(Anno XXVIII) Nuova serie - Anno 10 n. 3- Maggio/Giugno 2011 - Amici di Papa Giovanni - CONTIENE I.R.
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB BERGAMO - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa
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Così Papa Giovanni amava vivere la Settimana Santa
Il Presidente Napolitano: “E’ stato profeta dei diritti”
“I Due Giovanni” Le loro vite sono corse parallele
MAGGIO - GIUGNO 2011
Gesù di Nazaret: la vittoria dell’amore nella storia
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Sotto la protezione di Papa Giovanni
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I nonni Rita, Giuseppe e Rosa, chiedono la protezione del Beato Papa Giovanni XXIII per la loro adorabile nipotina Beatrie e ai suoi genitori
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Zia Giulia affida alla protezione e benedizione per tutta la vita del Papa Buono i nipoti Chiara e Luca
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Nonna Margherita mette sotto la protezione di Papa Giovanni la sua nipotina Matilda
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Inviate la fotografia dei vostri bambini ad:
via Madonna della Neve, 24 - 24121 Bergamo
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Così Papa Giovanni amava vivere la Settimana Santa
Roncalli: l’augurio di Pasqua è invocazione, gemito di pace
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Capovilla: «Roncalli portò la Pasqua in mezzo ai fedeli»
Il presidente Napolitano: «E’ stato profeta dei diritti»
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Gesù di Nazaret, La vittoria dell’amore nella storia
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Così Papa Giovanni amava vivere la Settimana Santa
Il Presidente Napolitano: “E’ stato profeta dei diritti”
Scrisse di se stesso: «Sento rossore, del poco che sono»
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«I Due Giovanni», le loro vite sono corse parallele
(Anno XXVIII) Nuova serie - Anno 10 n. 3- Maggio/Giugno 2011 - Amici di Papa Giovanni - CONTIENE I.R.
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“I Due Giovanni” Le loro vite sono corse parallele
Gesù di Nazaret: la vittoria dell’amore nella storia
MAGGIO - GIUGNO 2011
n. 3 bimestrale maggio/giugno
Direttore responsabile Monsignor Giovanni Carzaniga Direttore editoriale Claudio Gualdi
Ghiaie: catechesi, storia e leggenda a Radiomaria
E’ dello scultore Balljana il reliquiario di Papa Wojtyla
Don Guanella e mons. Conforti santi a fine ottobre
Editrice Bergamasca ISTITUTO EDITORIALE JOANNES
Redazione: don Oliviero Giuliani mons. Gianni Carzaniga direttore della “Fondazione Beato Papa Giovanni XXIII” con sede nel Seminario Vescovile Giovanni XXIII di Bergamo, mons. Marino Bertocchi parroco di Sotto il Monte, Suor Gervasia volontaria nelle carceri romane, Claudio Gualdi segretario dell’associazione “Amici di Papa Giovanni”, Pietro Vermigli, Giulia Cortinovis, Marta Gritti, Vincenzo Andraous padre Antonino Tagliabue Luna Gualdi Coordinamento redazionale: Francesco Lamberini Fotografie: Archivio del Seminario Vescovile di Bergamo, Archivio “Amici di Papa Giovanni”, Archivio “Fondazione Beato Papa Giovanni XXIII”
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Anno XXVIII Direzione e Redazione via Madonna della Neve, 26/24 24121 Bergamo Tel. 035 3591 011 Fax 035 3591117 Conto Corrente Postale n. 97111322 Stampa: Sigraf Via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Aut. Trib. di Bg n. 17/2009 - 01/07/2009
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TE S T I M O N I A N Z E
Così Papa Giovanni amava vivere la Settimana Santa Alcune delle riflessioni scritte dal Pontefice durante le giornate della Passione in un lontano Giovedì Santo, era il 1921, e il futuro Papa doveva parlare agli alunni del Seminario Romano nella cappella della Fiducia. Angelo Roncalli citava il Vangelo di Giovanni e faceva in particolare riferimento ai capitoli 14, 15 e 16 quando Gesù stava per affrontare gli ultimi momenti della sua vita e parlava agli apostoli e diceva: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via».
Dedichiamo l’apertura di questo numero del bimestrale al modo in cui Papa Giovanni amava vivere la Settimana Santa, i giorni della Passione, fino al giorno di Pasqua. Il materiale che proponiamo ai nostri lettori è tratto da una recentissima iniziativa del quotidiano «L’Eco di Bergamo», che l’ha pubblicato lo scorso 24 aprile, giorno di Pasqua. A sua volta l’autore degli scritti, Paolo Aresi, si è avvalso della collaborazione della Fondazione Papa Giovanni XXIII. Ai lettori presentiamo pagine significative, pagine poco conosciute o addirittura inedite scritte da Angelo Roncalli in diversi momenti della sua vita.
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”Cenantibus autem illis est”. L’antifona del vespero sintesi di tutte le impressioni della giornata: mestizia e tenerezza. Mentre cade la sera siamo di nuovo intorno alla tavola del convito. Ascoltiamo le parole di Gesù quale San Giovanni ce le lasciò. Esse sono la più splendida illustrazione del Sacramento, esse ci dicono che cosa debba essere l’Eucarestia per noi». Queste parole di Angelo Roncalli non sono mai state pubblicate. Le scrisse
Sofferenza e gioia Don Angelo Roncalli meditava su quelle parole e annotava, prendeva appunti, spunti per il discorso ai giovani: «Nostra vita. La felice comparazione della vite e dei tralci: il richiamo al discorso della promessa (capitolo VI): ego sum panis vitae. Il bisogno che noi abbiamo: la bellezza della nostra unione con Cristo in anima e in corpo, per la Santa Eucaristia». E più avanti: «Noi siamo fatti per godere non per soffrire, ma non si giunge alla gioia se non per la sofferenza». E’ una frase forte, che fa riflettere a fondo. Angelo Roncalli aggiunge che è Gesù stesso che ce lo dimostra con la parabola della sua vita che culmina nella Settimana Santa, fino alla Pasqua, alla Resurrezione. Altri appunti inediti di Angelo Roncalli, quelli delle Quarantore di Pasqua a Stezzano (Bergamo), nel 1920. Scrive Roncalli: «L’episodio di Emmaus applicato alla vita cristiana. Tre pensieri: 1) I due discepoli dubitano e sono nella tristezza. Quanti dubbi anche per il cristiano! Suggerito da varie circostanze: l’atmosfera satura ormai di materialismo,
Papa Giovanni mentre impartisce la benedizione
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testimonianze
i nemici interni, le passioni violente, ecc. Ma Cristo appare, egli è veramente risorto... Egli non ci inganna. Coraggio adunque: via le incertezze... 2) La grande dottrina della croce splende sulla gloria di Pasqua. Noi ci agitiamo per il benessere economico. Ciò è bene finché è contenuto. Non conviene illuderci: la croce ci segue dappertutto e sempre: o come quelle di Gesù, per amore, o come quelle dei ladroni, per forza. Quaggiù non c’è felicità completa per nessuno. Tutto ciò che è grandezza, gioia, gloria, tutto è preparato dalla croce... 3) Bontà di Gesù coi due di Emmaus: bontà con noi nella S. Eucarestia. Egli siede alla nostra mensa, si accomuna alle nostre miserie. O conforto per noi! Sappiamo rendercene degni...».
Una foto poco conosciuta del Papa che lo ritrae nel 1960
Papa: «Stanotte ho dormicchiato e lavorato intorno al mio discorsetto della benedizione Pontificale vegliando fino alle 4 del mattino. Ma tutto riuscì bene nella grande cerimonia in S. Pietro, sostenuta con buona voce e in ordine perfetto. Pontificale solenne: ma senza omelia. Parlai invece alle 12.30 dalla loggia di San Pietro a una folla sterminata nel tempio e nella piazza vastissima... Oggi ebbi a colazione il card. Testa Gustavo e mgr. Angelo Rotta, i soli miei commensali carissimi di Pasqua e... i soli di tutto l’anno. In questi giorni gradii molto la visita delle mie nipoti Enrica e suor Giuseppina sua sorella: due buone figliuole in spiritu Domini».
Comunicatore Don Angelo Roncalli scriveva, annotava. Aveva lo spirito dello scrittore, del giornalista, del comunicatore. Da giovane era stato collaboratore de «L’Eco di Bergamo», fra l’altro aveva scritto una serie di articoli, un «reportage» dalla Terra Santa. Uno spirito che non perse mai, neppure da Papa. Venerdì Santo, 20 aprile 1962: «Piccoli affanni e pure consolazioni. L’affanno nella incertezza della mia salute fisica. Mi sembrano voci lievi di richiamo alla mia prossima fine». Pasqua, 22 aprile. Annotava il
Roncalli teneva molto al buon gusto e all’estetica Angelo Giuseppe Roncalli fu sempre attento alla liturgia, alle forme, allo stile attraverso il quale la preghiera veniva proposta. Era attento alle musiche, ai tempi, alla scelta dei luoghi. Questa particolare attenzione fu una nota costante, anche da Papa. Poteva non sembrare, ma Giovanni XXIII era dotato di un forte senso estetico e riteneva che l’estetica potesse aiutare a veicolare, a fare arrivare il messaggio, il contenuto. Scriveva per esempio nella sua agenda il Giovedì Santo, 14 aprile 1960: «A sera presiedetti alla Capella Papale a S. Giovanni in Laterano. Tutto benissimo, impo-
nente e commovente. Sarà bene in avvenire: 1) la lavanda dei piedi non quasi nascosta: ma fatta nella navata centrale alla vista del popolo 2) evitare la Comunione troppo lunga: i seminaristi possono bene comunicarsi ad un altare laterale nella basilica stessa 3) regolare meglio la presenza delle Guardie Nobili nel corteo. Non sta bene che il Papa ne venga immediatamente circondato, non come il Sommo Sacerdote in atto di celebrare i divini misteri: ma come un re fra i militari. E’ un dettaglio che non è più secondo il buon gusto. Ciò dico con gran rispetto a questi bravi Signori che del resto
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stimo ed amo». Attenzione ai modi, alle forme. Un altro esempio tratto sempre dalle agende, giorno di Pasqua del 1960: «Pasqua piovosa: ma lieta e riposante nei cuori... Io celebrai la Messa letta a S. Pietro alle 11.30. Immensa folla calcolata a 30 mila pellegrini mentre fuori sulla piazza per la mia allocuzione e benedizione si crede che i presenti fossero 150.000. Un altr’anno però sarà bene che il Papa tenga Cappella completa. La Messa semplice anche se bene accompagnata dalla preghiera del popolo, come si fa a S. Pietro, a Pasqua è sempre cosa meschina».
O M E L I E
Roncalli: l’augurio di Pasqua è invocazione, gemito di pace «La Resurrezione del Signore rappresenta la rinnovata resurrezione di tutti noi»
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Una delle illusioni più comuni è quella di stabilirci quaggiù come eterni padroni del pugno di terra su cui teniamo i piedi; di vivere e considerarci come proprietari e non come semplici conservatori di beni, che sono forniti all’uomo a comune sostentamento, secondo gli ordinamenti della giustizia umana e divina». Sono le parole che il cardinale Angelo Roncalli, patriarca di Venezia, rivolgeva ai fedeli da San Marco nel giorno di Pasqua del 1958. Era tornato da un viaggio che aveva compiuto a Lourdes e poi a Roma dove aveva incontrato anche Pio
XII. Roncalli era accompagnato dal suo segretario, don Loris Capovilla. Era la sua ultima Pasqua da patriarca: nell’ottobre successivo sarebbe stato eletto Papa. E le parole che il patriarca rivolse ai fedeli nel giorno della Resurrezione furono pregnanti. L’omelia cominciò con la citazione di San Leone Magno: «La pietà è la vita di tutto il Corpo della Chiesa: la pazienza di portare la Croce appartiene a tutti i tempi: totius corporis pie vivere: totius temporis crucem ferre». Il cardinale aggiunse un altro pensiero di san Leone: «E’ Il pensiero della sicurezza della beatitudine promessaci, congiunta con la partecipazione alla Passione, che è quanto dire, alle sofferenze del Signore. Certa et secura est exspectatio promissae beatitudinis, ubi est participatio Dominicae passionis». La pazienza Dopo le due citazioni, Angelo Roncalli continuava: «La Pasqua è dunque il richiamo di queste condizioni fondamentali della vita cristiana: l’esercizio della pietà e l’esercizio della pazienza. Per la pietà si vive distaccati dalle miserie umane, in purezza di anima e di corpo, in unione intima con Cristo. Con la pazienza si riesce a fortificare il proprio carattere, il proprio temperamento, da divenire non solo graditi al Signore per conto proprio, ma esempio e incoraggiamento per gli altri, cioè per il prossimo, secondo le varie contingenze della vita sociale. La Resurrezione del Signore rappresenta davvero – e per questo è celebrata ogni anno – la rinnovata resurrezione di ciascuno di noi alla vera vita cristiana, alla perfetta vita cristiana, a cui ognuno di noi dovrebbe attendere. Christi resurrectio sacramentum novae vitae». Una nuova vita, una
Il card. Roncalli prima di partire per il conclave da cui uscirà Papa
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omelie
rinascita. Angelo Roncalli nell’omelia approfondiva questo aspetto: «Ora la Passione del Signore e la sua Resurrezione mostrano a noi due vite: una che viviamo appena, l’altra che desideriamo. Non è Gesù a darci questa, lui che si è degnato di tollerare quella per nostro amore? Egli vuole che appunto questo crediamo, il suo amore per noi, la sua prontezza a compartire a noi i beni suoi propri, lui che volle avere comuni con noi i nostri mali. Perché noi siamo morituri, Egli ha voluto morire. Questo noi sapevamo da noi stessi: il principio e la fine, nascere e morire. Questo è visibile e comune nella regione nostra. La regione nostra è la terra: la regione degli Angeli è il cielo. Ecco che il Signore nostro è venuto da una regione all’altra, dalla regione della vita alla regione della morte: dalla regione della felicità alla regione della fatica e della pena».
i punti della terra, ancora la si ripete al ritorno annuale di Pasqua. Christus resurrexit: la morte fu vinta, il peccato fu debellato, le vie della giustizia sulla terra furono aperte». Ma poi il Pontefice considerava la realtà dei suoi anni e diceva: «Alla giustizia di Dio recata sulla terra da Cristo Gesù purtroppo non hanno sempre corrisposto e non corrispondono pienamente gli uomini; e questa mancata risposta resta motivo delle più gravi inquietudini per la compagine dei popoli e delle nazioni, e per l’avvenire del mondo intero...». La vera pace «Voi comprendete diletti figli, come le sollecitudini pastorali dell’umile successore di S. Pietro si estendano in soave espressione di paternità su quanti credono nel Cristo e nel Vangelo suo, ed egualmente su quanti altri – pur ignorando l’opera della redenzione – appartengono a Cristo e inconsapevoli anelano a lui. Sì, diletti figli! La preghiera commossa e trepida dell’ora presente, l’augurio di Pasqua è invocazione, è sospiro, è gemito di pace». Giovanni XXIII avvertiva il pericolo del gelo fra le due superpotenze di allora, Stati Uniti e Unione Sovietica, e ben conosceva la portata devastante degli ordigni nucleari, micidiali per tutto il mondo, non soltanto per i luoghi attaccati. Così il suo messaggio proseguiva divenendo di un’assoluta attualità: «Solo lo sforzo concorde di tutti può dissipare questo timore per la conservazione della pace dove essa vige; e, ove essa manchi, l’attenzione decisa alla rimozione di ogni pericolo o minaccia che sia in contrasto con i suoi fondamenti». E Giovanni XXIII procedeva senza tentennamenti, alla piazza e alle persone sedute nelle case diceva: «Ora i fondamenti della pace non sono altra cosa che la verità, la giustizia, il verace amore e la disposizione generosa a dare e a darsi per i propri fratelli. Non c’è che la pace di Cristo che valga a preservare e a salvare il mondo; perché questa poggia sulle verità eterne, ed ha per oggetto l’uomo vivente nel tempo, ma incamminato verso l’eterno».
Alleluia! In quella omelia ispirata alle parole di Sant’Agostino, il futuro Pontefice non si stancò di ripetere il concetto della vita nuova, della «Rinnovata resurrezione di ciascuno di noi». Nell’ottobre successivo, il cardinale Roncalli fu eletto Papa. Nella Pasqua del 1962, era il 22 di aprile, vicina alla Pasqua di quest’anno, il Papa si affacciò al balcone, davanti alla grande piazza gremita, era la sua quarta Pasqua da Pontefice. Nel frattempo Giovanni XXIII aveva cambiato molte cose, aveva regalato al mondo un modo nuovo, profondamente umano, pastorale, di essere vicario di Cristo sulla Terra. Aveva ripreso a celebrare lui, direttamente, la Pasqua, e il Papa guidava la Via Crucis e lavava i piedi ai fratelli nel Giovedì Santo. Non era il Pontefice che viveva appartato nelle sue chiese, era il Pontefice che camminava in mezzo agli uomini. Disse il Papa alla folla che ascoltava e il suo messaggio arrivò in tutte le case anche grazie alla radio e alla televisione: «Christus Dominus resurrexit: Alleluia. Questa affermazione è il più prezioso augurio che potesse significare letizia, benedizione e pace nei secoli. Ed è in questo senso che dopo duemila anni, e da tutti 7
A N N OTA Z I O N I
Scrisse di se stesso: «Sento rossore, del poco che sono» Il futuro Pontefice fece questo appunto durante il Venerdì Santo del lontano 1950
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apa Giovanni XXIII scriveva molto, annotava anche gli aspetti pratici della quotidianità. Da giovane era stato collaboratore de «L’Eco di Bergamo» e quindi sicuramente avvertiva anche la vocazione per la comunicazione, il giornalismo, la ricerca storica. Annotò nel Giovedì Santo del 1950 su uno dei suoi quaderni: «Portai con me in que-
sto viaggio i fascicoli delle note spirituali scritte in questi anni – dal 1925 al 1950 – a mio scotimento, a mia compunzione, ad aumento di fervore episcopale, nelle varie occasioni di ritiro spirituale che colsi lungo la via in Bulgaria, in Turchia, in Francia. Ho riletto tutto ancora una volta, con calma, come in una confessione: e recito il Miserere (che è mio) e il Magnificat (che è tutto del Signore), a mia penitenza e a esercizio di umiltà sincera e confidente... In Bulgaria, i contrasti delle circostanze più ancora che degli uomini, e la monotonia di quella vita intessuta e scalfita da quotidiane punture, mi costò molto di mortificazione e di silenzio. Ma la tua grazia mi mantenne il gaudio interiore, che mi aiutò a nascondere le angustie e i disagi. In Turchia l’impegno delle sollecitudini pastorali mi fu tormento e gioia. Non avrei potuto, dovuto fare di più, con sforzo più deciso, ed andare contro la inclinazione del mio temperamento? Nella stessa ricerca della calma e della pace, che ritenevo più conforme allo spirito del Signore, non era sottaciuta una tal quale indisposizione all’impiego della spada, ed una preferenza a ciò che anche personalmente è più comodo e più facile, anche se di fatto la dolcezza è definita la plenitudine della forza? O Gesù mio, tu scruti i cuori; e il punto giusto in cui la ricerca stessa della virtù può trascinare a difetto o a eccesso, a te solo è noto. Ciò che sento come dovere mio, è di non invanirmi di nulla...». Nel Venerdì Santo di quel 1950, il futuro Papa annotava: «Ieri sera i Matutini tutto solo: stamane in capella le Ore coi Quattro Miserere e la liturgia odierna, accompagnata in ispirito, leggendo sul Messale, come se assistessi alla cerimonia in qualche chiesa solenne: come se la presiedessi
Un testo originale tratto dalle agende di Roncalli
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annotazioni
(ancora) io stesso a Sofia, o a Santo Spirito di Istanbul. Il mio presente. Eccomi dunque ancora vivo a 69 anni in corso: prostrato sul Crocifisso a baciargli il viso e le piaghe santissime, a baciargli il cuore scoperto: eccomi qui in atto d’amore, di dolore. Come non rinnovare a Gesù il mio ringraziamento di trovarmi ancora vivo e robusto di corpo, di spirito, di cuore? ... Qualcuno segue la mia povera persona con ammirazione, con simpatia: ma, grazie a Dio, io sento rossore di me stesso, del poco che sono in un posto così importante dove il Santo Padre mi volle e mi
tiene per sua bontà. Da tempo, e con nessuna fatica, faccio professione di semplicità... E resto fedele al mio principio che parmi abbia sempre un posto di onore nel discorso della montagna. Beati i poveri, i miti, i pacifici, i misericordiosi, gli assetati di giustizia, i puri di cuore, i tribolati, i perseguitati... termino queste note al suono delle campane di Pasqua della vicina cattedrale del Sacro Cuore. E ricordo con gioia l’ultima mia omelia di Pasqua a Istanbul nel commento alle parole pasquali di S. Gregorio di Nazianzo: Voluntas Dei, pax nostra».
Salesiani, don Claudio Cacioli superiore a Milano Il bergamasco don Claudio Cacioli, dal 2005 direttore del Centro salesiano di Treviglio (Bergamo), da agosto guiderà l’Ispettoria salesiana di Milano, a cui fanno capo le 25 strutture dell’opera di don Bosco in Lombardia, Emilia Romagna, Svizzera e San Marino. Il neo ispettore è stato nominato direttamente da don Pascual Chávez Villanueva, l’ottavo successore di San Giovanni Bosco alla guida della congregazione salesiana. Un incarico di prestigio e più che meritato per don Claudio, che in questi anni a Treviglio ha saputo farsi apprezzare per la sua umanità e le grandi doti organizzative. «Non me l’aspettavo – dice commosso don Claudio –, pensavo che avrei trascorso qui a Treviglio altri tre anni per portare a termine i lavori in corso di costruzione della nuova ala dell’istituto». Invece il direttore è stato convocato nella casa generalizia di Roma, nello studio di don Pascual Chávez: «Con un sorriso mi ha rivolto queste parole: “Caro don Claudio, a nome di don Bosco ti chiedo di fare l’Ispettore della Lombarda per il prossimo sessennio: che cosa mi dici?”. Ho risposto: “Caro don Pascual, sono venuto a Roma per obbedire a don
Treviglio era diventato ispettore: don Bosco e al Rettor Maggiore...”». Eugenio Riva, trevigliese, direttore L’incarico sarà effettivo da agosto, dal ‘94 al ‘99 e ispettore fino al quando don Claudio lascerà Trevi2005 (oggi ricopre lo stesso incarico glio alla scadenza naturale del all’ispettoria veneta). Don Claudio mandato di direttore (che dura 6 Cacioli, 44 anni, è nato a Milano, ma anni, eventualmente prorogabili di dall’età di 2 anni ha vissuto (fino al tre come avvenne per l’indimenti1991) a Selvino (Bergamo), paese cato suo predecessore don Emilio d’origine della mamma (il papà è Bruni) per approdare all’’istituto invece di Arezzo). Entrato nei SaleSant’Ambrogio di via Copernico, siani, ha frequentato il noviziato a sede dell’Ispettoria lombardoPinerolo, studiato filosofia a Nave, emiliana, una delle sei nelle quali è frequentato il tirocinio formativo a divisa l’Italia (le altre sono: PiemonSondrio, teologia a Torino Crocette tese, Veneta, Italia Centrale, Italia e al seminario di Brescia. E’ stato Meridionale e Sicula). ordinato sacerdote salesiano il 19 A capo di 25 strutture giugno 1999 a Milano. L’incarico di ispettore sarà ricco di responsabilità per don Cacioli, chiamato a coordinare l’attività delle 25 strutture e dei 320 salesiani che fanno capo all’Ispettoria San Carlo Borromeo. Don Claudio s u b e n t re r à a don Agostino Sosio. Già un ex direttore del Don Claudio Cacioli ripreso nel suo studio centro salesiano di
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INTERVISTE
Capovilla: «Roncalli portò la Pasqua in mezzo ai fedeli» Subito dopo la sua elezione a Papa mi disse: «Non sono prigioniero del Vaticano»
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’ello studio entra la luce del pomeriggio di questo aprile dolce, monsignor Capovilla è seduto alla sua scrivania, un tavolo semplice come la stanza. Ma ingombro di documenti, di libri. Capovilla, arcivescovo di Mesembria, lavora ogni giorno, dall’alba al tramonto, scrive, legge, studia a Sotto il Monte, nella Cà Maitino dove Angelo Giuseppe Roncalli, Papa Giovanni XXIII, trascorse tanti periodi di villeggiatura. I suoi novantacinque anni destano meraviglia. Nelle scorse settimane ha ricevuto per la sua opera, per i suoi studi, la più importante onorificenza prevista dall’Accademia Russa delle Scienze. Monsignore, che cosa ha provato alla notizia del riconoscimento? «Ho provato gioia. Sono un vecchio pellegrino, insaziabile di luce e di amicizia. Mi sono sentito di ringraziare con i fiori di campo che nascono dal cuore, i fiori di stima e apprezzamento. Quell’attestato è uno stimolo a guardare alto e lontano. Un senso di gratitudine. Ben consapevole di essere nulla, perché, come scrive Pasternak, “Essere famoso non è bello, non è questo
che eleva in alto”. Ma nulla si deve attendere e nulla si deve rifiutare: l’attesa manifesta presunzione, il rifiuto può manifestare orgoglio. Io penso che questo riconoscimento sia legato alla mia vita, ma soprattutto a quella di Papa Giovanni». In quale senso? «Io sono un amanuense, un ricercatore e chiosatore di testi di Papa Giovanni XXIII, l’uomo mandato da Dio a invitare i cristiani a essere custodi e testimoni della grande tradizione che, nel pensiero illuminato di Charles Péguy, è “un appello da una tradizione meno perfetta a una tradizione più perfetta... Una ricerca in sorgenti più profonde; un attingere alla sorgente, nel senso letterale della parola”». Che cosa ricorda delle Settimane Sante trascorse accanto a Papa Giovanni come suo segretario? «In quei giorni di Pasqua si ritrova il Papa Giovanni di sempre, il Papa che sorprende il mondo subito dopo la sua elezione, che dice al decano del Collegio Cardinalizio: “Io non mi considero prigioniero del Vaticano” e già il 21 novembre del 1958 esce e va a Castel Gandolfo a pregare accanto al letto dove morì Papa Pio XII. E poi le cose che ben conoscono tutti, il Natale negli ospedali, il giorno di Santo Stefano in carcere. E così all’apertura della sua prima Quaresima distribuì le ceneri a S. Sabina, la basilica paleocristiana che sta sull’Aventino. Papa Giovanni riprese a celebrare la Messa a Pasqua mentre in precedenza veniva celebrata da un prelato...». Perché questa apertura costante verso la gente, verso i fedeli? «Certamente questo fu dovuto alla personalità di Papa Giovanni. Ma bisogna anche considerare che il terreno era stato preparato dai suoi predecessori. Papa Giovanni poté riprendere a essere pienamente il vescovo di Roma dopo le difficoltà causate anche dalle questioni inerenti l’unità d’Italia, la presa di Roma e via dicendo. In privato,
Il cardinale Angelo Roncalli con Pio XII e, a destra, il segretario Loris Capovilla: siamo nel periodo pasquale del 1958, a ottobre Roncalli diventerà Papa
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interviste
il giorno di Pasqua, amava come sempre la semplicità. Si pranzava tranquillamente, il Papa in genere invitava o il più vecchio nunzio a riposo oppure il cardinal Testa, bergamasco, suo amico. Era un invito che aveva sempre a che vedere con un senso di carità, di amicizia fraterna. Era un pasto frugale, come sempre». Fu con Giovanni XXIII che il Papa riprese a compiere gesti importanti come la lavanda dei piedi. «Sì, certo, fu Papa Giovanni. Dovette fronteggiare un po’ di ritrosia negli ambienti vaticani, ma il Papa non si faceva scoraggiare. La lavanda dei piedi la celebrava in San Giovanni in Laterano. Ci teneva molto. A Venezia, da patriarca, aveva lavato i piedi anche ai gondolieri. Lo faceva con vero affetto, convinto. Lui era così, amava davvero la gente. Una volta, passeggiavamo nei giardini vaticani, mi disse che avrebbe preferito passeggiare a Villa Borghese, così avrebbe incontrato le famiglie, i bambini... Dispose che la macchina del Papa, fuori dal Vaticano, non avrebbe avuto precedenza sulle altre, ma avrebbe rispettato ogni aspetto del codice della strada, semafori compresi. Così capitava che la macchina del Papa, pur scortata, si fermasse ai semafori e che magari si accostasse un autobus. Allora era una festa di gente che salutava, sorrideva... Papa Giovanni era felice. Giravamo per Roma in auto e il Papa ricordava la sua giovinezza per quelle strade quando ancora esistevano sentimenti anticlericali piuttosto forti e allora sorrideva e diceva che il mondo era cambiato e che oggi si gridava “viva il Papa”». C’erano dei pensieri inerenti la Pasqua che Angelo Roncalli amava in particolare? «Mi piace riprendere le parole di un’omelia che nel 1936 l’allora vescovo Roncalli pronunciò a Istanbul. Citò le parole dell’evangelista Giovanni: “Sono io la risurrezione
e la vita; chi crede in me, anche se è morto, vivrà. E ogni vivo e credente in me non morirà in eterno” e poi Roncalli aggiunse: “Sono parole tra le più misteriose che siano state mai pronunciate sulla Terra. Esse hanno trasformato il volto della morte... A Roma, nel grande cimitero del Verano, mi ha sempre fatto impressione la bella statua del Redentore, che domina il campo della morte chiuso dal quadriportico marmoreo. I superstiti vi passano davanti, allorché vanno alla ricerca delle tombe dei loro cari. E’ commovente la scena. Ciascuno reca i fiori della pietà familiare. Ma appena arrivato innanzi alla statua, ciascuno leva dal mazzo il fiore più bello e lo depone ai piedi di Gesù, là dove è scritto: Ego sum resurrectio et vita”». Monsignore, cinquanta anni fa, poco dopo Pasqua, si svolgeva il primo grande pellegrinaggio diocesano dei Bergamaschi a Roma, in omaggio al Pontefice. Che cosa ricorda? «Fu un momento molto particolare, molto intenso. C’era davvero un’atmosfera pasquale, gioiosa. Credo sia importante ricordare alcune parole che il Papa rivolse ai pellegrini bergamaschi, il Papa allora riferendosi a se stesso doveva usare il “noi”. C’era stata l’impresa spaziale di Yuri Gagarin, c’era la sensazione che il mondo si stesse aprendo verso qualche cosa di nuovo. Tra l’altro disse: “Non ci attribuiamo merito alcuno di quanto è accaduto, e sta accadendo nella diffusione, nella ricerca e nell’esercizio di una pace che sta tra il rispetto della tradizione antica e la fiducia riposta nelle giovani generazioni, che si aprono alla grazia della vita e alle elevazioni dell’apostolato cristiano. Riconoscendo che tutto viene da Dio, una volta chiamati a un servizio così alto, ci siamo offerti a una cooperazione modesta, ma generosa e sincera agli impulsi della sua divina volontà”».
Per dieci anni è stato segretario di Giovanni XXIII Monsignor Loris Capovilla fu segretario particolare di Angelo Giuseppe Roncalli dal 1953 al 1963, da quando era patriarca in Venezia fino alla sua morte avvenuta il 3 giugno 1963. Successivamente divenne arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto,
poi venne nominato alla delegazione pontificia del santuario di Loreto con il titolo arcivescovile di Mesembria (Bulgaria), in ricordo dell’arcivescovo Roncalli che pure ebbe quel titolo nel 1934. Don Loris è nato nel 1915 a Pontelongo in provincia di Padova,
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venne ordinato sacerdote nel 1940, nel 1943 fu protagonista di azioni umanitarie per sottrarre i soldati italiani dalla deportazione in Germania. Dal 1989 abita a Sotto il Monte, in quella Cà Maitino dove Angelo Roncalli trascorse tante delle sue vacanze estive.
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Il presidente Napolitano: «E’ stato profeta dei diritti» Il Capo dello Stato parla della «Pacem in Terris» in un libro sul Papa bergamasco
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roponiamo ai nostri lettori un interessante servizio, a firma di Paolo Aresi, pubblicato nello scorso 2 febbraio dal quotidiano «L’Eco di Bergamo». In occasione del cinquantesimo anniversario dell’elezione di Papa Giovanni XXIII, poco più di due anni fa, venne pubblicato il volume «Di chi è questa carezza?» edito da Marcianum Press di Venezia. Nel volume vengono riportate alcuni interventi relativi al pontificato di Angelo Giuseppe Roncalli. Fra gli altri quello del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che si sofferma in particolare sull’enciclica «Pacem in Terris» apparsa nel 1963.
«Colpito dal suo afflato umano» Ha scritto il presidente: «Quando l’enciclica apparve, essa colpì soprattutto e profondamente per la portata innovativa del discorso sul rapporto tra cattolici e non cattolici in campo economico, sociale, politico; per quell’audace distinzione tra l’errore e l’errante; per quel pacato riconoscimento della possibile presenza di elementi positivi in movimenti storici, pure originati da false dottrine filosofiche; per quell’approccio insieme aperto e lungimirante, volto a favorire ogni dialogo utile alla causa della pace interna e della pace internazionale. Vorrei ricordare l’impressione che perciò l’enciclica suscitò in me come in molti altri certamente classificabili tra gli “erranti”. E voglio ricordare l’emozione profonda che suscitò in noi la figura di Giovanni XXIII anche per il suo afflato umano». Nel volume sono presenti interventi anche da parte dei cardinali Dionigi Tettamanzi, Tarcisio Bertone, Paul Poupard, del vescovo di Bergamo Francesco Beschi e del sindaco di Sotto il Monte, Eugenio Bolognini. Dice ancora il presidente della Repubblica: «Rileggendola oggi, colpisce la trattazione sistematica di tutti i problemi, i presupposti, i principi cui è legata la fondazione di un’autentica pace». Giorgio Napolitano nel suoi intervento pone in luce come i principi dell’enciclica si siano in parte realizzati nel processo di integrazione europea, di una pace fondata sulla solidarietà. Scrive Napolitano che questo è un «Altro principio cardine dell’encicliclica “Pacem in Terris”, che infatti recita: “I rapporti tra le comunità politiche vanno regolati nella verità e secondo giustizia”, ma quei rapporti vanno pure “vivificati dall’operante solidarietà, attraverso le mille forme di collaborazione economica, sociale, politica, culturale, sanitaria, sportiva”... Pace fondata sulla solidarietà, pace fondata sui diritti della persona. Io
Giovanni XXIII, il Pontefice bergamasco molto apprezzato da Napolitano
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testimonianze
trovo che tutta la parte sui diritti di questa enciclica sia qualcosa di eccezionalmente vivo e anticipativo. E’ stato solo molto tempo dopo che l’illustre filosofo laico, Norberto Bobbio, ha introdotto la formula della “età dei diritti”. Direi che nella enciclica “Pacem in terris” è precisamente espressa questa intuizione: viviamo nella età dei diritti». La sussidiarietà Il presidente Napolitano nel suo intervento sottolinea il valore profetico e politico dell’enciclica del Papa bergamasco in ordine alle vicende del continente europeo, al grande sforzo di pace, alla tensione verso un nuovo ordinamento, una collaborazione, una sussidiarietà fra gli stati. E riferendosi alla Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 il presidente scrive: «Io direi che questo ha rappresentato davvero un traguardo di grandissima importanza, pienamente corrispondente alla ispirazione della “Pacem in terris”, nella quale si ritrovano affermazioni ed espressioni diventate familiari nel linguaggio dell’Unione europea: il paragrafo 52 dedicato al trattamento delle minoranze; il
Napolitano (a sinistra) con Togliatti a Napoli nel 1953
paragrafo 74, dedicato al principio di sussidiarietà, che ormai è un tema stringente, qualche volta perfino proposto in termini ossessivi nel dibattito attuale nella Convenzione di Bruxelles. Ma è un principio che trae le sue radici dalla tradizione cristiana e che viene formulato in modo estremamente efficace e convincente nella “Pacem in terris”».
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«I Due Giovanni», le loro vite sono corse parallele Il libro narra il percorso fatto dai due Papi e l’incontro tra Wojtyla e Roncalli
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l titolo «I Due Giovanni» è ampiamente didascalico e anticipa in maniera inequivocabile le aspettative dei lettori. Un binomio, quello dei «Due Giovanni», che già si preannuncia come un grande successo editoriale. Si tratta di un volume di 140 pagine edito da Emmeci-Roma, corredato di fotografie in parte inedite, scritto dal pronipote di Giovanni XXIII in occasione della Beatificazione di Giovanni Paolo II. Racconta pagine anche poco note della vita dei due Papi, come l’incontro fra il card. Wojtyla e Giovanni XXIII, la loro devozione mariana, il loro approccio al segreto di Fatima e altri argomenti di grande interesse. Il volume in edizione bilingue italiano-polacco è disponibile da fine aprile al prezzo al pubblico di euro 5.90. Questo un breve profilo dell’autore. Emanuele Roncalli, pronipote del Beato Papa Giovanni XXIII, giornalista e saggista, è autore di numerose pubblicazioni di carattere storico e religioso. Biografo di famiglia di Papa Roncalli, ha scritto varie opere sulla vita dell’illustre prozio. Ha seguito in va-
rie occasioni i pellegrinaggi di Giovanni Paolo II in Italia. Dopo la morte del Papa polacco ha raccontato con una serie di servizi giornalistici le giornate del Conclave dal quale è uscito Benedetto XVI. E’ autore e regista del film “Il Papa della bontà”, Emmevision International Roma, tradotto in spagnolo. Esperto di Palazzi Vaticani, è stato più volte collaboratore e ospite di programmi Rai (Porta a Porta, La Grande Storia, Racconti di vita) e Mediaset (Vite Straordinarie, Retequattro). Di seguito proponiamo, ai nostri lettori, il capitolo iniziale della pubblicazione. Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII. Il Papa Grande e il Papa Buono. Due Pontefici entrambi beati. Le loro vite si sovrappongono per 43 anni: dal 1920, anno di nascita di Karol Wojtyla, al 1963 anno della morte di Papa Roncalli. Nonostante le diverse età, le loro esistenze a ben guardare la cronologia degli eventi, per molti aspetti sono corse parallele e – più di una volta – si sono intrecciate. Il sottile filo del destino di due uomini di Chiesa si è spesso unito e annodato. La beatificazione di Giovanni Paolo II è l’ultimo evento – ma solo in senso temporale – che accomuna i due successori alla Cattedra di San Pietro. Papa Roncalli lo aveva preceduto il 3 settembre 2000 ed era stato lo stesso Papa Wojtyla ad elevarlo agli onori degli altari, proclamandolo beato. Sfogliando le biografie dei due Pontefici, desta un certo stupore scoprire tratti e analogie che li hanno accomunati, nonostante nel medesimo tempo abbiano coperto ruoli e incarichi diversi e soprattutto siano vissuti in luoghi e contesti spesso assai lontani fra loro. Già le radici, le origini paiono assai simili. Famiglie semplici, temprate dalle fatiche del lavoro, ma timbrate dalla forte fede. Roncalli nasce in un paese bergamasco alla fine dell’Ottocento: una famiglia patriarcale, povera, dove i genitori e i figli grandi lavorano la terra. Le giornate sono scandite
Papa Giovanni XXIII ripreso durante una cerimonia
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pubblicazioni
dalle attività nei campi e nelle stalle, ma anche dai bronzi del campanile che richiamano alle preghiere, alla messa, alle liturgie dell’anno. Semplice e modesta è anche la famiglia del piccolo Karol, che fra l’altro deve fare i conti con la perdita della madre a soli 9 anni, oltre che di un fratello a 12 anni e di una sorella morta prima che lui nascesse. Ma è la fede che accomuna le due famiglie e le aiuta a superare i momenti più bui e critici. Wojtyla e Roncalli hanno entrambi attraversato il Novecento e conosciuto le tragedie delle guerre, della deportazione, del nazismo. Entrambi in quel periodo vivevano nei Paesi dell’Est: Wojtyla in Polonia, Roncalli in Turchia dove come Delegato Pontificio, grazie ai buoni rapporti con il Corpo Diplomatico e con i rappresentanti pontifici dei paesi danubiani, riuscirà ad aiutare le comunità ebraiche perseguitate. Le analogie non si fermano di certo qui. Seguendo entrambi la vocazione, hanno messo a frutto la loro formazione come docenti di Teologia, l’uno nel Seminario di Cracovia, l’altro in quello di Bergamo. E’ singolare poi il fatto che sia il bergamasco che il polacco abbiano svolto un ruolo pressoché identico a favore dei giovani durante i primi anni di sacerdozio. Roncalli nel novembre 1918 diede inizio alla Casa dello Studente a Bergamo Alta; Wojtyla fu cappellano degli Universitari fino al 1951. Questa attenzione verso i giovani è sempre stata viva nei due Papi. Non bisogna di certo dimenticare che fu proprio Giovanni Paolo II a ideare – dal 1985 – le Giornate Mondiali della Gioventù. In tempi assai diversi e lontani, il sacerdote Roncalli si fece promotore di circoli della Gioventù (1919), di circoli studenteschi a Bergamo, di comitati per l’unione delle donne cattoliche. Il 1958 è un anno segnato da straordinari eventi per il prete polacco e il cardinale bergamasco. Wojyla il 28 settembre 1958 riceve l’ordinazione episcopale nella cattedrale di Cracovia, dalle mani dell’arcivescovo Eugeniusz Baziak. Esattamene un mese dopo – il 28 ottobre 1958 – il patriarca di Venezia diventa Papa assumendo il nome di Giovanni XXIII. E vent’anni più tardi, ancora una volta nello stesso mese di ottobre, il card. Wojtyla verrà a sua volta eletto Pontefice. Coincidenze temporali, certo, ma la vita di Roncalli e Wojtyla che è corsa su due binari paralleli per lunghi decenni, ad
un tratto si è incrociata. Nell’ottobre 1962, a pochi giorni dall’apertura del Concilio Vaticano II, mons. Wojtyla accompagnato dal card. Wyszynski, vescovo di Cracovia, primate di Polonia e da altri prelati polacchi è ricevuto in udienza da Giovanni XXIII. Wojtyla e Roncalli sono l’uno davanti all’altro. Il polacco si genuflette per baciare l’anello al Papa. Roncalli lo guarda soave. Chi avrebbe mai detto allora che in quel preciso giorno si sarebbero incontrati due successori alla Cattedra di Pietro? Ma così ha voluto l’Altissimo. Di quell’incontro restano alcune rare foto che li ritraggono assieme. E Wojtyla fu anche uno dei partecipanti a quella straordinaria primavera della Chiesa che tutti conosciamo con il nome di Concilio Vaticano II. Il vescovo polacco vi prese parte (1962-1965) con un personale contributo nella costituzione Gaudium et Spes e alle assemblee del Sinodo dei Vescovi. In questi brevi note sarebbe riduttivo proporre una sorta di confronto e parallelismo delle attività dei due Pontefici. Ci pare però importante sottolineare il gesto di Papa Wojtyla che – dopo aver proclamato beato Giovanni XXIII – ha dato disposizione per essere sepolto nella stessa tomba della Cripta Vaticana, dopo la traslazione del beato nella Basilica di San Pietro sotto l’altare di San Gerolamo. Ora anche Wojtyla ha lasciato quella tomba che aveva ospitato le spoglie del Papa bergamasco ed è sotto un altare della basilica vaticana. I due Papi beati riposano assieme nella gloria dei Santi. Questi, infine, i contenuti dell’indice. I DUE GIOVANNI Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ovvero il Papa Buono e il Papa Grande, entrambi beati. Breve introduzione sul perchè dell’opera LE ORIGINI Due Pontefici dalle radici comuni, la semplicità delle due famiglie, i genitori, i paesi natali GUERRA E PACE Entrambi vivono periodi storici caratterizzati da conflitti bellici. Roncalli da giovane durante la prima guerra mondiale era stato cappellano militare, da Papa ha vissuto il periodo della guerra fredda. Wojtyla da giovane fuggì da Cracovia durante la seconda guerra mondiale, da Papa ha 15
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visto ancora le guerre in tanti Paesi. Un accenno anche a quel tumulto di popoli che ha portato all’abbattimento del muro di Berlino. La pace resta comunque sempre al vertice del pensieri di entrambi i Pontefici. Le loro encicliche, i messaggi, le esortazioni, le richiesta di pace nei Paesi dilaniati dalla guerre CONCILIO ED ECUMENISMO Roncalli fu l’iniziatore del Concilio. Wojtyla ha portato il vento conciliare ovunque. Interessante parlare anche dell’ecumenismo, del rapporto con gli altri cristiani, del dialogo interreligioso cardini dell’apostolato di entrambi i Papi LA DEVOZIONE MARIANA IL SEGRETO DI FATIMA L’INCONTRO 1962. Il seminarista Wojtyla accompagnato dal vescovo di Cracovia con altri religiosi è ricevuto in udienza da Papa Giovanni XXIII: c’è una foto rarissima che li ritrae
assieme. Spieghiamo cosa avvenne in quell’incontro e cosa scrisse Roncalli nei suoi diari personali RONCALLI A CASA DI WOJTYLA Prima di diventare Papa, Roncalli visita la Polonia in almeno due occasioni: le città visitate, i pellegrinaggi WOJTYLA A CASA DI RONCALLI Wojtyla visita Sotto il Monte paese natale di Papa Roncalli nel 1981 LA STESSA TOMBA Quanto Papa Giovanni è stato beatificato la sua salma è stata portata dalla cripta delle Grotte Vaticane direttamente nella Basilica Vaticana dove è tutt’ora. Nel posto lasciato vuoto nella cripta Giovanni Paolo II ha chiesto di essere sepolto LA BEATIFICAZIONE Wojtyla ha beatificato Papa Giovanni. E oggi Ratzinger beatifica Wojtyla. Interessanti anche i due miracoli che sono serviti a beatificare i due Papi
La copertina del volume sui due Papi scritto da Emanuele Roncalli, pronipote del Pontefice bergamasco
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Gesù di Nazaret, la vittoria dell’amore nella storia C’è tutto Joseph Ratzinger nelle 348 pagine dell’ultimo volume del Pontefice
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orse può essere utile partire dalla fine, dalle frasi che hanno suggestione letteraria, sfiorano la poesia e inchiodano il senso della fede cristiana. Benedetto XVI è preoccupato solo di una cosa, nel suo libro su Gesù di Nazaret: spiegare che quell’uomo è venuto sulla terra per dimostrare che nella storia bisogna adottare un metodo nuovo, quello dell’amore. C’è tutto Ratzinger e c’è l’intero suo pontificato, nelle 348 pagine del libro. Una frase sta soprattutto le altre: «La vittoria dell’amore sarà l’’ultima vittoria della storia del mondo». Così inizia l’articolo sul nuovo libro del Pontefice, firmato da Alberto Bobbio e pubblicato a marzo su «L’Eco di Bergamo». Ecco il seguito del servizio. E’ un Dio che non giudica, ma ama, il Gesù di Nazaret del Papa. Ama nonostante tutto, ama la sua Chiesa che spesso «naviga con il vento contrario della storia», attraverso «l’oceano agitato del tempo», che «spesso si ha l’impressione che debba affondare». Eppure «il Signore è presente e viene nel momento opportuno». Anzi il Signore, anche se se ne è andato in cielo, «rimane». La poesia di Ratzinger fornisce certezza che quel Gesù non se ne è andato su «un astro lontano». Sono le ultime parole del libro, le più belle, squisite di passione e forza letteraria. Scrive il Papa che «Gesù parte benedicendo» e che «le sue mani restano stese su questo mondo»: «Le mani benedicenti di Cristo sono come un tetto che ci protegge». E questa è «la ragione permanente della gioia cristiana».
to per capirne la grandezza e l’efficacia nella storia. Insomma, bisogna raccontarlo anche da un altro punto di vista. Bisogna conoscere il Gesù dei Vangeli, l’uomo della fede. Benedetto XVI non si sottrae alle dispute. Il libro è un contrappunto di interpretazioni teologiche, di suggestioni esegetiche, di sollecitazioni storiche, che hanno intrecciato duemila anni di storia non solo della Chiesa, ma anche della cultura laica. Ben sa che la materia è delicata e mette in fila le analisi pure della filosofia. Ma avvisa: «Ho cercato di tenermi fuori dalle controversie». Pilato e la pax romana E premette: «Ho cercato di sviluppare uno sguardo sul Gesù dei Vangeli e un ascolto di Lui che potesse diventare un incontro». Chi è Gesù di Nazaret? Alla fine è questa la domanda. E la risposta è quella classica: «E’ un re». Ma il «vero re» è quello «privo di ogni potere». Lo spiega nel capitolo sulla crocifissione, dove quel manipolo di soldati romani, che chiama «il plotone di esecuzione», esegue la condanna a
Fuori dalle controversie Lo racconta con sapienza, quel Gesù. Non scrive una storia della sua vita, non narra le vicende del «Gesù storico». Osserva che non basta conoscere la vicenda terrena di quell’uomo effettivamente vissu-
Alcuni volumi dell’ultima opera del Pontefice
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cuni guai. Benedetto XVI non si limita tuttavia a dire che non era un rivoluzionario. Argomenta, e a lungo, riprende la questione più volte. La prende da lontano, da quando Gesù va al tempio e scaccia i mercanti, spazzando via nella concezione del cristianesimo ogni connessione tra affari e culto. Ha fatto bene o male? Ratzinger cita Vittorio Messori, che con lui ha scritto «Rapporto sulla fede», e accredita la sua tesi: Gesù ha compiuto solo un atto di purificazione, insomma gesto religioso e non politico, in perfetta sintonia con la legge ebraica, per impedire un abuso nei confronti del tempio.
morte di uno che si era macchiato praticamente del delitto di blasfemia agli occhi degli aristocratici del tempio, e sul quale i romani si astennero dal giudizio in nome della «pax romana». E’ il filo rosso del volume: spiegare che tipo di re fosse quel giovane che non aveva paura di nulla e si considerava re. Gesù compie i gesti del re. Arriva a Gerusalemme e dice ai suoi di requisire un asino: «Gesù rivendica il diritto regale della requisizione dei mezzi di trasporto, un diritto noto in tutta l’antichità». Ma è differente dagli altri re, è un «re dei poveri», della «pace», della «semplicità», e restituisce l’asino. Ma non è un re capopopolo. Era un rivoluzionario? Era un resistente che sfiorava pratiche di terrorismo? Il Papa lo dice subito all’inizio, che la «regalità» di Gesù «non si fonda sulla violenza», né «avvia una insurrezione militare contro Roma». E’ una preoccupazione smentire nel libro tesi che hanno suggestionato la storia e hanno prodotto al-
Morto per tutti, non per tanti La violenza come metodo non sta nell’orizzonte di Gesù e non deve stare neppure in quella dei cristiani di ogni tempo. Spiega con chiarezza che ogni violenza «motivata religiosamente» porta a «risultati terribili» che stanno «in modo drastico davanti agli occhi di tutti noi»: «La violenza non instaura il regno di Dio, il regno dell’umanesimo». Dunque il «sovvertimento violento, l’uccisione di altri nel nome di Dio, non corrispondeva al suo modo di essere». Ma neppure il suo insegnamento si può ridurre ad una «morale», ad una sorta di «riarmo etico» per riconquistare la storia. Né serve «menar le mani» come fa Pietro dopo l’arresto di Gesù. E infatti il «suo eroismo finisce con il rinnegarlo». Benedetto XVI racconta le ore della Passione, svolge piano la sua lezione per la Chiesa e per i cristiani di oggi. In qualche disputa si infila, come quella sulla data dell’Ultima cena e come quella della responsabilità dell’intero popolo ebreo nella condanna, che nega e attribuisce solo ai leader del tempio. O come quella che continua a dividere sul fatto che il sanBenedetto XVI che tra l’altro ha scritto: «Le mani benedicenti di Cristo sono gue di Gesù sia stato versato per come un tetto che ci protegge» «molti» e non per «tutti». Ratzin18
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occupazione per la carriera è più forte della paura di fronte alle potenze divine». Ratzinger continua il racconto della Passione. Descrive i «beffeggiatori» di Gesù lungo la strada del Calvario e si occupa dei due ladroni crocefissi con lui. E qui sorprende il lettore. Intanto spiega che sono terroristi anch’essi, «combattenti della resistenza», guerriglieri di Barabba: che non era un pirata straccione, ma un vero e proprio leader antagonista dei romani e degli ebrei che li appoggiavano.
ger la risolve così: «La morte di Gesù vale per “tutti”, la portata del sacramento è più limitata. Esso raggiunge molti, ma non tutti». Ma Gesù, ribadisce, «è morto per tutti». Come un legal thriller Le pagine più straordinarie sono quelle del racconto del processo a Gesù, già anticipate ma che adesso si possono leggere nella loro completezza. E’ Caifa che diventa strumento di Dio, «l’esecutore della volontà di Dio, anche se la sua motivazione era impura, non rispondente alla volontà di Dio, ma mirante a scopi egoistici». Ratzinger inchioda il lettore. Lo stile sfiora quello dei «legal thriller» nel resoconto del processo davanti al Sinedrio e poi a Pilato, per il quale Gesù era un re «senza legittimazione», quindi un «ribelle» che «minacciava la pax romana», dunque «reo di morte». Pilato sa bene che le cose non stavano del tutto così, ma non fa nulla per cambiare la storia. Ha paura, come ogni romano, della potenza degli dei, anche di un Dio strano come quello di cui gli riferisce Gesù, ma – scrive il Papa – «alla fine la pre-
I ladroni come due terroristi Allora il pentimento di uno dei due cos’è stato? Un rinnegamento della sua lotta? Il Papa dice che è troppo semplice, anzi che non è proprio così. Non accenna ad alcun pentimento. Dice solo che uno dei due ha riconosciuto in quel crocifisso il figlio di Dio. Punto e basta. Il resto non conta. Conta solo che uno dei due non si è associato alla «derisione» e intuisce il «mistero di Gesù». E’ la lezione di Ratzinger, che spiega in un altro passo: «La nostra personale moralità non basta per venerare Dio in modo giusto».
Addio a Domitilla, angelo dei bambini nell’Africa E’ morta nella notte tra lunedì 17 e martedì 18 gennaio a Johannesburg, in Sud Africa, Domitilla Rota Hyams, l’eroina bergamasca che, nel 1967, ha fondato il più grande istituto per bambini handicappati gravi del continente africano. Nata nel 1918 all’Albenza di Almenno San Bartolomeo (nella Bergamasca) Domitilla è partita dopo la guerra per il Sud Africa con il suo Daniel Hyams, un prigioniero di guerra sudafricano, fermatosi per chiedere aiuto a casa Rota durante la fuga dal campo di concentramento dalla Grumellina. L’opera compiuta da questa donna con in tasca un’istruzione da quarta elementare è eccezionale. Incurante delle restrizioni dell’apartheid in Sud Africa, delle dispute religiose in corso negli anni Sessanta e dei sei figli che
crescevano con le mille faccende da sbrigare, Domitilla ha elaborato la sua filosofia del dolore. «Abbiamo cominciato nel 1967 con dieci rand, la nostra moneta, che equivalgono a pochi centesimi di euro – raccontava nel 2007 Domitilla Rota – una cifra ridicola anche allora. Quest’anno festeggiamo il 40° e ancora non riesco a crederci. Ma so una cosa: sono stati la Provvidenza e la preghiera alla Madonna. Solo così si spiega come siano arrivati i soldi. Abbiamo cominciato con tre bimbi, adesso sono 300». «Guardando i bambini malformati e malati che venivano, e vengono, affidati alle cure dell’istituto Little Eden – diceva ancora Domitilla – c’è chi prova a dire che sono errori o scherzi della natura, punizioni,
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insegnamenti, strumenti di salvezza, segni divini. Io dico invece che sono doni di Dio». Domitilla ha intuito i bisogni dei bambini, dall’esperienza di aver cresciuto sei figli e dal desiderio di aiutare coloro che gravano sulle spalle delle sole madri, e ha interpretato gli sguardi quasi muti accompagnati dalla litania di pianti disperati. Il progetto di Little Eden è portato avanti dalla famiglia di Domitilla e dal marito Daniel. Alcune autorità hanno giudicato Domitilla una folle al pari della persone di cui si prendeva cura, altre le hanno attribuito onorificenze e onori. E’ così che Domitilla è diventata l’eroina sudafricana dell’anno nel 1980 e cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica Italiana il 2 giugno 1999.
EVENTI
Ghiaie: catechesi, storia e leggenda a Radiomaria Presunte apparizioni, l’emittente ha ampiamente divulgato quanto si è detto o scritto
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utte le pubblicazioni su Ghiaie sono in favore delle apparizioni; dopo il libro di don Cortesi in 60 anni è uscito solo il libretto di don Marino Ducci che nega le apparizioni. Fatta questa constatazione, onestà vuole si aggiunga che siamo lungi da una storia autentica, perché quanto si dice e si scrive su Ghiaie è da sempre frammisto a elementi leggendari, che si tramandano. Certamente nella diffusione della devozione alla Madonna delle Ghiaie il posto principale lo occupa oggi Radiomaria: la cosa non sorprende se si tiene presente che p. Livio è nato a Brembo di Dalmine, a poca distanza in linea d’aria da Ghiaie. Va riconosciuto a Radiomaria il merito della abbondante catechesi mariana, che sarebbe stata anche
migliore se avesse tenuto conto dei rilievi mossi dal vescovo di Verona mons. Zenti: troppo spazio al demonio, troppo spazio a Medjugorje. Riconosciuto il merito quanto alla catechesi, bisogna dire che quanto alla storia di Ghiaie l’emittente di Erba ha fatto da cassa di risonanza a quanto si è detto o scritto, storia o leggenda che fosse. La leggenda, è ovvio, non nasce a Radiomaria, ma Radiomaria l’ha ampiamente divulgata. La storia delle apparizioni è stata presentata a Radiomaria da p. Angelo Tentori prima e le sue trasmissioni sono confluite in un libro edito dalle Paoline. Poi Lucia Amour ha letto a puntate il libro di p. Raschi e ha edito un libro presso l’editrice Shalom; sono state organizzate tavole rotonde; innumerevoli le trasmissioni dedicate all’argomento. Per leggenda-Ghiaie intendo una serie di luoghi comuni falsi che si trasmettono come sicuri e una serie di silenzi rigorosamente mantenuti. I principali capitoli della leggenda, oggi corrente, in ordine cronologico sono: 1 Il silenzio sulla contrarietà alle apparizioni dei parroci della zona. 2 La reticenza sul numero delle negazioni di Adelaide. 3 Il silenzio sui motivi del cambiamento di don Cortesi. 4 La lamentela che Adelaide non ha avuto l’avvocato al processo. 5 La lamentela che al processo non sono stati esaminati i miracoli. 6 La richiesta che il processo ritenuto invalido andrebbe rifatto. 7 Il vescovo Bernareggi, dubbioso, avrebbe voluto consultare il Papa. 8 Papa Giovani sarebbe stato favorevole alle apparizioni. 9 Il silenzio sul primo diario di Adelaide. 10 Il black- out sulla ritrattazione di mons. Battaglia. Ecco un breve richiamo per ciascuno dei punti indicati.
Un’immagine sorridente di Lucia Amour
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eventi
1 Il SILENZIO SUL GIUDIZIO NEGATIVO IMMEDIATO DEI PARROCI DELLA ZONA I parroci di Presezzo, Ponte S. Pietro, Bonate Sopra e Madone hanno preso posizione, a pochi mesi dalle asserite apparizioni, con documenti, il più importante dei quali è la lettera collettiva a p. Stefano Lamera ove si sostiene: “con libertà e franchezza facciamo presente quae vidimus et audivimus e le conclusioni dedotte sono negative in rapporto alla soprannaturalità dei fatti. Diciamo: NON CREDIAMO, PERCHE’ ABBIAMO VEDUTO”. Ben prima di don Cortesi, senza bisogno di interrogare la bambina, ma attraverso l’esame dei fatti come l’ambiente predisposto, le mancate profezie di Adelaide, la mancata pace alla data preannunciata e altri particolari valutati sul posto, hanno portato questi sacerdoti alla seguente conclusione: “Alla luce dei più elementari e sicuri principi di teologia ascetica non vi è altra conseguenza logica che questa: i fatti di Ghiaie sono di origine umana”. Nessun cenno nei loro interventi per il “martirio di Adelaide”, le sue negazioni, le ritrattazioni, tutte cose venute dopo.
te. Ma la leggenda, per quanto accanita e cattiva, non ha mai tentato di rendere ragione del cambiamento certissimo di don Cortesi. Se Adelaide ha detto una bugia, si spiega perché don Cortesi da favorevole sia diventato sfavorevole. Ma, se si nega la bugia, che cosa ha indotto e solo da un certo momento don Cortesi a cambiare giudizio in modo radicale? Il cambiamento deve avere una spiegazione, ma la leggenda su questo particolare decisivo ha offerto finora il vuoto assoluto. Anzi, Arnaboldi Riva, storico alle tavole rotonde di Radiomaria, è giunto a sostenere, contro tutte le testimonianze dell’epoca, che don Cortesi fin dal primo giorno avrebbe considerato Adelaide come indemoniata. 4 AL PROCESSO E’ MANCATO L’AVVOCATO DIFENSORE E’ un altro falso luogo comune ripetutissimo anche a Radiomaria. E’ vero che diverse sessioni hanno registrato l’assenza di mons. Angelo Bramini, ma il suo compito non era quello di assistere Adelaide nelle risposte che da sola era in grado di dare ai giudici, ma di portare gli argomenti adatti a provare il carattere soprannaturale delle apparizioni. Il 16 novembre 1947 mons. Bramini ha potuto scrivere al parroco di Ghiaie di “aver compiuto con rigida scrupolosità il mandato e di averlo compiuto nel modo migliore che mi è stato possibile”. Frutto del suo lavoro è stata l’elaborazione di tre me-
2 LA RETICENZA SUL NUMERO DELLE NEGAZIONI I libri e Radiomaria parlano di una, due, tre negazioni al massimo. Fiumi d’inchiostro sono stati dedicati al biglietto di ritrattazione del 15 settembre 1945, scritto alla presenza del solo don Cortesi. A questo documento tanto controverso si può rinunciare come elemento di prova della negazione di Adelaide, perché sono noti altri documenti: “la negazione ripetuta in confidenza nell’Istituto delle Orsoline, la confessione confermata alla sua stessa mamma, la confessione per tre o quattro sere alla cugina Nunziata, le confessioni fatte davanti al Tribunale prima in confidenza a mons. Merati solo, e poi a tutti i membri riuniti” (relazione mons. Castelli 8 luglio 1947). 3 IL SILENZIO SULLA RAGIONE DEL CAMBIAMENTO DI DON CORTESI Moltissimo si è scritto su don Cortesi “inquisitore”, tanto che mons. Pesenti ha deplorato nel 2000, in consiglio presbiterale, il linciaggio morale durato quarant’anni contro la sua persona, anche dopo la mor-
P. Livio Fanzaga ripreso al suo tavolo di lavoro
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Tre relatori impegnati in una trasmissione
morie difensive di complessive 68 pagine dattiloscritte: come si può parlare di mancata difesa? Lette queste relazioni si deve prendere atto che mons. Bramini non è riuscito nel suo intento: lui stesso se ne è reso conto, l’ha dichiarato e si è dimesso prima del giudizio conclusivo. Ha infatti tentato di rendere ragione delle negazioni di Adelaide, che ha ammesso, anche se secondo lui “la questione sorta dalle negazioni della bambina preoccupa più di quello che non dovrebbe la commissione giudicante”. Ma la spiegazione che lui ha presentato era irricevibile non solo dal tribunale, ma dal senso comune: sostenne che le negazioni “possono essere attribuite ragionevolmente ad interventi umani, come a causa occasionale, ad interventi diabolici come causa efficiente. Anziché un argomento contrario alla realtà delle apparizioni, ne costituiscono uno favorevole di indubbio valore” (relazione del 14.7.1947).
gerendo però una clausola concernente le dette guarigioni da aggiungersi al giudizio definitivo” (Studi e memorie, 1979, p. 423). L’aggiunta è stata così formulata dal vescovo: “Non intendiamo escludere che la Madonna, fiduciosamente invocata da quanti in buon fede la ritenevano apparsa, possa aver concesso grazie speciali e non ordinarie guarigioni, premiando in tal modo la loro devozione verso di Lei”. Mons. Bernareggi, alla domanda di don Viganò se si potesse dire che a Ghiaie erano avvenute guarigioni speciali, rispose con un’efficacissima immagine: “Si potrebbe anche dire che sono avvenuti dei miracoli, ma se la bambina dice che non è vero, che cosa ne faccio? E’ come se avessi un bel quadro, ma mi manca il chiodo per appenderlo” (Il pungolo su Bonate, marzo 1981). 6 IL PROCESSO NON E’ GIURIDICAMENTE VALIDO E DEVE ESSERE RIFATTO Da subito il presidente del tribunale mons. Merati replicò a mons: Bramini che da informazioni assunte dal vescovo “Il tribunale, non essendovi norme giuridiche per processi inquisitori del genere, poteva procedere con quei mezzi e metodi che potevano sembrare più opportuni a conoscere la verità. Non era un interrogatorio giudiziale condotto secondo le regole dei canoni per le cause giudiziali, ma apparteneva alla potestà amministrativa del Vescovo” (Lettera in copia presso l’autore). Il deluso mons. Bramini fece dei passi al Santo Ufficio e presso il card, Schuster per la revisione del processo; la stessa richiesta fu avanzata dai vescovi Battaglia, Bignamini e Benedetti a Papa Giovanni; poi dall’Associazione fondata dal prof. De Giuseppe e poi da altri ancora, ma la risposta della Santa Sede fu sempre negativa. Questo continuo rifiuto della Santa Sede di revisione significa o no qualcosa? Ma Radiomaria continua a chiedere la revisione del processo perché, a giudizio dei canonisti di Erba, sarebbe invalido, anzi una farsa.
5 AL PROCESSO NON SONO STATI PRESI IN ESAME I MIRACOLI La cosa è certa, ma la leggenda non informa che questa decisione risale al Santo Ufficio e non alla diocesi di Bergamo. Mons. Magoni, segretario del tribunale, ha scritto: “l’assessore del Santo Ufficio richiesto se convenisse esaminare alcune guarigioni non ordinarie rispose che tale esame se le apparizioni non risultavano sufficientemente provate, era inutile, sug22
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7 IL VESCOVO BERNAREGGI, DUBBIOSO, AVREBBE VOLUTO CONSULTARE IL PAPA Il vescovo non solo viene presentato come dubbioso e a lui vengono attribuite frasi del tipo: “Come uomo credo, ma come vescovo devo seguire le conclusioni della commissione”. La leggenda, seguendo mons. Piccardi, dal 1978 parla anche di una postilla scritta, che il vescovo avrebbe voluto aggiungere al testamento. Ma quanto mons. Adriano fosse sicuro della sua decisione su Ghiaie appare evidente dalla risposta che il 4 agosto 1952, quindi a pochi mesi dalla morte, diede a mons. Montini, che gli aveva chiesto perché Adelaide non fosse stata ammessa alla vestizione: “Io non mi sono sentito di potere in coscienza dare il mio benestare all’ammissione della Roncalli in noviziato. Approfitto dell’occasione per ripetere ancora una volta che per quanto la linea che io seguo per rapporto ai fatti di Ghiaie sia conforme a quello che la coscienza mi detta, non vorrei operare contro le intenzioni dei Superiori.…”.
DIARIO DI ADELAIDE Tutti i libri su Ghiaie parlano del diario di Adelaide pubblicato da p. Raschi nel 1959, ma dalla biografia del beato card. Schuster, scritta da p. Leccisotti, sono venuto a conoscere l’esistenza di un precedente diario di Adelaide, depositato in curia a Milano, che reca la firma di Adelaide e la data del 30 gennaio 1950 e ne ho dato notizia nel 2005. P. Raschi non vi accenna mai e sorge la domanda: Adelaide ne ha parlato al suo confessore? Come si spiega il silenzio di P. Raschi? Il silenzio su questo diario dura tuttora e Radiomaria, in una tavola rotonda, ha preso una grossa cantonata: “Questi giudizi non erano suoi ma erano i giudizi che mons. Cortesi gli faceva pervenire. Chi ha conosciuto il card. Schuster sapeva che non era una persona poco intelligente, anzi era intelligentissimo. Era prudentissimo e mai sarebbe sceso a certe dichiarazioni… Il card. Schuster mai avrebbe detto una sciocchezza del genere… Vedete quanta malinformazione in buona o cattiva fede. Sarebbe ora per amore della verità di chiarire tutto”. Basta, come replica, esibire la foto delle note autografe del cardinale? Questo diario, che è il primo, autografo, confrontato col diario corrente fa sorgere degli interrogativi: • Quali sono le parole autentiche che la Madonna avrebbe detto? • Perché la “profezia” che a 14 anni la bambina si sarebbe fatta suora non figura nel diario scritto quattro anni dopo le apparizioni?
8 PAPA GIOVANNI CREDEVA ALLE APPARIZIONI Per non ripetermi rimando al capitolo del libro che ho pubblicato l’anno scorso (p. 96 – 111). Aggiungo solo due informazioni sul libro di p. Raschi: “L’asserzione che il Papa leggesse mattina e sera il libro e piangesse sul bene che poteva venire dalle apparizioni di Ghiaie e non è venuto, non fa onore a chi l’ha messa in circolazione, tanto essa è manifestamente inventata di sana pianta” (Lettera di mons. Capovilla a Stambazzi). Papa Giovanni, anche a detta di P. Raschi, avrebbe mandato copia del libro al Santo Ufficio, con suo autografo attestante che lui credeva alle apparizioni. Ma p. Goggi che è andato a cercarlo ha scritto a mons. Capovilla che del libro al S. Uffizio non vi è traccia (Lettera di p. Goggi in copia presso l’autore). 9 IL SILENZIO SUL PRIMO
Il locale con le apparecchiature per le trasmissioni
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Di certo ci credeva il vescovo Battaglia, che con altri due vescovi chiese la riapertura del processo e fece giungere al Papa la lettera che Adelaide scrisse il 13 maggio 1960 (quella vera, non quella falsa, avvallata inizialmente anche da Radiomaria…). Mons. Battaglia fu anche eletto presidente dell’associazione del prof. De Giuseppe che pubblicava la rivista “Il pungolo su Ghiaie”. Ma nel 1982 il bollettino ufficiale della diocesi di Bergamo pubblicava a pag. 385 questa sua dichiarazione: “Siccome per la Santa Sede non consta della realtà delle apparizioni, ritengo che sia mio dovere accettare ciò che essa ha dichiarato e desidero che non si faccia più il mio nome, né si facciano mie pubblicazioni per ciò che riguarda i fatti di Bonate”. Tanto fu reclamizzata la lettera del Papa a lui, altrettanto è stata sistematicamente rimossa questa definitiva presa di posizione del vescovo di Faenza; non l’ho mai trovata citata in 27 anni da nessuno.
La cappella nella sede dell’emittente
• Il card. Schuster leggendo nel primo diario “fino a quando non è giunta la Sua ora non se ne andrà dal Vaticano” ha annotato a lato “con la morte”. Gli altri diari modificano il testo in “non uscirà dal Vaticano”, per cui la leggenda vi ravvisa la profezia della non cattura del Papa. Quale la versione autentica? 10 BLAK-OUT SULLA RITRATTAZIONE DI MONS. BATTAGLIA Chi, se ha letto qualcosa su Ghiaie, ignora che Papa Giovanni ha inviato al vescovo Battaglia una lettera l’8 luglio 1960? Penso nessuno, tanto é stata sbandierata in lungo e in largo come la prova che Papa Giovanni credeva alle apparizioni.
Questi 10 punti della leggenda sono ancora oggi correnti; non sono gli unici e in passato ce ne sono stati anche di più vistosi: Suor Lucia di Fatima fatta venire a Roma da Pio XII; Hitler telefona di sequestrare Adelaide; le suore orsoline organizzano a Gandino un finto funerale di Adelaide; si tenta di drogare il vescovo Battaglia per un ricovero coatto ecc… Radiomaria non ha inventato nessuno di questi luoghi comuni falsi, ma li ha rilanciati: è mancato il filtro di un inventario di verifica. E’ pienamente condivisibile la lamentela di Radiomaria che l’archivio della curia di Bergamo sull’argomento è a tutt’oggi inaccessibile. Qualche documento però in questi anni è stato pubbliL’ampia sala dedicata agli eventi e alle riunioni nella sede di Radiomaria cato; molte pagine sono state ri24
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portate “virgolettate e in corsivo” perché documenti d’epoca, anche nei miei articoli dal 2005 e nel mio libro del 2010. Una presentazione più rispondente alla storia su alcuni particolari, anche prima dell’apertura degli archivi della curia, avrebbe potuto venir fuori. Va riconosciuto a Radiomaria il merito di aver tenuto separata nettamente la Ghiaie di Adelaide da ambigui personaggi che hanno tentato di inserirsi. Fermo il giudizio di p. Tentori nella tavola rotonda del 2004: Alcune note vergate a mano dal card. Schuster “Riguardo a Pino Casagrande preferiamo dissociarci perché non ha nulla a che fare con il nostro tema e con lo svolgersi lo di far sentire anche la campana di chi non crede di quello che è la vera devozione alla Madonna delle alle apparizioni: “possiamo tornarci sopra magari anGhiaie. Molti purtroppo hanno confuso il fatto delle che con altre persone che la pensano diversamente da Ghiaie con il fatto di Pino Casagrande”. Altro perso- noi per un confronto sereno su questo tema, che deve naggio della stessa tipologia è l’indio Edson Glau- interessare tutti i cristiani” (Montonati, alla stessa ber: entrambi trovano ampio spazio sulla rivista tavola rotonda). In un contesto saturo di leggenda sarebbe stato certamente utile. Senapa. Un programma annunciato invece che, per quanto Don Marino Bertocchi mi risulta, Radiomaria non ha finora attuato è quel-
L’addio a suor Ildefonsa, una vita per i malati Ha speso la sua vita di religiosa come infermiera generica con polso da manager, stando accanto a malati, partorienti e anziani. Ovunque ha lasciato grande traccia per la sua professionalità e umanità, perché per lei il malato non era un numero. Si è spenta il 31 gennaio scorso, nella clinica San Francesco a Bergamo, suor Ildefonsa Minelli. Aveva 92 anni e da tempo era afflitta dai malanni dell’età. Era sorella dell’indimenticato don Serafino, morto sei anni fa, già superiore del Patronato San Vincenzo e direttore dell’Ufficio
diocesano per la pastorale della salute e sofferenza a Bergamo. Elena Minelli nasce a Zorzino di Riva di Solto (Bergamo), il 31 ottobre 1918, in una famiglia contadina, secondogenita di sette fratelli. Nel 1942 entra nelle suore di Carità delle sante loveresi Capitanio e Gerosa, dove consegue il diploma di infermiera generica. Emette la professione perpetua nel 1952 a Milano. Subito inizia il suo lungo apostolato fra i malati: ospedale di Vaprio d’Adda, casa di riposo Santa Savina a Lodi e nella maternità dell’ospedale. «In questo
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reparto – ricorda la consorella suor Giovanni Gladi – ha lascito un ricordo perenne. Aiutava le mamme bisognose con un consiglio, con un pacco dono e lasciando il suo recapito in caso di necessità». Poi passa nell’ospedale di Gorgonzola e nella casa di riposo di Brignano. Dal 1988 al 1995 è nella casa di riposo di Ardesio. Le forze della religiosa cominciano a declinare con l’età. E’ ospite dapprima nella casa di riposo del suo istituto a Sovere (Bergamo) e infine nella casa provincializia in via San Bernardino a Bergamo.
OPERE
E’ dello scultore Balljana il reliquiario di Papa Wojtyla Contiene il sangue del Pontefice ed è esposto in Vaticano alla venerazione dei fedeli
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’ di Carlo Balljana – lo scultore trevigiano che ha realizzato monumenti e portali dedicati a Papa Giovanni a Sotto il Monte – il prezioso reliquiario con il sangue di Giovanni Paolo II che è stato esposto alla venerazione dei fedeli dopo la beatificazione in Vaticano avvenuta lo scorso 1° maggio. «Il maestro Balljana – scrive il card. Stanislao Dziwisz – diffusamente conosciuto dalla critica ufficiale come lo “scultore del vento”, è stato spinto a fare il reliquiario dedicato al Beato Papa Giovanni Paolo II dalla sera dei funerali del Pontefice nel 2005. Sulla bara del Santo Padre è stato deposto il vangelo aperto. Improvvisamente si è abbattuto, come fu per il giorno di Pentecoste, un vento talmente gagliardo, solo sul Sagrato della Basilica, da chiudere il libro come se con la morte del Pontefice si fosse chiusa una tappa dell’evangelizzazione. L’artista vuole presentare invece il futuro della missione del Papa: il Vangelo si è riaperto per la nuova Evangelizzazione». Il reliquiario contiene il sangue del Beato Giovanni Paolo II. E’ stato prelevato il 2 aprile 2005, giorno della sua morte, dai medici al fine di effettuare analisi. Carlo Balljana è conosciuto ai bergamaschi per le sue numerose opere realizzate in terra orobica, fra le quali
il monumento a Papa Roncalli nella casa natale di Sotto il Monte, il portale della parrocchiale dello stesso paese, l’albero della vita al vicino Pime, il monumento per le suore della Sacra Famiglia a Comonte di Seriate (Bergamo) per fare solo alcuni esempi. Lo scultore ha poi realizzato opere su Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II per la Città del Vaticano, Sofia (Bulgaria), Istanbul (Turchia). Lo scorso ottobre ha vinto il primo premio assoluto alla Biennale Internazionale di Lecce (www.carloballjana.it)
Il reliquiario realizzato da Carlo Balljana
Lo scultore durante la fase di realizzazione del manufatto
Mons. Dario e mons. Oder Postulatore con al centro lo scultore Carlo Balljana
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INIZIATIVE
San Giovanni Bosco ritratto nelle figurine per bambini Uscite nel 1946 e 47, lo raffigurano impegnato nelle istituzioni da lui promosse
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ttorniato dai ragazzi in un oratorio, o impegnato – di volta in volta – in una scuola serale, nel laboratorio di un corso professionale, in una colonia agricola. Così San Giovanni Bosco (1815-1888) appare in una serie di immagini riprodotte nel libretto «Il Santo educatore. Don Bosco nelle figurine Liebig del ‘900», presentato a Roma all’Università Pontificia Salesiana, alla presenza del «rettore maggiore» della congregazione don Pascual Chávez Villanueva. L’autore del testo, Roberto Alessandrini, è docente di Antropologia all’Istituto superiore «Progetto Uomo», affiliato all’Università Salesiana. Nelle sue ricerche, ha spesso indagato i significati manifesti o latenti delle immagini e dei rituali di diverse tradizioni religiose: l’Editrice Missionaria Italiana, ad esempio, ha pubblicato nella collana Parole delle Fedi due suoi saggi, intitolati Immagini e Gesto (ciascuno di 64 pagine, euro 4,50). L’evento legato a don Bosco è stato presentato di recente in un articolo a firma di Giulio Brotti pubblicato sul quotidiano «L’Eco di Bergamo». Un servizio simpatico che proponiamo all’attenzione dei nostri lettori. Ma com’è accaduto – prosegue così l’articolo – che don Bosco venisse ritratto nelle figurine che, fino a qualche decennio fa, venivano date in omaggio a chi acquistava l’estratto di carne «inventato» dal barone tedesco Julius von Liebig (1803-1873)? E quale motivo d’interesse si può trovare in queste immagini di qualità non eccelsa dal punto di vista artistico? «Le ho scoperte casualmente – spiega Alessandrini – mentre conducevo una ricerca nel Museo della Figurina di Modena, che è forse il più importante nel suo genere, a livello internazionale. Tra le 500 mila immagini dell’Otto e del Novecento raccolte nel Museo (frutto della passione collezionistica di Giuseppe Panini, che negli anni Sessanta del secolo scorso lanciò in Italia, con i suoi fratelli, gli album di figurine dei calciatori), ho trovato appunto queste sei, risalenti al 1946 o al 1947: le prime cinque raffigurano don Bosco impegnato in alcune delle istituzioni educative
da lui promosse, mentre l’ultima è dedicata alle “missioni salesiane”, e rappresenta un sacerdote dell’ordine che evangelizza un gruppo di indios». Un santo attuale La figura di don Bosco – già definito come «un santo italiano ed il più italiano dei santi» – doveva risultare particolarmente attuale nel nostro Paese, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Don Bosco nell’ambientazione degli oratori festivi
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iniziative
formare l’immaginario collettivo in misura anche maggiore rispetto alle rappresentazioni tipiche della “cultura alta”. Del resto, la serie che la Liebig dedicò a don Bosco offre una perfetta sintesi di come viene immaginato e descritto uno dei santi più popolari nella storia della Chiesa». Raffigurato con o senza la berretta a tricorno, è anche uno dei santi più «riconoscibili». Un ritratto pittorico «Il ritratto tradizionale del fondatore dei Salesiani – prosegue Alessandrini – è il risultato di un curioso gioco di “rispecchiamenti”. Nella prima figurina della serie della Liebig, don Bosco appare anche all’interno di un medaglione dorato, a mezzo busto: è un uomo maturo ma dall’aspetto giovanile, sorridente, dallo sguardo intenso, con i capelli un po’ mossi (Roland Barthes, scrivendo dell’Abbé Pierre, osservava che “l’idea di moda è antipatica all’idea di santità”). Questo disegno è stato ricavato da una fotografia che a sua volta riproduce un celebre ritratto pittorico del 1941 di Mario Caffaro Rore, Don Bosco patrono degli editori cattolici». Questo dipinto aveva però ulteriormente, come modello, un’immagine che Michele Schemboche – uno dei pionieri della fotografia in Italia – aveva scattato nel 1880, raffigurando don Bosco seduto in poltrona. Di ritratti del genere, talvolta modificati con ritocchi e fotomontaggi, ne furono realizzati più di una quarantina. Anche in questo don Bosco fu un santo moderno, il primo a lasciare che la propria immagine fosse tramandata da un discreto numero di fotografie, nella consapevolezza che questo procedimento poteva avere un valore strategico per l’evangelizzazione. Per ulteriori informazioni e per richiedere copie de Il Santo educatore, contattare l’Istituto superiore «Progetto uomo», www.istitutoprogettouomo.it, tel. 0761.371045. Accanto ai ragazzi Giovanni Melchiorre Bosco nacque a Castelnuovo d’Asti nel 1815. Già da bambino, intratteneva con acrobazie e giochi di prestidigitazione i suoi coetanei, a cui però proponeva anche di recitare il Rosario. Ordinato prete nel 1841, iniziò a radunare e a educare i ragazzi poveri di Torino, fondando nel rione di Valdocco il suo primo oratorio. Nel 1854 istituì la Società Salesiana, ispirandosi alla figura di san Francesco di Sales, e nel 1872, insieme a Maria Domenica Mazzarello, la congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Morto nel 1888, all’alba del 31 gennaio, don Bosco fu beatificato nel 1929 e canonizzato nel 1934.
«Come nell’Ottocento – prosegue Alessandrini – occorreva qualcuno che si occupasse dei giovani, degli orfani, della formazione professionale, in un Paese che in gran parte doveva essere ricostruito. La mia ipotesi, per la verità, è che queste figurine Liebig fossero state ideate in vista del decennale della canonizzazione di don Bosco, nel 1944, e che poi la guerra avesse indotto l’azienda a rinviarne la pubblicazione. Il discorso meriterebbe di essere approfondito, nel senso che sarebbe anche interessante indagare se in questo e in altri casi delle congregazioni religiose abbiano potuto fungere da “committenti” di tali operazioni pubblicitarie». Così come le «immaginette» e gli ex voto, anche le figurine potrebbero interessare gli studiosi della pietà popolare. «Tradizionalmente – osserva Alessandrini – le figurine sono state considerate un trastullo per bambini, in senso riduttivo. Spesso, invece, hanno assolto delle funzioni educative, con un carattere quasi “enciclopedico”: nel caso delle raccolte Liebig, sul retro delle immagini vi erano analitiche descrizioni-spiegazioni dei soggetti raffigurati. Io credo che le figurine, come i fumetti, abbiano contribuito a
Scuole serali, ospizi e orfanotrofi
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CELEBRAZIONI
Don Guanella e mons. Conforti saranno santi a fine ottobre Il Pontefice canonizzerà anche la suora spagnola Bonifacia Rodriguez de Castro
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’ aranno canonizzati il prossimo 23 ottobre in Vaticano. E’ stato Benedetto XVI, alla fine dello scorso febbraio, ad annunciare la data della cerimonia con cui don Luigi Guanella, fondatore dei Guanelliani, e monsignor Guido Maria Conforti, fondatore dei missionari saveriani, diventeranno santi. Con loro il Pontefice canonizzerà anche una suora spagnola, Bonifacia Rodriguez de Castro, che fondò una congregazione per dedicarsi alle giovani operaie povere e sfruttate. L’appuntamento del prossimo fine ottobre è stato comunicato da Benedetto XVI alla fine del Concistoro ordinario, quello cioè che si tiene con i soli cardinali residenti a Roma. Dopo aver approvato la canonizzazione, il Papa ha annunciato in latino che i tre beati saranno annoverati tra i santi: «In sanctorum numero censendi». Prima della comunicazione pubblica il Pontefice, insieme ai cardinali, ha recitato il salmo 70, che descrive il carattere che accomuna i tre ormai prossimi nuovi santi, cioè la fiducia incrollabile nel Signore. Il Salmo 70 infatti recita: «Sei tu Signore la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza». Al contrario di don Luigi Guanella e monsignor Guido Maria Conforti che sono molto popolari in Italia, poco nota è invece la vicenda riguardante suor Bonifacia Rodriguez de Castro. La religiosa nacque nel 1837 a Salamanca, in Spagna, da una famiglia di artigiani e riuscì a soddisfare i suoi bisogni quotidiani attraverso l’attività di cordonaia. Questa esperienza lavorativa e le condizioni estremamente dure di vita la condizionarono a tal punto che una volta diventata suora decise di fondare una congregazione per il sostegno delle donne operaie. Tale coraggioso progetto, però, fu mal visto dal clero diocesano e suor de Castro si trovò addirittura nella condizione di essere disprezzata dalle sue consorelle. Tuttavia la religiosa non reagì mai a questo clima ostile e decise di vivere la sua esistenza nel silenzio e nella preghiera. Soltanto dopo la sua morte, av-
venuta nel 1905, vennero smontate le calunnie contro di lei e ora ne viene manifestata la santità. La stessa fiducia nel Signore è riconosciuta a don Guanella e a monsignor Conforti. Don Guanella rappresenta una «figura moderna del buon samaritano evangelico», ha sottolineato alla «Radio vaticana» il postulatore della causa, don Mario Carrera. La causa di beatificazione di monsignor Conforti venne avviata invece da padre Gianni Castelli, di Brignano Gera d’Adda, superiore generale dei Saveriani tra il 1956 e il 1966, in un momento in cui la congregazione fondata da Conforti era in crisi. Tra l’altro invitò il cardinale Roncalli alla celebrazione per i 25 anni dalla morte di Conforti e due anni dopo si aprì il processo di beatificazione. A sollecitarne l’apertura fu proprio Papa Giovanni XXIII. Luna Gualdi
Guido Maria Conforti, fondatore dei missionari saveriani
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P E R S O N A G G I
Via alla causa di beatificazione per i genitori di ventuno figli Licia Gualandris, bergamasca, e Settimio Manelli di Teramo si conobbero nel 1925
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(1907-2004), la Provvidenza. E oggi (il 20 dicembre 2010) nell’Aula della Conciliazione del Vicariato di Roma, per i due genitori si apre ufficialmente la causa di beatificazione. Originario di Teramo, Settimio Manelli era un uomo bello e colto, una laurea in Lettere classiche e il grado di tenente colonnello dell’aviazione. Era agnostico. Poi la conversione dopo l’incontro con San Pio da Pietrelcina, che più avanti ebbe a dire di lui: «Ecco una persona che attua il Vangelo alla perfezione» (dal libretto «Sposi e genitori esemplari. Settimio Manelli e Licia Gualandris» di Raffaele Iaria). «A 35 anni papà chiese la grazia di incontrare una ragazza che condividesse la sua fede e i suoi ideali cristiani». Poi Settimio arrivò a Bergamo, come professore di Lettere. A Nembro (Bergamo) Licia Gualandris cresceva in bellezza e fede. Dopo le superiori all’istituto «Armanni» di Bergamo, a 17 anni s’impiega nella ditta di Benigno Crespi, dove lavorava il papà. Era il 1925 e lei aveva 19 anni. A cena da un medico di Albino, incontra Settimio che all’epoca aveva 38 anni e insegnava all’istituto regio in città. L’anno dopo – il 15 luglio 1926 – si sposano nella chiesa parrocchiale di Nembro, poi scendono a San Giovanni Rotondo, dove Settimio presenta la sua sposa a Padre Pio, che dice: «Questa è la mia famiglia, proteggerla e difenderla me lo sono assunto come un dovere». Saranno marito e moglie per 52 anni, fino alla morte di lui nel Licia Gualandris e Settimio Manelli con alcuni dei loro 21 figli 1978, «mentre la mamma se ne
Si conobbero a una cena a casa di un medico di Albino (Bergamo). Papà vide lì la mamma per la prima volta e rimase colpito dalla sua grazia. Le disse: “Come sei bella, vorrei scolpirti in 20 figli di bronzo”». Si lascia scappare un sorriso padre Stefano Maria Manelli, fondatore dell’ordine dei Frati francescani dell’Immacolata: «I figli sono stati 21». Scolpiti nel grembo di una famiglia benedetta dal dono di una fede esemplare, in una casa dove – ricorda ancora padre Stefano – «la Provvidenza era come una persona. C’era solo lo stipendio di papà e le necessità erano tante. Allora invocavamo la Provvidenza e lei arrivava puntuale. La nostra era una vita piena di sacrifici e di bellezza, con la fede a guidare ogni nostro passo». L’articolo che proponiamo, a firma di Claudia Mangili, è stato pubblicato da «L’Eco di Bergamo» il 20 dicembre scorso. Il servizio così prosegue. Arrivò tante volte nella vita di Settimio Manelli (1886-1978) e della moglie Licia Gualandris
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personaggi
va nel 2004 – ricorda padre Stefano –. Abbiamo avuto la grazia di averla con noi fino a 96 anni e mezzo». I primi due figli vengono alla luce a Bergamo – Saulo e Giambattista, morti qualche anno fa – poi per Settimio, che era antifascista, cominciano i guai. Alla fine la famigliola segue papà a Fiume. Ogni figlio che nasce, scendono a San Giovanni Rotondo ma prima si fermano a Loreto, per consacrare il bambino nella Santa Casa di Nazareth. Dopo sette anni, i Manelli si trasferiscono a Foggia, vicino a Padre Pio e, infine, a Roma. «Papà voleva che tutti noi frequentassimo l’università – ricorda padre Stefano –, allora decise che saremmo andati a vivere a Roma, dove il papà divenne preside. Per fortuna... le bocche da sfamare erano tante» sorride ancora il francescano, che ricorda la mamma pulire, cucinare, lavare e stirare, allattare l’ultimo nato pregando e leggendo le vite dei santi, sorridente, serena, piena di gioia, circondata dai figli che diventano sempre più numerosi. Ma lei non dimentica di correre ogni mattina alla prima Messa, mentre il marito va a quella dopo per aspettare lei che arriva dai bambini. La sera tutta la famiglia chiude la giornata con la recita del Rosario. «Oggi siamo rimasti 10 figli – racconta padre Stefano –, ma i nipoti sono circa 50, e i pronipoti una settantina. Poi ci sono i frati e le suore, che sono un migliaio». Non si sono fermati a 21 i figli di Licia e Settimio. «La loro esistenza è stata percorsa da fasci di luce straordinaria, basta pensare al particolare legame intessuto con Padre Pio da Pietrelcina, ma anche dalle tenebre di un periodo storico piuttosto tormentato e che è stato causa di non pochi problemi per la famiglia Manelli» spiega don Silvio Longobardi, direttore di «Punto Famiglia», nel volumetto «Sposi e genitori esemplari» di Raffaele Iaria. «La generosa accoglienza della vita – osserva don Longobardi – ben oltre i canoni di un periodo in cui il numero di figli era piuttosto elevato, è segno di quella fiducia nella Provvidenza che dovrebbe essere la regola di vita per ogni cristiano».
Licia Gualandris nata a Nembro, nella Bergamasca
Settimio Manelli, originario di Teramo
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R E S TA U R I
«Così ho ridato luce all’urna di San Carlo Borromeo» Il manufatto, che sarà esposto fino a luglio, rimesso a nuovo dall’orafo Blumer
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i sono le abili mani di un orafo bergamasco nelle celebrazioni per il 4° centenario della canonizzazione (1° novembre 1610) di San Carlo Borromeo, cardinale arcivescovo di Milano, che hanno preso il via lo scorso 1° novembre con l’esposizione, fino al 31 luglio prossimo, nel Duomo di Milano, dell’urna seicentesca che contiene il corpo del santo. La notizia, a firma di Carmelo Epis, è apparsa su «L’Eco di Bergamo». Questo il servizio che riproponiamo ai nostri lettori. Il manufatto è stato infatti restaurato da Franco Blumer, 50 anni, nato a Bergamo, con la bottega di fronte alla storica Piazza Vecchia. «Da circa sei anni – racconta l’orafo bergamasco – sono impegnato nella manutenzione del Tesoro del Duomo di Milano, su incarico della Veneranda Fabbrica. In questo contesto, per il quarto centena-
rio di canonizzazione, sono stato incaricato di restaurare l’urna contenente il corpo di San Carlo». E’ un’urna storicamente e artisticamente preziosa. «Venne realizzata mirabilmente – prosegue Blumer – dall’orafo milanese Ambrogio Camnus nel 1638 su commissione dell’allora arcivescovo cardinale Cesare Monti, e donata da Filippo IV, re di Spagna». In vista dell’esposizione, l’urna necessitava di restauro, in quanto sarebbe stata visitata da schiere di fedeli. «Innanzitutto – racconta Blumer – il corpo del santo è stato collocato in un’urna argentea nello scurolo del Duomo. Quindi ha preso il via l’intervento conservativo da me eseguito, durato dodici giorni, lavorando quotidianamente anche dieci ore». «Il primo passo è stata la rimozione dei depositi di natura atmosferica, fumo di candele e residui di cera. Sono seguiti il consolidamento delle parti instabili e la verifica di tutti gli elementi. Infine è terminato il restauro con la ricollocazione del corpo del santo nella bellissima urna». «Il mio lavoro – sottolinea Blumer – riguarda oreficerie antiche, avori, vetrate legate a piombo, armi e armature. In particolare mi sono occupato del restauro della collezione dell’armeria del Museo Poldi Pezzoli di Milano. Attualmente, sempre per il Duomo di Milano, sto restaurando, la “situla di Gotofredo”, il più antico secchiello liturgico conosciuto, risalente agli anni 974-979, realizzato in avorio, e il “calice delle arti liberali” del XIII secolo». Le abili mani di Blumer hanno lavorato anche nella Bergamasca. «Per il museo Bernareggi ho restaurato la collezione delle oreficerie. Per la chiesa del Beato Papa Giovanni a Gavarno ho realizzato una statua bronzea del Pontefice». San Carlo Borromeo nacque ad Arona il 12 ottobre 1538 in una famiglia nobile. La madre era sorella di Papa Pio IV. Studiò diritto canonico e civile a Pavia. Nel 1562 venne chiamato a Roma dal Papa per la ripresa del Concilio di Trento, guadagnandosi la fama di grande organizzatore. Il cardinale morì il 3 novembre 1584 a 46 anni e venne canonizzato il 1° novembre 1610 da Papa Paolo VI.
Franco Blumer al lavoro sull’urna di San Carlo Borromeo
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Ringraziamo le persone che hanno sottoscritto abbonamenti al giornale e inviato offerte all’associazione Amici di Papa Giovanni ALBERTI ANNA MARIA ALFONSI BIANCHI CARMINA BACCIU MARIO BAIGUINI MARIA BALDINI GIOVANNA BARBARINO BIANCA BARBESINO GIANCARLO BARZAGHI ANGELA DONZELLI BELLANTONI MELINA BERTOLDI ANTONIA BERTUOL GIORGINA BETTIOLO RITA G. BIANCHI DOMENICO BOLLA LUCIA BONGERA BRICCA MARIA TERESA BONI PAOLO BONOMI ADELE BOSCHINI ELISABETTA BOTTI ANNA BUOIO ROSA CANNA CLARA CANZIAN WILMA CAPPELLINI NATALE CARCIOTTO DI SILVESTRO MARIA CARETTA IRMA CASOLO GINELLI PIERA CASTIGLIONI ANNA CAVALIERI ORNELLA CECI GIOVANNA CEFFA FRANCESCA CHIAMETTI NATALINA CIALOTTI FRASCHINI GIOVANNA COLOMBO ANNA MARIA COLOMBO CAROLINA COLOMBO FRANCA COLOMBO MARIA LUISA CONFORTI LUIGI COPES OSVALDO CORTINOVIS LIBERA CRUSCANTI BENOCCI ADA D’AMBROSIO ANNAMARIA D’ANDREA CONCETTA DAMBRUSO MARIA DAMIANO ANTONIO DANTE GINA
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nel 15° anniversario della scomparsa prematura di mio
fratello patrizio dondi e di mia mamma
bacchetta giovanna in dondi la figlia Mariella li ricorda con affetto
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Bisnonne, nonni e nonne, affidano l'amatissimo nipotino Matteo, alla protezione di Papa Giovanni XXIII
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I nonni e bismonne, affidano alla protezione di Papa Giovanni XXIII, i piccoli Tommaso, Alberto, Sofia e Alice
MUEL ASIA E SA
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Nonna Aurora, affida alla protezione di Papa Giovanni i nipotini Asia e Samuel affinche li protegga sempre
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