Dialogo a Est
"Ogni volta che l'uomo si è incontrato con l'altro ha sempre avuto davanti a sé tre possibilità di scelta: fargli la guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo." Ryszard Kapuscinski Nei Balcani, passata la stagione sanguinosa dei conflitti, si registrano oggi molti segnali che raccontano della voglia di dialogo: testimonianze di un lento ma fruttuoso processo di riavvicinamento, che sta portando a un clima più sereno e costruttivo per tutta la regione. In questo senso, il presidente del Consiglio Civico Serbo - Mirko Pejanović - è ottimista, ritenendo che in queste zone esista una lunga tradizione di convivenza e che la vita quotidiana prima o poi avrà la meglio sui temi politici all'ordine del giorno. A costituire un problema nell'area è invece la retorica nazionalista dei politici che prevale nel discorso pubblico. Una posizione interessante è quella espressa dal professor Besim Spahić, docente di comunicazione dell'Università di Sarajevo, secondo il quale "il processo di riconciliazione in BiH deve iniziare dagli asili, dove si insegnerà ai bambini cos'è l'altro e il diverso; l'educazione quotidiana alla comunicazione è importantissima per questo gruppo. Bisogna migliorare la formazione degli insegnanti e di chi lavora nel campo dell'istruzione, ma anche aumentare il livello di attenzione perché c'è chi, senza controllo, diffonde l'odio tra gli alunni durante le proprie lezioni, specialmente quando si tratta dei cosiddetti gruppi di materie nazionali". L'impressione, a quindici anni dalla fine delle ostilità, è che i politici locali, e la comunità internazionale, non abbiano dedicato sufficienti iniziative al processo di riconciliazione tra le parti un tempo belligeranti. Al contrario, da parte della società civile, ci sono stati tentativi di ricostituire i rapporti interetnici distrutti, ma, secondo l'opinione del professor Slavo Kukić, dell'università di Mostar, "neanche per loro si può parlare di un orientamento generalizzato". Alla ricostruzione della fiducia reciproca non hanno contribuito neanche i media: in questi anni essi hanno agito principalmente come piattaforma per coloro che promuovono filosofie etniche basate sui contrasti. I politici che hanno costruito e costruiscono le proprie campagne elettorali sulla paura reciproca, i media che contribuiscono a creare un'atmosfera di diffidenza e la comunità internazionale, che non ha realizzato abbastanza iniziative per la riconciliazione, hanno reso la BiH un paese in cui, a quindici anni dalla fine del conflitto, non si può essere sicuri che le ostilità non si ripeteranno. D'altro canto, il dialogo con l'altro è sempre un esercizio faticoso. Spesso, la tentazione rimane quella miope, ma rassicurante, di innalzare muri, che siano essi invisibili, di silenzio e diffidenza, come quello che divide ancora le diverse comunità in Bosnia, o come quello sottile e invalicabile che separa la comunità rom dal resto dei cittadini in tutti i paesi balcanici, o concreti e reali. Così come quello che ha annunciato di voler innalzare Atene per fermare il flusso di migranti in arrivo dalla Turchia attraverso il confine di terra segnato dal fiume Evros. O quello che la vicina Bulgaria ha annunciato di voler costruire lungo il confine con la vicina Turchia, adducendo un motivo di natura sanitaria: il reticolato servirebbe a fermare epidemie di afta epizoica. Sulla decisione, sembra pesare la momentanea esclusione del paese dall'area Schengen, e il tentativo di Sofia di dimostrare agli scettici paesi della "vecchia Europa" che la Bulgaria è davvero in grado di controllare i propri confini, oggi limite esterno dell'Unione europea.
Le motivazioni ufficiali di Atene e Sofia suonano poco convincenti. In molti pensano che la voglia della Grecia (e ora anche della Bulgaria) di innalzare muri abbia basi sostanzialmente politiche, e sia diretta conseguenza del lento ma inesorabile allargarsi del fossato che oggi separa la Turchia dall'Unione europea. "Il messaggio del muro è che la frontiera dell'Europa corre lungo una riva dell'Evros", ha scritto a gennaio Erdal Şafak, codirettore del quotidiano turco Sabah.
Fukushima 6 mesi dopo
Sono ormai trascorsi 6 mesi dall'incidente alla centrale nucleare di Fukushima causato da un terremoto e proprio in questi giorni il Ministero della Scienza giapponese ha pubblicato i risultati di un'indagine che ha determinato i livelli di contaminazione radioattiva del suolo. L'analisi è stata effettuata su circa 2.000 aeree che si trovano in un raggio di circa 100 km dalla centrale e i risultati rivelano che sono circa 33 le aree fortemente radioattive. Le concentrazioni di Cesio hanno raggiunti livelli da record, perfino superiori a quelle registrate a Chernobyl nel 1986 e Greenpeace si è mobilitata per chiedere al governo di posticipare l'apertura delle scuole. Secondo Kazue Suzuki, responsabile della campagna nucleare di Greenpeace Giappone: "Nessun genitore dovrebbe scegliere tra la salute e l'educazione dei propri figli, il piano di decontaminazione, atteso ormai da troppo tempo, arriverà comunque troppo tardi. Il nuovo primo ministro deve rinviare subito l'apertura delle scuole, trasferire quelle nelle aree più a rischio e mobilitare le migliaia di lavoratori necessari a portare i livelli di radioattività il più possibile al di sotto di 1 millisievert anno." Saranno comunque necessari moltissimi anni prima che i livelli di radioattività tornino dentro valori ritenuti non pericolosi e gli effetti sull'ambiente continueranno a farsi sentire per molto tempo. Altra notizia recente è che il governo giapponese ha dato il via libera alla nascita di un fondo per il risarcimento dei danni causati alla popolazione, lo stanziamento è di circa 90 miliardi di euro e sarà finanziato dalle tasse dei cittadini e da società dello stato.
Il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda, in carica dal 2 settembre, ha rinnovato le scuse del governo per la crisi creatasi, promettendo il varo di una legge speciale per favorire la "rinascita dell'area" ma i giapponesi criticano il proprio governo sia per la gestione dell'emergenza sia per non aver mai ammesso la reale portata del disastro nucleare e di aver assunto un atteggiamento politico di oscuramento delle operazioni di soccorso.
Giornata mondiale della libertà di stampa
"Quando i governi reprimono i propri popoli sottraendosi a ogni controllo, la libertà di stampa rappresenta uno dei mezzi più potenti per svelare i misfatti e ripristinare la fiducia dell'opinione pubblica". Il Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha aperto con queste parole la "Giornata mondiale della libertà di stampa", svoltasi martedì 3 maggio 2011, che ha dedicato una particolare attenzione ai popoli dell'Africa del Nord e del Medio Oriente, mobilitatisi in questi mesi per rivendicare i propri diritti e libertà democratiche. Il tema della giornata di quest'anno infatti - "Nuove frontiere, nuove barriere" - ha messo in luce lo sconvolgimento del panorama mediatico globale reso possibile dal largo ricorso a internet, ai media sociali e a nuovi strumenti quali i telefoni cellulari, capaci di offrire agli individui nuove possibilità in termini di cambiamento sociale, favorendo la raccolta d'informazioni e la denuncia di comportamenti poco trasparenti da parte dei governi. I media hanno raramente avuto un ruolo così fondamentale nei conflitti. E, di fonte a questo nuovo scenario, i regimi hanno trattato il controllo delle notizie e delle informazioni come una delle chiavi per la loro sopravvivenza, imponendo nuove barriere, quali sorveglianza informatica, controlli e censura su internet, come riportato dal Comitato per la tutela dei giornalisti con sede a New York. Lo stesso Comitato ha evidenziato come, in questo contesto, i giornalisti siano stati direttamente presi di mira dalle autorità o catturati nel fuoco incrociato delle violenze tra attivisti e forze di sicurezza e che almeno sei giornalisti che operavano soprattutto online siano stati uccisi nel corso del 2010. In Italia la giornata è stata celebrata con numerose iniziative. Tra esse citiamo quella dell'associazione Articolo 21, che ha dedicato a Vittorio Arrigoni una serata teatrale tenuta a Roma in memoria dei giornalisti uccisi per mafia e terrorismo, e quella della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI), che ha organizzato a Roma due incontri sul ruolo del giornalismo nelle rivolte arabe con rappresentanti del giornalismo provenienti dall'Egitto, dalla Tunisia, dall'Algeria e dalla Libia.
Gotovina: condanna per crimini contro l'umanità
Ante Gotovina A distanza di tre anni di processo i giudici del Tribunale penale dell'Aja per i crimini nell'ex Jugoslavia hanno condannato per crimini di guerra e contro l'umanità il generale croato Ante Gotovina. In Croazia considerato un eroe della guerra, Gotovina era l'ufficiale di più alto rango che dovrà scontare ventiquattro anni di carcere.
Durante la guerra in Croazia e in seguito all'occupazione serba della Krajina, il defunto presidente croato Franjo Tudman, che se fosse ancora in vita sarebbe processato, decise di porre fine all'occupazione serba. Nei primi giorni di maggio del 1995 venne lanciata dalle forze croate nelle pianure della Slavonia l'operazione Lampo-Operacija Bljesak. Nell'agosto dello stesso anno iniziò anche l'operazione TempestaOperacija Oluja nella regione della Krajina. Obiettivo di queste campagne militari era la riconquista del territorio croato controllato dai serbi. Le operazioni militari, unitamente alla martellante propaganda delle radio serbe sul massacro dei civili da parte delle truppe croate costrinsero alla fuga migliaia di civili serbi. Si stima che più di duecentomila serbi furono obbligati alla fuga dall'esercito croato, che si rese protagonista di una delle operazioni di pulizia etnica più rilevanti di tutto il periodo 1991-1995. A soli ventiquattro anni, Ante Gotovina costrinse duecentomila serbi ad abbandonare le loro terre e altrettante ne uccise. Da eroe di guerra in Croazia a criminale di guerra da giudicare per il Tribunale penale internazionale dell'Aja. Il 15 aprile 2011 Ante Gotovina è stato condannato per i crimini contro l'umanità e la violazione delle leggi e dei costumi di guerra, a ventiquattro anni di carcere, mentre il suo luogotenente Mladen Markac a diciotto anni. Il Tpi confermò che "le forze dell'esercito e della polizia speciale croata si sono rese responsabili, dal 4 agosto alla fine del settembre 1995, di uccisioni, atti disumani e crudeli, distruzioni, saccheggi, persecuzioni e deportazioni della popolazione serba". La condanna di Gotovina non è stata presa bene in Croazia; in poco tempo in tutte le piazze iniziarono le proteste mentre il governo per evitare le possibili minacce alle sedi diplomatiche decise di far coinvolgere reparti della polizia. Anche la Premier croata, Jadranka Kosor, ha definito la sentenza dell'Aja come " vergognosa ed inaccettabile" ed ha aggiunto che "la Croazia non si farà certo giudicare dalla comunità internazionale". Ha, poi, aggiunto che la guerra delle Krajine è stata una legittima operazione volta a riconquistare una parte di terra croata illegittimamente occupata dai Serbi. Ancora più duro il Presidente del Parlamento Luka Bebic che ha affermato come "sia meglio stare in carcere al fianco degli interessi croati che abbassare il capo di fronte ai diktat del Tribunale dell'Aja". E mentre in Croazia vi è una generale insoddisfazione per la condanna, i dirigenti serbi a Belgrado esprimono piena soddisfazione per come sia stato riconosciuto il crimine di pulizia etnica ai danni serbi in Croazia.
I nuovi italiani
Si è svolta ieri a Roma e in tutte le altre regioni italiane, la presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2011, il rapporto annuale che la Caritas Italiana, la Fondazione Migrantes e la Caritas diocesana di Roma pubblicano dal 1991. Gli oltre 50 capitoli si soffermano sul contesto internazionale e nazionale e sono completati da quelli dedicati alle regioni, alle province autonome e alla capitale. Nella trattazione si tiene conto dei nuovi dati d'archivio e delle ricerche da ultimo condotte per affrontare gli aspetti più rilevanti del fenomeno migratorio, da quelli socio-economici a quelli culturali e giuridici. Concepito come un sussidio per la consultazione e per l'organizzazione di eventi di sensibilizzazione al fenomeno migratorio nel corso di un intero anno, la presentazione del Rapporto cade in una delicata fase di crisi economica ed occupazionale, di cui gli immigrati avvertono gli effetti negativi. Per questo motivo è stato è scelto il motto "Oltre la crisi, insieme". La presenza regolare dei cittadini stranieri in Italia si aggira attorno ai 5 milioni, come lo scorso anno, un numero oltre cinquanta volte superiore alle presenze straniere rispetto al 1861. In questi 150 d'anni di storia unitaria, è andata incrementandosi l'immigrazione in Italia, con un crescendo del tutto notevole nell'ultimo decennio, in cui la popolazione immigrata è aumentata di 3 milioni di unità e gli indicatori di
inserimento sono diventati sempre più forti, dalla crescente presenza di famiglie (2 milioni quelle con almeno un componente straniero) al numero dei minori (993.238), dall'incidenza sulla popolazione residente (7,5%) a quella sulla forza lavoro (oltre il 10%), dal numero degli occupati (oltre 2 milioni) a quello dei titolari d'impresa (228.540), dalle acquisizioni di cittadinanza (66mila) ai matrimoni misti (21.357). Questi indicatori attestano un insediamento sempre più stabile e strutturale, non sempre assecondato dalla legislazione sia per quanto riguarda l'offerta di pari opportunità per l'inserimento, sia per la garanzia della stabilità del soggiorno. Nell'ultimo anno sono scaduti, senza più essere rinnovati, ben 684.413 permessi di lavoro (2/3 per lavoro e 1/3 per famiglia), costringendo gli interessati al rimpatrio o al rifugio nel lavoro nero e sollevando la necessità di disposizioni in grado di temperare questa enorme rotazione, tenuto anche conto dell'apporto dato al paese che li ha accolti. Secondo il Comitato di Presidenza Caritas/Migrantes "Il ventennale lavoro di raccolta, elaborazione e rigorosa interpretazione delle statistiche mostra che la via della convivenza è quella da seguire. Una sfida che esige maggiore coinvolgimento e politiche di ampio respiro". A sua volta il vescovo mons. Giuseppe Merisi, presidente di Caritas Italiana, rivolgendosi agli operatori sociali e pastorali, ha affermato: "Siete voi la base indispensabile perché si avvii un nuovo corso, che congiunga il nostro passato di emigrazione con il presente che stiamo vivendo come paese di immigrazione. Impariamo insieme a essere aperti ma non approssimativi, a farci carico dello sviluppo del nostro paese senza trascurare gli altri, a vivere una globalizzazione all'insegna dei diritti e di uno sviluppo autentico. Impariamo a vivere con gli immigrati e chiediamo agli immigrati di collaborare".
Identikit dell'italiano solidale
L'identikit dell'italiano interessato al no profit è significativo: di mezza età, con un alto livello di istruzione ma un reddito medio-basso e che risiede nelle principali città italiane in particolare Milano, Roma e Torino. Nove su dieci hanno fatto almeno una volta nella vita una donazione e uno su tre (39%) ha donato online, dopo essersi informato sul web (54%) o tramite newsletter (40%). La maggioranza decide di donare soprattutto a favore di cause umanitarie e della ricerca scientifica. La ricerca ha coinvolto circa 39 organizzazioni no profit attive in diversi ambiti (cause umanitarie a aiuto ai paesi poveri, ricerca scientifica, infanzia, volontariato, editoria sociale, cultura e assistenza socio sanitaria). Il 90% dei partecipanti al sondaggio ha sostenuto una Organizzazione non Profit con un contributo in denaro almeno una volta nella vita; di questi, il 48% dona abitualmente, il 30% occasionalmente e solo il 12% in circostanze particolari, quali ricorrenze o emergenze umanitarie. Nonostante emerga un'abitudine consolidata alla donazione tramite i tradizionali canali offline, tanto che il bollettino postale si conferma lo strumento più utilizzato (quasi il 30%), i canali di pagamento online (dal bonifico bancario online, alla carta di credito, a PayPal) sono utilizzati dal 26% degli utenti intervistati che hanno già effettuato donazioni. "E' evidente che in questo contesto lavorare sulla fidelizzazione - spiega Massimo Fubini di ContactLab - nell'ottica di costruire un dialogo continuo con i propri contatti, non legato esclusivamente alle occasioni speciali di donazione, può fare la differenza".
Gli utenti raccolgono informazioni sulle attività delle associazioni prevalentemente sul web: circa il 54% lo fa visitando il sito istituzionale, il 40% leggendo le newsletter. Al terzo posto la posta cartacea (31%), mentre gli eventi di piazza sono fonte di informazione per il 15%. Un altro 15% si informa con il passaparola, dato interessante se si pensa agli strumenti di condivisione dei social network che ne amplificano la risonanza. Infine il tema della trasparenza è un'esigenza molto forte per il 62% dei sostenitori che accoglie molto positivamente la possibilità di avere un'area riservata sul sito delle Onlus che sostiene, che gli permetta di seguire da vicino lo sviluppo dei progetti di suo interesse. E' la concretezza, invece, il secondo elemento che spesso gli utenti lamentano di non percepire.
Il documento "Non Profit Report 2011" è stata presentato nel corso del 'Festival del Fundrising' tenutosi a Castrocaro (FC) dall'11 al 13 maggio 2011 ed è possibile scaricarlo dal sito http://www.contactlab.com/nonprofitreport
Il concetto di "pace"
Istituita nel 1981 dall'Assemblea delle Nazioni Unite e successivamente dopo una campagna di Jeremy Gilley e dell'organizzazione Peace One Day, il 7 settembre del 2001, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la risoluzione 55/282 tramite la quale dichiara che, a partire dal 2002, la Giornata Internazionale della Pace sarà celebrata il 21 settembre di ogni anno. L'appello alla pace da parte di chi comanda è stato giudicato dalle classi oppresse come un appello all'obbedienza, al mantenimento dello stato di cose esistente. La pace, insegnata in termini di non ribellione, della pace, del cessate il fuoco e della non violenza intende promuovere la pace globale, l'educazione alla pace, ovvero una storia della pace. La storia della pace è la storia della dignità delle persone, ossia della costruzione dei diritti umani, della democrazia, della giustizia e della legalità. E' la storia di regole, di garanzie e di democrazia. Tutto ciò va promosso a causa della vecchia storia della guerra. Il termine "guerra", un evento socio-politico di vaste dimensioni che consiste nel confronto armato tra due o più soggetti, deriva dalla parola gwarra dell'alto tedesco antico, che significa "mischia". Subito dopo la seconda guerra mondiale nel diritto internazionale il termine è stato sostituito dall'espressione "conflitto armato" applicabile a scontri di qualsiasi dimensioni e caratteristiche. La guerra è preceduta da un periodo di tensione e dalla crisi, il momento in cui si sviluppa la cosiddetta attività politica e diplomatica della comunità internazionale per evitare il conflitto. Nella speranza di evitare lo scontro si attivano sia lo Stato che le forze armate. Sin dai tempi dell'olandese Ugo Grozio, che nel 1625 pubblicò "il diritto di guerra e di pace", veniva proposta la stipulazione dei contratti tra gli stati in modo da "assoggettare a certe regole giuridiche la stessa guerra cercando di estendere il potere del diritto, che vige all'interno degli stati in condizione di pace, ai rapporti esterni fra gli stati, anche in condizione di guerra". Indipendentemente che si tratti delle guerre internazionali rivolte verso un altro stato, le guerre civili, le rivolte o le rivoluzioni la guerra ha inizio quando si verifica il combattimento tra forze opposte. Spesso si attende a lungo per arrivare all'armistizio, alla resa incondizionata o al completo annientamento delle forze armate, l'occupazione o l'annessione del territorio. Le stesse leggi di guerra, elaborate tra l'800 e
il 900 e formalizzate poi da una serie di accordi tra gli stati costituiscono il diritto bellico regolamentando il comportamento in guerra. Tra le più importanti troviamo le convenzioni dell'Aja del 1899 e del 1907. E' importante ricordare il diritto umanitario volto alla protezione delle vittime di guerra che risalgono alla convenzione di Ginevra del 1949 ed i suoi protocolli aggiuntivi del 1977 e del 2005. Quello che sia, il conflitto globale, regionale, locale, convenzionale, internazionale, totale o preventivo, la guerra è un fenomeno in continua espansione. Secondo quanto osservato da von Clausewitz, "la guerra non è accesa dall'azione di chi offende, ma dalla reazione di chi si difende, è "la prospettiva comune di tutta l'umanità considerata un normale mezzo di fare la politica". In questo contesto la pace globale, l'educazione alla pace e la cultura della nonviolenza possono essere efficaci strumenti di destrutturazione dei dispositivi della violenza se progettano e attuano la "non obbedienza" intesa come ritiro cosciente dell'appoggio pratico e del consenso. Tutto ciò richiede oggi un forte investimento culturale ed educativo. "Il pacifismo nonviolento, secondo Davide Melodia, è nato come il senso della giustizia, dell'uguaglianza fra gli uomini, del rispetto di tutte le culture e delle religioni, la difesa dei diversi, degli emarginati, dei carcerati, dei malati, gli interventi nelle zone calde del mondo per tentarvi la mediazione o iniziare la ricostruzione, dal principio fondamentale che gli Amici (Quaccheri) portano alle sue estreme conseguenze: in ogni persona v'è un tanto di Dio"!
Il costo delle espulsioni
Chi si occupa del difficile compito di pattugliare le coste europee? La risposta è Frontex, ovvero l' "Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione Europea", creata nel 2004 e con sede a Varsavia, in Polonia. Il suo scopo è, appunto, il coordinamento del pattugliamento delle frontiere esterne aeree, marittime e terrestri degli Stati della UE e l'implementazione di accordi con i Paesi confinanti per la riammissione dei migranti extracomunitari respinti lungo le frontiere. Dall'ultimo rapporto annuale di Frontex emerge che, nel 2011, il budget annuale fisso dell'agenzia, finanziato in gran parte da Bruxelles, ha sfiorato una previsione di spesa di quasi 86 milioni e 400 mila euro rispetto ai 70 milioni di euro del 2008. E il paradosso è che, mentre negli ultimi anni i bilanci di Frontex sono lievitati per mantenere l'apparato burocratico (dai 18 milioni di euro del 2008 ai 36 milioni preventivati nel 2011), il suo potenziale d'intervento si è sempre più indebolito, anche in seguito alle denunce di vari organismi internazionali, in primis Amnesty International, che hanno in più occasioni chiesto spiegazioni in merito ai respingimenti effettuati dall'Agenzia, alle modalità con cui questi sono stati effettuati e ai costi sostenuti. Il citato rapporto annuale spiega che Frontex ha speso, nel 2011, oltre otto milioni di euro per rimpatriare circa 2.000 persone, cifra che include soltanto le spese di viaggio, e non quelle di detenzione nei centri di identificazione, né le spese giudiziarie per i processi di convalida del trattenimento. Sono cifre che parlano chiaro: le joint return operations sono un fiasco anche dal punto di vista economico. Viene allora da chiedersi a cosa serva spendere così tanto denaro nelle operazioni di rimpatrio, e, più in generale, nella macchina repressiva contro la mobilità dei cittadini non europei,
laddove è scientificamente dimostrabile che è tutto inutile, e che la gente si sposta da sud a nord e viceversa a prescindere dalle leggi sull'immigrazione e dalla macchina delle espulsioni.
Il futuro dei Balcani
Storicamente i Balcani hanno rappresentato il luogo in cui si intersecano diverse culture e civiltà, una zona d'incontro tra diverse religioni e ideologie, e altresì, una zona di continui giochi e conflitti strategici. Recentemente il Parlamento europeo si è espresso a favore del futuro europeo dei Balcani occidentali. L'ha confermata la riunione interparlamentare del 13-14 aprile 2011, che grazie alle due giornate ha dato l'occasione ai politici balcanici di approfondire alcuni aspetti ritenuti cruciali per l'avvenire della regione. Come ha sostenuto il Presidente del parlamento Jerzy Buzek, diverse questioni rimangono ancora da risolvere come ad esempio la riforma giudiziaria, la lotta alla criminalità organizzata e la corruzione compresa la cooperazione con il Tribunale dell'Aja. Secondo il presidente della Commissione José Barroso "la riunificazione dell'Europa non sarà completa finché i Balcani occidentali non faranno parte dell'UE", un compito importante per i singoli paesi dato che dovranno risolvere le problematiche interne. Una maggiore attenzione, posta dalla direttrice del Gruppo di Helsinki per i diritti umani in Serbia, ruota attorno alla fragilità dei singoli Stati, alle tensioni etniche e al difficile processo delle riforme che accelererebbero i negoziati di adesione all'UE. La Bosnia ed Erzegovina, il candidato potenziale che non ha ancora ufficializzato la richiesta, presenta una difficile situazione interna dato che dopo le elezioni di ottobre non si è ancora riusciti ad avere un governo. Secondo le indicazioni del Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri, la Bosnia ed Erzegovina per poter presentare la candidatura deve allinearsi alla sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Sejdic-Finci e adottare le leggi sugli aiuti di Stato. Nonostante le polemiche sul Kosovo, che alcuni Stati europei non riconoscono come indipendente, ai Balcani occidentali non rimane altro che garantire la pace e la stabilità. La nuova crisi in corso tra Serbia e Kosovo ha allarmato il Consiglio di sicurezza che in seguito ai gravi incidenti registrati al confine serbo-kosovaro, dove gli estremisti serbi hanno dato alle fiamme un check point come ritorsione al dispiegamento di doganieri kosovaro-albanesi, ha fissato la riunione di emergenza a porte chiuse. La resistenza dei serbi del Kosovo contro il tentativo di introdurre una frontiera con la Serbia centrale è all'ordine del giorno.
Il mare di mezzo
Giorno per giorno, da anni, il mare di mezzo è divenuto una grande fossa comune, nell'indifferenza delle due sponde che lo avvolgono. Tuttavia, in vent'anni di sbarchi, non si era mai visto niente di simile: sono 1510 le morti, il 93% delle quali avvenute sulla rotta tra la Libia e Lampedusa. Da gennaio sono scomparse più persone di quante ne morirono in tutto il 2008. I dati, agghiaccianti, sono stati diffusi dall'osservatorio Fortress Europe, che monitora costantemente le notizie sulla stampa internazionale relative alle vittime dell'emigrazione nel Mediterraneo.
Come spiega Fortress Europe, dall'inizio dell'anno a Lampedusa si incrociano due rotte: da un lato quella tunisina, che ha portato circa 25 mila tunisini sull'isola, e dall'altro quella libica, su cui hanno viaggiato finora circa 14 mila persone. Del totale delle morti sinora registrate, 187 sono annegati sulla rotta tunisina, mentre 1.221 su quella libica, come a dire che sulla rotta tunisina muore una persona su 130, mentre su quella libica una su 11. Un rapporto dodici volte superiore. Secondo Fortress Europe, la differenza si spiega nelle modalità organizzative delle traversate. Mentre infatti dalla Tunisia molti equipaggi si organizzano autonomamente, prestando un minimo di attenzione alla sicurezza del viaggio, in Libia le traversate sono organizzate direttamente dal regime, la cui unica preoccupazione è spedire in Italia il maggior numero di persone come ritorsione per i bombardamenti. I passeggeri sono rastrellati nei quartieri delle città ancora controllate dal regime e costretti a partire. Dunque, come commenta Gabriele Del Grande, di Fortress Europe, "non è il mare l'unico responsabile di tanti morti. Sono soprattutto i militari libici. Perché questa volta gli sbarchi sono davvero un'operazione interamente organizzata dal regime. Che a differenza delle mafie che gestivano le traversate prima, non ha bisogno che la merce arrivi a destinazione. Perché non c'è mercato. I passeggeri non scelgono l'intermediario più affidabile. Ma sono semplicemente rastrellati durante le retate nei quartieri neri delle città libiche e costretti a partire contro la propria volontà. La traversata è gratuita: paga il regime"
La campagna NOPPAW ad Ancona
Si è svolto ad Ancona, il 21 e 22 maggio 2011, il IX Convegno internazionale di ChiAma l'Africa, dedicato all'incontro con le donne africane e alla Campagna Noppaw (NObel Peace Prize for African Women). L'appuntamento è stato ricco di ospiti e di contributi da parte di donne impegnate in diversi settori della società. Il titolo del Convegno di quest'anno, "L'Africa che cammina con i piedi delle donne", rimanda inequivocabilmente al senso dell'iniziativa: sfatare l'immagine dell'Africa come il continente dei bisogni, perché l'Africa è oggi un luogo di svolta, un continente in piedi - come ci dimostrano le rivoluzioni che stanno scuotendo tanti paesi del Nord - che cammina sopratutto con i piedi delle sue donne, instancabili tessitrici di relazioni e costruttrici di pace. Il Convegno di Ancona è stata una delle tappe della Carovana di donne africane "Walking Africa" che sta incontrando in giro per l'Italia e l'Europa università, enti locali, istituzioni e associazioni. Le testimonianze hanno toccato numerose tematiche riguardanti la vita e la storia delle donne africane, restituendo, nel loro complesso, un quadro molto duro. Le donne, infatti, spesso sono vittime di violenza e di sottomissione culturale, detengono un'insufficiente rappresentanza politica (pur se attualmente in crescita), hanno una scarsa istruzione. Nonostante ciò, sono la spina dorsale che sorregge l'Africa, in tutti i settori della vita: dalla cura della casa e dell'infanzia, all'economia, alla politica, all'arte, alla cultura, all'impegno ambientale.
Tra i tanti, particolarmente interessanti per la loro forza ed il loro coraggio, i contributi di Fatoumata Kane, scrittrice malese, e di Fatima Mohamed Lmeldeen, esperta di genere sudanese e membro della ong Sudanese Women Association Forum On Darfur. Fatoumata ha affrontato il tema delle donne nella società africana in maniera costruttiva e per nulla rassegnata. Per lei il dramma più profondo è che spesso le donne sono in qualche modo "complici" delle violenze subite, per paura ed incoscienza. E' dunque necessario che esse prendano coscienza, smettendo di autocensurarsi, diventando attrici attive e positive, riunendosi, disfacendosi di gelosie e discussioni sulla leadership. Per Fatoumata la Campagna Noppaw è una maniera originale e intelligente per dare la possibilità alle donne africane di far sentire la loro voce, per sostenerle nel loro umile protagonismo facendo conoscere al mondo ciò che ancora deve essere fatto nel continente in relazione alla condizione femminile, in termini sanitari, educativi, di retribuzione, di sottomissione culturale. Fatima Mohamed Lmeldeen ha fatto riferimento specificatamente alla realtà del suo paese, il Sudan, dove pesa drammaticamente il sottosviluppo di infrastrutture e mezzi. In questo contesto, le donne svolgono tutti i tipi di mestieri, oltre a quello domestico, occupandosi del commercio di animali, della produzione di cibo, della coltivazione della terra, senza alcun riconoscimento formale da parte della legislazione nazionale. Secondo Fatima questo premio Nobel collettivo rappresenta un simbolo di pace e un tributo di visibilità alle donne africane, oltre che una spinta forte in direzione del panafricanismo, di cui le donne sono emblema. La Campagna Noppaw è un progetto innovatore, che coinvolge le più alte cariche istituzionali: per questo sarà in grado di portare la voce delle donne africane al mondo intero e di stimolare una presa di coscienza globale.
Le rivolte democratiche nel Mediterraneo
Dagli incantevoli racconti del mar Mediterraneo nel "Breviario Mediterraneo" di Predrag Matvejevic, dal confronto culturale tra occidente e oriente, dal punto d'incontro tra cristianità e l'islam e dal più importante crocevia per la comunicazione insieme all'area del Pacifico, il Mediterraneo recentemente è diventato una zona di rivolte e di manifestazioni. La crisi che a macchia d'olio si è sparsa in Tunisia, Egitto e Libia, fa parte delle rivolte democratiche, dove la popolazione punta all'abbattimento di regimi oppressivi e corrotti. Diverse ma simili tra di loro, le rivolte Nordafricane sono legate alla questione dello sfruttamento della popolazione da parte delle classi dominanti che con il tempo hanno sottovalutato il crescente livello di povertà delle masse popolari, le loro richieste e pretese di una maggiore libertà di diritti politici e sociali. Innescate dalla rivolta in Tunisia ed Egitto, quella di Libia è una vera e propria guerra civile le cui origini non vanno ricercate nella pretesa di una maggiore libertà e giustizia sociale della popolazione, come accadde in Tunisia ed Egitto, ma nel rapporto esistente tra il colonnello e la società libica. Un regime centralistico quello di Muammar Gheddafi che da oltre quarant'anni rappresenta la società libica ed è pilastro centrale di una società tribale, che a differenza dei giovani e proletari tunisini ed egiziani, si è sollevata. Una volta salito al potere, nel 1969, il colonnello, in mancanza di una struttura politica, consentì il riemergere delle tribù locali le quali diventarono i principali rappresentanti popolari. In poco tempo ricoprirono le cariche pubbliche ma ben presto si resero conto del loro ruolo nella società; la politica del colonnello ridusse le tribù ad un semplice elemento si distinzione sociale.
Scoppiata agli inizi di febbraio del 2011 la rivolta libica in poco tempo coinvolse diverse città. In piazza scesero migliaia di persone che manifestavano contro il regime dittatoriale del colonnello chiedendo le sue dimissioni. Il segnale e la richiesta di una maggiore democrazia fu seguita da una repressione violentissima che in pochi giorni ha causato migliaia di morti. Una delle strategie più efficienti secondo il colonnello è quella dell'impiego di mercenari per riprendere il controllo del Paese. In seguito alla proposta a Gheddafi di lasciare il potere in cambio dell'improcedibilità al processo per i crimini di guerra e gli attacchi delle forze armate rimaste fedeli al colonnello, il Consiglio di sicurezza dell'ONU con la risoluzione 1973 ha chiesto il "cessate il fuoco" istituendo la zona "no fly". Tuttavia, nel Paese continuano gli scontri, i bombardamenti e gli arresti di massa. Il futuro di Gheddafi potrebbe essere messo in discussione con le prossime elezioni qualora NATO fermi i raid aerei sulla Libia. Negli ultimi mesi lo scenario geopolitico arabo-mediterraneo è cambiato totalmente. La rivolta tunisina ed egiziana hanno innescato la guerra civile di Libia, che si è espansa in diversi paesi Nordafricani. La rivolta tunisina aveva messo a dura prova la famiglia governante portando il suo ex presidente Ben Alì a dimettersi. Scoppiata in Tunisia, e diffusasi in Egitto, la "rivolta del pane" aveva come principale obiettivo l'eliminazione del regime dittatoriale e la nascita di una vera e propria democrazia. Guidati da un unico interesse il popolo tunisino in poco tempo riuscì ad imporre le sue parole d'ordine, quelle di libertà e di democrazia. Una nuova sfida attende il mondo tunisino che una volta liberatosi dalla dittatura dovrà gettare le nuove basi all'apparato istituzionale e burocratico. Eliminando i seguaci di Ben Alì sembra che un evento storico sia già accaduto: l'Alta commissione per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione per la prima volta ha deciso di estendere le liste elettorali applicando il "principio di parità tra uomini e donne". Dalla Tunisia all'Egitto fino alla Libia, le rivolte democratiche stanno animando buona parte del Maghreb. Nonostante il referendum sull'autodeterminazione del Sud Sudan avesse portato la vittoria dei secessionisti, le rivendicazioni etnico-territoriali rendono la situazione politica instabile. Non poco preoccupante risulta la situazione in Siria dove le proteste anti-regime si sono diffuse mobilitando buona parte della popolazione. Proteste e scontri violenti continuano a riguardare la Costa d'Avorio, Algeria, Mauritania, Marocco, Yemen, Iraq, Iran, Giordania e Arabia Saudita, Afghanistan e Pakistan. Il cambiamento geo-politico dell'area maghrebiana ancora una volta regge il principio degli scontri, forse quelli più pericolosi che spesso si realizzano non solo tra le civiltà diverse, ma anche all'interno di una singola civiltà. La crisi Nordafricana ha messo il Mediterraneo nella posizione di affrontare nuove sfide in termini di sicurezza umana, strategica, energetica e ambientale, dato che il mare è attraversato da gasdotti e oleodotti sottomarini vulnerabili in caso di guerra o di atti terroristici.
L'Italia e la lotta alla povertà nel mondo
Il rapporto dimostra come, tra le economie avanzate, l'Italia sia il paese che ha ridotto maggiormente gli aiuti per la lotta alla povertà nel mondo, a favore di altre spese - quali quelle militari, quelle elettorali derivanti al non accorpamento del voto referendario e del voto amministrativo o a sei mesi di operazioni militari in Libia. Nel triennio 2008-2011 il Governo ha ridotto le spese destinate alla cooperazione allo sviluppo del 78%, arrivando a toccare il suo minimo storico, pari a 158 milioni di euro. Nel 2011, la cooperazione italiana ha pesato sul bilancio dello Stato per un misero 0,025% (era lo 0,1% nel 2008), mentre tutto l'Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) iscritto al bilancio ha pesato per appena lo 0,28%, a fronte di una media europea dello 0,46%.
Come sottolinea il segretario generale di ActionAid Italia, Marco De Ponte, "le conseguenze della noncooperazione per l'Italia cominciano ad essere visibili: riduzione del peso del nostro paese nei consigli d'amministrazione di alcuni fondi di sviluppo, riduzione della nostra quota nel finanziamento dell'ONU, diminuzione di appalti vinti da imprese italiane nei Fondi internazionali di sviluppo, etc." Nel 2010 l'UE ha mancato l'obiettivo dello 0,56% di APS/PIL per 14 miliardi di euro, e, in termini relativi, sull'Italia grava la maggiore responsabilità di questo evidente fallimento collettivo: una responsabilità resa ancor più grave dal fatto che il paese ha mantenuto gli stessi livelli di spesa militare (circa 38 miliardi di dollari, pari all'1,8% del PIL) tra 2008 a 2010, nonostante la crisi economica. Insomma, come sintetizza il rapporto, l'Italia è ormai certificata "fuori" dai criteri europei della "buona cooperazione" allo sviluppo, una vera "fuori classe" per "morosità morale", con il risultato di una perdita oggettiva di posizioni e di rango che difficilmente potranno essere recuperati, e una diminuzione dei risultati qualitativi degli interventi della nostra cooperazione.
Quando la Cooperazione Internazionale incontra il cinema
Ad inaugurare la sezione "Cinema e Cittadinanza globale" è stato il Prof. Renato Novelli dell'Università di Ancona che ha sottolineato l'importanza della cooperazione nel mondo della cultura e del cinema. Secondo il Prof. Novelli, l'elemento cruciale per gli enti e le associazioni è quello di "sporcarsi le mani" in senso positivo, ovvero di intervenire direttamente affrontando il problema della concretezza dei progetti. Operare concretamente in campo ha diverse facce e ruoli: il cinema diventa un importante strumento di comunicazione e di scambio che si inserisce bene nelle situazioni di cooperazione. A spiegare meglio la realtà della Cooperazione Internazionale è stata Marina Maurizi, responsabile della Cooperazione Internazionale della Regione Marche, che ha messo al centro dell'attenzione l'importanza dell'esperienza sul campo. Come sostiene Maurizi, elaborare progetti culturali nella cooperazione è un'esperienza importante dove la cultura diventa l'elemento che fa scattare la pacificazione. Un esempio è stato quello del concerto rok organizzato nella città di Mostar nel 1997 e l'anno successivo con il Teatro stabile delle Marche. A Mostar si è riusciti a fare un unico spettacolo mettendo insieme i cittadini dell'est e dell'ovest. Va ricordato anche il festival dell'Adriatico Mediterraneo diffuso da prima nell'area balcanica e poi ad Ancona nella Mole Vanvitelliana. Un percorso in progresso dove le attività di cooperazione vanno divulgate e comunicate. A testimoniare l'impegno del cinema nel mondo della cooperazione è Roberta Biagiarelli, attrice e autrice di teatro, che nel 2006 ha prodotto e interpretato il film-documentario "Souvenir Srebrenica". Il documentario è entrato nella cinquina dei finalisti al Premio David di Donatello 2007 e ad oggi sono state organizzate molte proiezioni pubbliche, tra le quali di particolare rilievo la proiezione del 10 luglio 2007 presso la sede del Parlamento Europeo di Strasburgo mentre il 12 giugno 2011 il documentario è stato trasmesso da RAI Uno nello speciale TG1 - il documentario. Come sostiene Biagiarelli esaminando il territorio si arriva alle testimonianze da divulgare attraverso il cinema.
Referendum: l'Italia dice Sì!
"Vincono i sì alla modernizzazione del nostro Paese." Così Luigino Quarchioni, presidente di Legambiente Marche, commenta l'esito del referendum e la decisione degli italiani di chiudere la partita del nucleare. "Con questa seconda vittoria dopo 25 anni, i cittadini, e soprattutto i marchigiani che si sono recati alle urne numerosissimi, hanno dimostrato di volere un Paese che guarda al futuro, all'insegna dello sviluppo delle tecnologie per il risparmio energetico e le fonti rinnovabili. È necessario quindi accelerare sulla realizzazione di impianti da fonti rinnovabili e dare risposta concreta alle richieste dei cittadini, un processo di cambiamento, non solo energetico, già in atto da anni anche nella nostra Regione." Il 12 e 13 giugno, nonostante il boicottaggio sistematico da parte dei grandi mass-media e i tentativi trasversali di trasformare la campagna referendaria nell'ennesimo scontro politicista tutto interno al Palazzo, gli italiani hanno risposto con una straordinaria partecipazione al voto e con un'inondazione di Sì. Nei giorni antecedenti il voto, c'è' stata una campagna pro-referendum che ha attraversato ogni angolo del Paese con allegria e determinazione: e il popolo italiano ha risposto, dimostrando come un'intera società sia in movimento per la riappropriazione sociale dell'acqua e dei beni comuni e per riconquistare la democrazia. Naturalmente i risultati del voto hanno suscitato grande entusiasmo nei Comitati pro-referendari, da Greenpeace, al WWF, al Comitato 2 sì per l'Acqua Bene Comune. "Nucleare adios! Niente centrali, niente scorie, niente radiazioni. Ma soprattutto un futuro fatto di energie rinnovabili ed efficienza energetica" ha commentato il Forum Fermiamo il nucleare. Le Marche sono già in cammino su questa strada. Secondo il rapporto di Legambiente "Comuni Rinnovabili 2011" infatti, molti sono i municipi virtuosi delle Marche che hanno già realizzato nel proprio territorio impianti alimentati da fonti rinnovabili e che stanno investendo in risparmio energetico. Al 31 maggio scorso, sono stati installati nelle Marche 366, 34 MW di fotovoltaico (dati GSE). Inoltre, tra le quattro amministrazioni italiani premiate da Legambiente per le buone pratiche, spicca il parco minieolico del comune di Peglio in provincia di Pesaro e Urbino.
Si scrive Africa, si legge Donna
A dispetto del loro protagonismo, le donne africane continuano ad occupare un posto marginale nell'economia formale del continente, per diverse ragioni. Con la colonizzazione europea e, successivamente, con le indipendenze, il ruolo tradizionale della donna nelle società africane ha subito profondi mutamenti, legati alla maggiore possibilità di accedere all'educazione: ciò ha certamente contribuito positivamente all'integrazione sociale delle donne nel
continente. Tuttavia, le statistiche, riportate dal sito www.noppaw.net rivelano, in particolare, un insufficiente accesso a due risorse chiave, cioè l'educazione e la salute. Nell'Africa subsahariana il tasso di scolarizzazione delle bambine alle elementari resta estremamente basso (67%), e l'analfabetismo è lontano dall'essere debellato: sopra i 15 anni, solo il 51% delle donne sa leggere e scrivere, contro il 67,1% degli uomini. In termini di mortalità materna il tasso registrato è di 866 decessi per 100mila maternità, senza contare poi l'alta mortalità infantile: 172 per mille nascite entro i primi cinque anni di età. Esistono altri ostacoli, forse meno evidenti, all'affermazione socio-economica delle donne, quali i l peso della tradizione e dei ruoli sociali. In tante nazioni il codice familiare le penalizza, perché impedisce alle ragazze di ottenere la loro parte di eredità e alle donne di esercitare l'autorità sui figli, una volta sciolto il matrimonio. Ci sono poi i matrimoni forzati e la bassa età in cui si contrae il primo matrimonio (il 28% delle donne sono già sposate prima dei 20 anni). Tradizionalmente la donna non può gestire autonomamente i propri introiti e in molte regioni rurali ad essa viene negato l'accesso al credito. Le statistiche dicono che le donne africane costituiscono il 70% della forza agricola del continente, producono l'80% delle derrate alimentari e ne gestiscono la vendita per il 90%. Alla donna tocca inoltre l'intero lavoro della casa: allevare ed educare i figli, assistere gli anziani, lavorare nei campi, vendere i prodotti al mercato, procurarsi l'acqua e la legna, occuparsi degli animali domestici. Tutto ciò a conferma della tesi secondo cui, in Africa, è la donna che genera reddito.
Sostenibilità ed equità: un futuro migliore per tutti
E' questo il titolo del rapporto sullo sviluppo umano 2011, presentato in questi giorni dall'UNDP, che ha analizzato le condizioni di vita in 187 paesi del mondo, misurandone la qualità in base ai livelli di scolarizzazione, l'aspettativa di vita e il reddito pro capite. Con l'obiettivo di presentare un'immagine maggiormente aderente alla realtà, l'Agenzia delle Nazioni Unite ha realizzato quest'anno una graduatoria parallela per correggere l'Indice di sviluppo umano (Isu) con nuovi parametri che tengono conto delle disuguaglianze nel campo della sanità, dell'istruzione e del reddito. I risultati parlano chiaro: se la situazione non cambia di molto per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo (sono, ancora una volta, molti paesi africani gli ultimi della lista), diverse sorprese riguardano invece i paesi occidentali. Infatti alcuni "grandi" scivolano di parecchie posizioni: tra gli altri spiccano gli USA (dal quarto al 23esimo posto), e Israele (dal 17esimo al 25esimo), a testimonianza dell'aumentata sperequazione tra ricchi e poveri nei paesi del nord del mondo. Ai primi posti della classifica, ancora una volta il nord Europa, con la Norvegia e la Svezia, seguite da Australia, Paesi Bassi, Stati Uniti (che nonostante il "declassamento" mantiene una buona posizione), Nuova Zelanda, Irlanda, Liechtenstein, Germania. L'Italia è al 24esimo posto, subito dopo la Spagna, ma nettamente prima di Regno Unito, in 28esima posizione, e Grecia, 29esima. Il report lancia un serio allarme sul deterioramento ambientale come pesante ipoteca per il futuro dello sviluppo umano, stabilendo un collegamento diretto tra i danni ambientali e Isu. Un incontrollato deterioramento ambientale potrebbe causare un aumento dei prezzi alimentari fino al 50 per cento ed invertire gli sforzi per migliorare l'accesso all'acqua, agli impianti igienici e all'energia per centinaia di milioni di persone in Africa sub-sahariana e Asia meridionale.
Spese militari: diamoci un taglio!
In occasione del varo della manovra finanziaria da complessivi 45 miliardi di euro, è stata da più parti sollevata la questione della sostenibilità del bilancio della Difesa del governo italiano. Secondo quanto pubblicato dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), la spesa militare dell'Italia nel 2010 ha raggiunto i 27 miliardi di euro, a cui ne vanno aggiunti altri 17 per l'acquisto di 131 cacciabombardieri F35, come da decisione del governo approvata dal Parlamento: cifre che, sommate insieme, corrispondono alla manovra di Tremonti. "E' mai possibile che a nessun politico sia venuto in mente di tagliare queste assurde spese militari per ottenere i fondi necessari per la manovra, invece di farli pagare ai cittadini?" si è domandato padre Alex Zanottelli in un appello pubblicato sul sito Nigrizia.it. "Mi meraviglia molto il silenzio dei nostri vescovi, delle nostre comunità cristiane, dei nostri cristiani impegnati in politica" ha aggiunto il missionario "e le folli somme spese in armi sono pane tolto ai poveri, come amava dire Paolo VI". Il coordinatore nazionale della Tavola della Pace, Flavio Lotti, in una nota inviata alla stampa, ha aggiunto: "non è un discorso ideologico, ma decisamente pragmatico. La sicurezza è un bene pubblico che deve essere garantito dalle risorse del bilancio dello stato alla pari della salute, dell'istruzione, ecc. Ma così come non c'è un solo modo di garantire la salute e l'istruzione, così non c'è un solo modo di garantire la sicurezza dell'Italia e degli italiani. Niente è più inutile di una portaerei o un cacciabombardiere per proteggere i cittadini dalle mafie e dalla criminalità organizzata, dal terrorismo, dall'illegalità, dalla corruzione o dall'inquinamento." La riflessione del coordinatore nazionale della Tavola della Pace approfondisce diversi aspetti degli appelli lanciati nei giorni scorsi dal Movimento Nonviolento e l'analisi della manovra finanziaria e delle controproposte di Sbilanciamoci!, oltre ai numerosi appelli della stessa Tavola della Pace e della Rete italiana per il Disarmo.
Tagli alla Cooperazione - La nuova finanziaria prevede ulteriori tagli...
La nuova finanziaria prevede ulteriori tagli... Dopo il silenzio dell'Italia al Fondo Globale sull'Aids, dopo le mancate promesse degli impegni presi durante il G8 su fame, povertà e cambiamenti climatici, l'Italia sta scendendo sempre più in basso: con
ulteriore taglio di circa 50% sui fondi impegnati per la cooperazione internazionale governativa, il Governo italiano dimostra di non considerare realmente la cooperazione come parte integrante della politica estera come riconosciuto dalla legge 49/87 e di fatto di smantellarla definitivamente. Questo comporta un serio rischio per gli interventi e le relazioni internazionali già in atto e una conseguente perdita di credibilità sul piano politico internazionale del nostro Paese. Eppure "sarebbe possibile mantenere inalterati gli stanziamenti per la cooperazione se solo si riducessero le spese militari del cinque o del 10%", come ha affermato Francesco Petrelli, Presidente dell'Associazione delle ONG italiane.
TIME: è il "manifestante" la persona dell'anno
Nella copertina è ritratta una persona con il volto e la testa coperti da sciarpa e cappello, che lasciano scoperti solo gli occhi. Nell'articolo si ricorda che "tutto è iniziato in Tunisia", si racconta l'evoluzione "dalla primavera araba ad Atene, da Occupy Wall Street a Mosca" e si sottolinea che "la storia spesso emerge solo in retrospettiva".
L'articolo prosegue affermando che: "In tutto il mondo, le proteste del 2011 hanno condiviso la consapevolezza della corruzione e della disfunzione del sistema politico ed economico - finte democrazie che giocano a favore dei ricchi e dei potenti, per impedire ogni cambiamento significativo". "Due decenni dopo il crollo finale del comunismo, loro pensano di stare vivendo il fallimento dell'ostinato e gigantesco ipercapitalismo e chiedono una terza via, un nuovo contratto sociale". Time sottolinea infine il ruolo fondamentale che hanno avuto i social network ed Internet, che hanno dato ai manifestanti la possibilità di incontrarsi e di condividere le proprie idee.
Corno d'Africa un anno dopo
Lo sforzo della comunità internazionale, accompagnato da una stagione delle piogge finalmente favorevole, ha contribuito a salvare innumerevoli vite umane e a diminuire la carestia. Nonostante gli
sforzi l'emergenza non è finita considerando gli 8 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria. «I nostri interventi hanno salvato milioni di bambini, ma per tanti altri ancora il pericolo non è passato » ha dichiarato Elhadji As Sy, Direttore dell'UNICEF per l'Africa orientale e meridionale. «Per i bambini l'emergenza continua. C'è ancora bisogno di aiuto per fermare questa crisi e dobbiamo collaborare ancor più strettamente con le comunità per aumentare le loro capacità di resistenza a nuovi e probabili futuri scenari di crisi.» Tra luglio e dicembre 2011 sono state consegnate circa 63.000 tonnellate di aiuti umanitari, la metà delle quali alimenti terapeutici. Ad oggi, in tutta la regione circa un milione di bambini ha ricevuto cure contro la malnutrizione. Per rafforzare ulteriormente la capacità di reagire alla crisi, l'UNICEF sta integrando nei suoi programmi di sviluppo ed emergenza un piano per la riduzione dei rischi legati ai disastri naturali. Soltanto in Somalia un terzo della popolazione ha ancora bisogno di aiuti d'emergenza. Questo rimane il Paese più colpito nell'area. In alcune regioni del Sud della Somalia, un bambino su cinque soffre di malnutrizione acuta, mentre in Kenia sono 2,2 i milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria e in Etiopia altri 3,2 milioni. Complessivamente, nei tre Stati la malnutrizione minaccia la vita di circa 900.000 bambini. «I tradizionali meccanismi di adattamento sono ormai al limite per molte comunità, alle quali dobbiamo offrire un ulteriore sostegno per riprendersi al meglio ed uscire da questa crisi» ha aggiunto il rappresentante regionale dell'UNICEF. «Abbiamo bisogno di consolidare i successi così duramente conquistati, e investire nelle nuove generazioni per evitare che crisi simili si ripetano in futuro .» Nel 2011 l'UNICEF ha ricevuto per la crisi del Corno d'Africa un generoso sostegno da parte dei suoi donatori (396 milioni di dollari), che hanno consentito di ampliare la risposta all'emergenza in tutte le zone della regione colpite dalla carestia. Sono stimati necessari altri 273 milioni di dollari per il 2012 perché la crisi nel Corno d'Africa possa terminare.
Elezioni in Russia
Vladimir Putin ha vinto le elezioni presidenziali russe con il 63,65% dei voti e sarà presidente fino al 2018. Seguono a distanza il comunista Zjuganov (17,18%), il liberale Prokhorov (7,92%), il populistanazionalista Zhirinovskij (6,22%) e il pro-Putiniano Mironov (3,85%). In Caucaso del nord, altissimo il sostegno per Putin. Secondo i dati ufficiali, in Cecenia la frequenza al voto ha raggiunto il 99,59% di cui il 99,73% per Vladimir Putin. Putin supera il 90% anche in Daghestan, Inguscezia e Karachaj-Circassia. A Mosca, migliaia di persone hanno fatto da osservatori elettorali. In ogni seggio della città vi erano osservatori di più candidati che hanno trascorso l'intera giornata a seguire il corso delle elezioni. Molto attenti in particolare gli osservatori di Prokhorov, il candidato liberale che a Mosca ha superato il 20% dei consensi. Hanno inoltre operato varie organizzazioni di cittadini non affiliati ad alcun candidato decisi ad impegnarsi per garantire elezioni oneste in Russia. "Grazhdanin nabljudatel'" ("Cittadino osservatore"), ad esempio, aveva una sede centrale con un call-center che inoltrava telefonate riguardanti violazioni reali o presunte a consulenti giuridici o a gruppi mobili (composti da autista, consulente e giornalista) pronti a recarsi su chiamata nei seggi dove vi erano situazioni sospette. Le voci di brogli "sono ridicole", aveva detto il regista che ha guidato la campagna elettorale di Putin, Stanislav Govorukhin, questo voto "è il più pulito di tutta la storia russa". Dal fronte opposto la voce di Serghej Udaltsov, leader del Fronte di sinistra e uno dei voti più noti delle proteste anti-Putin: "Queste non sono state elezioni, ma una vergogna - ha commentato - di nuovo, hanno sputato in faccia a tutti noi. Lunedì scenderemo in piazza!".
Infatti, la capitale russa è blindata per le numerose manifestazioni pro e contro Putin stasera, a partire dalle 19.00 ora di Mosca (le 16 in Italia), all'indomani della vittoria del premier alle presidenziali. I due raduni principali sono previsti in piazza Pushkin, dove si riuniranno l'opposizione di piazza e i comunisti (autorizzazione sino a 30 mila persone), e al Maneggio, sotto le mura del Cremlino, dove si sono dati appuntamento i sostenitori del capo del governo, dal Fronte popolare al movimento giovanile Nashi (permesso sino a 15 mila). I due fronti saranno separati solo da un km di distanza, lungo la Tverskaia, la principale arteria cittadina che porta al Cremlino. A garantire la sicurezza 12 mila poliziotti.
Forum Cooperazione...e ora?
Caratterizzato da una partecipazione straordinaria e da una presenza istituzionale ai più alti livelli, dal Capo dello Stato al premier Monti, dai ministri di Esteri e Cooperazione al commissario europeo per lo Sviluppo, fino a cooperanti ed esponenti della società civile. Soddisfatte dunque le Ong, che da anni faticano per portare avanti la cooperazione italiana? Lo chiediamo a Gianfranco Cattai, presidente della Focsiv e dell'Associazione Ong Italiane. "Il principale aspetto positivo di questo Forum è stato senza dubbio quello di avere riacceso l'attenzione sul tema della cooperazione internazionale - sostiene Cattai - di aver rilanciato la parola solidarietà e di aver risottolineato l'importanza della costruzione di relazioni dell'Italia nel contesto internazionale: parole che ormai appartenevano a una cerchia sempre più ristretta di operatori. La partecipazione straordinaria testimonia che questo obiettivo è stato raggiunto" Come affermato nel suo intervento conclusivo il Ministro Riccardi "Abbiamo rotto il silenzio". Aggiunge Cattai: " Direi che il merito più grande del Forum è stato far capire in modo chiaro che la cooperazione è prima di tutto una sfida culturale ". Cosa succederà da domani? "qui sta il punto; capire quali saranno le tappe, i luoghi e le modalità in cui le varie parti citate a più riprese in questo Forum si troveranno per costruire e dare forma concreta a questa battaglia culturale" Delusioni? "Certo dal punto di vista dei segnali economici ci aspettavamo di più, di fatto non è stato aumentato nulla del budget assolutamente risicato della cooperazione italiana" "Anche sulla riforma della legge non è stato detto nulla che già non si sapesse, salvo rafforzare l'idea della necessità di un ministro dedicato. Aspettiamo quindi di capire le posizioni che prenderanno il Ministro Terzi e il Ministro Riccardi. E' ancora tutto possibile; sia che si porti avanti la riforma sia che la riforma resti lettera morta"
Tema particolarmente sviluppato quello del rapporto tra profit e non profit nella cooperazione. Qual è la posizione delle Ong? "La posizione è di assoluta apertura su questo - chiarisce Cattai - sempre più si dovrà andare verso una direzione che non è solo cercare finanziamenti presso i privati ma è progettazione comune, nel rispetto delle rispettive mission, per sviluppare nuove idee e forme di cooperazione. Certo l'intervento di Scaroni (amministratore delegato dell'Eni, ndr) è stato una grande delusione riguardo a questo perché non ha coniugato l'idea di cooperazione espressa in questi giorni al Forum, parlando solo del ruolo dell'Eni in Africa. Va probabilmente distinto il ruolo della grande impresa da quello, differente, più agile e flessibile delle piccole imprese".
Intanto il Ministro Riccardi ha dato appuntamento a fra due anni per un nuovo Forum che valuti i risultati del percorso avviato oggi.
Il "petrolio verde" in Africa
Immaginate la Svizzera interamente ricoperta di piantagioni per alimentare auto e centrali termoelettriche... Imprese dei paesi occidentali coltivano al momento più di tre milioni di ettari di suolo in Africa con piante adatte a produrre biocarburanti, l'Italia è al secondo posto preceduta dalla Gran Bretagna. Un business incentivato dalle norme dell'Unione Europea a favore delle miscele a basso contenuto di CO2: a partire dal 2011 le stazioni di servizio degli Stati membri devono gradualmente aumentare le percentuali di carburante a basso tenore di CO2: bioetanolo per la miscela di benzina e biodiesel per la miscela di gasolio. Il traguardo finale è il dieci per cento entro il 2020. Secondo l'Institute for European Environmental Policy di Londra, l'ambizioso obiettivo farà triplicare le importazioni di agrocombustibili. Gli attuali rifornimenti dall'Asia e dall'America Latina non basteranno più. Ecco dunque che l'Africa diventa il nuovo Eldorado del "petrolio verde". Un petrolio estratto principalmente dalla jatropha: una pianta originaria dell'America centrale i cui semi contengono olio con cui si produce diesel ecologico. Un mercato molto promettente ma anche molto contestato dalle organizzazioni internazionali. "Le piantagioni commerciali estensive privano le comunità rurali delle loro terre", spiega Lorenzo Cotula, ricercatore presso l'International Institute for the Environment and Development di Londra, "invece, la produzione e la vendita autogestita può offrire energia a costi inferiori, nuove opportunità d'impiego e fonti di reddito supplementari agli abitanti delle aree svantaggiate". Nora McKeon, coordinatrice dell'Ong italiana Terra Nuova e dell'iniziativa EuropAfrica, tiene però a precisare: "E' essenziale che anche i piccoli progetti comunitari siano promossi e controllati dai beneficiari locali e non da circuiti commerciali internazionali che inducono asservimento economico".
Il Terzo Settore e il Fundraising
Il Terzo Settore, orientato alla produzione di beni e servizi di utilità sociale, nasce in risposta all'impossibilità dello Stato di far fronte all'intera domanda di beni pubblici espressa dai cittadini e dall'altra parte dall'incapacità delle imprese for profit di controllare totalmente i propri produttori
attraverso gli ordinari meccanismi di Mercato. Il Terzo Settore è invece in grado di esercitare un controllo attraverso un meccanismo alternativo, ovvero il vincolo di non redistribuzione degli utili. In Italia, le organizzazioni di Terzo Settore, pur avendo diversa natura giuridica, struttura organizzativa e consistenza economica e finanziaria, devono condividere alcune caratteristiche (l'assenza di scopo di lucro, la natura giuridica privata, la presenza di un atto di costituzione formale, l'autonomia di governo, l'utilizzo nelle attività di una quota di lavoro volontario compresa presenza di una struttura di governance democratica) ed avere specifiche funzioni e obiettivi. Una recente intervista con Mario Consorti, esperto di Terzo settore e presidente di NP Solutions, porta ad una maggiore riflessione sul non profit in Italia. Secondo Consorti "ogni organizzazione nasce, cresce e si sviluppa intorno alla sua mission e in un'organizzazione non profit - ONP la mission non potrà mai essere strumentale ma è la ragion d'essere dell'organizzazione stessa e tutto deve ruotare intorno ad essa. Di conseguenza avere una mission chiara, condivisa e diffusa sarà prerequisito determinante per ottenere ottimi risultati in ogni aspetto". Se il sostegno delle organizzazioni arriva attraverso il finanziamento pubblico e privato, in particolare attraverso contributi specifici rivolti a progetti o servizi erogati, secondo Consorti il ruolo fondamentale si trova nel fundraising, ovvero nella capacità dell'organizzazione di attrarre risorse dato che una mission per essere realizzata ha bisogno di risorse di ogni tipo. "Il fundraising è l'attività professionaleche un'organizzazione non profit ha oggi a disposizione. Per perseguire i propri obiettivi sociali e reperire risorse in maniera sistematica le organizzazioni devono adottare una cultura e consapevolezza interna fondata sul riconoscimento del valore della sua mission , sulla sua esplicitazione in una visionee nella sua traduzione in azioni concrete e comportamenti coerenti, condivisibili dai suoi interlocutori e potenziali sostenitori". Il fundraising non è quindi riconducibile ad una tecnica ma è il conseguente risultato di un approccio basato su questi presupposti. In conclusione, per Consorti, fondatore di www.npsolutions.it , le nuove tecnologie di cui facciamo uso non sono solo strumenti e occasioni di bussines ma nuove modalità dell'agire decisionale, più aperte, più partecipative e per questo strategiche per lo sviluppo del settore non profit. Diventa importante creare prodotti software accessibili a tutte le organizzazioni e utili alla gestione di tutti i loro processi della vita associativa, alle attività, al fundraising , e quindi alla cura delle relazioni, dal lancio della campagna o singolo evento alla rendicontazione di progetti o servizi. Oltre alle tecnologie rimane la classica e la principale sfida che il Terzo Settore si trova ad affrontare, ovvero quello di rafforzare ed affermare la propria identità, in quanto complesso variegato di soggetti in grado di trovare soluzioni ai problemi emergenti in questa nuova fase di sviluppo.
La Grecia e il ricatto delle armi
Appena sbloccati i 130 miliardi di aiuti per Atene. "E' un nuovo inizio per la Grecia", ha detto il ministro danese all'Economia Margrethe Vestager, presidente di turno del Consiglio, al suo arrivo alla riunione dell'Ecofin. Ma dietro all'accordo, che salva momentaneamente la Grecia dal temutissimo default, si nasconde uno scandalo gravissimo. Lo scandalo dell'unico capitolo di spesa che non è stato neppure sfiorato dai tagli: quello della Difesa. E, ancor più, della spiegazione di questa scelta. E' necessario andare a Parigi e a Berlino per comprenderla, perché è qui che nascono le pressioni sui governi greci al potere perché sottoscrivano commesse miliardarie in armamenti, naturalmente con aziende dei due paesi.
Tutto nasce durante gli anni del governo di Kostas Karamanlis, con l'acquisto di 170 carri armati e 223 cannoni dismessi dalla Difesa tedesca. Il successore, Papandreou, una volta al governo, tentò di opporsi all'acquisto, già formalizzato da Karamanlis, dei sottomarini ThyssenKrupp, ma nel marzo del 2011 dovette arrendersi e siglare un accordo per l'acquisto di due sottomarini al prezzo di 1,3 miliardi di euro, altri 223 panzer per 403 milioni di euro e 60 caccia intercettori. E la Francia? Anche per lei, commesse miliardarie. E' stato infatti chiuso un accordo per l'acquisto di 6 fregate e 15 elicotteri (4 miliardi di euro), nonché alcune motovedette, per ulteriori 400 milioni. Il risultato? Per il 2012 la Grecia prevede una spesa militare superiore ai 7 miliardi di euro, il 18,2% in più rispetto al 2011, il 3% del Pil. Tutto ciò mentre la spesa sociale è tagliata del 9%, facendo precipitare sotto la soglia di povertà oltre un quarto della popolazione.
La ri(e)voluzione verde
Così il personaggio Morpheus, nel film cult di fantascienza "Matrix", descrive ad un disorientato Neo, suo allievo nell'esplorazione del mondo del futuro in cui è immerso, che quella che a lui sembra realtà è nei fatti una rappresentazione realistica ma virtuale, completamente sganciata da una concretezza quotidiana, definita da fatiche e difficoltà ma comunque modificabile e migliorabile. La realtà virtuale, la "Matrix", la matrice avvolgente del terzo millennio si chiama consenso e disimpegno. Se volessimo usare qualche concetto oggi un po' in disuso ma efficace, potremmo parlare di ripiegamento nel privato. Questo sistema economico e sociale tossico sopravvive e si espande a spese del pianeta e delle creature che lo vivono, noi compresi, perché tutti noi gli permettiamo di farlo, perché trova giorno dopo giorno motivi di consolidamento e di rafforzamento, perché molti, a partire dalle proprie scelte individuali per arrivare quelle collettive, hanno scelto di tirare i remi in barca.Per reagire alle conseguenze catastrofiche delle scelte compiute fino ad oggi dobbiamo innescare una vera e propria ri(e)voluzione.Che qualcosa debba cambiare nella nostra vita di tutti i giorni ne siamo sempre più consapevoli. Non è un caso, infatti, che negli anni bui della crisi economica e commerciale c'è una nicchia di consumi sostenibili che non ha conosciuto flessioni. L'economia solidale, così definita perché al crocevia tra creazione di benessere e solidarietà tra persone e con l'ambiente, ha assunto uno spazio sempre più importante non solo nella teoria, ma nella pratica economica e commerciale, premiata com'è dalla scelta consapevole di responsabilità di un numero crescente di cittadini. Ma a questa va affiancata la volontà di cambiare le regole, di invertire una tendenza. È l'intero immaginario che va riconsiderato, il nostro livello di aspettative e di speranze, il tipo di vita che vorremmo vivere e che inevitabilmente si concretizza nei nostri stili di vita.È il concetto di economia ecologica, di ritorno al contatto con il mondo reale troppe volte mascherato dietro i mondi virtuali dell'economia e della finanza, talmente sganciati dalla realtà che il valore totale degli strumenti finanziari derivati, del tutto immateriali, è arrivato a superare i 600mila miliardi di dollari, oltre 12 volte la concretissima produzione lorda mondiale. Inoltre non c'è nessuna ricostituzione del capitale naturale: ogni anno che passa la dote di risorse disponibili sul pianeta per il sostentamento della vita in ogni sua forma si riduce sempre più. Dalle foreste all'acqua, a questo punto siamo arrivati al clima.Ognuno di noi porta in sé un potenziale di cambiamento
che può concretizzarsi nel momento in cui si comincia a cooperare, a lavorare assieme per cambiare lo status quo. È quello che sta succedendo su diversi territori con la nascita dei Distretti di Economia Solidale, con la messa in rete di piccoli produttori, di consumatori responsabili, di associazioni e cooperative sociali. Costruiscono l'alternativa concreta a partire dalle relazioni tra le persone e tra queste ed i territori, ridando valore a concetti come "fiducia", "trasparenza", "cooperazione". Significa mettersi in gioco per dare gambe ad un'economia equa e ad una nuova società, che non può e non deve fermarsi alle proprie buone pratiche, ma partire da queste per cambiare il contesto in cui si radica diventando politica. È arrivata l'ora di diventare un po' più felici anche noi.
La Siria sull’orlo della guerra civile
Infatti, il rapporto fa crescere l’allarme nelle capitali occidentali e in Israele, alimentando la paura che Iran e Siria stiano preparando il terreno per un nuovo attacco. L'agenzia iraniana afferma invece che "Qualsiasi rapporto venga pubblicato sul presunto utilizzo di armi chimiche da parte dell'esercito siriano sta a significare che i terroristi hanno usato queste armi contro il popolo per poi accusare l'esercito del governo siriano di quel crimine." Fonti militari occidentali che controllano alcune aree siriane sostengono che se entrambe le parti in conflitto stanno parlando apertamente di guerra chimica, è un segnale che si stanno seriamente preparando a questa escalation mortale. Una guerra civile siriana continua a produrre vittime. E’ l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ad aggiornare la situazione: le nuove violenze sarebbero avvenute nella regione di Homs, dove si sono contate 29 vittime, e nella regione di Deraa, dove se ne sono contate altre 23. Nella regione di Edeb, nella parte nord-orientale del paese ci sono poi stati 14 morti, altri 14 nella regione occidentale di Lattakiè, 2 in quella di Damasco e 1 ad Aleppo. Le vittime civili di oggi sono morte una a Khalidiya e una a Qusayr, dove una bomba ha ucciso un attivista. Ma ci sono state diverse vittime anche tra le milizie del Presidente Bashar Al Assad, per una serie di attentati ai check-point da parte dei ribelli.
Una nuova strage sembrerebbe poi avvenuta il 6 giugno nella provincia di Hama. Il numero delle vittime non sembrerebbe ancora accertato, ma si suppone si aggirino tra le 55 e le 78. Chi si oppone al regime sostiene che colpevoli sarebbero le forze di sicurezza di Assad, appoggiate dai miliziani Al Shabiha, formazioni paramilitari filogovernative, sospettate di essere coinvolte anche nella strage di Hula di due settimane fa. Dalla ancora poco chiara ricostruzione degli eventi sembrerebbe che gli abitanti morti nel piccolo villaggio di Qubair, vicino alla città di Hama, sarebbero stati bombardati e poi uccisi singolarmente tramite incursioni nelle loro case. Il Governo Siriano accusa invece “i terroristi”, ossia le trupper dei ribelli, dell’accaduto. Tuttavia l’esercito siriano il giorno dopo il massacro impedì agli osservatori delle Nazioni Unite di raggiungere il villaggio. Giunti solo successivamente, i diplomatici non trovarono segni di vita, ma molti edifici sventrati, segni di sangue sui muri e odore di carne bruciata. L’inviato della BBC Paul Danahar che li accompagnava ha parlato di “scene sconvolgenti”, tra cui quella di pezzi di corpi tra i mobili delle stanze ormai vuote. Secondo l’Onu dal marzo 2011 si sono contate più di 9000 vittime nel paese, mentre l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani sarebbero almeno 13000. Il Segretario Generale all’ONU Ban Ki Moon ha parlato giovedì di “barbarie di cui i responsabili saranno chiamati a rispondere”, e il Ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi sembrerebbe voler favorire la recente proposta di Mosca di un processo di transizione di potere, dichiarando in una recente intervista che “Assad e i suoi se ne devono sicuramente andare”.
Le donne della Sierra Leone
La notizia è stata accolta con favore dalla società civile attiva per la difesa dei diritti umani, in un paese dove la violenza è molto diffusa e colpisce soprattutto le donne e le adolescenti: stupri, gravidanze precoci e episodi di violenza domestica sono all'ordine del giorno e i crimini di natura sessuale difficilmente vengono puniti o presi adeguatamente in carico dalle autorità. Le strutture sanitarie sono solite addebitare alle vittime di violenza sessuale i costi per i referti medici, senza i quali è di fatto impossibile ottenere procedimenti penali che portino a una condanna. Lo stigma sociale, le procedure costose e intimidatorie dei tribunali e le interferenze dei familiari e dei capi villaggio hanno fatto sì che gli accordi ottenuti al di fuori delle sedi giudiziarie fossero prassi comune. Le unità speciali di sostegno alla famiglia, incaricate di indagare sulla violenza sessuale e di genere, erano sotto organico e sotto finanziate e hanno faticato per far fronte al carico di lavoro. La Sierra Leone ha attraversato una lunga e brutale guerra civile tra il 1991 - 2002, un periodo che è stato caratterizzato da gravi violazioni di diritti umani, inclusi stupri sistematici contro la popolazione civile, soprattutto le donne, violenze e torture di ogni tipo. Purtroppo però, a guerra conclusa, gli abusi sessuali non sono terminati. "Questa legge assicurerà la persecuzione dei crimini di natura sessuale e l'accesso alla giustizia per le donne e le ragazze che subiscono violenza", afferma Christiana Momoh, responsabile del programma sui diritti delle donne di ActionAid Sierra Leone. Il disegno di legge condanna forme di violenza quali le molestie sessuali, l'incesto, la tratta di esseri umani, lo stupro all'interno delle relazioni coniugali e prevede pene detentive da due anni a quindici anni. Per anni in Sierra Leone ActionAid insieme ad altre organizzazioni e movimenti femminili ha lottato per l'introduzione di una legge contro la violenza sulle donne. Ora s'impegnerà a monitorarne la concreta attuazione. Il governo della Sierra Leone ha già adottato leggi a favore dell'uguaglianza di genere che spesso però non vengono applicate o sono soggette a interpretazioni errate. L'approvazione della legge contro la violenza sessuale è quindi senza dubbio un grande successo, ma la sfida più grande sarà la sua effettiva implementazione.
Le migliori 12 buone notizie sui diritti umani del 2012
Dall'Ecuador all'Italia, dalla Guatemala all'Egitto fino al Messico, l'Iran e tanti altri paesi, numerose sono state le buone notizie sui diritti umani nel 2012. Leggi le migliori 12! Ecuador - Il 4 gennaio 2012 la corte d'appello della città di Lago Agrio, nella provincia di Sucumbios, ha confermato la condanna della Chevron per disastro ecologico e danni alla salute delle parti lese. Nel febbraio 2011 il tribunale aveva ordinato alla Chevron di pagare 8 miliardi e mezzo, ma nella sentenza
d'appello l'importo è raddoppiato anche perchéla Chevron si è sempre rifiutata di scusarsi pubblicamente, come richiesto dalla sentenza. Italia - Il 23 febbraio 2012 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l'Italia nel caso Hirsi Jamaa e altri contro l'Italia. Il caso riguarda 11 cittadini somali e 13 cittadini eritrei che facevano parte di un gruppo di circa 200 persone intercettate in mare dalle autorità italiane e respinti direttamente in Libia, senza che fosse stata valutata la loro necessità di protezione internazionale: una delle operazioni di intercettamento e rinvio in Libia eseguite dalle autorità italiane nel2009, a seguito dell'accordo bilaterale tra Italia e Libia allora in vigore. Guatemala - Il 14 marzo 2012 Pedro Pimentel Rios, estradato dagli Usa nel luglio 2011, è stato condannato a 6060 anni di carcere per aver preso parte al massacro di Dor Erres nel 1982, che provocò la morte di oltre 250 civili. Si tratta del quinto ex militare condannato dalla giustizia guatemalteca per i fatti di Dos Erres: anche gli altri quattro hanno ricevuto una condanna a 6060 anni, equivalente a 25 anni per ogni omicidio. Stati Uniti d'America - Il 25 aprile 2012 il governatore del Connecticut ha firmato la legge che abolisce la pena di morte. Il Connecticut è diventato il 17° stato abolizionista degli Usa. Siria - Yaacoub Shamoun, un cittadino libanese scomparso dopo essere stato catturato dalle forze siriane in Libano nel luglio 1985, è stato rilasciato nel maggio 2012 da un carcere della regione orientale di Hasaka. Dopo il suo rapimento in Libano, Shamoun era stato portato in Siria e, per l'ultima volta, era stato visto 27 anni fa nella prigione di Saydneya, a nord di Damasco. Egitto - Il 2 giugno 2012 un tribunale del Cairo ha condannato all'ergastolo l'ex presidente Hosni Mubarak e l'ex ministro dell'Interno Habib Al Adly per non aver prevenuto l'uccisione di oltre 840 manifestanti durante le proteste che si svolsero dal 25 gennaio all'11 febbraio 2011. Repubblica Democratica del Congo - Il 10 luglio 2012la Corte penale internazionale ha emesso la sua prima condanna, infliggendo 14 anni di carcere a Thomas Lubanga Dyilo, capo di un gruppo armato congolese, per aver reclutato ed impiegato bambine e bambini soldato in un conflitto armato. Messico - Il 21 agosto 2012la Corte suprema ha giudicato incostituzionale l'articolo 57 II (a) del codice penale militare, sulla base del quale le denunce di violazioni dei diritti umani commesse da membri delle forze armate venivano indagate dalla giustizia militare. Iran - L'8 settembre 2012 Yousef Naderkhani, un pastore protestante condannato a morte nel 2010 per apostasia, è stato assolto e, avendo terminato di scontare una precedente sentenza di tre anni per un reato d'opinione, è stato rimesso in libertà. Slovacchia - Il 30 ottobre 2012 il tribunale regionale di Presov ha definitivamente stabilito che la scuola elementare di Sarisské Michal'any ha violato la legge istituendo classi separate per i bambini e le bambine rom. Myanmar - Il 19 novembre 2012 sono stati rilasciati oltre 50 prigionieri politici e prigionieri di coscienza. Tra questi ultimi, U Myint Aye, cofondatore della Rete dei difensori e promotori dei diritti umani condannato nel 2008 all'ergastolo, e Saw Kyaw Kyaw Min, difensore dei diritti umani e avvocato, condannato a sei mesi nell'agosto 2012. Nigeria - Il 15 dicembre 2012la Corte di giustizia della Comunità economica degli stati dell'Africa occidentale ha giudicatola Nigeria responsabile della violazione della Carta africana dei diritti umani e dei popoli riguardo alle condizioni di vita della popolazione del delta del fiume Niger.La Corte ha stabilito che il governo nigeriano è responsabile del comportamento delle compagnie petrolifere e che ad esso spetta chiamarle a rispondere dell'impatto ambientale del loro operato.
"Lend your leg"
L'iniziativa, voluta delle Nazioni unite per la Mine-action e promossa a Roma dalla Campagna internazionale contro le mine, si concentra sul clip che riprende l'immagine delle proprie gambe per scandire un forte "no" alla violenza delle mine. Alla campagna possono partecipare tutti i cittadini aderendo in maniera attiva con l'invio delle proprie foto al sito www.lendyourleg.org o postandole sulla pagina Facebook, Twitter e Flickr. "Prestare la gamba significa manifestare con un semplice gesto il proprio dissenso all'indifferenza per le sofferenze degli altri, dichiara Schiavello, direttore della Onlus Campagna italiana contro le mine, coinvolgendo tutta la società civile nella battaglia per il disarmo umanitario". Ogni anno più di 5 mila persone vengono mutilate o uccise dalle mine antiuomo. Considerate letali non solo in tempo di guerra ma anche alla fine dei conflitti, "le mine e residui bellici ostacolano lo sviluppo e metto in pericolo la vita". Così il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha scritto nel messaggio per la Giornata internazionale per la lotta contro le mine. "A oggi, molti sono gli Stati che hanno aderito alla Convenzione internazionale contro questi ordigni - siglata ad Ottawa nel 1994 - che comunque continuano a minacciare diverse aree del pianeta nonostante l'intenso lavoro di sminamento". Secondo i dati diffusi dalla Campagna internazionale contro le mine nel 2007, Africa, Asia, Russia, ma anche Ecuador, Perù Colombia e Cile sono contaminati da mine e ordigni inesplosi. Le Nazioni Unite hanno ricordato anche la recente tragedia di Brazzaville, in Congo, dove è esploso un deposito di armi, tragico richiamo alla difficile gestione di tali ordigni. Oggi, 159 Stati hanno aderito al Trattato contro le mine e nonostante la campagna ha permesso a mettere in sicurezza alcune zone sono state messe in sicurezza. Ci sono tutti i recenti scenari di guerra. L'Afghanistan è sicuramente uno dei Paesi più afflitti dal problema delle mine, degli ordigni inesplosi ed anche degli ordigni improvvisati, che spesso vengono utilizzati dalle forze ribelli. La Colombia è un altro di questi Paesi dove i conflitti interni con le Farc, l'esercito di liberazione nazionale, e gli stessi narcotrafficanti spesso vede l'uso di mine, che vanno poi a colpire la popolazione sia interna e sia civile.
Libia senza pace
I "controribelli" hanno conquistato la città di Bani Walid, si registrano sporadici scontri persino nella capitali Tripoli, il governo provvisorio non controlla completamente il territorio e le preoccupazioni in merito ai diritti umani si accrescono giorno dopo giorno. Proprio quest'ultimo punto - la tutela dei diritti umani - era stato uno dei principali motivi per l'intervento occidentale contro il regime di Gheddafi, noto per il trattamento disumano di detenuti, prigionieri politici, profughi, ribelli catturati. A sei mesi dalla caduta del Colonnello, la situazione è analoga a quella registrata per 40 anni. Le organizzazioni internazionali lanciano l'allarme.
In un comunicato Medici senza frontiere annuncia la sospensione delle proprie attività nei centri di detenzione di Misurata, perché ai detenuti vengono inflitte torture e negato l'accesso a cure mediche di urgenza. Anche Amnesty International riporta descrizioni agghiaccianti del trattamento riservato ai detenuti, finiti nelle galere libiche spesso per reati minori come accade per i migranti. Nelle carceri di Misurata come in quelle di Tripoli, la tortura è un'abitudine. Il giudizio di Amnesty è drastico: "Finora, chi controlla il potere non ha minimamente preso provvedimenti concreti per porre fine alle torture e ai maltrattamenti e chiamare i responsabili a rispondere dei loro crimini..." Eppure qualche barlume di speranza non è stato ancora spento. C'è chi in Libia lavora davvero per il rinnovamento a cominciare dalla scuola. Occorre liberare il paese da decenni di propaganda invasiva che celebrava il regime fin nei libri di storia. Abdulnubi Abughania, direttore del Centro curricula ed educazione scolastica, difende il suo lavoro in collaborazione con il Ministero della cultura: "Abbiamo eliminato la propaganda che soffocava l'istruzione... Dovevi mostrare di credere nei pensieri di Muammar: questo l'obbligo per tutti" . La libertà nell'insegnamento è uno dei presupposti per la nascita di uno Stato che tutela il diritto.
Nobel per la Pace all’Unione Europea
L’Unione Europea era già in corsa nel 2011 e quest’anno il comitato norvegese che assegna il Nobel per la pace a chi “da oltre sei decenni promuovere la pace, la riconciliazione, la democrazia e i diritti dell’uomo in Europa”. Se per il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, l’Unione europea è come “qualcosa di molto prezioso per il bene degli europei e del mondo”, il presidente permanente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, la trova come “il più grande operatore di pace nella storia”. “È un grandissimo onore per l'Unione Europea ricevere il premio Nobel per la pace 2012. Questo è il massimo riconoscimento delle profonde motivazioni politiche che stanno alla base della nostra Unione: è lo sforzo unico di un crescente numero di paesi europei di superare guerre e divisioni per disegnare insieme un continente di pace e prosperità. Il premio non è destinato soltanto al progetto e alle istituzioni che incarnano un interesse comune, bensì ai 500 milioni di cittadini che vivono nella nostra Unione", hanno affermato il presidente del Consiglio europeo e il presidente della Commissione europea in una dichiarazione comune. Pensando al futuro i due presidenti hanno espresso l'impegno dell'Unione Europea a continuare a "promuovere la pace e la sicurezza nei paesi vicini e in tutto il mondo." Senza dubbio il comitato norvegese per il premio Nobel ha motivato la sua scelta sottolineando il contribuito dell’Unione Europea in materia di stabilizzazione e nell’impegno “a trasformare la maggior parte dell'Europa da un continente di guerra in un continente di pace”. Secondo Jacques Delors, uno dei padri del rilancio degli anni ’80, il premio è “un incoraggiamento nonostante la crisi”, per il premier Monti “è la formula stessa dell’integrazione per impedire la guerra e garantire la pace”. Una formula che, ha aggiunto, “è oggetto di studio e ammirazione in altri parti del mondo”. Non sono mancate le critiche visto che l'olandese Geert Wilders si è domandato: “il Nobel all'Ue quando Bruxelles e tutta l'Europa stanno collassando nella miseria. Il prossimo cosa sarà? Un Oscar a Van Rompuy?”. Di certo le critiche non compromettono la storia e il lavoro dell’Unione Europea che da decenni
cerca di assicurare la pace, la democrazia e i diritti fondamentali, sempre più presenti nelle normative europee. Il Nobel è un grande incoraggiamento al rafforzamento dell'Unione Europea e della sua autostima come giocatore globale sulla scena mondiale!
In occasione del Nobel perla Pacesi ricordala Cartadei diritti fondamentali che comprende un preambolo introduttivo e 54 articoli, suddivisi in sette capi.La Cartasancisce i diritti che sono tutelati all'interno dell'UE:
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capo I: dignità (dignità umana, diritto alla vita, diritto all'integrità della persona, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, proibizione della schiavitù e del lavoro forzato); capo II: libertà (diritto alla libertà e alla sicurezza, rispetto della vita privata e della vita familiare, protezione dei dati di carattere personale, diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, libertà di pensiero, di coscienza e di religione, libertà di espressione e d’informazione, libertà di riunione e di associazione, libertà delle arti e delle scienze, diritto all'istruzione, libertà professionale e diritto di lavorare, libertà d'impresa, diritto di proprietà, diritto di asilo, protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione); capo III: uguaglianza (uguaglianza davanti alla legge, non discriminazione, diversità culturale, religiose e linguistica, parità tra uomini e donne, diritti del bambino, diritti degli anziani, inserimento dei disabili); capo IV: solidarietà (diritto dei lavoratori all'informazione e alla consultazione nell'ambito dell'impresa, diritto di negoziazione e di azioni collettive, diritto di accesso ai servizi di collocamento, tutela in caso di licenziamento ingiustificato, condizioni di lavoro giuste ed eque, divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro, vita familiare e vita professionale, sicurezza sociale e assistenza sociale, protezione della salute, accesso ai servizi d’interesse economico generale, tutela dell'ambiente, protezione dei consumatori); capo V: cittadinanza (diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali, diritto ad una buona amministrazione, diritto d'accesso ai documenti, Mediatore europeo, diritto di petizione, libertà di circolazione e di soggiorno, tutela diplomatica e consolare); capo VI: giustizia (diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, presunzione di innocenza e diritti della difesa, principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene, diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato); capo VII: disposizioni generali.
Pacificazione politica armena
Dopo la repressione post-elettorale del 2008 ci sono voluti quattro anni per riavvicinare i due partiti armeni che senza dubbio dovrebbero portare ad un compromesso politico interno sulla questione del Nagorno-Karabakh, piccola regione meridionale del Caucaso sotto il controllo dell'Azerbaijan, in cui ormai imperversa un conflitto decennale alimentato anche dalle differenze etniche e religiose dei due schieramenti: musulmani sciiti gli azeri, cristiani (Chiesa Apostolica Armena) gli armeni.
Pochi giorni prima delle elezioni lo stesso presidente Sarkisian ha confermato che la situazione è gravissima e che si ha bisogno della pace e del cambiamento. In occasione ha detto che “Le autorità armene sono determinate a condurre le elezioni più libere e trasparenti della storia dell'Armenia moderna”. Una forte presa di distanze dal suo predecessore Kocharyan, autore della repressione di Piazza della Libertà e bandiera dell'intransigente nazionalismo armeno. Le elezioni csi sono concluse con il trionfo del Partito Repubblicano (nazionalista) del presidente Serzh Sarkisian (44,05%) sostenuto anche dal partito Prospera Armenia di Gagik Tsarukian ( 30,20%). Anche la nuova legge elettorale, varata nel 2011, è un grande passo verso il dialogo. Con un sistema elettorale misto con 90 seggi eletti tramite sistema proporzionale a collegio unico, soglia di sbarramento al 5% e 41 seggi in collegi uninominali, ha permesso un ottimo livello di inclusività politica e di "genere": si sono registrati candidati per otto partiti ed una coalizione con un 20% di candidature femminili. Nel Caucaso meridionale si continua a morire e il conflitto con l'Azerbaijan, esploso nel 1991 a causa della auto-proclamazione di indipendenza del Nagorno-Karaback controllato dagli azeri e rivendicato dagli armeni, ha fatto migliaia di vittime e centinaia di migliaia di profughi. Bisogna trovare una soluzione pacifica. Mentre i politici armeni continuano ad accusare Baku di non volere la pace non si accorgono dell’importanza della pace con gli azeri. Sono appena iniziati i negoziati per integrare l'Armenia nel Mercato Unico Europeo, ma più che una soluzione sembra un ultimo disperato tentativo di salvare il salvabile.
Rio+20: un'occasione per pochi
Persino la statua del Cristo Redentore preferisce non farsi vedere, nascosta dietro le nuvole basse e la pioggia che sta bagnando la conclusione del vertice di Rio+20. Finita la passerella e le dichiarazioni di rito, quello che resta sul tappeto è un documento non solo inutile ma addiritturapreoccupante per quello che non dice e per i problemi che lascia del tutto irrisolti. Nessun piano d'azione concreto per contrastare il cambiamento climatico, uno dei maggiori rischi che il pianeta sta affrontando, né per prevenirlo, considerato che non si è concretizzata alcuna politica efficace per azzerare i sussidi ai combustibili fossili, che ogni anno assorbono più di mille miliardi di dollari, quasi il 2% del PIL mondiale. Una visione del "lavoro dignitoso" che sembra uscita da un libro dell'ottocento, dove la cornice parla di mercato del lavoro e il focus del problema è trovare il modo per favorire una maggiore disponibilità di occupazione. E' la legge della domanda e dell'offerta, dove i lavoratori diventano oggetto del contendere e non soggetto attivo e propositivo. Ma quello che più emerge è l'approccio "concettuale" di tutto il documento, senza una data, senza una cifra né uno stanziamento. Neppure quei 30 miliardi di dollari proposti dal G77 per facilitare e sostenere la transizione low-carbon. Sul resto nessuna analisi dei costi sociali ed ambientali dell'industria mineraria, considerata sostanziale per la crescita economica dei Paesi. Nessun impegno sulla tutela della biodiversità, lasciata alla volontà di ratificare la Convenzione di Nagoya e al prossimo futuro la possibilità di tutelare gli oceani. La vera scelta è stata quella di non definire regole per le imprese e le multinazionali, lasciate libere di operare e di investire come meglio preferiscono. Il commento più efficace è quello di Kumi Naidoo di Greenpeace International che sottolinea come quello che si è presentato a Rio "non è il mondo che vogliamo, è un mondo in cui dominano le multinazionali inquinanti e quelli che distruggono l'ambiente". Gli fa eco Nnimmo Bassey, di Friends of the Earth International, secondo il quale "ancora una volta le multinazionali che inquinano hanno tenuto in ostaggio le Nazioni Unite per spingere i loro interessi economici, alle spese del benessere delle persone e del pianeta". Interessi alla luce del sole, evidenziati da iniziative come il GlobalBioEnergy Partnership, iniziativa di diversi Paesi nata al G8 di Gleaneagles diversi anni fa e di cui è presidente il nostro Ministro dell'Ambiente
Corrado Clini. È all'interno di questa cornice che Clini assieme al ministro brasiliano dell'Energia, Edson Lobao, hanno firmato un accordo bilaterale per iniziative comuni nel Sud del mondo. In questo modo, le imprese italiane potranno affiancare quelle brasiliane che investono in Paesi del "Sud del Pianeta" per incentivare lo sviluppo sostenibile, come per esempio in Mozambico, in Etiopia o nei Paesi dell' Africa Occidentale dove è sensibile la presenza di iniziative imprenditoriali del Brasile, ma anche in altre aree del mondo. La corsa ai biocombustibili è iniziata anche per l'Italia, con buona pace delle preoccupazioni dei movimenti contadini di mezzo mondo. Ma per capire cosa significhi la green economy sdoganata a Rio de Janeiro non serve andare molto lontano. Basterebbe andare a bussare a Sorgenia, per chiedere quale sia la "sensibilità" (claim pubblicitario del gruppo) nel detenere il 30% di quote di Tirreno Power e nel sostenere il piano di sviluppo che raddoppierà la centrale a carbone di Vado Ligure nei prossimi anni. O fare mente locale sulla presenza dell'italica Eni qui a Rio e sul perchè da molti è stata considerata un'azione di greenwashing. Il motivo lo ha illustrato Paolo Scaroni, amministratore delegato di Eni, rispetto alla decisione del Governo dispostare a 12 miglia dalla costa il limite per l'esplorazione di gas e petroli o. "Dopo Macondo, l'incidente della Bp, nel mondo nessuno ha cambiato la legislazione sulla ricerca petrolifera, ad eccezione dell'Italia. E io sono portato a pensare che quando siamo gli unici a prendere una determinata decisione, è una cretinata". Alla convinzione di Scaroni risponde la cortesia del ministro dell'Ambiente Corrado Clini, secondo il quale il limite di 12 miglia per le trivellazioni di ricerca degli idrocarburi "non è un mito" e quindi se ne può riparlare. Rio+20, in questo piovoso Brasile, ha ormai chiuso i battenti. Ma il mondo che ci restituisce rischia di essere peggiore di quello che gli abbiamo affidato. Forse, come emerge dai lavori della Cupula dos Povos e dal documento finale approvato e sdoganato all'Aterro do Flamenco, è bene che la società civile mondiale si rimetta in marcia.
Srebrenica 2012
Mercoledì prossimo a Potočari, nel Memoriale che sorge di fronte all'ex comando dei caschi blu di Srebrenica, verrà ricordato il diciassettesimo anniversario della morte di oltre 8.000 bosniaco musulmani, uccisi nel luglio 1995 dalle forze serbo bosniache. Quella strage fu un genocidio, secondo quanto stabilito da diverse istanze giuridiche internazionali (Tribunale Penale dell'Aja per la ex Jugoslavia; Corte Internazionale di Giustizia) e locali (Corte di Bosnia Erzegovina per i crimini di guerra). Srebrenica e Karadzic I giudici hanno ribadito questo orientamento pochi giorni fa al processo Karad¸ić, in corso all'Aja, dove è da poco terminata la fase della presentazione delle prove da parte della Procura. Secondo le regole del Tribunale, prima che inizi la parte dedicata alla difesa, i giudici possono decidere il proscioglimento dell'imputato da uno o più capi d'accusa, se ritengono che le prove presentate non siano sufficienti per arrivare ad una condanna. Nessuna eccezione è stata sollevata rispetto all'accusa di genocidio per Srebrenica. La Corte ha invece dichiarato di non ritenere sufficienti le prove sin qui presentate relativamente al carattere genocidario di altre stragi, delle quali l'ex leader dei serbi di Bosnia è accusato: quelle del 1992 a Bratunac, Foča, Ključ, Prijedor, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik.
La decisione, che non è definitiva, ha creato scalpore nei media e nell'opinione pubblica bosniaca, in particolare tra le associazioni delle vittime, e martedì l'accusa ha presentato ricorso. L'inizio della presentazione delle prove, e dei testimoni, da parte della difesa, è previsto per il prossimo ottobre. Nei mesi successivi al luglio del 1995, il crimine di Srebrenica è proseguito con l'occultamento di migliaia di corpi in fosse comuni secondarie e terziarie. Questo ha reso estremamente difficile il recupero e il riconoscimento delle vittime, tanto che ancora oggi gli scomparsi di Srebrenica rappresentano la parte più consistente di tutti gli scomparsi delle guerre in ex Jugoslavia. La Commissione Internazionale per le Persone Scomparse (ICMP) ha finora identificato oltre 16.000 vittime di quei conflitti (su un totale di circa 40.000 desaparecidos), ma in Bosnia Erzegovina ne mancano ancora molte migliaia (tra gli 8 e i 10.000 secondo lo stesso ICMP), e la maggior parte sono quelli di Srebrenica. Ogni anno, l'11 luglio, vengono sepolti a Potočari gli scomparsi trovati e identificati nei mesi precedenti. Martedì, a Sarajevo, il direttore del Centro Memoriale di Potočari, Mersed Smajlović, ha dichiarato che quest'anno (mercoledì prossimo) nel Memoriale verranno interrate 519 vittime, tra cui sei minorenni e tre donne. La battaglia per Srebrenica Nel corso delle ultime settimane, però, Srebrenica è stata al centro dell'attenzione dei media e della politica bosniaca per motivi completamente diversi. Il 7 ottobre prossimo in Bosnia Erzegovina si terranno le elezioni amministrative e, per la prima volta, a Srebrenica non sarà accordato alcuno statuto speciale. Fino ad oggi, in ragione di quanto avvenuto durante la guerra, i bosniaco musulmani originari di Srebrenica avevano il diritto di votare per quel comune indipendentemente dal loro attuale luogo di residenza. Alle prossime elezioni questo non sarà più possibile, ma solo quanti effettivamente risiedono a Srebrenica potranno esercitarvi il diritto di voto. Dal dopoguerra ad oggi, Srebrenica ha avuto un sindaco bosniaco musulmano e una popolazione in maggioranza serbo bosniaca. Tutto questo ora potrebbe cambiare, e diverse organizzazioni non governative e partiti politici della Federazione - una delle due entità in cui la Bosnia Erzegovina è divisa hanno lanciato la campagna "Io voto per Srebrenica". Quanti hanno spostato la propria residenza altrove (i bosgnacchi sopravvissuti al luglio 1995 vivono per lo più a Tuzla e Sarajevo) vengono in buona sostanza esortati a riportarla a Srebrenica. D'altro canto il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, ha rivolto dai microfoni della televisione serbo bosniaca un appello speculare agli elettori serbi, cioè di votare a Srebrenica, per impedire che la cittadina abbia nuovamente un sindaco bosgnacco. Secondo gli attivisti, la polizia della Republika Srpska starebbe controllando selettivamente e pedantemente le residenze dei soli bosniaco musulmani, e le polemiche continuano.
Sud Sudan e la crisi umanitaria
Nonostante la guerra civile tra il Sud, in prevalenza animista e cristiano, e il Nord musulmano del Paese sia già costata almeno 1 milione e mezzo di morti, diverse organizzazioni internazionali segnalano che i
problemi sono lontani da una soluzione pacifica. È l'ennesimo episodio di tensione e instabilità che colpisce i due Sudan. Per quanto riguarda il Nord, infatti, è da mesi che si combatte nei due Stati della federazione confinanti con la frontiera meridionale, nel Sud Kordofan e nel Nilo Blu. Si parla di radi aerei dell'esercito governativo che avrebbero provocato centinaia di vittime e decine di migliaia di sfollati privi di qualsiasi assistenza perché il governo di Khartoum impedisce l'accesso alle Nazioni Unite e alle agenzie umanitarie. Mentre al Sud Sudan, è in corso un violento scontro etnico fra le tribù dei Lou-Nuer e dei Murle che hanno costretto alla fuga già 50-60 mila persone, mentre le stime parlano di un migliaio di vittime. Insomma, uno Stato debolissimo il Sud Sudan con due etnie che si contrappongono e una missione Onu con pochi uomini che intervengono tardivamente (la UNMISS). Poche settimane fa una colonna di miliziani Lou Nuer è partita alla volta della città di Pibor, abitata dall'etnia Murle, stringendola d'assedio. Si è parlato di almeno 3000 morti. Mentre dopo due giorni le forze Onu, che pur avevano individuato la colonna armata molto tempo prima, respingevano l'assalto e salvavano Pibor, le persone che in precedenza erano fuggite nascondendosi nella foresta e cercando ovunque riparo furono preda delle milizie dell'etnia avversa. Il 3 gennaio, Lise Grande, coordinatrice umanitaria della Missione dell'Onu in Sud Sudan, ha lanciato l'allarme. "Non c'è dubbio che ci sono state vittime. Potrebbero essere nel numero delle decine, forse delle centinaia, ma non sappiamo.... Ora l'obiettivo delle Nazioni Unite è quello di provvedere all'assistenza dell'emergenza alla popolazione di Jonglei, mentre la situazione a Pibor è più stabile". Jonglei è un'altra cittadina teatro di scontri tra le due comunità, con assalti e uccisioni di donne e bambini, che ora ospita molti rifugiati. La situazione umanitaria è grave considerato che gli abitanti Murle ritornati a Pibor dopo la fine dell'assedio "non avevano cibo, non avevano accesso all'acqua potabile e molti erano i feriti". Le Nazioni Unite, con la Missione UNMISS, cercano di evitare la catastrofe con difficoltà considerato che "Sui massacri di civili recentemente denunciati l'Onu nutre dei dubbi. «Non ci sono prove di massacri in Sud Sudan dopo l'esplosione di violenze etniche nel paese, ma 60 mila persone hanno urgente bisogno di assistenza», ha dichiarato Hilde Johnson, rappresentante speciale dell'Onu nel Paese. L'inviata ha detto all'Afp che le informazioni che parlavano di oltre 3 mila persone uccise la scorsa settimana dopo un attacco nella regione di Pibor, nello stato di Jonglei, da giovani armati si sono rivelate infondate». La crisi umanitaria è accompagnata dai difficili rapporti tra i due governi che cercano di risolvere le questioni rimaste irrisolte al momento dell'indipendenza del Sud Sudan, la spartizione dei proventi petroliferi e alcune aree contese lungo la linea del nuovo confine.
Guerra in Mali
Il Mali, lo stato dell'Africa occidentale è situato all'interno e senza sbocchi sul mare. Il territorio, caratterizzato dalla particolare forma a clessidra obliqua, è abitato da una pluralità di etnie disomogenee (il 90% dei maliani appartiene a etnie sub sahariane). Il gruppo principale è della lingue mandè, diffuse in tutta l'Africa Occidentale al quale appartengono i Mandinka ed i Bambara, che oggi costituisce il gruppo predominante in Mali. Il 90% dei maliani è musulmano, sebbene sopravvivano nelle varie etnie residui animistici e dei culti gentili. L'Islam maliano si è tradizionalmente contraddistinto per la sua moderazione, e la convivenza con gli altri culti non è mai stata problematica: solo negli ultimi anni si sono diffuse correnti più radicali nel Settentrione del paese. Dopo l'indipendenza nel 1960, il Mali fino al 1968 fu governato in regime di partito unico (la Union Soudanaise) dal socialista e panafricanista Modibo Keīta, di etnia Mandinka. Il 19 novembre 1968, chiamando in causa soprattutto le difficoltà economiche del paese, una giunta militare arrestò Keīta e il
capo del paese divenne il presidente del Comitato Militare putschista, il tenente Moussa Traoré d'etnia Bambara ed educazione francese. Solo nel 1979, dopo il varo d'una nuova costituzione, il suo potere fu legittimato tramite un'elezione alla Presidenza che lo vide unico candidato come lo era anche il partito legale, la Union Démocratique du Peuple Malien istituita lo stesso anno. La repressione dittatoriale, la corruzione e la crisi finanziaria aumentarono il malcontento. Così, all'inizio degli anni '90 iniziarono le manifestazioni che finirono con un nuovo golpe che nel marzo del 1991 destituì Traoré. A sua volta imprigionato e due volte condannato a morte, l'ex dittatore Traoré vive oggi in libertà, in virtù della grazia concessagli nel 2002 dal presidente Konaré. Già a partire degli anni'80 cominciarono a rientrare nel paese un gran numero di Tuareg che erano emigrati in Algeria e Libia. Ciò aveva creato tensioni inter-etniche nel Nord del paese, cui l'allora presidente Traoré aveva risposto con la proclamazione dello stato di emergenza e una dura repressione dei Tuareg, sostenuti dalla Libia di al-Qaddāfī. La politica d'apertura di Konaré, con la creazione della regione di Kidal nell'estremità nord-orientale del Mali e iniziative d'integrazione sociale dei Tuareg, portò solo a una breve tregua. Nel 1994 i Tuareg attaccarono Gao e cominciarono a scontrarsi sia con l'esercito maliano, sia con milizie istituite dai Songhai, subsahariani che vivono nel Nord del paese. Nel 1996 fu raggiunto un accordo di pace, che prevedeva maggiori trasferimenti di denaro dal governo centrale alle regioni tuareg, Kidal in particolare, e la possibilità per i Tuareg di accedere alle cariche e funzioni civili a Bamako. Questa nuova tregua è durata una decina d'anni, dopo i quali gruppi tuareg, scontenti dall'applicazione dell'accordo giudicata insoddisfacente, hanno ripreso le armi. La situazione è degenerata fino a trasformarsi in una nuova aperta rivolta nel 2012.
Tra gennaio e marzo 2012, il MNLA ha rapidamente preso il controllo di gran parte del settentrione del Mali mentre l'esercito fu ripetutamente sconfitto. Il 22 marzo una rivolta militare ha portato alla presa di Bamako e alla proclamazione di un governo di transizione guidato dal capitano Amadou Sanogo che ha portato il disordine e la caduta delle tre maggiori città settentrionali, che erano ancora in mano ai governativi: Goa, Kidal e Timbuctù. Dopo tali conquiste, il MNLA ha proclamato l'indipendenza dell'Azawad. A questo punto i militari ribelli hanno preferito accettare una mediazione della ECOWAS, l'organizzazione di cooperazione degli Stati dell'Africa Occidentale, in virtù della quale Touré è stato sostituito da un presidente ad interim(Dioncounda Traoré della ADEMA) mentre i golpisti hanno ricevuto l'immunità. Alla difficile situazione interna si aggiunge la presenza dei movimenti islamisti nel Nord del paese che presto divennero il veri protagonisti della guerra. Il gruppo principale, rappresentato da ʾ An ṣ ār ad-Dīn con lo scopo di mutare il carattere laico dello Stato ed imporre la sharī ʿ a, dal 2012 combatte con il MNLA. Ne è scaturita una guerra civile che ha portato l'etnia tuareg (laica) del Movimento nazionale per la liberazione dell'Azawad, ad allearsi con alcune frazioni fondamentaliste, che aderiscono al Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, ed ha poi assunto la denominazione di al-Qa'ida nel Maghreb islamico, a prendere il controllo del settentrione del Paese, l'Azawad. Il 10 gennaio 2013 il presidente Dioncounda Traoré, in un discorso alla nazione, ha comunicato di aver chiesto e ottenuto un intervento aereo della Francia, in accordo con l'Ecowas, la comunità economica dei paesi dell'Africa occidentale, contro i ribelli dell'Azawad (il nord del Paese). In seguito all'emanazione di due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU ( 2071 del 12 ottobre e 2085 del 20 dicembre 2012) che prevedono il dispiegamento d'una missione militare africana di supporto all'Esercito del Malli e la presa della città di Konna da parte degli islamisti, i Francesi hanno deciso di passare all'azione in prima persona. L''11 gennaio scorso è stata lanciata la Opération Serval , una campagna d'attacchi aerei contro le postazioni degl'islamisti cui segue l'impiego di truppe terrestri. Motivato dalla volontà di tutelare l'integrità territoriale del Mali e combattere il terrorismo, il presidente francese François Hollande ha deciso di lanciare una campagna militare a sostegno del governo di Bamako contro i ribelli islamisti del Nord.
No profit: bilancio di un anno di governo
Il mondo del no-profit ha però presto capito di essere un involontario protagonista della spending review. Tra i primi tagli giustificati per fare cassa, ecco infatti l'abolizione dell'Agenda del terzo settore, seguita a ruota dall'Osservatorio per il volontariato, il Comitato per i minori stranieri, la Consulta per i problemi degli stranieri immigrati, la Commissione di indagine sull'esclusione sociale e l'Osservatorio di promozione sociale. Vedendo la situazione, i referenti del settore hanno portato all'attenzione di Ministri ed opinione pubblica come i tagli tout-court stessero intaccando la sopravvivenza stessa di tutto il comparto non profitvolontariato. Già ad inizio marzo, il magazine Vita, portavoce accreditato, chiedeva più attenzione al governo tecnico e dichiarava la preoccupazione di fronte a "errori tecnici" che stavano andando a ledere le basi stesse dell'esistenza del Terzo Settore. Quasi avesse recepito il messaggio - ma al contrario - il governo rispondeva in giugno mettendo in forse la disponibilità di fondi per il Servizio civile nazionale 2013."L'esigua disponibilità di fondi assegnati al servizio civile, notevolmente ridotti dalle manovre finanziarie degli ultimi anni, non permetterà, se non ci saranno nuove risorse, la partenza dei volontari nel corso del 2013". Subito dopo questa dichiarazione, il Ministro per la Cooperazione internazionale e l'integrazione aveva aggiunto che avrebbe fatto di tutto per reperire nuovi fondi e cercato di portare il fondo per il servizio civile ad almeno 120 milioni di Euro, speranza vana: la mannaia della legge di stabilità ha raggiunto anche le buone intenzioni di Riccardi e stanziato per il fondo 2013 solo 71,2 milioni di Euro. Ad ottobre alla VI Conferenza Nazionale del Volontariato, il Ministro Fornero annuncia con soddisfazione lo sblocco dei fondi dedicati ai bandi per Associazioni di Promozione Sociale e per le Organizzazioni di Volontariato, rifondendo speranza ma a quasi due mesi dalla dichiarazione, dei bandi non si è avuta ancora notizia alcuna. Il Terzo settore si sente insomma considerato marginalmente e depotenziato nelle sue possibilità di agire per aiutare l'Italia ed auspica per il futuro maggiore attenzione e rispetto. Unica magra consolazione resta la notizia che l'aumento dell'IVA alle cooperative sociali è stato cancellato dalla legge di stabilità: ma anche qui il sollievo pare temporaneo dato che, a quanto sembra, l'innalzamento dovrebbe scattare con il 2014. Quali saranno i rapporti che il mondo del no-profit e del volontariato riuscirà a costruire con il nuovo governo? Ad oggi non è chiaramente dato saperlo, ma ciò che si spera è che la politica capisca che senza il Terzo Settore l'Italia sarà più vicina al collasso economico e sociale.
ONG e le tendenze del web 2.0
I dati ufficiali parlano di 75% di persone che usano quotidianamente i social media mentre i blog sulla rete sono ormai alcune centinaia di milioni e ogni minuto su YouTube vengono caricate 60 ore di nuovi video. Di fronte a così tante voci, come utilizzare al meglio questi strumenti digitali per promuovere una cultura della solidarietà? Sembra che le Ong italiane stanno cogliendo le straordinarie opportunità del cambiamento dato che sono in grado di comunicare e coinvolgere in rete. Secondo i dati della ricerca realizzati da Vps le Ong coinvolte hanno dichiarato di possedere un sito, che solo nel 28,1% dei casi è stato predisposto con la possibilità di commentare il contenuto, mentre il 9,4% ospita uno spazio con uno o più forum per gli utenti. L'81,3% dei siti delle no-profit prevede inoltre uno spazio per donare on-line via carta di credito, PayPal, bonifico bancario o altri servizi di pagamento. Anche qui, il 24,7% delle associazioni dichiara di gestire un blog e il 16,4% ne gestisce più di uno tutto con la cadenza di aggiornamento settimanale. La maggior parte delle Ong partecipanti all'indagine (92,6%) ha attivato almeno un profilo sui social network: facebook, YouTube e twitter i più gettonati, seguiti da Linkedin, Google Plus, Pinterest e Foursquare. L'aggiornamento di questi profili è programmato, e non occasionale, nel 61,3% dei casi. I principali argomenti trattati riguardano la comunicazione sulle attività e gli eventi promossi in Italia, ma talvolta i profili sono usati anche per dare informazioni sul mondo della cooperazione in generale. La maggioranza delle Ong è convinta che la presenza di un profilo sia fondamentale per raggiungere i sostenitori della propria organizzazione (57,4%), mentre non è opinione condivisa che la gestione dei social network vada affidata solamente a personale specializzato (35,2%). Dalla ricerca emerge la novità e il desiderio di far parte del nuovo mondo, quello della comunicazione 2.0. Per raggiungere la propria mission le Ong devono tenere in considerazione l'importanza dei social network in quanto "canale per informare e lanciare eventi e campagne compresa la dimensione sociale in quanto elemento indispensabile per coinvolgere le persone nelle nostre campagne".