mascella ben disegnata e il naso 114
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dritto e minuto. Le labbra morbide, brune come il resto della sua pelle che nascondevano denti bianchissimi. Si aggiustò il cappellino scoprendo un po’ la fronte e una parte della rasata. Era un gesto che faceva sempre. Chiamò la cameriera con la mano che arrivò subito con un sorriso. Anche questo succedeva sempre: le ragazze adoravano Rakim. - Vorrei una fetta di torta di mele, per favore. Poi guardò Dhara. - Mi aiuti a finirla, vero? - Oh al diavolo. Ne prendo una anch’io. Rakim increspò il labbro per trattenere all’ultimo una risata ma finirono comunque a ridacchiare davanti alla cameriera senza alcun motivo apparente, guardandosi negli occhi. Finiva sempre così: era lui a farla sgarrare, sotto tutti i punti di vista, e lei ci cascava sempre. Dhara si massaggiò la nuca, continuando a sorridere tra sé e sé, poi sospirò. - Comunque per concludere… non mi ha nemmeno chiamata. Sono incazzata come una bestia e non mi va di fare sempre io il primo passo. Deve darsi una svegliata… e reagire. - Chi è che deve darsi una svegliata? La voce apparteneva a un uomo grande, che per la sua stessa statura aveva smesso di esser chiamato “ragazzo” quando ancora lo era a pieno titolo. Fece passare galantemente una signora prima di sedersi al tavolo con loro, davanti al sandwich. Joell aveva da poco superato i trenta ed era nel pieno della sua forza fisica. In piena vista tra l’altro, dato che indossava una maglia nera che gli fasciava in modo chirurgico il corpo muscoloso. Sembrava un atleta appena uscito dalla doccia e avvolto nel cashmere. Uno di quelli che viene fermato fuori dallo spogliatoio nelle dirette 115
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sportive. I lineamenti erano marcatamente afroamericani, e aveva la pelle molto più scura di quella di Rakim. Un filo di barba che andava a farsi più folto e nero intorno alla bocca e al mento ben si abbinava a una testa rasata a pelle. - Becky. - Ahi. Ancora tua cugina. Stai continuando a pensarci. Joell aveva le labbra spesse il doppio rispetto a quelle di Rakim, ma la differenza più evidente, tra loro due, era proprio l’altezza. Dhara non sapeva se sentirsi intrigata dall’essere per la prima volta alta come Rakim o incuriosita dalla sproporzione che c’era tra lei e Joell. Era come percepire se stessa in modo del tutto differente. Quando Patrick le aveva confidato del gigante del suo video lei aveva solo fatto finta di non capire. Che ipocrita. Sapeva benissimo cosa si provasse ad andare a letto con uno così. - Non credo ci sia un modo giusto e uno sbagliato di reagire a una situazione di merda come quella che è capitata a tua cugina. Lei e Nick erano inseparabili, no? Dhara ebbe un tuffo al cuore. Inseparabili. - Già. Arrivò la torta. Rakim sorrise cortese, ma Joell continuò a guardarla, senza lasciarla un secondo. Poi le prese la mano. - Quando mio fratello ha perso suo figlio appena nato non ha mangiato per una settimana. Daniel è vissuto per poche ore ed era già tutto ciò che aveva. Nessuno può immaginare cosa significhi. Nessuno ti prepara ad affrontare cose del genere. Forse le serve altro tempo, altre uscite. Forse no. Troverà il suo modo da sola, chissà. 116
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Dhara guardò il piatto per distogliere lo sguardo. Avrebbe voluto chiedere di più a Joell. Su quella famiglia numerosa che continuava a emergere nei suoi discorsi, e anche su di lui. Anche se Joell era sempre stato solo il buttafuori di un locale. Una persona diretta che tutti credevano di poter riassumere in poche parole. Forse quello che dicevano di lui era tutto vero ma quando faceva discorsi del genere aveva sempre ragione. La sua mano gigantesca sembrava proteggere quella di Dhara per dirle che non doveva temere nulla. Non le sarebbe successo niente, fintanto che era con lui. Rakim sembrò intercettare quel pensiero e si sporse anch’esso verso di lei. In quello era unico: sapeva sempre quello che le passava per la mente. Eccoli. Entrambi a usare i loro personali superpoteri su di lei, per lei, all’unisono. Dhara sospirò e posò la posata sul piatto di ceramica, accanto alla fetta di torta, facendo tremare la crème fraîche. Tutti si ricomposero. - Alle nove avrei un appuntamento. Rakim la precedette, alzando un sopracciglio. - Prima andiamo da me? Dhara arrossì e nascose il sorriso nella tazza di caffè. - Ok.
Patrick aprì gli occhi su un cielo stellato. Non era blu come quello delle favole o nero come quelli sotto i quali ci si nasconde, a baciarsi. Non assomigliava nemmeno a quelli delle fotografie astronomiche su Instagram o dei planetari interattivi. Forse non era nemmeno un cielo, come non lo sono quelli 117
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riflessi sul mare quando è così fermo da sembrare addormentato. Era una tavolozza di colori finiti per caso a mischiarsi l’uno all’altro. Spettri cromatici che in cielo non ci sono mai e nei quali punti gorgoglianti di luce si fingevano stelle, nebulose, galassie. Il risveglio fu inaspettatamente piacevole. Non sentiva alcun dolore e il cuore traboccava di stupore. Provava quasi imbarazzo. Perché tutto era troppo bello e la bellezza quando è troppa fa sentire chi la guarda così piccolo da voler scomparire. Patrick però non riusciva a chiudere gli occhi, anche se ora gli era concesso di farlo. Era sospeso in quel cielo, in quel mare, ed era tutto intorno a lui. La meraviglia, ecco che cos’era davvero la meraviglia. - Ti riprendi velocemente. Sei conciato piuttosto male, non mi aspettavo di vederti sorridere così presto. Taranis entrò nel suo campo visivo teatralmente, ingombrante con tutta l’eleganza che lo contraddistingueva. Era pallido, avvolto in una casacca di piume nere aperta sul davanti. Sotto era a petto nudo e portava con disinvoltura pantaloni di pelle che non lasciavano nulla all’immaginazione. Una visione glam appena uscita da Velvet Goldmine. Patrick lo guardò incredulo, riconoscendo al volo la voce profonda. Il senso di pace cominciò a svanire, lasciando il posto alla nausea. - Pensavo tu fossi solo un… ragazzino armato. - E io pensavo tu fossi solo un ragazzino noioso. Invece mi hai mentito. Non doveva farsi male nessuno, ricordi? Le sclere nere del giovane che aveva davanti appartenevano ai corvi. Al centro di esse due iridi bianche lo fissavano aliene, come se vi fossero state disegnate, per dare a quelle gemme oscure maggiore espressività. Solo le alette nere, mercuriali, potevano completare con i loro piccoli movimenti una visione 118
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che ancor più netta si allontanava dall’aspetto concesso agli esseri umani. Non era niente che Patrick avesse mai visto. Sovrannaturale dalla testa ai piedi. Eppure lui lo accettò con la stessa facilità con la quale aveva retto quel cielo assurdo nel quale galleggiava e che ora stava oscillando e girando su di lui, per via della nausea. Aveva passato una vita a immaginare, leggere e raccontare di cose simili. Ora sapeva di non aver buttato via un sacco di tempo. Qualcosa c’era, e non era niente di buono. - Non sembra che ti abbia fatto davvero male. Il volto di Taranis era perfetto e spietato come lo sono quelli delle statue. - Non mi hai fatto nulla, ma ci hai provato. Sei uno spasso, Patrick. Mi aspetto grandi cose da te e da Rebecca. Anche perché mentre tu cercavi di uccidermi lei ha scatenato il caos su tutta Manhattan. - Caos... BECKY?! - Ma certo, la Strega. Patrick aveva un’espressione assurda. Taranis scoppiò a ridere. Era davvero uno spasso.
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