Papa giovanni maggio giugn

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(Anno XXXIV Nuova serie - Anno 12 n. 3 - Maggio/Giugno 2013 - Amici di Papa Giovanni - CONTIENE I.R.

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Quel Concilio cambiò il mondo dei mass media

La suora infermiera ricorda: “Chiusi gli occhi al Pontefice”

Il detenuto diventato poeta: “Redento grazie a Roncalli”

Jorge Bergoglio è il primo Papa sudamericano della storia

MAGGIO - GIUGNO 2013

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Sotto la protezione di Papa Giovanni

RicoRDiaMo cHE PER RicEVERE uNo DEi sEguENTi oMaggi: calENDaRio coN la FoTogRaFia DEi BaMBiNi, la PERgaMENa PER il BaTTEsiMo, la PRiMa coMuNioNE, il MaTRiMoNio, E’ NEcEssaRio iNDicaRE l’iNDiRiZZo coMPlETo a cui iNViaRlo

Papà Marco e mamma Valentina chiedono la protezione di Papa Giovanni XXIII per l'adorata Maria Vittoria

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La nonna Vittorina affida i suoi 5 nipoti Vittorio, Gianluca, Nicole, Manuel e Alessia alla protezione di Papa Giovanni

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Inviate la fotografia dei vostri bambini ad:

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«QUEL CONCILIO CAMBIÒ IL MONDO DEI MASS MEDIA»

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PELLEGRINAGGIO DEI FANTI PER ONORARE PAPA GIOVANNI

LA SUORA INFERMIERA RICORDA: «CHIUSI GLI OCCHI AL PONTEFICE»

«CON QUEL GESTO RONCALLI FECE CROLLARE UN MURO»

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IL DETENUTO DIVENTATO POETA: «REDENTO GRAZIE A RONCALLI»

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CASA DELLO STUDENTE: NACQUE NEL 1918 GRAZIE A RONCALLI

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GIOVANNI XXIII, UN PAPA CHE CONTINUA A PARLARE A TUTTI Quel Concilio cambiò il mondo dei mass media

La suora infermiera ricorda: “Chiusi gli occhi al Pontefice”

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(Anno XXXIV Nuova serie - Anno 12 n. 3 - Maggio/Giugno 2013 - Amici di Papa Giovanni - CONTIENE I.R.

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Il detenuto diventato poeta: “Redento grazie a Roncalli”

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Jorge Bergoglio è il primo Papa sudamericano della storia

MAGGIO - GIUGNO 2013

n. 3 bimestrale maggio/giugno

Direttore responsabile Claudio Gualdi

MADAGASCAR: UNA SCUOLA INTITOLATA A PAPA GIOVANNI

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ELETTO IL NUOVO PONTEFICE: È JORGE BERGOGLIO

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PAPA FRANCESCO TELEFONA A CAPOVILLA PER RINGRAZIARLO

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PUBBLICAZ IONI

«QUEL CONCILIO CAMBIÒ IL MONDO DEI MASS MEDIA» Il Vaticano II non fu una rivoluzione solo per la Chiesa ma anche per la comunicazione

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Se Pio XII aveva intrapreso con tenacia un rapporto con la radio e aveva affrontato con precisione e competenza questioni relative ai media e al cinema in particolare, certamente fu Giovanni XXIII a iniziare un rapporto davvero privilegiato con il giornalismo e i giornalisti». Così inizia l’articolo, a firma di Mariella Radaelli, pubblicato alla fine dello scorso gennaio sul quotidiano L’Eco di Bergamo. Il servizio, che intende mettere a fuoco una svolta più che significativa attuata dal Pontefice bergamasco, così prosegue. Monsignor Dario Viganò, appena nominato direttore del Centro Televisivo Vaticano, ha ricordato l’apertura di Papa Roncalli al mondo della comunicazione. E lo ha fatto nell’occasione della presentazione milanese – avvenuta a Palazzo Isimbardi – del suo libro «Il Vaticano e la comunicazione. Una rinnovata storia tra Vangelo e società» (edizioni Paoline). La pubblicazione miscela con intelligenza indagine storica, analisi sociologica e riflessione teologica. Monsignor Viganò aggiunge: «Il Concilio Vaticano II che ha dato molti frutti – ne sta dando e ne darà ancora – fu un evento davvero pensato subito per

i mezzi di comunicazione. Basti dire che mentre il Concilio precedente occupava un transetto della basilica papale, con il Concilio II tutta la basilica si rese necessaria...». Emilio Carelli, giornalista Sky, che ha coordinato la presentazione del volume, ha sottolineato che «i lavori conciliari all’inizio erano coperti dal segreto, mentre poi affollarono sempre di più le cronache». L’evento del Concilio in pratica coincise con l’esplosione dei mass media. Non a caso Paolo Mieli, intervenuto alla presentazione del libro, ha definito il Concilio Vaticano II «un vero big bang per l’informazione non solo vaticana, ma per l’informazione tutta». Il presidente Rcs Libri, ha ricordato poi che col Concilio Vaticano II nasce la figura del vaticanista, «una rivoluzione», e poi c’è «la rivoluzione nella rivoluzione, rappresentata dal fatto che il Concilio influenza quella che sta diventando la tv di Stato, nel modo di interpretare la società in modo moderno, dna appunto della tv di Stato». Paolo Mieli ha poi evidenziato anche il «taglio inedito, curioso e interessante» sul Concilio dato da monsignor Viganò, quello dell’apertura alla comunicazione, favorita sostanzialmente dal clima politico molto particolare di svolta nel mondo, dalla politica del disgelo avviata da Krusciov, che denuncia i crimini di Stalin, alla presidenza americana del cattolico Kennedy. Da questo particolare clima storico è favorita la nascita dello stile radicale di Papa Roncalli, «quel suo pontificato di svolta, foriero di primavere dello spirito», ha precisato Viganò. Ha quindi commentato Aldo Grasso: «Il Concilio incontra la tv. Il Concilio è il primo grande evento mediatico non sportivo, dopo le Olimpiadi». Secondo il critico televisivo, tutto il libro di Dario Viganò «si basa su un curioso paradosso sempre sottaciuto ma presente», cioè il fatto che «è toccato

Un suggestivo scorcio della Basilica di San Pietro

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all’uomo più lontano dalla modernità e anche diffidente nei confronti della modernità l’essere l’uomo della svolta quanto ai rapporti con la comunicazione, ovvero con la stampa e le televisioni». Grasso ha aggiunto su Papa Roncalli: «Il Papa più antimoderno, che diffidava della psicoanalisi e addirittura anche delle automobili, viene travolto dalla comunicazione. Una cosa inaspettata». E a questo proposito ha citato un documentario su Roncalli diretto da Lazzaretti, «un remake di Pastor Angelico diretto nel 1942 da Romolo Marcellino, film su una giornata di Pio XII, che recita da Dio – permettetemi l’espressione – così carismatico che sembra un Amedeo Nazzari... ». Grasso ha così proseguito: «Al contrario il dramma è che il documentario sulla giornata tipo di Papa Roncalli, sempre ritratto nei giardini vaticani, fa emergere una figura quasi imbarazzante che non ha nulla di carismatico, e che si muove come un contadino. Eppure il miracolo avviene». Basti pensare al famosissimo discorso della luna, che fa diventare Giovanni XXIII «un’icona popolare in tutto il mondo, assieme con Kennedy e Krusciov. Si va oltre la fisicità...», ha concluso Aldo Grasso. Nella sua pubblicazione monsignor Viganò ribadisce le straordinarie qualità diplomatiche di Papa Roncalli, anche «raffinato amante della storia, ma certo quanto alle idee della comunicazione sociale dovette essere aiutato dal cardinale Bea. All’inizio, nelle commissioni non c’era l’idea delle comunicazioni». L’ufficio stampa in Vaticano venne «inventato» nell’aprile del 1962 e «all’inizio aveva il compito non tanto di comunicare ma di tenere lontana la comunicazione. Insomma c’era il segreto...», spiega lo storico Philippe Chenaux, docente alla Lateranense di Storia della Chiesa, nonché direttore del Centro Studi sul Concilio Vaticano II. «Fu il suo successore Papa Montini a istituire nel 1966 la sala stampa, alla fine del Concilio, e a chiamare in sala stampa i giornalisti. Il Papa per la prima volta in questo ambiente, una cosa impensabile, contemplarlo addirittura tra i monitor!», sottolinea Chenaux. Per forza, Montini era figlio di un giornalista, e anche molto impegnato, ha concluso Mieli. Giorgio Montini, infatti, era stato direttore del «Citta-

I Padri entrano nella Basilica in occasione dell’apertura del Concilio

dino di Brescia», quindi «Paolo VI era molto sensibile ai problemi dell’informazione». E così si incominciò a comprendere il fecondo reciproco rapporto tra Chiesa e comunicazione: «All’inizio i poveri giornalisti si trovavano con i comunicati dell’Osservatore scritti in latino. Ma poi si vennero a creare questi gruppi di cronisti che si incontravano a cena con i padri conciliari... Lentamente i quotidiani riuscirono a strappare agli stessi padri conciliari il dibattito...». Infine, monsignor Dario Viganò, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, nonché direttore della «Rivista del Cinematografo», ha accennato al suo nuovo ruolo di direttore del Centro Televisivo Vaticano. «Io mi inserisco – ha sottolineato – nella scia di lavoro... Un aspetto importante che vorrei valorizzare sempre di più sono i digital media. Credo che si debba andare a intensificare sempre di più la collaborazione tra gli asset della comunicazione vaticana, per cercare di arrivare sempre meglio alle Chiese lontane». 5

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INCONTRI

«IL VATICANO II, UN PERCORSO CHE DEVE ESSERE PROSEGUITO» Questo il tema delle riflessioni proposte dal teologo e politologo Bartolomeo Sorge

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empre sul tema del Concilio proponiamo un articolo di Giulio Brotti, pubblicato a febbraio su L’Eco di Bergamo, in cui si parla di un evento importante. Il gesuita Bartolomeo Sorge, classe 1929, teologo e politologo, già direttore de «La Civiltà Cattolica» e di «Aggiornamenti sociali», è stato a Nembro (Bergamo), su invito del locale circolo delle Acli e della parrocchia di San Martino. All’Auditorium parrocchiale Giovanni XXIII, nel secondo incontro di un ciclo dedicato al lascito spirituale del Vaticano II, ha dialogato con l’aclista Daniele Rocchetti sul tema «Il Concilio davanti a noi, tra memoria e futuro». «A mio giudizio – ha detto padre Sorge – la Chiesa nel corso di questi ultimi 50 anni ha fatto molto per quanto concerne i rapporti con il mondo circostante:

penso, ad esempio, ai grandi progressi compiuti nel dialogo con le diverse culture, o nell’impegno per la pace e per la giustizia sociale. Credo, invece, che abbia proceduto a rilento il rinnovamento all’interno della Chiesa, benché il Concilio avesse chiaramente indicato una serie di questioni cruciali al riguardo: non si è ancora attuata una piena valorizzazione del laicato, ad esempio, così come non è ancora perfettamente maturata la consapevolezza del valore della collegialità dei vescovi». La memoria del Concilio non è comunque esposta al rischio di ridursi alla doverosa celebrazione di un evento passato, senza ricadute sul nostro presente? «In effetti, non bisogna guardare al Vaticano II come a un episodio da ricordare, ma come all’inizio di un percorso che giunge fino a noi, e che chiede di essere proseguito. Oserei perfino dire che è sbagliato considerare il Vaticano II come il 21° Concilio ecumenico della storia, perché esso ha costituito un caso a sé: rispetto ai precedenti, il suo compito non era quello di definire dei dogmi o di condannare delle eresie, ma di approfondire la consapevolezza dell’identità della Chiesa e della sua missione nel mondo. Giovanni XXIII intendeva questo, quando diceva, nel discorso dell’11 ottobre 1962, che lo scopo del Concilio era “prevalentemente pastorale”». Oggi, in alcuni ambienti cattolici, si tende un po’ a snobbare il magistero del Vaticano II: si dice che i padri conciliari adottarono un approccio «ingenuamente ottimista» alla modernità, immaginando che i problemi sociali e spirituali del tempo fossero naturalmente avviati a una soluzione… «Che nella stagione del Concilio si fosse diffuso un grande ottimismo, è vero; che questo fosse un segno di ingenuità, non lo credo proprio. Certo, nel frattempo il mondo è radicalmente cambiato; tuttavia, il Vaticano II ha posto le premesse affinché la Chiesa risulti all’altezza dei nuovi problemi».

Una seduta del Concilio Vaticano II in San Pietro

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APPUNTAMENTI

PELLEGRINAGGIO DEI FANTI PER ONORARE PAPA GIOVANNI In centinaia si sono recati a Sotto il Monte. L’incontro con monsignor Loris Capovilla

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entinaia di fanti, patronesse e amici del fante con le loro famiglie, domenica 10 marzo sono arrivati in pellegrinaggio a Sotto il Monte per onorare la memoria dell’illustre Fante Beato Papa Giovanni XXIII. La prima tappa dei partecipanti è avvenuta alla Casa del Pellegrino, dove sono stati accolti e dove hanno iniziato a conoscere attraverso un video di presentazione i luoghi giovannei. Subito dopo i presidenti delle 33 sezioni bergamasche con i loro labari, i medaglieri e le bandiere hanno raggiunto la sala consiliare dove si è svolta l’assemblea della federazione provinciale di Bergamo, presieduta dal Maestro del lavoro Antonio Beretta, presidente provinciale e nazionale dell’associazione Fanti. Nel pomeriggio i pellegrini hanno incontrato monsignor Loris Capovilla, già segretario di Papa Giovanni XXIII, nel cortile di Ca’ Maitino. Prima di impartire la benedizione – anche a diversi gruppi arrivati da località fuori provincia – monsignor Capovilla ha ricordato la vita militare di Papa Giovanni nei primi anni del Novecento, quando era ancora chierico e svolgeva il servizio di leva alla caserma Montelungo, nel 73° reggimento fanteria (ora è patrono dell’Esercito italiano). In particolare Capovilla ha sottolineato il servizio di assistenza sanitaria oltre che spirituale offerto ai militari. Dopo il sacerdozio, fu richiamato dall’Esercito durante la Prima guerra mondiale, occupandosi sempre dell’assistenza sanitaria e morale dei giovani presenti al fronte. «Dimostrare nei fatti e non solo a parole il mio vero amore per la patria» è spesso citato nei suoi scritti. Monsignor Capovilla ha infine ringraziato il presidente Antonio Beretta per la bellissima rievocazione che hanno fatto i fanti del viaggio del milite ignoto da Aquileia a Roma: lui stesso, da bambino, era

rimasto commosso dalla partecipazione di popolo a quel viaggio. E’ seguita la Messa nella cappella della Pace, celebrata da don Marco Cornali di Torre de Busi (Bergamo), figlio di un fante, che nell’omelia ha ricordato Papa Giovanni «come fante, lui che ha saputo gustare la bontà del Signore in ogni momento della sua vita, anche durante il servizio militare». Dal diario del futuro Papa Giovanni XXIII è possibile leggere il seguente stralcio: «Domani parto per il servizio militare in sanità. Dove mi manderanno? Forse sul fronte nemico? Tornerò a Bergamo oppure il Signore mi ha preparato la mia ultima ora sul campo di guerra?». Nel corso dell’assemblea provinciale della federazione l’assessore comunale Maria Grazia Dadda ha dato il benvenuto ai fanti a nome del sindaco Eugenio Bolognini e di tutta la città. L’appuntamento ha visto la presenza dei nipoti del Pontefice bergamasco, Letizia e Flaviano Roncalli.

I luoghi giovannei del pellegrinaggio

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TESTIMONIANZ E

LA SUORA INFERMIERA RICORDA: «CHIUSI GLI OCCHI AL PONTEFICE» Gli ultimi giorni di vita di Papa Giovanni nel racconto di suor Dalmaziana Bonalumi

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Il giorno in cui Papa Giovanni morì io ero lì, accanto al suo letto. Momenti che non sono mai riuscita a dimenticare e che non potrò mai scordare. Ero stata mandata perché ero una giovane infermiera suora. Io ero lì con Madre Zaveria, con suor Prima Rosa e con suor Nazarita». Così inizia un recente articolo, a firma di Paolo Aresi, pubblicato sul quotidiano L’Eco di Bergamo, che ripercorre gli ultimi giorni di vita di Papa Giovanni XXIII attraverso una testimonianza. Non una qualsiasi, ma quella di una religiosa abituata a tendere una mano verso le persone che ne hanno bisogno, e tuttavia quell’esperienza fatta a Roma si rivelò per lei unica. Suor Dalmaziana Bonalumi oggi ha 79 anni e trascorre

i suoi giorni nella casa delle suore delle Poverelle a Torre Boldone, Comune che sorge a ridosso di Bergamo. Tra l’altro le suore delle Poverelle – come ha confermato l’intervistata – erano al servizio del Pontefice. Suor Dalmaziana è vestita di bianco, sta stirando, si ferma per questa chiacchierata che le permette di aprire la porta di indimenticabili ricordi e forti emozioni. Come è accaduto che è stata inviata dalle suore delle Poverelle a Roma, dal Papa? «Al servizio del Papa c’eravamo noi suore delle Poverelle, forse perché Giovanni XXIII era molto devoto al nostro fondatore, don Luigi Palazzolo. Io ero giovane, avevo fatto la scuola per diventare infermiera e avevo già accumulato una buona esperienza». Ricorda il suo arrivo nella capitale? «Facemmo il viaggio da Bergamo in treno, di notte, eravamo un gruppetto, arrivammo al mattino a Roma. Io non sapevo quale fosse davvero la mia destinazione. Scendemmo dal treno, ad aspettarci c’era suor Zaveria che chiese chi fosse suor Dalmaziana. Così mi presentai e a quel punto mi disse di seguirla. Fuori dalla stazione ci aspettava un macchinone, scesero degli uomini vestiti di blu. Fu allora che suor Zaveria mi disse che dovevo fare l’infermiera per il Papa. Cominciai a tremare dentro di me. Una reazione più che comprensibile. Era il 2 ottobre del 1962». Quando incontrò Giovanni XXIII? «Lo incontrai alle quattro del primo giorno, mentre beveva il tè al suo scrittoio, era tutto vestito di bianco. Mi trovai davanti a Papa Giovanni, mi misi in ginocchio e subito lui mi disse: “Su, su Paladina!”. Paladina è il mio paese di nascita (si trova in provincia di Bergamo). Si alzò dal tavolo e andò in biblioteca a cercare il volume riguardante la vita di San Dalmazio e me lo portò. Poi mi disse che certamente era un onore servire il Papa e che però anche in questo ci sarebbe stata comunque una croce».

Papa Giovanni, già sofferente, durante una celebrazione

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Il Papa era già malato? «Certo, è proprio per il suo stato di salute che mi hanno mandata. Il tumore allo stomaco era ormai in fase avanzata. Ricordo gli esiti degli esami del sangue, ricordo la carenza di globuli rossi e che bisognava effettuare delle trasfusioni. Una volta ero in casa da sola, non ricordo per quale motivo, non riuscivo a mettermi in contatto con i medici e il Papa stava male, aveva tremori forti. Io per fortuna avevo già una certa esperienza in campo sanitario, così pensai subito a un farmaco antiallergico, il Trimeton. Mi recai poco dopo nella farmacia vaticana e non esitai a prenderlo. Andò bene. Io penso che l’Angelo custode mi abbia aiutato in quella circostanza». Soffriva molto il Papa? «Ricordo una volta che eravamo al suo capezzale, io a destra e don Loris Capovilla a sinistra. Il Papa mi fece cenno di spostarmi perché mi trovavo davanti al Crocefisso. Gli ultimi giorni sono stati di grandi sofferenze per il Pontefice. Ricordo che venne a visitarlo il vescovo di Bergamo, monsignor Piazzi. Stava male, ma volle recitare il Rosario fino all’ultimo. Da quel che vedevo doveva sopportare dolori molto forti. C’era allora una diversa mentalità della sofferenza, ancora non si consideravano più di tanto gli antidolorifici. C’era tanta sofferenza nel Papa, ma mai disperazione e nei momenti più difficili invocava San Vincenzo». Suor Dalmaziana, quale fu la sua formazione? «Volli diventare suora a ogni costo, ma mio padre me lo impediva. Potei cominciare questo percorso soltanto al compimento della maggiore età, a ventuno anni. Feci la scuola per infermiere a Roma, poi ebbi diverse esperienze a Milano e a Varese». Lei arrivò in coincidenza con il Concilio. «Sì. Il Papa ce ne parlava la sera quando lo incontravamo per dire il Rosario insieme, parlava di alcuni momenti, delle speranze che nutriva ma anche delle preoccupazioni che dopotutto nutriva. A proposito del Rosario: mi ricordo che suor Zaveria lo recitava con estrema lentezza, una volta il Papa si voltò e disse in bergamasco: “Su, su suora, pestì mìa la nif, non pesti la neve”. Io preparavo la tavola, il Papa mangiava da solo. Don Loris si limitava a consumare un’insalata e una bistecca, mangiate in fretta. Ricordo che il Papa gli diceva: “Mangi con più calma, monsignore”».

Gli atteggiamenti di Giovanni XXIII non erano condivisi da tutti, in Vaticano. «Una volta ci disse: “Qualcuno dice che sono comunista, ma non è così. Il fatto è che io voglio bene alle persone”. Poi ripeteva che bisogna cercare sempre quello che unisce, non quello che divide. Era del tutto contro le scomuniche, diceva che la Chiesa doveva pensare in modo diverso, che non poteva limitarsi a condannare, ma che doveva capire la gente, capire i giovani, capire chi sbaglia. Sì, sapevamo che qualcuno non condivideva le sue aperture». Il Papa parlava mai della sua morte? «Un giorno chiese al professor Valdoni quanto gli restava da vivere. Il professore gli rispose con franchezza: “Circa tre giorni”. Allora il Papa rispose: “Le valigie sono già pronte” e chiese che gli si amministrassero subito i sacramenti». Che cosa ricorda degli ultimi istanti? «Quando è morto c’era lì don Loris. Il Papa morì tranquillamente, dopo tanti dolori. Il decesso avvenne di sera, quando mancavano dieci minuti alle otto di quel 3 di giugno. Aveva risposto al Rosario fino a pochi minuti prima. C’era don Loris che piangeva, e piangevo anch’io. Io ero l’infermiera, gli chiusi gli occhi e la bocca. Sul suo comodino aveva il libro della beata Gemma Galgani, una donna straordinaria. Adesso quel volume ce l’ho qui con me, l’ho letto e riletto. Ogni volta penso a quei momenti e prego il nostro Papa Giovanni».

Suor Dalmaziana Bonalumi nella casa delle Poverelle

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INTER V IS TE

«CON QUEL GESTO RONCALLI FECE CROLLARE UN MURO» Il rabbino capo di Roma: «La sua benedizione agli ebrei fu un segno rivoluzionario» Papa Giovanni XXIII viene spesso ricordato non soltanto per la sua personalità, ma soprattutto per aver istaurato, attraverso inedite iniziative, quello che molti hanno definito un cambiamento di clima nella chiesa. Basti sottolineare che prima di lui i Pontefici si spostavano pochissimo dal loro quartier generale in Vaticano per andare incontro ai fedeli o affrontare dei viaggi. Per non parlare poi della sua intuizione di indire il Concilio ecumenico, poi proseguito dal suo successore Papa Paolo VI. Angelo Roncalli ha scritto quindi numerose e interessanti pagine nuove. Ciò premesso, Emanuele Roncalli, giornalista e pronipote del Pontefice bergamasco, attraverso un’intervista pubblicata a gennaio su L’Eco di

Bergamo ha riportato d’attualità un gesto storico fatto dal Papa. Proponiamo tale servizio ai nostri lettori.

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manuele Roncalli, giornalista e pronipote del Pontefice bergamasco, attraverso un’intervista pubblicata a gennaio su L’Eco di Bergamo ha riportato d’attualità un gesto storico fatto dal Papa. Proponiamo tale servizio ai nostri lettori. Il Papa fa fermare sul Lungotevere il corteo pontificio per benedire gli ebrei che, di sabato, escono dalla Sinagoga. E’ il 1959 e quel Pontefice è Giovanni XXIII. Dopo 54 anni, quell’episodio non è mai stato dimenticato. Lo avevano già ricordato Giovanni Paolo II e il rabbino Elio Toaff. «Il primo segnale rivoluzionario verso gli ebrei prima ancora che il Concilio», così si espresse il Papa polacco. «Un gesto che gli valse l’entusiasmo di tutti i presenti che circondarono la sua vettura per applaudirlo e salutarlo», scrisse nella sua autobiografia Toaff. «Fu un gesto di grande simbolismo», dice oggi il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni. Quale pensiero le suscita l’immagine del Papa fermo sull’auto che benedice gli ebrei davanti alla Sinagoga? «Bisogna ricordare l’atmosfera di quei tempi, il muro di gelo fra cattolici ed ebrei. Si trattò di un gesto simbolico semplice, ma di grande significato. Un segnale che si voleva abbattere ogni barriera, mostrando un atteggiamento di simpatia che fino a quel momento non c’era stato. E’ stato vissuto come l’inizio di un cambiamento di clima. Anche se il gesto della benedizione non era un modo paritario di creare un rapporto fra i due mondi. Ma è stato un gesto di attenzione». Attenzione che Roncalli ebbe verso gli ebrei an-

10 marzo 1963: il Papa visita la parrocchia del quartiere Laurentino

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in ter viste

che negli anni trascorsi in Oriente e come NunDa Roncalli a Ratzinger. Lei ha detto che i rapzio a Parigi… porti con Benedetto XVI sono quelli di buon vi«In effetti ho letto di alcuni episodi che lo hanno cinato… visto adoperarsi per aiutare gli ebrei. So anche di «L’ultima volta l’ho incontrato durante la visita uffamiglie che vennero a ringraziarlo in Francia». ficiale alle Fosse Ardeatine. Dal suo punto di vista, La Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg secondo il suo temperamento e il suo carattere – ha documentato l’aiuto offerto da mons. Ronquello sostanzialmente di studioso – Papa Ratzincalli agli ebrei perseguitati durante l’Olocausto ger ha sempre mostrato estremo interesse rispetto e ha consegnato i dati della sua indagine allo Yad alla ricchezza del patrimonio culturale e spirituale Vashem, con «ferma raccomandazione che queebraico. Numerosi sono i suoi messaggi di attensta prestigiosa entità conferisca il titolo di Giuzione. E’ un uomo dotto che apprezza la ricchezza sto tra le Nazioni ad Angelo Giuseppe Roncalli». della nostra tradizione». Lei cosa ne pensa? Era stato così anche con Giovanni Paolo II? «Ci sono regole e procedure particolari che devo«Ogni Papa ha avuto un suo ruolo. Wojtyla ha porno essere seguite per attribuire il titolo di Giusto. tato avanti le aperture di Roncalli». Normalmente questo titolo viene dato a chi ha Ratzinger ha definito gli ebrei «Padri nella fede», fornito aiuti a rischio della propria vita. Non so se Wojtyla i «nostri fratelli maggiori». Un’espresquesto sia accaduto nel caso di mons. Roncalli. Si sione quella del Papa polacco che non tutti gli badi bene, con questo non intendo in alcun modo ebrei hanno condiviso. sminuire l’aiuto del nunzio che è ampiamente do«Bisogna fare dei distinguo e non alimentare anicumentato e del quale si parla in numerose pubblimosità. L’espressione “fratello maggiore”, come ha cazioni. L’intervento di Roncalli c’è stato. Piuttosto detto anche Benedetto XVI nella tradizione ebraiandrà studiato l’esatto ruolo del futuro Giovanni ca è anche il fratello perdente. Tuttavia credo che XXIII quand’era in Francia. Sappiamo pure che come espressione comune dell’uomo della strada come nunzio doveva eseguire ordini di Roma e non sia positiva. Esprime qualcosa di importante. Del erano ordini simpatici, a proposito dei bambini resto noi – posso ben dire – siamo più antichi». ebrei nascosti nei conventi francesi di cui le organizzazioni ebraiche chiedevano la restituzione». Torniamo al pontificato di Roncalli. Con il Concilio si ebbero passi avanti nel rapporto con gli ebrei. «Certamente Giovanni XXIII con la promulgazione del Concilio e con una commissione ad hoc diede una spinta propulsiva, ma va ricordato anche che fu Paolo VI a promulgare la Dichiarazione Nostra Aetate che deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo da chiunque, come si legge appunto Angelo Roncalli a Istanbul, in Turchia, con un gruppo di bambini polacchi nel decreto». 11

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P ER S ONA GGI

IL DETENUTO DIVENTATO POETA: «REDENTO GRAZIE A RONCALLI» Dice: ho vissuto per strada dove l’insegnamento era la violenza, ma mi sono ritrovato

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ifiuta l’etichetta del personaggio e ogni altra definizione. Lui è Alfredo Bonazzi, 84 anni, poeta, uomo impegnato contro la degenerazione di manicomi e carceri, realtà che ha conosciuto e dalla quale è uscito con la grazia del presidente della Repubblica Giovanni Leone. Poeta autentico, tanto da aver vinto un concorso, mettendo in fila dietro di sé «monumenti» come Eugenio Montale e Attilio Bertolucci. Così inizia l’interessante articolo a firma di Emanuele Roncalli che nello scorso dicembre è stato pubblicato su L’Eco di Bergamo. Si tratta di una toccante testimonianza. Il servizio così prosegue. Ma Bonazzi è un nome che sovente si è incrociato con quello di Giovanni XXIII. Lo ripete spesso: «Ho scoperto Dio quando morì Papa Giovanni». Una devozione, quella per il Pontefice bergamasco, che nasce da lontano e che il poeta – originario di Atripalda e oggi residente nel Vicentino – dice di aver avuto come una folgorazione in quel lontano 26 dicembre 1958, quando Papa Roncalli andò a visitare i carcerati di Regina Coeli. Bonazzi non era là, ma in un altro istituto penitenziario lontano da Roma. Non vide dunque la disperazione e la speranza unite in quel giorno.

Ma quell’evento, vissuto alla radio e sui giornali, lo avrebbe trasformato. Il discorso del Pontefice nel carcere romano lo conosce a memoria, e per ogni passo ha dedicato le sue poesie sfociate nell’antologia «Quel giorno di uve rosse», un best seller ormai introvabile. Bonazzi così scrive nella premessa: «In questo tempo di attesa messianica, quando professarsi cristiani significa apparire ingenui, se non addirittura ridicoli, mi è infinitamente caro rievocare la visita di Papa Giovanni alle carceri di Regina Coeli. L’interpretazione che ho tentato di dare con il linguaggio poetico al suo discorso rivolto ai detenuti il 26 dicembre 1958 vuole essere un atto riverente e un omaggio filiale. Prima di accingermi al gravoso compito, ho guardato a lungo le mie mani redente da un battesimo di lacrime e dal dono della poesia fatto agli uomini». Il poeta ha così riscritto in versi il discorso del Papa Buono ai carcerati, perché – dice – «quel Papa seppe parlare a tutti, soprattutto agli ultimi, a coloro che avevano sbagliato, ma che avevano ancora menti per pensare, e cuori per amare». Rievocando quel giorno, il poeta usò parole altissime: «Eri il solo / ad avere le viscere in mano / mentre parlavi di poesia / a un mondo incupito, / sanguinante di dolori. / Accanto ai nostri respiri / folla di bimbi inermi/ assisteva muta e devota / al tuo cadere in ginocchio». E nei versi finali «Tu, mite Giovanni, / offerto dal Padre Nostro / alla redenzione difficile / degli orfani d’amore». Ma c’è un altro giorno che Bonazzi ricorda più di ogni altro. «E’ il 3 giugno 1963 – aggiunge – quando la radio annunciò la morte di Papa Giovanni. Ero legato a un letto di contenzione in un manicomio giudiziario, chiesi che mi slegassero il braccio destro per farmi il segno della Croce: mi diedero

Papa Giovanni visita i detenuti nel carcere di Regina Coeli a Roma: è il 26 dicembre 1958

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un pugno in faccia. Scivolai nell’incoscienza, ma in quel frangente ebbi il tempo di ricordare le parole di spietato amore con le quali il Papa si era congedato dall’umanità: “Ho cercato di amare tutti, ho voluto il bene di tutti”. Sì, anche il nostro bene di “pazzi” legati e dimenticati sui letti di forza». Da quel momento la sua vita è radicalmente cambiata. Entrato nel tunnel con la terza elementare, ne era uscito con l’iscrizione alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Padova. In quegli anni si era accostato alla letteratura e alla filosofia, leggendo Joyce e Kant, Croce e Pavese, Ungaretti e Montale. Quel Montale che avrebbe sconfitto al premio «I Pegasi» di Tarquinia: vi arrivò in finale nel 1971 proprio con l’autore di «Ossi di Seppia» e Bertolucci, vinse per acclamazione del pubblico. Nel tempo ha scritto svariate pubblicazione e collezionato decine di premi letterari. Il suo nome compare anche sulle cronache de «L’Eco di Bergamo» dell’ottobre 1972 quando vinse il Premio Letterario Valseriana indetto dalla Pro Loco di Serina. Spedì dalla sua cella la poesia dal titolo «Segrete lontananze» e i giurati ne rimasero commossi. Oggi Bonazzi continua nel suo impegno civile: «Non ho lasciato trascorrere un solo giorno senza interessarmi di quanti sono chiamati alla sofferenza, specie quella del carcere – continua – ma anche per i più infelici portatori di handicap o degli ospiti nelle case di riposo». E’ sempre vicino come lo è stato per decenni da volontario al lavoro di associazioni come il Seac

che accoglie volontari no profit nell’ambito delle carceri; la Fraternità di Verona e la Casa accoglienza di Breganze. «Ciò che ho ricevuto di fiducia, di perdono e di stima – dice Bonazzi – trova nella mia attività il messaggio di Papa Giovanni che nell’amore per l’uomo e solo nell’amore si trova la giusta via di vincere le più assurde battaglie». Nonostante gli acciacchi dell’età, Bonazzi continua a raccogliere storie di disagi, rimorsi e rabbie, riceve sempre lettere. E spesso è invitato a parlare alle scolaresche, a gente comune, della sua poesia. «Nelle mie liriche – dice – parlo di sentimenti. Quei sentimenti che non ho conosciuto quando ero giovane e vivevo per strada dove l’unico insegnamento era la violenza. Ma mi sono ritrovato. E’ dentro di me che ho dovuto fare un cammino enorme. La mia vicenda umana si è conclusa nei migliori dei modi. Ora sono una persona serena. Non ho rancore per nessuno, so di aver ricostruito intorno a me una vita». Bonazzi ha una famiglia splendida, una moglie, due figlie e due nipoti. Mai perdere dunque la speranza? «Certo, la speranza nasce dal fondo dell’abisso. Se io sono disperato, condannato, ecco che può venire fuori tutta la bellezza e la potenza dell’uomo. In quel momento sei senza futuro, eppure senti che un futuro in qualche modo te lo devi inventare. E’ un controsenso, si intende. Però basta che dal fondo intuisca uno spiraglio, perché ce la possa fare. Anche se sarà doloroso arrivare fino in cima. Ma so che la luce esiste. Papa Giovanni mi ha aiutato».

Pellegrinaggio del 40° per gli Amici di Lourdes L’«Associazione bergamasca Amici di Lourdes» compie 40 anni e per l’occasione ha organizzato un pellegrinaggio a Lourdes e Nevers in pullman, dal 19 al 25 giugno. Il 26 giugno 1973, l’allora vescovo di Bergamo monsignor Clemente Gaddi benediceva la neonata associazione, sodalizio fondato tra laici, sacerdoti, suore e, più in generale, pellegrini che

hanno raggiunto la Grotta di Massabielle per «promuovere la diffusione della testimonianza e dell’esperienza vissuta del messaggio e degli insegnamenti del pellegrinaggio a Lourdes» (dallo Statuto dell’associazione). Il pellegrinaggio per il 40° dell’associazione, guidato da don Mario Mangili, partirà da Bergamo con il seguente itine-

rario: Nizza, Marsiglia (santuario della Madonna della Guardia), Carcassonne (con la citè medievale), Lourdes, Albi (cattedrale di Santa Cecilia), Nevers (dove riposa Santa Ber nadette), Grenoble, Corps (santuario della Madonna de La Salette), Passo del Monginevro, Bergamo. Per iscrizioni: Ovet-Centro diocesano pellegrinaggi.

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AV V ENIMENTI

«PAPA GIOVANNI, UNA FIGURA DECISIVA PER IL NOVECENTO» Così lo definisce Ermanno Olmi che nel 1965 girò il film sul Pontefice bergamasco

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on gli piace essere definito «regista cattolico», e in fondo ha ragione. Ermanno Olmi, classe 1931, bergamasco nato alla Malpensata e cresciuto a Treviglio, è uno dei grandi registi del cinema italiano. Sul suo film dedicato a Papa Giovanni i giornalisti Marco Dell’Oro ed Emanuele Roncalli hanno realizzato una pagina su L’Eco di Bergamo che riproponiamo ai nostri lettori. Nel 1965 Olmi girò un film dedicato a Papa Giovanni. Si intitolava «E venne un uomo.... ». Al di là delle qualità artistiche, resta un documento storico importantissimo per capire la figura di Giovanni XXIII. «Una figura di prim’ordine», ricorda Ermanno Olmi. «Perché, vede, l’elezione al soglio pontificio aveva scaraventato su un palcoscenico planetario un uomo che era l’antitesi della spettacolarità. Fino a quel momento Angelo Roncalli era un po’ un oggetto misterioso. Quel che si sapeva di lui era legato alla sua, definiamola così, carriera ecclesiastica, cioè

gli anni nella diplomazia vaticana, prima in Bulgaria e in Turchia e poi in Francia. Non era certo una figura di grande popolarità, nonostante fosse stato anche Patriarca di Venezia». In fondo si sapeva poco anche della sua formazione religiosa. Insomma, il nuovo Papa era uno sconosciuto: «Detta così è un po’ esagerata. Certamente nei giorni successivi all’elezione, furono in molti a voler sapere qualcosa di più su di lui». Fu lui stesso, a presentarsi, nei primi cento giorni da Pontefice: «Sì, la visita ai carcerati, all’ospedale, la gente cominciò subito ad apprezzare i suoi gesti, il suo tratto. La sua figura sviluppava una sorta di magnetismo. La scintilla dell’innamoramento fu un tratto particolarissimo del suo carattere, quella che io definisco “quotidianità soccorrevole”. Un tratto, peraltro, che gli era proprio e che aveva manifestato già da Patriarca di Venezia, dove era sua abitudine camminare nelle calli e avvicinare la gente. Non è mai stato uomo di gerarchia, Papa Giovanni». Roncalli era un uomo di popolo. Ragion per cui lo chiamavano «un buon parroco». Cosa che a molti suonava come un limite, in realtà è quella la funzione vera del sacerdozio. Più si sale nella gerarchia, e più questa attitudine, da parroco di campagna, dovrebbe essere la regola, altrimenti si diventa «uomini di sistema». La scelta del Concilio fu subito percepita nella sua rivoluzionarietà? «E’ difficile, in Papa Giovanni, separare i due livelli, quello diciamo istintivo e quello più strutturato, cioè frutto del ragionamento ponderato. In fondo, il discorso alla Luna, l’incredibile notte in cui mandò una carezza ai bambini, ha avuto una forza di penetrazione nelle coscienze che è difficile quantificare. Noi diciamo enorme, ma forse non è abbastanza: il fatto è che Papa Giovanni a volte preferiva entrare negli uomini attraverso la porta

Margherita Servalli che interpretava la madre del piccolo Angelo

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del cuore, piuttosto che da quella del cervello. A lungo questa sua peculiarità è stata un limite per la piena comprensione del suo pontificato». «Ero io il Papa, non lo dimenticherò» Chiedete a un bambino quale sia il ricordo più bello della sua infanzia e vi dirà un abbraccio della mamma, una festa all’asilo, un amico, forse un gioco. Ma c’è chi vi risponderà: un film. Non un cartoon s’intende, ma un film o meglio un docufilm, oseremmo dire una pellicola cult. Lui è un cinquantunenne bergamasco, i fotogrammi stampati nella sua memoria sono quelli di «E venne un uomo». E come dargli torno. A quattro anni ha vestito – forse inconsapevolmente a quel tempo – i panni del «piccolo Papa Giovanni», divenendo co-protagonista, per così dire, del celebre film di Ermanno Olmi. Fabrizio Rossi – che tra l’altro avrebbe proprio il desiderio di poter un giorno incontrare Olmi – non esita a confermare che quel periodo resta fra i ricordi indelebili della sua prima giovinezza. «Mi rivedo il film – aggiunge – almeno un paio di volte all’anno. E lo faccio vedere ai miei figli. Mi dà sempre grandi emozioni». Rossi abita a Mapello (Bergamo) e lavora nel settore del commercio con la moglie Ornella titolare di alcuni negozi di abbigliamento, uno dei quali anche in via Giorgio Paglia a Bergamo. A distanza di anni il «piccolo Papa Giovanni» rivede con un senso critico la pellicola. «Il film – continua – di per sé mi pare ancora oggi un documentario, ma resta un’opera splendida perché fa vedere i luoghi del paese di Papa Giovanni. Noi Rossi abitavamo nella casa attaccata al palazzo dove nacque Angelo Roncalli, in via Colombera. E lì che Olmi ha trovato me e i miei fratelli, Alberto, che allora aveva cinque anni (nel film, ruba una zucca a un contadino e poi corre a restituirla), e Giovanni, che ne aveva quasi dieci (il bimbo che va a studiare latino a Carvico dal parroco don Pietro Bolis). Eravamo in scala, dal più piccolo, cioè io, al più grande e, siccome ci assomigliamo, eravamo perfetti per raffigurare le diverse età di Angelo Roncalli». E cosa ricorda del regista? «Olmi con noi si è sempre mostrato disponibile, affettuoso e genero-

so – continua Rossi –. Ci dava anche la merenda, durante le pause del film, e qualche buffetto sulla guancia». Nella pellicola c’era anche la sorella Pierangela, che allora aveva dodici anni. Nella mente di Rossi sfilano ancora i volti degli altri protagonisti: Rod Steiger, il celebre attore americano che nel film ha il ruolo del mediatore, Pietro Gelmi (Battista), Rita Bertocchi (mamma del Papa) di Gandino (Bergamo), Antonio Bertocchi, che impersonava lo zio Zaverio, oltre a comparse delle compagnie filodrammatiche locali che hanno fatto a gara per entrare nel set. «Se dovessi incontrare oggi Olmi – conclude Rossi – forse non mi riconoscerebbe. Ma se mi mettessero in mano una scodella capirebbe. Si ricorderebbe di quel bimbo fotografato con il maglioncino bordeaux, appoggiato a un muro, e vicino a un cagnolino». Un’immagine che è poi diventata la cover di vhs e dvd del film venduto in migliaia di copie. A Sotto il Monte intanto il ricordo di quei ciak è sempre vivo, specie fra i più anziani. E non solo perché narrano la parabola di un bimbo diventato Papa, ma perché sono l’affresco autentico di un paese che non c’è più, il racconto di una quotidianità fatta di sacrifici nei campi, di levatacce degli operai per andare nelle fabbriche, lo spaccato di un villaggio in bianco e nero, triste e malinconico, ma ricco anche di piccole e grandi gioie.

Fabrizio Rossi nel film

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A P P UNTAMENTI

CASA DELLO STUDENTE: NACQUE NEL 1918 GRAZIE A RONCALLI A marzo gli ex alunni si sono ritrovati nella struttura da loro frequentata in giovane età

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oco prima delle ultime feste pasquali gli ex alunni della Casa dello studente si sono ritrovati nella struttura da loro frequentata in giovane età, che si trova in via Garibaldi a Bergamo. Un analogo appuntamento viene organizzato, dall’associazione che li riunisce, anche a ridosso del Natale. Quest’anno, in occasione del 50° anniversario della scomparsa di Papa Giovanni, artefice di questo progetto rivolto agli alunni, è stato realizzato un dvd dove vengono narrate le evoluzioni che hanno contrassegnato la Casa dello

studente. In concomitanza con il raduno gli organizzatori hanno ricevuto una lettera da mons. Loris Capovilla il quale ha ricordato che il 3 giugno del 1962 una delegazione di 40 allievi della Casa dello studente si recò in Vaticano dove fu accolta da Papa Giovanni. Gli ex alunni, inoltre, all’inizio di giugno saranno a Roma per portare un simbolico saluto al Pontefice bergamasco. Circa 150 i presenti all’appuntamento dello scorso 17 marzo nel complesso di via Garibaldi e fra loro molti ex alunni che oggi superano gli 80 anni. Tra gli intervenuti anche don Guglielmo Micheli, direttore della Casa a cavallo degli anni SettantaOttanta. Lungo il corridoio sono state esposte centinaia di foto in bianco e nero di alunni raccolte in pannelli. «La nostra associazione – ha detto Roberto Montuori, del consiglio direttivo – è nata nel 1955 grazie alla volontà di don Giacomo Pezzotta che ha pensato di riunire tutti gli ex alunni per offrire loro la possibilità di rivedersi e ricordare i tempi della loro gioventù, anche se ormai questa scuola non è più da parecchi anni la Casa dello studente». Un tuffo a ritroso nel tempo può essere utile per comprendere meglio come prese vita questa struttura. A Bergamo, nei primi decenni del 1900, le scuole statali secondarie, inferiori e superiori erano quasi tutte ubicate in Città Alta. Don Angelo Roncalli è stato accanto a monsignor Radini Tedeschi come segretario dal 1905 al 1914. I problemi della scuola erano tra quelli che maggiormente stavano a cuore al vescovo. A don Angelo Roncalli la crescita della popolazione studentesca non sfuggiva. Anzi, rimase molto coinvolto da questo incremento. Intuì che si trattava di un fenomeno in continua espansione. Il contatto con le sofferenze della guerra lo portò a sentire ancora più intensamente come un dovere l’interessarsi con particolare solle-

La copertina dell’opuscolo che ricorda il legame tra la Casa e Roncalli

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citudine degli studenti e delle loro difficoltà. Quindi il 25 novembre del 1918 fondò questa struttura in via S. Salvatore in Città Alta, poi spostata in via Garibaldi. Nei tre anni successivi don Angelo ipotizzò di aprire altre due sedi, chiedendo la collaborazione dei suoi confratelli, i preti del Sacro Cuore. Ma quando nel 1921 dovette lasciare Bergamo, per seguire a Roma le Pontificie Opere Missionarie, il suo progetto delle tre sedi non continuò. Grazie però al coinvolgimento della comunità dei preti del Sacro Cuore, cominciò a crescere l’unica Casa dello studente di via Garibaldi, che giunse ad avere oltre cinquecento allievi delle scuole medie. E’ in questa storia che si inserisce l’associazione ex alunni della Casa dello studente, avviata nel 1955 dall’allora direttore don Giacomo Pezzotta. Seguirono i seguenti altri direttori tra i preti del Sacro Cuore: don Mario Ravasio, don Piero Ceribelli, don Erminio Brasi, don Guglielmo Micheli e don

Inaspettata visita, nel 1954, alla Casa dello studente del patriarca di Venezia

Adriano Sana. Nel 1972 l’immobile venne trasformato nella media Giovanni XXIII e infine nel 2003 è subentrata in questo edificio la scuola paritaria Beata Capitanio. Luna Gualdi

A Roma con il vescovo ricordando Papa Giovanni A Roma nei giorni dell’agonia e della morte di Papa Giovanni, cinquanta anni dopo. A Roma per pregare, per visitare i luoghi di don Angelo Roncalli, per cercare di entrare nella sua spiritualità, nel senso profondo del Concilio che Papa Roncalli volle indire, il Concilio ecumenico che avviò il cambiamento della Chiesa verso forme di annuncio del messaggio evangelico in sintonia con il tempo. Il pellegrinaggio diocesano a Roma è stato presentato lo scorso febbraio nella Curia vescovile di Bergamo da monsignor Vittorio Nozza, vicario episcopale per i laici, monsignor Alberto Carrara, delegato vescovile per la cultura e le comunicazioni sociali, don Gianluca Salvi, direttore dell’ufficio diocesano pellegrinaggi e Paolo Morosini della Ovet. Il pellegrinaggio partirà il 31 maggio

e il ritorno è in programma per il 4 giugno. Sono tuttavia previste anche soluzioni diverse. Monsignor Vittorio Nozza ha richiamato il senso di questo pellegrinaggio riferendosi alla volontà del vescovo di immergersi nel pensiero di Papa Giovanni, di valorizzare la scelta del Concilio Vaticano, ripercorrendo anche l’itinerario del pellegrinaggio di Papa Giovanni alla vigilia di quel grande evento. I pellegrini bergamaschi arriveranno a Roma ripercorrendo – a ritroso – il percorso del Papa, toccando la Santa Casa di Loreto e poi arrivando alla tomba di San Francesco. Monsignor Carrara ha sottolineato il valore delle forti radici del Papa, che anche grazie al suo senso di appartenenza è riuscito ad aprirsi al mondo come forse nessun altro Pontefice prima di lui. E quel senso di appartenenza era

profondamente legato a Bergamo. Come ha scritto il vescovo nella lettera inviata ai pellegrini: «Prima di essere Giovanni XXIII, fu un giovane prete partito dalla nostra terra e che ha percorso, con la semplicità della fede e l’audacia dell’obbedienza, le vie della storia “Con Bergamo nel cuore”, così come scriveva nel diario dell’anima». Don Gianluca Salvi ha illustrato il programma, quello più ampio che parte il venerdì 31 maggio e si prolunga per cinque giorni. Un’altra possibilità prevede la partenza domenica 2 giugno e il rientro il 4 giugno. Per chi non potesse assentarsi per più giorni è previsto anche un viaggio in aereo con partenza lunedì 3 giugno da Orio al mattino presto e ritorno alla sera. Per le iscrizioni è possibile rivolgersi alla Ovet (www.ovetviaggi.it, telefono 035-243723).

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INTER V IS TE

«IL CONCILIO HA INTRODOTTO UN RINNOVAMENTO RADICALE» Lo dice il «cardinale lavavetri» di Praga, al quale il regime impose lavori umilianti

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l cardinale Miloslav Vlk, arcivescovo emerito di Praga, è una figura di spicco della Chiesa dell’Est. Durante il regime comunista ha vissuto la sofferenza degli attacchi alla religione cattolica, sperimentando sulla sua pelle la durezza del carcere. In un articolo tratto da L’Eco di Bergamo proponiamo l’intervista a lui fatta da Emanuele Roncalli. Eminenza, la chiamano il «cardinale lavavetri» perché sotto il regime fu costretto a svolgere lavori umilianti. Come è riuscito a risollevarsi? «In quegli anni duri mi dava forza la spiritualità dei Focolari, la comunione clandestina con il Focolare maschile a Praga e Gesù Risorto presente in mezzo a noi e poi soprattutto il mio rapporto vivo con Gesù Crocifisso e abbandonato, vissuto quotidianamente. Questo stile di vita e la fede mi hanno condotto e perfino dato gioia nella mia situazione di perseguitato».

Molti altri sacerdoti sono stati perseguitati nell’Est. Pensiamo a Josef Beran, che Paolo VI definì come un martire per la fede. A che punto è la sua causa di beatificazione? «Nel 1969 ero al funerale del cardinale in San Pietro, con il mio vescovo Hlouch. Beran lo conoscevo personalmente. Il processo diocesano è quasi finito. Beran deve essere conosciuto di più. La sua vita e la sua lotta contro il comunismo possono giocare proprio oggi un ruolo importante, quando si vede crescere nella società il partito socialista che collabora con i comunisti. Sembra che questi due partiti che fanno oggi insieme una campagna dura contro la Chiesa possano di nuovo minacciare la libertà. Non solo della Chiesa». Eminenza, ad ottobre la Chiesa ha ricordato l’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, avvenuta 50 anni fa. Come definirebbe quella stagione? «Non c’è parola più adatta che quella usata da Giovanni XXIII: un aggiornamento, che significa aprirsi al mondo di oggi. La Chiesa deve aprirsi, uscire dalla sua privatezza, chiusura in se stessa, per portar al mondo i tesori che ha dentro, perché il mondo ne ha bisogno. L’uomo liberato da Dio può costruire solo con le proprie forze il benessere, la felicità, il paradiso sulla Terra». Cosa ha suscitato Giovanni XXIII con il Concilio? «Una rivoluzione. Dopo la morte di Pio XII esisteva nella Chiesa una certa insicurezza. I cardinali hanno eletto un Papa di transizione. E questo Papa provvisorio ha indetto il Concilio. Nel contesto del tempo (dopo il nazismo, il comunismo) il mondo aveva bisogno di un nuovo orientamento. Lo Spirito Santo soffiava nel mondo e nella Chiesa, nei nuovi movimenti ecclesiali. E proprio questo Papa

Benedetto XVI con il cardinale Miloslav Vlk durante la sua visita nella Repubblica Ceca del 26 settembre 2009

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poteva essere lo sfondo giusto per il lavoro dello Spirito. Non pochi vescovi (non solo curiali) rimasero sorpresi della sua visione. Sotto questa prospettiva dobbiamo impegnarci a capire la convocazione del Concilio. Lo Spirito Santo ha suscitato la rivoluzione». Cosa intende per «influenza dello Spirito Santo»? «Negli Atti degli Apostoli si dice delle decisioni del Concilio apostolico a Gerusalemme: «E’ parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi…» (Atti 15,25). Proprio con questa luce hanno lavorato i vescovi nel Concilio e in questa luce sono nati i Documenti conciliari. Hanno trattato soprattutto del carattere e della sostanza della Chiesa e la sua comunione a mo’ della vita trinitaria di Dio secondo il Testamento di Gesù, della Parola di Dio e la liturgia rinnovata. Tutto si potrebbe riassumere nelle parole: Dio vicino. Non solo nelle Chiese, ma anche fuori dal luogo liturgico». Qual è il messaggio più alto del Concilio? «Proprio questo “Dio vicino”. Si potrebbe riassumere con una frase del documento Dei Verbum: “Con la rivelazione Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé”». L’umile prete ceco Josef Beran, un mite prete cecoslovacco divenuto arcivescovo di Praga e primate di Boemia. Passò cinque anni nei lager nazisti, fu perseguitato dai comunisti, segregato e isolato per 14 anni prima di essere costretto a vivere in esilio a Roma, dove morì nel 1969 senza aver mai potuto fare ritorno in patria. La sua è una figura emblematica della Chiesa dell’Est, che nonostante le sofferenze del carcere riuscì a mantenere fede ai suoi più alti ideali. Il cardinale Beran fu sepolto nella cripta della Basilica di San Pietro, ricevendo così un privilegio di solito destinato esclusivamente ai Papi. Ora è in corso il processo di beatificazione. Fu imprigionato nel carcere di Pankrác, a Terezín; tre mesi dopo venne internato a Dachau, dove riuscì comunque a sopravvivere fino alla liberazione del campo (29 aprile 1945). Successivamente – sot-

to il regime comunista – fu nuovamente arrestato il 16 giugno 1949, ma riuscì a eludere la sorveglianza e a raggiungere la chiesa di Sarakov per parlare ai fedeli. Nella circostanza Josef Beran disse loro le seguenti parole: «Può anche darsi che di qui a non molto alla radio sentiate dire di me ogni sorta di calunnie. E’ probabile che vi diranno che ho confessato delitti innominabili. Ma spero che avrete fiducia in me. Io dichiaro qui solennemente, davanti a Dio e alla Nazione, che mai concluderò un accordo che possa intaccare i diritti della Chiesa». Messo agli arresti domiciliari, venne poi trasferito nel castello di Rozelov, fuori Praga. Fu privato di tutte le sue libertà personali e dei suoi diritti di vescovo. Una lettera di Giovanni XXIII inviata a Beran nel maggio del 1961, per i 50 anni della sua ordinazione sacerdotale, fu rispedita al mittente con la dicitura «senza recapito», ma fu pubblicata dall’«Osservatore Romano»: «Ti deve sostenere – vi si leggeva – la consapevolezza di aver agito bene. Non la colpa, ma solo la virtù ti ha prostrato; né sterile e senza frutto sarà l’inoperoso silenzio a cui ti hanno costretto, l’ingiustizia che soffri, la pena immeritata che ti è inflitta». Il 4 ottobre del 1963, dopo una trattativa con il Vaticano, il governo cecoslovacco concedette una «grazia» a Beran e nel 1965 gli fu accordato il permesso di partecipare al Concilio Vaticano II a condizione di non rientrare più in patria. E così fu. Creato cardinale nel concistoro del febbraio 1965, Beran partecipò all’ultima sessione del Concilio e tenne un intervento sulla libertà di coscienza. Durante l’incontro tenne in mano un libro di preghiere con una copertina rosso porpora: il cardinale lo teneva sempre con sé. Era il breviario che Giovanni XXIII gli inviò l’8 dicembre 1962. Gli fu consegnato attraverso le autorità del ministero degli Interni. «Puoi leggerlo» gli disse un funzionario. Ma Beran capì dal colore rosso della copertina che Papa Roncalli l’aveva fatto cardinale in pectore. Durante il suo funerale nella Basilica Vaticana, Paolo VI parlò di lui come di una grande figura di martire per la fede, come di un benemerito Pastore per la libertà della sua patria. Il cardinale Josef Beran si spense a Roma, il 17 maggio 1969 all’età di 80 anni. 19

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GIOVANNI XXIII, UN PONTEFICE CHE CONTINUA A PARLARE A TUTTI Molte le iniziative programmate nell’ambito dell’Anno giovanneo iniziato a ottobre

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icordare il 50° anniversario della morte del Beato Papa Giovanni XXIII (3 giugno 1963) per attualizzarne la figura, l’opera e l’eredità spirituale, leggendole con gli occhi della fede, della teologia e della storia. E ancora: riscoprire la sua grande fede, il suo amoreservizio alla Chiesa e la sua pratica delle virtù cristiane. Sono gli obiettivi delle iniziative dell’Anno giovanneo in corso, indetto ufficialmente l’11 ottobre dello scorso anno nella chiesa parrocchiale di Sotto il Monte, che ha coinciso, per la diocesi bergamasca, anche con l’apertura dell’Anno della fede e il 50° del Concilio Vaticano II. Un servizio, in questa chiave l’ha proposto ai primi di aprile L’Eco di Bergamo a firma di Carmelo Epis. «La sua fede – aveva detto il vescovo Francesco Beschi all’omelia – è un dono per tutti. Preghiamo Papa Giovanni perché accresca la nostra fede e diventi speranza per gli uomini che incontreremo lungo i giorni del no-

stro cammino. Ha aperto il Concilio con parole di speranza, luce e misericordia». L’Anno giovanneo vede dunque la diocesi impegnata su più fronti. Dal punto di vista religiosopastorale, si stanno intensificando i pellegrinaggi a Sotto il Monte da parte di fedeli e parrocchie. Sono poi da segnalare: il pellegrinaggio del clero diocesano in Bulgaria, guidato dal vescovo, per ripercorrere le orme dell’arcivescovo Angelo Giuseppe Roncalli che in quel Paese fu visitatore e poi delegato apostolico dal 1925 al 1934; il pellegrinaggio diocesano a Roma in giugno, sempre guidato dal vescovo, e l’udienza con Papa Francesco. Poi c’è sempre la speranza che Papa Francesco possa visitare la diocesi di Bergamo nel corso dell’Anno giovanneo. Sempre nell’Anno giovanneo si sono intensificate anche le iniziative della Fondazione Giovanni XXIII con convegni storico-teologici, pubblicazioni e anche un corso per le guide che seguono i pellegrini a Sotto il Monte. Il loro flusso annuale si attesta attorno alle centomila unità, ma con l’Anno giovanneo si prevede che tocchino le quattrocentomila unità. In questo contesto, con l’aiuto di istituzioni, enti e fedeli, la comunità di Sotto il Monte è impegnata su più fronti: la ristrutturazione della chiesa parrocchiale, della Casa del pellegrino e della cripta sotto la Cappella della pace, la realizzazione di un percorso storico sulla vita del Beato Giovanni XXIII negli ambienti del Seminario del Pime, il restauro dei luoghi della devozione (Via Crucis e Via del Rosario, il sentiero del Colle San Giovanni), la valorizzazione della casa natale e del museo di Ca’ Maitino – residenza di Angelo Giuseppe Roncalli nei periodi di riposo – dove oggi risiede l’arcivescovo Loris Francesco Capovilla, segretario del Pontefice bergamasco.

Papa Roncalli in visita ai piccoli degenti dell’ospedale Bambin Gesù

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V OC AZIONI

LE GIOVANI IN CLAUSURA: «NON SIAMO DONNE IN FUGA» Una di loro dice: «E’ stato il desiderio di pienezza a farci intraprendere questa strada»

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ulle giovani in clausura proponiamo un servizio apparso su L’Eco di Bergamo a firma di Benedetta Ravizza. Ripetono con voce dolce: «E’ stato il desiderio di pienezza a portarci qui». Come fa a essere piena una vita di privazioni: senza rumori, senza cinema, senza cellulare, senza orologio, nell’isolamento? Raccontano, e allora inizi a capire dov’è il «segreto». «Il nostro è solo un modo diverso di stare nel mondo, di vivere il tempo e le relazioni con gli altri». Non sono donne in fuga, sono donne in cammino le giovani che hanno scelto di diventare monache di clausura. Anna, Caterina, Rita Maria. Tutte tra i 28 e i 35 anni. Vite semplici e realizzate, senza traumi né colpi di testa, solo una grande spinta a mettere la propria esistenza in mani più grandi, ad ascoltare il proprio cuore e quello degli altri. Un’illuminazione per gradi, una scoperta giorno per giorno. «E’ un innamoramento», dicono, con quella parolina che le coetanee userebbero per il fidanzato o marito. «In un tempo che ha tante verità, mi mancava la Verità», dice Caterina Lot, ventottenne originaria di Treviso, da poco postulante nel monastero delle Clarisse di Boccaleone, quartiere alla periferia di Bergamo. «Non scappavo da nulla, avevo una famiglia, gli amici, un lavoro di insegnante elementare che mi ha portato proprio qui a Bergamo. Però ho deciso di lasciare tutto per una pienezza più grande, seguendo l’esempio di Santa Chiara», racconta Rita Maria Napoli, trentacinquenne di Roccella Ionica, che vive da diversi anni nello stesso monastero cittadino. A Rita Maria piace Jovanotti, a Caterina la pizza, ammette che le manca un po’ quella con gli amici, «però quando li sento ora mi accorgo che ci sono meno parole inutili, c’è più senso». Caterina ha cinque fratelli, si laurea in Scienze internazionali

e diplomatiche; il lavoro la porta a Bergamo, prima in banca (dove dopo sei mesi il contratto le scade e non viene rinnovato) poi in un’azienda. Inizia un percorso di fede, «scavi dentro nei desideri più profondi e scopri questo amore così grande che conduce alla ricerca della verità e della bellezza». Anche Anna Cornolti, 29 anni di Villa di Serio (Bergamo), nel frattempo diventata suor Anna Benedetta di Gesù Signore Maestro, novizia nel monastero di Santa Lucia a Foligno, ha gli occhi che sorridono. Impegnata negli studi (la maturità classica al Sarpi e la laurea col massimo dei voti in Antichità classiche e orientali all’Università di Pavia) e nella comunità, dove è stata scout per molti anni. Poi gli incontri spirituali ad Assisi e la scelta. Radicale. E anche dal monastero benedettino di Santa Grata sembrano confermare come la clausura non sia considerata una chiusura, bensì un’apertura.

Suor Rita Maria e suor Caterina in un momento di vita quotidiana

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AV V ENIMENTI

UNA SCUOLA IN MADAGASCAR INTITOLATA A PAPA GIOVANNI Per iniziativa dell’associazione di medici Change Onlus. L’inaugurazione a giugno

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l programma dentistico avviato in Madagascar da Change Onlus dimostra che è possibile riportare il sorriso su tanti volti segnati dalla povertà. E’ una storia toccante, ancora in corso, di mani tese da parte di medici verso gente di tutte le età e soprattutto bambini. Change Onlus è un’associazione italiana, nata a Milano nel 2005 per iniziativa di un piccolo gruppo di medici animati dalla volontà di dedicarsi al prossimo. Mettono a disposizione le proprie competenze a titolo volontario e quindi non percepiscono alcun compenso per l’attività svolta. Poiché i componenti dell’associazione considerano la tutela della salute un diritto universale, sostengono che «chiunque, in qualsiasi zona del mondo viva, dovrebbe poter avere accesso alle strutture sanitarie e usufruire di cure mediche di base e specialistiche». Fin dalla sua costituzione Change Onlus ha scelto di operare in Madagascar realizzando campagne

educative e di prevenzione sanitaria e inviando medici volontari per effettuare visite diagnostiche e corsi formativi specialistici presso le strutture sanitarie che ha costruito o riabilitato. Il Madagascar è situato geograficamente in Africa sud-orientale, a circa 400 chilometri dalle coste del Mozambico. E’ chiamato anche «l’isola rossa» per il terreno ricco di ferro. E’ popolato da oltre 20 milioni di persone tradizionalmente distinte in 18 gruppi etnici principali, tra cui il più numeroso è quello dei Merina. Il Madagascar è uno Stato poverissimo e con gravi problemi di carattere economico, sociale e sanitario. L’economia nazionale è basata essenzialmente sull’agricoltura, sull’allevamento del bestiame e sulla produzione di oggetti di artigianato. Il più importante prodotto del Paese è il riso, alimento principale della dieta malgascia. «Il progetto su cui puntiamo – dice l’odontoiatra bergamasco Maurizio Maggioni – è la creazione di un ospedale, a 150 chilometri a nord della capitale, che verrà inaugurato ad ottobre di quest’anno, dove già esiste un dispensario sia medico sia odontoiatrico. Oltre a gestire quest’ultimo, dirigo anche un altro piccolo dispensario, dove sono in corso delle opere di ammodernamento, che si trova sulla piccola isola di Sakatia. Qui ho fatto amicizia con suor Luisa che poi è stata spostata ad Ambanja, una località dell’entroterra, dove è stata organizzata una missione». «Da questo legame – dice Maggioni – è nata la volontà di assisterla nella creazione di un piccolo villaggio, con una scuola, una chiesa e una casa per le suore nell’ambito della stessa missione. Grazie a Change e a un gruppo di altri amici, tra i quali gli appartenenti all’Associazione Amici di Papa Giovanni, siamo riusciti a raccogliere dei fondi che ci hanno permesso di completare le strutture e di at-

Il busto di Papa Giovanni portato alla scuola in Madagascar

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trezzarle con tutto il necessario». Successivamente l’associazione e le religiose hanno deciso di intitolare la scuola al Pontefice bergamasco. A frequentare la struttura sono 150 bambini dalla materna fino alla quinta elementare. Inoltre operano al suo interno quattro laiche, due suore che insegnano le varie materie e suor Luisa che è la responsabile. Più esattamente la scuola si trova a Maherivaratra, a 30 chilometri da Ambanja. Nell’intento di sottolineare la dedica del complesso al Pontefice bergamasco, l’Associazione Amici di Papa Giovanni ha messo a disposizione un busto del Beato realizzato dallo scultore Volpini, oltre a del materiale illustrativo su Roncalli. Maurizio Maggioni, il primo da sinistra, sui luoghi della missione A dire il vero l’invio a destinazione, a fine marzo, della statua si è rivelato piuttosto sofper tornare a casa, il Papa è giunto a destinazione. ferto perché è stato necessario trovare una vettura E così è stata la suora a portarlo alla scuola. Tra adatta. Ma grazie all’impegno di persone dal cuore l’altro, in questa stessa scuola, ho avuto l’occasione d’ora si è riusciti ad avere un’auto idonea e anche a di conoscere il vescovo del Madagascar, l’italiano non pagare la spedizione dall’aeroporto della MalRosario, che nel frattempo ha benedetto la statua e pensa. Nel frattempo Maggioni era partito per l’Al’ha posta momentaneamente nella chiesa in attesa frica per poi portare in loco il busto una volta arridell’inaugurazione della scuola che avverrà a giuvato. Ma il maltempo, e il conseguente blocco delle gno. Nell’occasione il busto di Papa Giovanni verrà partenze aeree, ha tenuto fermo il «pacco» per quasi collocato nell’ingresso della struttura didattica». cinque giorni allo scalo di Parigi. «In pratica – riFrancesco Lamberini corda Maggioni – quando sono ripartito dall’Africa

L’arcivescovo Aldo Cavalli nunzio apostolico a Malta L’arcivescovo Aldo Cavalli, 66 anni, di Caprino Bergamasco, è stato nominato il 16 febbraio nuovo nunzio apostolico a Malta. Succede all’arcivescovo Tommaso Caputo, nominato il 10 novembre 2012 prelato di Pompei. Monsignor Cavalli è nato il 18 ottobre 1946 a Lecco, terzogenito di quattro figli di una famiglia di fornai, che poi si è trasferita a Caprino Bergamasco e poi a Ponte San Pietro, sempre nella provincia orobica. Dopo l’or-

dinazione sacerdotale (18 marzo 1971) diventa docente di Lettere in Seminario. Laureato in Scienze politiche, nel 1979 passa nella Segreteria di Stato vaticana e poi inviato nella nunziatura apostolica in Burundi, in Africa. Nel 1983 è richiamato in Segreteria di Stato e nel 1992 diviene consigliere di nunziatura. Il 2 luglio 1996 è nominato arcivescovo delegato apostolico in Angola e nunzio apostolico a Sao Tomé e Principe, in Africa. Riceve l’ordinazione

episcopale dal cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, il 26 agosto successivo nella Cattedrale di Bergamo. Il 28 giugno 2001 viene inviato in Sudamerica come nunzio apostolico in Cile. Il 29 ottobre 2007, dal Cile passa in Colombia come nunzio apostolico, nazione afflitta da povertà, guerriglia, corruzione e soprattutto dallo strapotere violento dei narcotrafficanti. Infine la nomina a nunzio apostolico a Malta.

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Basilico Luigia 02/12/2012 “Il tuo ricordo rimarrà sempre dentro di noi come un’indelebile impronta” I tuoi cari

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ELETTO IL NUOVO PONTEFICE: È JORGE MARIO BERGOGLIO Ha scelto di farsi chiamare Francesco ed è il primo Papa sudamericano della storia

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l cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio è stato eletto lo scorso 13 marzo nuovo Papa e ha scelto di chiamarsi Francesco. I porporati hanno rivolto lo sguardo oltreoceano e posato gli occhi sul gesuita di Buenos Aires, il primo Papa sudamericano. Il giornalista Emanuele Roncalli, pronipote del Pontefice bergamasco, ne ha dato l’annuncio su L’Eco di Bergamo il mattino dopo attraverso un suo articolo che riproponiamo ai nostri lettori. Dopo due giorni di Conclave, due fumate nere, ecco al quinto scrutinio lo sbuffo bianco che scende dal comignolo della Sistina, una fumata impetuosa, un’ondata candida interminabile. E pochi istanti dopo, il suono delle campane della Basilica a sancire solennemente l’elezione del 266° vescovo di Roma. Le luci del colonnato, i flash dei fotografi, le fotoelettriche accendono la piazza. Sale il boato della folla, la pioggia è intermittente, la piazza è un mosaico di ombrelli. All’Habemus Papam pronunciato con voce incerta dal protodiacono Jean-Louis Tauran dalla Loggia centrale della Basilica l’accoglienza della gente al nuovo Papa sembra un po’ timida, quasi spenta, ma appena Francesco si è affacciato al balcone e ha pronunciato le prime parole ha conquistato subito il cuore della gente. «El Papa del pueblo!» urla una collega della stampa argentina. Sovvertendo ogni previsione alla vigilia del Conclave e i rumors di questi due giorni di votazioni, l’elezione di Bergoglio – 76 anni compiuti lo scorso 17 dicembre – ha sorpreso tutti i vaticanisti e gli esperti che a più riprese avevano indicato l’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola e l’arcivescovo di San Paolo del Brasile, Odilo Scherer come i due principali contendenti. La serata del 13 marzo ha insomma segnato

la nascita di un nuovo pontificato. La gente ha già capito di trovarsi di fronte a un uomo che ha sempre condotto una vista austera, lontano dai riflettori, semplice e umile. Nessun autista o auto blu, ma solo bus e metro. Modestissimo il suo appartamento, niente sfarzi, nulla di superfluo. Nelle congregazioni prima del Conclave proprio lui aveva parlato di cristianesimo della misericordia e della letizia. Vicino ai sacerdoti di strada, ai preti delle baraccopoli della città argentina, gli angeli delle «villas miserias», scegliendo il nome Francesco, il nuovo Papa ha già tracciato la strada, la rotta. Un cammino di semplicità vicino agli ultimi. «Paladino dei poveri e dei vulnerabili» ha sentenziato Obama, plaudendo la scelta di un Papa delle Americhe. Di origini piemontesi, timido e di poche parole, nel suo Paese è però un trascinatore di folle. Qualcuno l’ha sbrigativamente definito un conservatore, ma in talune circostanze non ha approvato l’eccessiva rigidità della Chiesa. Di lui si sottolinea anche una certa avversione a ricoprire cariche nella Curia romana e soprattutto a un certo carrierismo ecclesiastico.

Una delle prime immagine diffuse del nuovo Papa

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Martini sarebbero poi confluiti su Bergoglio. Dopo un blocco al terzo scrutinio, a Ratzinger sarebbero mancati pochissimi voti e pertanto la situazione si concluse al quarto con la «desistenza» di alcuni cardinali che avevano votato l’argentino. A Ratzinger 84 voti, a Bergoglio 26. A schede ormai bruciate, a fumata bianca ormai avvenuta, è già tempo di ricostruzione di quanto può essere accaduto in questi due giorni nella Cappella Sistina. Se è plausibile che nei primi due o tre scrutini si siano registrati pacchetti di voto su Scola, Scherer, Ouellet e soprattutto Dolan, la successiva situazione di stallo venutasi a creare già al terzo scrutinio deve aver consigliato un cambio di rotta più deciso. Jorge Mario Bergoglio, che nel 2005 ha ottenuto circa 40 voti, si potrebbe dire che ha mantenuto lo stesso pacchetto. Il gruppo dei porporati elettori del Sudamerica conta 19 voti e non è escluso che si siano compattati.

Il nome di Bergoglio non era nemmeno mai stato indicato fra gli outsider, se non come ultima citazione in una lunga catena di nomi. Le possibilità che potesse diventare Papa erano insomma ritenute scarsissime o quasi nulle. Lo Spirito Santo ha però illuminato il collegio cardinalizio e ha chiamato sul soglio di Pietro Francesco. «Una risposta radicale a tutte le prospettive enunciate in questi giorni – ha sottolineato padre Federico Lombardi, portavoce della Sala Stampa Vaticana – è la scelta di un Papa che si pone al servizio di tutti, allo stato puro, verso gli altri». Il cardinale argentino, lo ricordiamo, era stato il contendente di Joseph Ratzinger nel Conclave del 2005. Era risultato il candidato più votato dopo il futuro Papa tedesco. Era insomma arrivato a un passo dall’elezione già nelle votazioni per la successione di Giovanni Paolo II. Quello fu un Conclave lampo, era l’aprile di otto anni fa, era il primo Conclave del terzo millennio. Anche allora il quorum era fissato a 77 voti, due terzi dei 115 elettori. Secondo alcune ricostruzioni al primo scrutinio Ratzinger raccolse numerosi voti, mentre il cardinale di Milano Carlo Maria Martini, che in molti avrebbero visto come auspicabile Papa, ricevette un pacchetto decisamente inferiori di preferenze. Alla seconda chiamata i «ruiniani» avrebbero spostato i loro voti sul porporato tedesco, mentre i voti di

Due Papi, stesso stile Francesco e Giovanni XXIII. Due Pontefici, stesso stile, stessa età di elezione (Bergoglio ha quasi 77 anni, otto mesi in meno dell’allora cardinale Roncalli scelto al conclave del 1958). E persino le prime «mosse» di Papa Bergoglio ricordano Papa Roncalli. Per il cardinale Angelo Bagnasco Papa Francesco ha «lo stile, la semplicità, la bontà, la bonarietà, ma anche la capacità di governo, di Papa Giovanni XXIII». L’arcivescovo Loris Capovilla non esita ad affermare che Francesco gli ricorda il «suo» Papa. Per il card. Robert Sarah «Papa Francesco è una figura buona come Papa Angelo Giuseppe Roncalli. Giornalisti, opinionisti, ma anche la gente comune ha accostato o messo a confronto i due nomi. C’è chi ha titolato «La carezza di Francesco» facendo così eco al celebre discorso alla luna di Giovanni XXIII la sera dell’inaugurazione del Concilio Vaticano II che si concludeva appunto con l’invito ad andare a casa e dare una carezza ai bambini. I giornali d’oltreoceano si sono spinti forse più di quelli italiani e europei, titolando «Francisco, el nuevo Juan XXIII» oppure «Francisco, otro Juan XXIII».

Papa Francesco mentre saluta i fedeli

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IL PAPA TELEFONA A CAPOVILLA: «LA CHIAMO PER RINGRAZIARLA» Lo ha contattato personalmente dopo aver ricevuto il pieghevole per l’Anno della fede

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Pronto, monsignor Capovilla? Parla Papa Francesco». Sono le 18 del 1° aprile, lunedì di Pasqua. Monsignor Loris Capovilla è nel suo studio a Camaitino di Sotto il Monte e, come sempre, risponde di persona al telefono. Rimane senza parole, perché riconosce subito la voce. «Ho in mano il suo volantino – dice il Papa – e volevo ringraziarla di persona». La telefonata è raccontata nell’articolo di Susanna Pesenti pubblicato su L’Eco di Bergamo. Si tratta del pieghevole per l’Anno della fede, dedicato alla «Pasqua di Risurrezione nella luce del Concilio Vaticano II». In copertina c’è la medaglia di Manzù, coniata per l’apertura del Concilio, che rappresenta Papa Giovanni con il cardinal Rugambwa e reca l’iscrizione «Una, Sancta, Catholica, Apostolica». Sotto, la dicitura «Con Papa Francesco celebriamo il cinquantesimo di Pacem in Terris, 11 aprile 2013, e del transito di Giovanni XXIII 3 giugno 2013» e una citazione di Isaia e dell’Apocalisse: «Le cose di prima sono passate. Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Emozionato, monsignor Capovilla sente «il respiro del Papa nel microfono. Mi ha detto: “La vedo con gli occhi del cuore, ogni parola che ha scritto è preziosa come un’omelia”». Il segretario di Giovanni XXIII recupera allora l’abituale prontezza di spirito, ringrazia e si scusa per il momento di attonito silenzio appellandosi all’età: «Sono vecchio...». Ma Papa Francesco gli risponde: «So dal cardinal Comastri, e sento dalla voce, che il suo spirito è giovane, questo conta». E’ infatti al cardinale Angelo Comastri, arciprete di San Pietro, che monsignor Capovilla aveva affidato il pieghevole con il suo messaggio pasquale, realizzato come sempre con l’aiuto di volontari e chiuso in tipografia appena in tempo, la notte del Martedì Santo. «Gli avevo detto – racconta l’arcivescovo emerito –: “Se puoi, fallo avere al Papa”». E l’amico

Il pieghevole per l’Anno della fede

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ma un dinamismo che si è sviluppato nella Chiesa...»; la foto dei due Papi affiancati in preghiera a Castel Gandolfo e il ritratto di Giovanni XXIII, realizzato da Hans Jurgen Kallman, con l’augurio pasquale di pugno di Capovilla, rivolto a tutti coloro che «in Dio superano la fatica del vivere e riaccendono senza posa lampade di speranza». Non manca un’ultima citazione del padre della Chiesa, San Giovanni Crisostomo: «Incarnare e coltivare semplicità e prudenza conduce ai vertici della dottrina cristiana, sino a testimoniare in faccia al mondo vita angelica». Soprattutto questa ha colpito Papa Francesco? La conversazione fra Roma e Sotto il Monte dura pochi minuti, ma è intensa. «Lei non telefona a me Capovilla – precisa al Papa monsignor Loris –, ma a Papa Giovanni e a tutto questo villaggio di Sotto il Monte». E chiede al Pontefice «la Sua Benedizione per tutti noi, sono sicuro che il vescovo di Bergamo non se ne dispiacerà. Per le mie suore Poverelle, per tutta la gente di Sotto il Monte». Il Papa benedice, ma replica anche che attende monsignor Capovilla a Roma: il prelato naturalmente accetta e dice: «Ci andrò, ci andrò». La telefonata si chiude con un ultimo saluto cordiale e l’accordo di vedersi presto. E il Papa a Sotto il Monte verrà? Chissà, non ne hanno parlato, ma Loris Capovilla ha imparato da Giovanni XXIII a non mettere limiti alla Provvidenza.

Monsignor Loris Capovilla, già segretario di Papa Giovanni

Comastri, trovandosi il giorno di Pasquetta con Papa Francesco (per la visita alla tomba dell’apostolo Pietro nella necropoli paleocristiana che si trova esattamente sotto la basilica), gli consegna, con gli auguri, il pieghevole dell’Anno della fede che porta anche la foto del nuovo Papa, accompagnata da una citazione di Barbara Spinelli su come si riconosce la persona mite: «Il mite non è dei cieli ma quaggiù fra noi, è uno di noi. Ci deve pur essere un motivo per cui riceve in eredità non il cielo ma la terra». Poi, il testo dell’Angelus di Benedetto XVI dedicato alla commemorazione dell’apertura del Concilio: «La nuova evangelizzazione non è una nostra invenzione,

All’ospedale di Treviglio l’oculista cugino del Papa «Non appena ho sentito pronunciare Jorge sono scattato in piedi esultando, ancora prima che venisse completato il suo nome, è stato una attimo di gioia indescrivibile». A raccontare quanto provato all’annuncio dell’elezione di Papa Francesco è un parente torinese del Pontefice, che vive da diversi anni in provincia di Bergamo. E’ il medico oculista Maurizio Bracchino, 51 anni, specialista nel reparto di oculistica dell’Azienda ospedaliera di Treviglio, dove lavora da una ventina d’anni. Risiede a Mozzanica (Bergamo) e con l’ormai ex arcivescovo di Buenos Aires è legato da parentela grazie alla famiglia materna: la nonna del medico, Ines Bergoglio, era infatti cugina di primo grado di Mario, papà

del neo pontefice. Una parentela alla lontana che si è però sempre rivelata di fatto molto stretta, per il rapporto costante e sentito tra la famiglia del medico torinese e colui che fino a poco tempo fa è stato arcivescovo della capitale argentina. Maurizio Bracchino ha voluto completare il racconto delle sensazioni provate e delle sue reazioni al termine dell’elezione dell’illustre parente: «Ho preso il telefono chiamando a Torino mia madre Carla (Ravezzana è il cognome da nubile, ndr), esprimendole quanta gioia avevo in corpo. Era un continuo esultare e scambiarci il senso di estrema felicità che entrambi stavamo provando». Bracchino ha parole di immensa stima nei confronti di Papa Francesco: «E’

l’uomo giusto al posto giusto e sarà un pastore al servizio della Chiesa per il bene della stessa». I contatti con Jorge Mario Bergoglio sono rimasti costanti nel tempo: «Quando viene in Italia non manca di fare visita a mia mamma a Torino. E’ una persona unica per la sua sensibilità e bontà, dalla smisurata umanità e semplicità. E fa sempre un certo piacere sentirlo accennare qualche parola in dialetto piemontese. Dialetto che capisce alla perfezione anche se parlato in modo stretto». Il medico, ormai bergamasco d’adozione, dice di averlo sentito poco tempo fa prima di venire a Roma per il conclave e di averlo incontrato lo scorso mese di settembre.

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INIZ IATIVE

SARÀ ESPORTATO IL MODELLO DEL «VILLAGGIO DELLA GIOIA» Festeggiati con un libro i dieci anni del centro che in Tanzania accoglie 120 bambini

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Cari e amati figli, quando dieci anni fa ho avuto l’idea di realizzare il Villaggio della Gioia ancora non vi conoscevo. Avevo però incontrato Alfred e Clemens, bambini come voi, per i quali non ho potuto far altro che pregare mentre chiudevo loro gli occhi, triste per un mondo, una società, che lasciava morire i suoi figli. Non potevo lasciare che ciò accadesse ancora, che potesse accadere anche a voi». Sono per i suoi 120 ragazzi di Dar es Salaam (Tanzania) le prime parole che padre «Baba» Fulgenzio Cortesi ha voluto scrivere aprendo il coloratissimo libro commemorativo «I suoi primi 10 anni di sorrisi» per festeggiare il primo anniversario a cifra tonda della sua creatura: il Villaggio della Gioia. Era il 23 settembre 2002 quando il missionario Passionista di Castel Rozzone (Bergamo) posò la sua prima pietra, dove prima c’era un bosco selvaggio «regno di scimmie e di serpenti». Da allora, poco per volta, è diventato quello che tutti hanno imparato a conoscere e ad apprezzare: un grande progetto di amore e di speranza per i bambini africani orfani a causa dell’Aids, che possono così crescere, imparare, studiare e lavorare per diventare «cittadini onesti», depositari del futuro della propria terra. Oggi, il Villaggio della Gioia è una macchina ben rodata, con otto case famiglia dove vivono i 120 «figli», una chiesa, un’infermeria, due forni per il pane e una panetteria, campi da gioco, stalle e frutteti, scuole e quattro conventi che ospitano il nuovo istituto religioso «Le mamme degli orfani», congregazione fondata anch’essa da Baba Fulgenzio per garantire continuità a questo suo grande sogno che il 25 marzo 2011 ha visto la consacrazione delle sue prime cinque suore. «Se devo essere sincero – spiega padre Fulgenzio – quando ho immaginato per la prima volta questo progetto lo pensavo ancora più grande di come poi

è diventato. Io sono fatto così, ho sempre sognato in grande, e non per niente quando ho voluto creare il Villaggio della Gioia mi prendevano tutti per matto. Adesso quel sogno si sta realizzando alla grande, come un vero miracolo d’amore e di provvidenza». E così è arrivato il volume celebrativo, che racconta attraverso i volti sorridenti dei bambini, dei ragazzi, degli insegnanti e dei volontari di Dar es Salaam i primi dieci anni del Villaggio. «Sono già 600 gli studenti che frequentano le scuole del villaggio – continua padre Cortesi – e stimiamo che fra pochi anni supereremo quota mille». Ma siccome Baba Fulgenzio sogna sempre in grande, non poteva certo fermarsi qui. Si è concretizzato un sogno e subito ne sta nascendo un altro: quello di esportare il «modello Villaggio della Gioia» nei Paesi più poveri del mondo, a cominciare da Haiti.

Padre Fulgenzio con uno dei suoi «figli»

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Scopo principale di questo organismo è quello di promuovere, di mantenere ed amplificare il messaggio di Papa Giovanni XXIII che racchiude una forte attualità così come rappresenta per l’intera umanità un progetto di costruttore all’insegna dell’amore e della pace. I soci fondatori del Comitato sono: Mons. Gianni Carzaniga in qualità di rappresentante delegato del vescovo di Bergamo, Monsignor Marino Bertocchi parroco di Sotto il Monte, padre Antonino Tagliabue curatore della pinacoteca Giovanna di Baccanello, suor Gervasia Asioli assistente volontaria nelle carceri, padre Vittorino Joannes al servizio del personale di Angelo Roncalli Nunzio Apostolico a Parigi. A sostegno delle iniziative dell’Associazione, informiamo i nostri lettori, devoti di papa Giovanni XXIII, della possibilità di celebrare Sante Messe per sè e per i propri cari:

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Il “perpetuo suffragio” è un’opera che si propone di dare un aiuto spirituale ai defunti, di stabilire un legame di preghiera fra l’Associazione Amici di Papa Giovanni XXIII e i fedeli del papa della Bontà e di dare anche un aiuto materiale per promuovere le iniziative dell’Associazione. Il “perpetuo suffragio” consiste in Sante messe, che l’Associazione è tenuta a far celebrare per i suoi sostenitori. Si iscrivono i defunti o anche i viventi, a proprio vantaggio in vita e in morte. L’iscrizione può essere per un anno o in “perpetuo”.

accENDi uN cERo L’Associazione si incarica di accendere un cero a Papa Giovanni XXIII su richiesta dei lettori. Per questo servizio si richiede una simbolica offerta libera che verrà utilizzata interamente per le azioni benefiche sostenute dall’Associazione.

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