Rotary 30x30='900 completo

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30 × 30 = ’900 Trenta opere di artisti piacentini del Novecento per il trentennale del Rotary Farnese



30 × 30 = ’900 Trenta opere di artisti piacentini del Novecento per il trentennale del Rotary Farnese

A cura di Alessandro Malinverni


Questo libro è stato pubblicato in occasione della mostra pensata per il “Trentennale” del Rotary Club Piacenza Farnese

30 × 30 = ’900

Trenta opere di artisti piacentini del Novecento per il trentennale del Rotary Farnese a cura di Alessandro Malinverni 21 maggio - 18 giugno 2016 Progetto grafico: Ediprima in copertina: L. Ricchetti, La Rumba. Danza Spagnola, part., 1925, collezione privata ©2014 Biffi Arte S.r.l. Sede legale: via Brera, 16 - 20121, Milano La pubblicazione delle opere è stata autorizzata dai proprietari Finito di stampare da Ediprima nel mese di maggio 2016 Galleria Biffi Arte

p.zza sant’antonino - via chiapponi, 39 29121 piacenza

direttore artistico | Carlo Scagnelli assistente | Angela Ianni curatore | Susanna Gualazzini

con il sostegno di

da martedì a sabato 10.30-12.30 | 16.00-19.30 tel. 0523.324902 galleria@biffiarte.it - www.biffiarte.it


SOMMARIO Presentazione 5 Ragioni e percorso della mostra 7 Tre maestri: Ghittoni, Soressi e Concerti 8 Due allievi di Ghittoni: Ricchetti e Cassinari 12 Un allievo di Soressi: Cinello 20 Tre allievi di Concerti: Foppiani, Braghieri e Mosconi 24 Con altri maestri: Bonfatti Sabbioni, Arrigoni e Belloni 34 Biografie 44 Bibliografia essenziale

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Rotary Farnese: trent’anni di storia

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Questa mostra rende certamente merito ad alcune fra le migliori voci artistiche di primo Novecento della nostra città , ma nel contempo celebra l’intuito collezionistico degli amici del Rotary di Piacenza Farnese, con cui da tempo condivido l’amore per il bello. A questo intuito, a questa passione, apro con piacere le porte della Galleria Biffi Arte. Pietro Casella


PRESENTAZIONE L’

occasione di questo catalogo nasce dall’idea di celebrare degnamente i trent’anni di vita del Rotary Club di Piacenza Farnese. Una pubblicazione che non è solo la guida preziosa e ragionata dell’evento pensato per festeggiare un traguardo tanto importante, ma anche l’aggiornamento sintetico – eppure essenziale – dei service, dei progetti e delle attività più significativi degli ultimi dieci anni, che vanno ad aggiungersi a quelli consacrati nel bel volume I nostri primi vent’anni, realizzato dai nostri Soci nel 2005. In quell’anno storico, il Rotary Club di Piacenza Farnese, sotto la presidenza di Carlo Bazzoni, meritava la “Ruota d’oro”, a coronamento di “un anno di intensa attività”. Oggi, a dieci anni di distanza, possiamo ben dire che il Club ha continuato a offrire al territorio service importanti ed efficaci, in coerenza con i valori e i principi del Rotary International. Solo nel corrente anno sono stati messi in opera 24 service e progetti mirati al territorio e che hanno consentito di accendere i riflettori sulla situazione piacentina nei settori: sanità, welfare, territorio, stampa, sicurezza, cultura e arte, sia per sensibilizzare i Soci a operare al meglio nel contribuire a risolvere i problemi sia a intervenire fattivamente nelle situazioni critiche e a contribuire allo sviluppo e al sostegno delle persone e della società civile. La mostra 30 x 30 = ’900, curata mirabilmente dal nostro Socio Onorario prof. Alessandro Malinverni, intende significare un momento celebrativo e nel contempo offrire nel perfetto stile rotariano un service culturale alla città di Piacenza, che potrà ammirare opere di illustri pittori piacentini di proprietà dei Soci del Club. Per tutto questo mi corre l’obbligo di ringraziare il Consiglio Direttivo del Club e tutti i Soci per l’impegno, la disponibilità e l’entusiasmo con cui hanno collaborato alla realizzazione dell’evento; poi un grazie particolare va all’amico socio Pietro Casella cui si deve il sostegno morale e finanziario determinante e alla Galleria Biffi Arte, che con l’arch. Carlo Scagnelli ha offerto spazi e competenza di grande qualità. Il Presidente del Rotary Piacenza Farnese Giuseppino Molinari

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Ingresso principale della Scuola d’arte Gazzola, frequentata da quasi tutti gli artisti piacentini presenti in mostra (Archivio del Museo Gazzola)


RAGIONI E PERCORSO DELLA MOSTRA L

a mostra è realizzata da Biffi Arte con il Rotary Club di Piacenza Farnese in occasione del trentesimo anniversario di fondazione del club. Sviluppata su quattro sezioni, la rassegna è incentrata sull’influenza – più o meno intensa e duratura – che tre importanti docenti dell’Istituto d’arte Gazzola di Piacenza (Francesco Ghittoni, Alfredo Soressi e Umberto Concerti) ebbero su alcuni dei loro numerosi allievi. La prima sezione è dedicata a Luciano Ricchetti e Bruno Cassinari, allievi di Ghittoni; la seconda a Cinello, che ebbe come maestro Soressi; la terza a Gustavo Foppiani, Giancarlo Braghieri e Ludovico Mosconi, che si formarono sotto la guida di Concerti. Chiude la rassegna una sezione consacrata a Luigi Arrigoni, Sergio Belloni ed Ettore Bonfatti Sabbioni, che non frequentarono il Gazzola, e tuttavia ampliarono il ventaglio culturale dell’arte piacentina grazie alla formazione rispettivamente milanese, parigina e urbinate. Giocata sul numero 3 e sui suoi multipli, l’esposizione offre varietà tematica (soggetti sacri, scene di genere, ritratti, fiori, paesaggi, vedute), tecnica (dipinti, disegni, incisioni) e culturale (dal figurativismo – più o meno legato alla tradizione – all’Informale), con opere che coprono quasi tutto il Novecento (dal 1918 al 1999). Rispetto alle precedenti esposizioni del Rotary Farnese, organizzate nel 1999, nel 2007 e nel 2012, questa privilegia un aspetto poco indagato dell’arte piacentina del XX secolo: la relazione tra maestro e allievo, in particolare presso la scuola d’arte più antica della città. Tre sono i principi che hanno sostenuto le mie scelte: l’alta qualità delle opere, la loro appartenenza a soci del Rotary e la storicizzazione degli autori, ormai tutti scomparsi. La rassegna non è da considerarsi esaustiva: mancano infatti all’appello numerosi artisti piacentini, per motivi sia di spazio sia di reperibilità delle loro opere più significative nelle collezioni dei rotariani. Si tratta piuttosto del primo di futuri approfondimenti, nella convinzione che riflettere su un momento “aureo” dell’arte piacentina possa aiutare a rendere il futuro meno incerto, ma anche ribadire l’importanza di persistere nello studio e valorizzazione dei pittori locali, osservandoli da prospettive sempre differenti. Infine, l’esposizione rappresenta un omaggio a coloro che nel tempo si sono occupati con straordinaria passione e competenza di questi temi, come Ferdinando Arisi e Stefano Fugazza.

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Tre maestri: Ghittoni, Soressi e Concerti C

urare una mostra significa raccontare una storia. Quella di 30 x 30 = ‘900 è dedicata a sei artisti piacentini che ricevettero una prima formazione in città, al loro rapporto con i rispettivi maestri (spesso dialettico se non conflittuale) e al confronto con tre che si formarono invece altrove. La vicenda inizia quindi alla scuola d’arte del Gazzola nel 1908, quando Francesco Ghittoni fu chiamato ad affiancare l’anziano maestro Stefano Bruzzi alla cattedra di figura. Ghittoni aveva frequentato più di chiunque altro il Gazzola: dal 1867 al 1880, con un’interruzione nel 1876-1877, sperimentando il passaggio dall’impostazione neoclassica di Toncini a quella verista di Pollinari. Qui in mostra è rappresentato con un disegno, base di qualsiasi attività artistica. Fortemente radicato nella tradizione, volle trasmetterla agli innumerevoli suoi allievi, tra i quali si ricordano Luciano Ricchetti e Bruno Cassinari, spesso insofferenti ai suoi insegnamenti e attratti piuttosto dalle Avanguardie e dalla modernità. Mentre Cassinari, grazie agli studi a Milano, superò il figurativismo, Ricchetti vi restò fedele, talvolta riecheggiando l’antico maestro. Nel 1930 fu chiamato alla cattedra di figura Umberto Concerti. Esigente e rigoroso nell’insegnamento, insegnò sino al 1967, apportando novità didattiche (dalle gite alle visite alla Biennale) e stilistiche (una pittura più libera dalla tradizione). Concerti prediligeva il paesaggio, qui ben rappresentato da un’opera di valore. Forse non a un caso i suoi allievi più famosi, Foppiani, Braghieri e Mosconi, pur molto distanti dai suoi modi, rappresentarono spesso paesaggi tra il “fantastico” e l’Informale, con un accento “teatrale” che forse è da riallacciare all’insegnamento della scenografia che parallelamente Concerti impartiva a Parma dal 1945. Importante maestro fu anche il pittore e architetto Alfredo Soressi, che al Gazzola insegnò ornato dal 1925 al 1958. Tra i suoi numerosi allievi spicca Cinello, dalla maniera decisamente più “moderna” rispetto a quella del maestro, ma fortemente ancorata a una concezione tutta prospettica e architettonica dello spazio.

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Francesco Ghittoni (Rizzolo 1855-Piacenza 1928) Sacra Famiglia, 1918 Lapis su carta, 60 x 39 cm Firmato e datato in basso a sinistra: “FGhittoni | 1918� Collezione privata

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Alfredo Soressi (Mucinasso 1897-Piacenza1982) Veduta del castello di Rivalta,1954 Olio su tavola, 120 x 180 cm Firmato in basso a destra: “A. Soressi� Collezione privata

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Umberto Concerti (Stienta, Rovigo, 1891-Parma 1979) Sant’Agostino dagli orti sotto il Facsal, anni ‘50 Olio su tela, 44 x 43 cm Firmato in basso a destra: “Concerti” Collezione privata

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due allievi di ghittoni: ricChetti e cassinari

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econdo il nuovo piano di studi, redatto da Ghittoni nel 1915, la formazione al Gazzola durava sei anni: il primo era dedicato allo studio del disegno e del chiaroscuro; il secondo al disegno di tavole di osteologia e miologia umane, quindi delle statue in gesso; il terzo anno allo studio di mani, piedi e teste in gesso; il quarto, in inverno a esercizi di composizione e copia di quadri dei maestri dell’Ottocento, nella bella stagione a studi in disegno e a colore del modello vivo; il quinto e il sesto anno (eventualmente anche un settimo) prevedevano la continuazione dello studio della forma e del colore sul modello vivo e della composizione di opere di invenzione. Anche a causa di una struttura così rigida, durante la sua lunga docenza (1908-1928), Ghittoni dovette affrontare molte critiche: da quelle di Cesare Brighenti Rosa circa la negativa influenza del suo stile passatista sugli allievi a quelle riguardanti la situazione precaria e caotica del Museo Civico che si ripercuoteva sull’insegnamento; infine, gli attacchi dell’architetto Arturo Pettorelli contro una scuola troppo poco “pratica”, che non insegnava un vero mestiere. Ciò nonostante Ghittoni rimase saldo nelle sue convinzioni e continuò a insegnare in modo tradizionale sino alla morte. Ricchetti fu tra i suoi primi allievi: entrato nel 1908, uscì dopo cinque anni nel 1913. In seguito ritenne opportuno aggiornarsi alle lezioni di Ambrogio Alciati presso l’Accademia di Brera. Egli passò così dalla maniera del maestro piacentino, debitrice nei confronti di Pollinari e Morelli, a quella del nuovo maestro, sospeso tra la scapigliatura di Tranquillo Cremona e la maniera ammiccante di Giovanni Boldini. Se lo stile maturo di Ricchetti è molto distante da quello di Ghittoni, nella sua produzione sacra è tuttavia avvertibile un’eco dell’impostazione ricevuta al Gazzola. Cassinari costituisce, in questa mostra, un esempio di allievo che rinnega gli insegnamenti del maestro. La sua permanenza alla scuola piacentina durò solo due anni (1926-1928): alla morte dell’anziano Ghittoni, si trasferì infatti a Milano, dove frequentò i corsi serali d’arte di Brera, la scuola dell’Umanitaria, la scuola d’arte al Castello Sforzesco e l’Accademia di Brera. Subì l’influsso delle lezioni di Aldo Carpi, dell’avventura di “Corrente” e del contatto con grandi artisti come Guttuso e Picasso, che lo allontanarono dall’arte di Ghittoni, verso un predominio del colore sul disegno e dell’espressività in chiave informale.

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Luciano Ricchetti (Piacenza, 1897-1977) La Rumba. Danza Spagnola, 1925 Olio su tela, 50 x 70 cm Firmato e datato in basso a destra: “Ricchetti | 1925� Collezione privata

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Luciano Ricchetti (Piacenza, 1897-1977) Paesaggio in Val Nure, anni ‘30 Olio su tela, 72 x 84 cm Firmato e datato in basso a destra: “Ricchetti” Collezione privata

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Luciano Ricchetti (Piacenza, 1897-1977) Deposizione, 1957 Olio su tela, 68 x 48 cm Firmato e datato in basso a destra: “Ricchetti 57� Collezione privata

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Bruno Cassinari (Piacenza 1912-Milano 1992) Corrida (Composition), 1950 Olio su tela, 70 x 63 cm Firmato in basso a destra: “Cassinari� Collezione privata

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Bruno Cassinari (Piacenza 1912-Milano 1992) Natura morta, 1963 Olio su tela, 73 x 92 cm Firmato e datato in basso a destra: “Cassinari | 63� Collezione privata

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Bruno Cassinari (Piacenza 1912-Milano 1992) Tiziana, 1972 Olio su tela, 130 x 60 cm Firmato e datato in basso a destra: “Cassinari | 72� Collezione privata

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un allievo di soressi: cinello

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llievo di Ghittoni per figura e di Camillo Guidotti per ornato, Soressi fu tra gli artisti piacentini a partecipare alla Prima Guerra Mondiale, durante la quale perse un piede (giugno 1918). Dopo le lezioni al Gazzola, terminò la propria formazione all’Accademia di Brera, seguendo lo stesso iter intrapreso da altri colleghi. Prima di vincere la cattedra di ornato a Piacenza, che tenne dal 1925 al 1958, insegnò ornato a Brera e diresse la Scuola professionale di Ponte di Legno (Brescia), affiancando all’attività di ornatista quelle di pittore, architetto (si aggiudicò il piano regolatore dell’isola Comacina sul lago di Como) e incisore. Fu reputato “passatista” da alcuni contemporanei per il modo pittorico ancorato alla tradizione figurativa e a una visione arcadica della realtà, nella quale ricercava un rifugio nostalgico dalla modernità ostica e inquieta. Moltissimi frequentarono il suo corso di ornato al Gazzola: Ludovico Muratori, Angelo Cravedi, Luciano Fornasari, Gabriele Marzoli e Secondo Tizzoni, e tanti abili ebanisti, intagliatori, marmisti, artigiani del ferro, decoratori e arredatori. Tra i suoi più famosi allievi spicca, però, un pittore: Umberto Losi detto Cinello, che seguì le sue lezioni dal 1942 al 1946. Il dominio del disegno e delle tecniche pittoriche, in particolare quella della tempera all’uovo, resero celebre Cinello, che riconosceva la ragione del suo successo nella salda preparazione accademica: “Prepararsi scrupolosamente nel disegno e nelle tecniche. Studiare i grandi maestri che più attraggono. Lavorare, lavorare sodo e, soprattutto, essere modesti”. La sua pittura è riconducibile alla scuola del “Fantastico”, che aveva in Gustavo Foppiani e Luciano Spazzali i suoi paladini, e che diede risonanza internazionale all’arte piacentina del periodo. L’interesse per le forme geometriche, utilizzate a scopo decorativo ma anche strutturale – a evocare l’illusione di una città – è sicuro retaggio degli insegnamenti ricevuti al Gazzola da Soressi.

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Cinello (Umberto Losi) (Piacenza, 1928-1983) Maternità, 1977 Tempera su tavola, 60 x 50 cm Firmato e dato in basso a sinistra: “Cinello 1977” Collezione privata

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Cinello (Umberto Losi) (Piacenza, 1928-1983) Flauto, 1972 Tempera su tavola, 30 x 39 cm Firmato e datato in basso a sinistra: “«Flauto» | Cinello | 1972” Collezione privata

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Cinello (Umberto Losi) (Piacenza, 1928-1983) Ragazza con palloncini, 1969 Tempera su tavola, 40 x 60 cm Firmato e datato in basso a sinistra: “Cinello 1969� Collezione privata

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TRE ALLIEVI DI CONCERTI: FOPPIANI, BRAGHIERI, MOSCONI

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ur essendo nato in provincia di Rovigo e formatosi a Parma, Umberto Concerti può essere considerato un piacentino d’adozione, avendo insegnato per ben 37 anni alla scuola d’arte Gazzola, dal 1930 al 1967. Questo lungo periodo coincise con un aumento di iscrizioni: gli studenti passarono dai dieci di inizio secolo a oltre trenta nel secondo Dopoguerra. A partire dagli anni Cinquanta, si impose una sorta di “scuola di Piacenza” formata da ex-allievi della scuola, in polemica con il maestro e incentrata sulla rappresentazione di paesaggi e vedute urbane in chiave fantastica. Non è forse un caso che il fenomeno sia scaturito durante la docenza di Concerti: prediligendo il paesaggio sopra ogni altro genere, egli incentivava la rappresentazione dello spazio. Tra gli artisti del “Fantastico” presenti nelle collezioni dei Rotariani, Foppiani e Braghieri sono quelli meglio rappresentati (insieme con Cinello, allievo però di Soressi). Stefano Fugazza avanzò una spiegazione della marcata vocazione surrealista della Pittura piacentina di secondo Novecento, ritenendola un’attitudine a “lasciarsi alle spalle una realtà sin troppo praticata e priva di fantasia per attingere luoghi di totale libertà inventiva, in cui le associazioni possano stabilirsi secondo un gioco e non in base a meccanismi rigorosi, o a una pratica un po’ meschina di do ut des. Insomma, può darsi che gli artisti piacentini del fantastico siano il controcanto, l’altra faccia di una città alquanto disincantata, con lo sguardo rivolto alle faccende quotidiane, con qualche ostilità nei confronti del sogno” (Giancarlo Braghieri con l’occhio della mente, Piacenza 2003, pp. 17-18). Anche Mosconi, distante sideralmente dal maestro Concerti, si volse tuttavia alla rappresentazione dello spazio, certo declinato secondo architetture erette nella mente e con l’anima. Nelle tre opere qui selezionate egli rappresenta spazi inafferrabili, leggeri e aggraziati, attraversati da guizzi di aerei movimenti e popolati da piccolo cuori.

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Gustavo Foppiani (Udine 1925-Piacenza 1986) Mappa della Corneliana, 1959 Tempera su compensato, 40 x 80 cm Firmato e datato in basso a sinistra: “G. Foppiani 59” Collezione privata

Gustavo Foppiani (Udine 1925-Piacenza 1986) Tracciato d’antica città con sole nero, 1959 Tempera su tavola, 40 x 80 cm Firmato e datato in basso a sinistra: “G. Foppiani 59” Collezione privata

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Gustavo Foppiani (Udine 1925-Piacenza 1986) Prima dell’eclissi, 1967 Tempera su tavola, diam. 84 cm Collezione privata

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Giancarlo Braghieri (Castel San Giovanni 1930-Piacenza 2009) Annuncio per il suicidio di Aminta, 1984 Olio su tela, 40 x 50 cm Firmato e datato in basso a destra: “Braghieri 84� Collezione privata

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Giancarlo Braghieri (Castel San Giovanni 1930-Piacenza 2009) Edipo, 1985 Olio su tela, 40 x 50 cm Firmato e datato in basso a destra: “Braghieri 85� Collezione privata

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Giancarlo Braghieri (Castel San Giovanni 1930-Piacenza 2009) Pan. Il Tutto, 1999 Olio su tela, 50 x 70 cm Firmato e datato sul retro Collezione privata

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Ludovico Mosconi (Piacenza 1928-Milano 1987) Il mare sulle scale, 1969 Olio magro su tela, 94 x 62 cm Firmato e datato in basso a destra: “Mosconi | 69� Collezione privata

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Ludovico Mosconi (Piacenza 1928-Milano 1987) Senza titolo, 1969 Olio magro su tela, 128 x 43 cm Firmato e datato in basso a sinistra: “Mosconi 69� Collezione privata

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Ludovico Mosconi (Piacenza 1928-Milano 1987) Senza titolo, anni ‘70 Olio magro su tela, 80 x 40,5 cm Firmato in basso a destra “Mosconi” Collezione privata

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con ALTRI MAESTRI: BONFATTI SABBIONI, ARRIGONI e BELLONI

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ra i numerosi artisti piacentini del Novecento che non frequentarono il Gazzola, tre sono ben rappresentati nelle collezioni dei Rotariani: Ettore Bonfatti Sabbioni, Luigi Arrigoni e Sergio Belloni, formatisi rispettivamente a Urbino, Milano e Parigi. Bonfatti Sabbioni rappresenta, in mostra, il contributo nel campo dell’incisione, in particolare quella su legno (xilografia). Nato a Borgonovo nel 1934, frequentò l’Istituto Statale d’Arte “Scuola del Libro” di Urbino e, successivamente, i corsi di scenografia dell’Accademia di Brera a Milano. Nel 1959 si trasferì a Pianello per insegnare nelle scuole. Nel panorama piacentino le sue incisioni si impongono per abilità tecnica, forza drammatica e rimandi colti (a Guttuso, Van Gogh, Chagall…). Arrigoni si formò a Milano, presso lo studio di Alcide Davide Campestrini, preferendogli però come maestro Cesare Fratino, che praticava una pittura meno aneddotica e più aderente al vero. La sua produzione tardo impressionista assunse via via una vena sempre più espressionista, evidente nei tre dipinti selezionati. Non avendo problemi economici, a differenza di molti colleghi concittadini, poté creare senza l’assillo di vendere. “Rifuggo da ogni contatto col finito, sensibile, misurabile mondo delle cose e mi libro nel diletto regno dello Spirito” – scriveva – “in un’atmosfera pura e rarefatta più d’un banco di nebbia, d’una nube bianca, d’un soffio di leggerissimo gas”. Il piacentino Belloni, formatosi a Parigi, vi condusse gran parte dell’esistenza, non mancando tuttavia di tornare a Piacenza, dove gli fu tributata la medaglia d’oro di benemerito dalla Famiglia Piasinteina (riconoscimento condiviso con Bot, Ricchetti e Cassinari). Nelle sue vedute parigine guardò all’impressionista inglese Alfred Sisley, mentre per quelle della Laguna ai grandi del passato, da Canaletto a Fragiacomo. Fu tra i pochi a poter esporre anche in prestigiosi musei pubblici francesi: Musée d’Art Moderne de la ville, Musée Carnavalet, Hôtel de la Monnaie e Orangerie del Luxembourg.

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Luigi Arrigoni (Piacenza, 1896-1964) Tappeto verde, 1945 ca. Olio su compensato, 43 x 58 cm Firmato in basso a destra: “Luigi | Arrigoni� Collezione privata

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Luigi Arrigoni (Piacenza, 1896-1964) Menestrelli, 1945 Olio su compensato, 47 x 61 cm Firmato e datato in basso destra: “Luigi 1945 | Arrigoni� Collezione privata

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Luigi Arrigoni (Piacenza, 1896-1964) Corrida de toros, 1948 ca. Olio su cartone, 33,5 x 50,5 cm Firmato in basso a destra: “Luigi | Arrigoni”, in alto a sinistra “Luigi | Arrigoni” Collezione privata

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Serge Belloni (Piacenza 1925-Mentone 2005) L’Opéra di Parigi, 1960 ca. Olio e tempera su tavola, 72,5 x 91 cm Firmato in basso a sinistra: “Serge Belloni” Collezione privata

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Serge Belloni (Piacenza 1925-Mentone 2005) La basilica di Santa Maria della Salute, 1964 Olio e tempera su compensato, 73 x 91,5 cm Firmato in basso a sinistra: “Serge Belloni 64� Collezione privata

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Serge Belloni (Piacenza 1925-Mentone 2005) Vaso di fiori di bosco in Valgardena, 1960 Olio e tempera su tela, 80 x 65 cm Firmato in basso a destra: “Serge Belloni 60� Collezione privata

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Ettore Bonfatti Sabbioni (Borgonovo 1934-Pianello 1983) Uccelli feriti, 1957 Xilografia, 365 x 620 mm Collezione privata

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Ettore Bonfatti Sabbioni (Borgonovo 1934-Pianello 1983) Il bar della stazione, 1955 Xilografia, 295 x 320 mm Collezione privata

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Ettore Bonfatti Sabbioni (Borgonovo 1934-Pianello 1983) Operai, 1957 Xilografia, 473 x 295 mm Collezione privata

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BIOGRAFIE Luigi Arrigoni Nacque a Piacenza nel 1896 nel palazzo di famiglia in Corso Vittorio Emanuele (allora strada di San Raimondo). Il padre, Luigi Arrigoni, sindaco di Piacenza dal 1886 al 1887, era morto pochi mesi prima. La madre, la poetessa Rosa Perletti, avrebbe rappresentato per il figlio un punto di riferimento per tutta la vita, sostenendolo nel precoce interesse per la pittura e la musica. Abbandonato il liceo classico di Piacenza, Luigi preferì trasferirsi a Milano, dove risiedette dal 1913 al 1916. Frequentò lo studio di Alcide Davide Campestrini, dal quale apprese il disegno, e continuò a dilettarsi suonando pianoforte e violino. Reputando la pittura del maestro troppo aneddotica, rivolse l’attenzione verso Cesare Fratino, artista maggiormente aderente al vero, e senza manifestare interesse per il dilagante Futurismo. Tornato a Piacenza, allacciò una stretta amicizia con Luciano Ricchetti, il rodigino Mario Cavaglieri, in città dal 1921 al 1925, e Gianni Croce. Dopo aver partecipato a un’esposizione parmense nel 1920, si presentò l’anno successivo a Piacenza, alla Seconda Mostra d’arte organizzata dagli Amici dell’Arte. In seguito, allestì alcune personali a Milano, Ferrara, Bergamo e Cremona, ma senza l’assillo di trovare acquirenti: le agiate condizioni economiche gli permisero di sperimentare trovando una strada tutta personale, che non ebbe uguali a Piacenza. Le opere in mostra danno conto di quella parte della sua produzione legata all’Espressionismo, nella quale ritornano echi di James Ensor, con il quale condivideva un carattere difficile, ma anche dei grandi “predecessori” del genere, come Matthias Grünewald e Francisco Goya. Lo stesso Arrigoni riconosceva: “ho cominciato con l’impressionismo e poi sono andato a finire nell’espressionismo. Più in là non sono andato”. Trascorreva le estati nel suo castello di Corano, dove poteva studiare e meditare in solitudine, anche dedicandosi all’acquaforte. Spesso era soggetto a prolungati attacchi di malinconia, accentuati dai lutti famigliari (oltre al padre, perse il fratello nel 1911). Si spense il 31 luglio 1964, dopo aver trascorso gli ultimi dieci anni in maggiore serenità, grazie alla presenza al suo fianco di Maria Grazioli, sposata nel 1954, dedicandosi anche al restauro di mobili. Nel 1969 gli Amici dell’Arte gli dedicarono una mostra antologica accompagnata da una monografia che gli rese finalmente giustizia. Delle differenti fasi della sua produzione, si è privi-

legiata, in mostra, la maniera degli anni Quaranta, dai rilevanti risultati espressionisti nei temi originali, nella deformazione delle fisionomie e dei volti, nella presenza di contrasti cromatici e luministici. “Rifuggo da ogni contatto col finito, sensibile, misurabile mondo delle cose e mi libro nel diletto regno dello Spirito, in un’atmosfera pura e rarefatta più d’un banco di nebbia, d’una nube bianca, d’un soffio di leggerissimo gas”, scrisse lo stesso Arrigoni. In Tappeto verde (1945 c.) è evidente il riferimento alla tavola Intorno al paralume di Giuseppe De Nittis, acquistata nel 1914 da Giuseppe Ricci Oddi, ed esposta nella Galleria fin dall’inaugurazione, nell’ottobre 1931. Mentre però De Nittis coglie l’atmosfera intima, di un salotto aristocratico nel quale quattro personaggi trascorrono il tempo dilettandosi in giochi di società, Arrigoni rappresenta una folla di giocatori, che si accalca attorno al tavolo illuminato da una grande lampada. L’artista-spettatore osserva, ma non è al tavolo: prende le distanze dalla brama del gioco d’azzardo che deforma le vite e quindi i volti. Il dipinto si aggiudicò il premio Città di Piacenza nel 1946. Tale riconoscimento spinse l’autore ad esporre, grazie all’appoggio di un mercante, al di là dell’oceano: Los Angeles, San Francisco, Cincinnati, Buenos Aires e Rio de Janeiro. Il secondo dipinto, Menestrelli (1945), bene esemplifica l’interesse per le fasce più umili della società, condiviso con grandi artisti altrettanto agiati quali Henri de Toulouse-Lautrec. Con la sua concertina, un uomo scalzo e mal vestito incede, con due compagni, tra due ali di persone. La luce è trattata con accenti drammatici, i toni giocati sui verdi tenui e i rosa sottili. Il motivo aneddotico diventa spunto per una riflessione sulla vita difficile degli artisti di strada, che rispetto ai menestrelli di età feudale, tenuti in considerazione nelle corti, erano ormai ridotti a chiedere quasi l’elemosina. Nella terza opera in mostra, Corrida de toros (1948 ca.), il riferimento è al Goya delle pitture nere e delle incisioni. Il soggetto affascina diversi contemporanei di Arrigoni, da Picasso a Cassinari. I colori scuri restituiscono la drammaticità del momento, estremamente concitato: l’animale sta per sferrare l’attacco al torero che sventola la cappa, rossa come il sangue che tra poco verrà versato, mentre attorno si muovono scomposti i picadores a cavallo.

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Serge Belloni Nato a Piacenza nel 1925, trascorse l’infanzia a Parigi, nel faubourg Saint-Antoine, dove il padre lavorava in qualità di tappezziere. Fu tra i pochissimi piacentini della sua generazione a formarsi nella città che da quasi due secoli si era imposta come riferimento mondiale delle arti. Compiuti i diciotto anni, fu chiamato a Piacenza per espletarvi il servizio militare, che prestò presso Palazzo Farnese. Nello stesso anno allestì la prima esposizione presso la Vetrina d’arte di Antonio Cappelletti, in via Garibaldi, e successivamente, nel 1945, partecipò alla Mostra d’arte contemporanea artisti piacentini, che si tenne nella Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, svuotata delle opere per timore dei bombardamenti. Le sue opere, collocate nell’ottava sala dedicata ai “dilettanti” delle forze armate, ritraevano soggetti legati a Piacenza e al suo territorio. Alla fine del conflitto, ritornò a Parigi, specializzandosi nelle vedute della capitale francese e in quelle di Venezia, creando un’ideale galleria di scorci di entrambe le città, riprese nel variare delle stagioni, in angoli celebri o sconosciuti, animati da una folla di figurine oppure deserti e silenziosi. Sempre vi domina un raffinato ventaglio di grigi, desunto dalla tavolozza dell’impressionista inglese Alfred Sisley, che con il francese Maurice Utrillo e gli italiani Giuseppe De Nittis e Federico Zandomeneghi rappresentò uno dei suoi riferimenti per le vedute parigine, mentre per la Laguna il repertorio di modelli spaziava lungo due secoli di pittura veneta: da Canaletto, Bellotto e Guardi ai più recenti Brass, Fragiacomo, Galter… Pittore colto, Belloni seppe trovare una propria strada, ricorrendo alla pittura en plein air, con numerose e lunghe sedute, spesso dedicate allo stesso monumento, come il Pont Neuf, visto da scorci e in momenti differenti (sulla scia di Monet). Il critico piacentino Pantaleoni, pur preferendogli sperimentatori come Foppiani, gli riconobbe di aver “sempre tenuto fede ad un suo preciso e ben collaudato mondo di sensazioni liriche, di stati d’animo rapportati ai temi della realtà sensibile, alle suggestioni oggettive della natura e dei fenomeni vitali. Il suo gusto è rimasto figurativo, con intensa carica lirica”. A Parigi espose più volte in luoghi prestigiosi: dalle gallerie private, come la Galerie Jean de Ruaz, la Galerie Orfèvres e la Galerie BerheimJeune, ai musei pubblici come il Musée d’Art Moderne de la ville, il Musée Carnavalet, l’Hôtel de la Monnaie e l’Orangerie del Luxembourg. Presentò le sue opere pure a Milano, Nizza, Ginevra, Londra e Tokyo. Naturalizzato francese, ricevette nel 1994 l’onorificenza di Chevalier de l’Ordre du Mérite, ma mantenne sempre i contatti con la sua città natale. Nel 1959 era, per esempio, a Piacenza, dove realiz-

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zò un bozzetto di un bue squartato, nel macello in via Scalabrini. La versione finale dell’opera, omaggio a Rembrandt ma anche a Soutine, venne lodata dalla “Libertà”; nel 1966 ricevette la medaglia d’oro di benemerito dalla Famiglia Piasinteina (riconoscimento condiviso con Bot, Ricchetti e Cassinari); nel 1991 fu acclamato alla Nona Rassegna nazionale d’arte contemporanea organizzata dalla Cassa di Risparmio di Piacenza presso la Galleria Ricci Oddi; nel 2001, infine, la consacrazione con un’imponente personale allestita presso il Salone di palazzo Gotico con centotrenta vedute di Parigi e Venezia. Nel 2005 si chiuse la sua lunga esistenza dedicata all’arte. Nel dipinto L’Opéra di Parigi (1960 ca.) è raffigurato da una prospettiva rialzata il vasto edificio costruito da Charles Garnier per volere di Napoleone III, davanti al quale si apre una piazza brulicante di figurine soltanto abbozzate. Nel cielo grigio corre qualche sottilissima nube, la pavimentazione è bagnata di pioggia, come in certi dipinti di De Nittis, e le vetrine illuminate dei negozi suggeriscono un’ora vespertina. Dal dipinto traspaiono l’amore per Parigi, una sensibilità poetica che sa interpretare la realtà e la maestria del colore. Alla tela La basilica di Santa Maria della Salute (1964) spetta il compito di evocare in mostra la ricca produzione di scorci lagunari. Le forme maestose del tempio (1631-1687), costruito su progetto di Baldassarre Longhena quale ex-voto per la cessazione della peste del 1630-1631, dominano la parte destra della tela; il primo piano in ombra aumenta il contrasto con il canale e la riva opposta, illuminati e rappresentati in scorcio prospettico. Pittore contemplativo, delicato e solitario, Belloni realizza qui un’opera improntata a un lirismo elegiaco e crepuscolare, interpretazione personale e serena della laguna. Accanto alle vedute, l’autore si dedicò saltuariamente alla pittura di fiori, spesso presenti nelle raffigurazioni di giardini e viali alberati: Vaso di fiori di bosco in Valgardena (1960) ne è una preziosa testimonianza. Ospite di un collezionista piacentino in Alto Adige, Belloni si sdebitò dipingendo una composizione floreale raccolta durante le passeggiate nei boschi. Maggiormente avvezzo alle località balneari, si divertì a disporre con abilità le essenze di montagna in un vaso di vetro. Rapidi tocchi di colore costruiscono una composizione animata da un brio e da un movimento insoliti, che la sottraggono all’immanenza o alla fissità in cui si manifestano più spesso i limiti di un genere fatalmente abusato.


Giancarlo Braghieri Nato a Castel San Giovanni nel 1930, trascorse l’infanzia a Breno. A diciotto anni si iscrisse all’Istituto d’arte Gazzola, trasferendosi prima a Mottazziana e poi a Piacenza, dove per qualche tempo occupò una minuscola stanza in via Colombo. Fu avviato all’arte da Umberto Concerti. Di quegli anni di formazione avrebbe ricordato il sodalizio con i compagni Xerra, Munari, Rubini e Collura, e l’amicizia con Foppiani, che non frequentava più la scuola, ma gli offriva spesso il pranzo all’osteria Agnello. Anche le visite alla Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi rappresentavano per lui occasioni di arricchimento: “a Borgonovo osservavo il barbiere del paese che faceva dei collage ritagliando la pagina a colori della «Domenica del Corriere» e questo mi incuriosiva, così andavo sulla riva del Tidone e ci provavo anch’io, ma lo facevo di nascosto perché quasi mi vergognavo. Poi sono passato ai colori e nel frattempo venni ad abitare a Piacenza dove ho imparato ad amare i quadri della nostra galleria d’arte moderna”. Giunto al quarto anno di studi, ottenne dal Gazzola una borsa di studio per frequentare le lezioni di Guido Ballo, Carlo Tea e Pompeo Borra presso l’Accademia di Brera. Pur interessandosi al percorso di Cassinari e di Morlotti, in particolare all’utilizzo del colore in chiave espressionista di quest’ultimo, ed esponendo con successo nel 1960 alla galleria Mulino di Milano, non riuscì a integrarsi nella cultura milanese. Decise quindi di spostarsi a Venezia, dove per due anni – da lui ricordati in seguito come i più belli della sua esistenza – ebbe come maestro Bruno Saetti. In Laguna conobbe, tra gli altri, Giorgio de Chirico e allacciò un’amicizia con Uccia Zamberlan, titolare della Galleria d’arte Santo Stefano, che avrebbe ospitato nel 1968 una sua personale. Rientrato a Piacenza nel 1961, aprì uno studio all’angolo tra via Calzolai e via Poggiali, nel quale si dedicò non soltanto alla pittura a olio, ma anche all’acquaforte e al disegno. La consacrazione arrivò nel 1969, quando Dino Buzzati lo inserì tra i venti migliori pittori della Permanente di Milano di quell’anno. Iniziò così a esporre i suoi cicli (“superstiti”, ispirato agli accadimenti in Vietnam, “bucrani, “mantidi”, “insetti in amore”) a Piacenza, Reggio Emilia, Torino, Cremona, Napoli e Parigi. Nella sua maniera evidenti sono gli influssi di grandi artisti tanto del passato (Hieronymus Bosch, Francisco Goya, William Blake, Johann Heinrich Füssli)

quanto contemporanei (Odilon Redon, Mario Sironi, il già ricordato De Chirico, Pablo Picasso). A partire dagli anni Ottanta si dedicò quasi esclusivamente alla rappresentazione dei miti: a indurlo ad abbracciare tali soggetti, con i quali tornava a rappresentare la figura dopo un periodo di adesione all’Informale, fu la scoperta dei classici greci (Aristofane, Sofocle, Euripide, Eschilo…) accanto a quelli del Rinascimento italiano. Trovato un proprio posto, del tutto originale, nella variegata compagine del “surrealismo padano”, Braghieri sostenne l’imprescindibilità del confronto con il mito, inteso non come “storia immaginaria, [ma] una realtà. È come se noi avessimo un’altra vita, una verità nascosta, particolarmente preziosa” (Giancarlo Braghieri con l’occhio della mente 2003, p. 13). I due pendants in mostra, Annuncio per il suicidio di Aminta (1984) ed Edipo (1985) rappresentano due capolavori di questo fortunato filone: su uno sfondo quasi completamente scuro, espediente classico presente già in certe pitture di Ercolano e Pompei – riprese per altro anche da Antonio Canova nelle sue tempere e da Füssli nei suoi fondi bituminosi – si muovono i personaggi tragici, accompagnati da candidi destrieri di dechirichiana memoria: i loro gesti sono plateali, come in una tragedia; i corpi contorti, tipici della “maniera”, e i volti assomigliano a maschere. Sono figure quasi “prive di tonalità cromatiche, illuminate più da una luce lunare che solare, sempre più rimpolpate di volume, poste in uno spazio dai netti contorni; son figure di un aldilà, situato forse in un mondo parallelo al nostro, dove le viscere l’uomo se le può anche masticare, come disse Fo in una sua parodia” (Arisi 1988, p. 197). La terza tela in mostra, Pan. Il Tutto (1999), appartiene a una successiva fase creativa, una nuova avventura spirituale: il segno è ancora più libero rispetto alle due opere precedenti. Resta la monumentalità delle figure, retaggio classico per eccellenza, qui deformate in chiave ancora più accentuatamente espressionista. Attraverso un segno nervoso, dinamico, sfuggente, i protagonisti della tela diventano precari, e quindi modernissimi. Le cromie più ardite e la raffigurazione ancora più suggestiva e bizzarra sono tipiche dell’ultima produzione dell’artista, che si spense nel 2009, dove essersi dedicato anche alla scultura, alla pittura su ceramica, all’intarsio e aver pubblicato un paio di libri.

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Bruno Cassinari Nato a Piacenza nel 1912, Cassinari frequentò la Scuola d’arte del Gazzola dal 1926 al 1928, sotto la guida di Francesco Ghittoni. Dopo la scomparsa dell’anziano maestro, sostituito ad interim da Nazzareno Sidoli sino al concorso che avrebbe decretato vincitore Umberto Concerti, si trasferì nella vicina Milano, sempre più polo di riferimento artistico, anche a grazie alla svolta di “Novecento”. Nel capoluogo lombardo frequentò i corsi serali d’arte di Brera, la scuola dell’Umanitaria, la scuola d’arte al Castello Sforzesco e l’Accademia di Brera. Presso quest’ultima istituzione fu allievo dal 1934 al 1938 del pittore e scultore Aldo Carpi, subentrato da quattro anni ad Antonio Ambrogio Alciati. Molto amato dagli allievi per la libertà concessa nelle scelte espressive, Carpi formò generazioni di artisti che diedero vita a significative esperienze: da “Corrente” al “Realismo esistenziale” degli ultimi anni Cinquanta. Nel 1938 Cassinari aderì al primo gruppo, costituito da un insieme variegato di artisti, letterati, poeti e filosofi uniti nel contrastare l’arte e la cultura fasciste. Riferimento comune erano le esperienze artistiche al di là delle Alpi, in particolare dei francesi Paul Cézanne, Georges Braque, Henri Matisse, e dello spagnolo Pablo Picasso, il cui dipinto Guernica (1937) venne considerato il più compiuto manifesto di denuncia degli orrori della guerra e della retorica militarista. Cassinari partecipò alle esposizioni di “Corrente” allestite nel 1939 presso la Permanente di Milano e in seguito presso la Galleria Grande. Due anni dopo, si tenne la sua prima personale alla Bottega di Corrente in via Spiga, così ricordata da Elio Vittorini nel catalogo di accompagnamento: “Mai un pittore giovane dei nostri tempi è stato fin dal principio così deciso nel bisogno di ottenere dal colore e solo dal colore un risultato di profondità”. Dopo l’esperienza in “Corrente”, fece parte del gruppo raccolto attorno al foglio “Argine Numero”, quindi si legò per poco alla Nuova Secessione Artisti Italiana, prima che assumesse il nome di Fronte Nuovo delle Arti, movimento teso al rinnovamento delle arti dopo il conflitto bellico. In campo artistico il Dopoguerra fu un periodo di dibattiti e dissidi: nel 1948 Palmiro Togliatti si scagliò duramente contro la Prima mostra nazionale d’arte contemporanea di Bologna per via del cospicuo numero di opere astratte, da lui definite “cose mostruose”, “orrori” e “scemenze”. La durezza delle sue osservazioni in-

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dusse artisti come Pizzinato e Guttuso a ripiegare sulle posizioni più ortodosse del realismo socialista, portando il “Fronte” a terminare la propria esperienza due anni dopo. Per Cassinari fu il momento di abbandonare, anche se solo per tre mesi, un clima culturale così rovente per visitare Parigi e conoscere personalmente i maggiori artisti del momento. Nel 1948 partecipò alla prima Biennale dopo la Guerra, con nove dipinti eseguiti tra 1942 e 1948. L’anno successivo soggiornò ad Antibes, dove conobbe e frequentò Pablo Picasso, Paul Eluard e Marc Chagall. Come già era accaduto ad Amedeo Modigliani, e a molti altri artisti, l’incontro con il mare e la luce calda del Mediterraneo schiarì sensibilmente la sua tavolozza. Nei decenni successivi, sino alla morte, nel 1992, si dedicò con prove davvero convincenti al paesaggio, recuperando un genere molto amato nella sua città natale, al ritratto e alla natura morta. Nell’opera in mostra Corrida (Composition) (1950) riprende un tema caro a Picasso: il toro si staglia come forma scura e squadrata, priva di tridimensionalità, sul cavallo bianco, in secondo piano, che si contorce con le sue forme arrotondate e muscolose. I due animali si prestano a raffigurare forme geometriche contrapposte, ma anche, per indole e colore, il conflitto tra il bene (il cavallo) e il male (il toro), destinato a risolversi a favore del secondo, che può contare su armi naturali delle quali il destriero è privo. La lotta si svolge in un recinto chiuso, evocato dalle pareti grigie e nere. Il cielo, una sottile striscia azzurra, si intravvede nella parte alta della tela, verso la quale il cavallo si volge con speranza. La tela Natura morta (1963) esemplifica la produzione del pittore nei primi anni Sessanta: la tavolozza è tornata cupa, il disegno è assente, i colori sono stesi con larghe e compendiarie pennellate a costruire un interno con tavolo, sul quale è poggiato un ortaggio viola, mentre sullo sfondo si accendono fiori rossi dai lunghi steli verdi. Il dipinto Tiziana (1972) evoca, infine, la fortunata produzione di ritratti: il corpo, elegantemente vestito, occupa quasi tutta la superficie della tela, dalla forma stretta e allungata; sul volto, sostenuto da un collo esile, si stagliano due grandi occhi, intenti a osservare qualcosa precluso alla nostra vista. La stesura pittorica rapida e compendiaria, insieme ai colori accesi, ne fanno un’opera di notevole impatto emotivo.


Ettore Bonfatti Sabbioni Nacque a Borgonovo nel 1934, durante una visita da parte dei genitori ad alcuni parenti. La famiglia risiedeva infatti a Milano, da dove il padre, pittore, si spostava quotidianamente a Pavia per insegnare presso l’Istituto Tecnico per geometri. Rimasto orfano a tredici anni, Ettore venne mandato a Urbino nel collegio Raffaello. Nella capitale quattrocentesca dei Montefeltro, centro primario dell’arte rinascimentale, frequentò l’Istituto Statale d’Arte “Scuola del Libro”, diplomandosi nel 1955-56 e ricevendo l’abilitazione all’insegnamento della xilografia, tecnica nella quale si distinse rapidamente. Neppure diplomato inviò alcune sue opere a John Biggs, a Londra, che ne scelse una per la copertina del libro Woodcuts (1958), testo ancora oggi capitale per chi voglia accostarsi all’incisione su legno. Dopo aver partecipato appena ventenne a mostre a Bologna, Gorizia e Trento, nel 1956 si aggiudicò il primo premio alla Mostra regionale d’arte giovanile di Macerata e partecipò a Zurigo a una mostra internazionale dedicata alla xilografia. Nello stesso anno lasciò Urbino per tornare a Milano, che in quegli anni esercitava una particolare attrattiva per gli artisti (vi si trasferirono anche Arrigoni, Cassinari e Mosconi). Si iscrisse ai corsi di scenografia dell’Accademia di Brera e divenne assistente di Leonardo Spreafico presso la Scuola di Arte applicata all’Industria di Milano. La sua cultura artistica era vasta, e spaziava da Vincent Van Gogh, al quale si ispirò per il paesaggio di Contadini in festa (1955) e per I girasoli (1956), a Marc Chagall, nella sospensione tra sogno e realtà di Ricordo d’autunno (1970). Dopo aver partecipato a rassegne collettive, ottenne la prima personale presso la Galleria Montenapoleone di Milano nel 1959, anno di svolta nella sua vicenda umana e professionale: avendo vinto il concorso per l’insegnamento nelle scuole medie, decise di trasferirsi nel piacentino e condurre un’esistenza lontana dalla ribalta. Per quasi un decennio abbandonò la produzione xilografica e si dedicò esclusivamente all’insegnamento presso le scuole di Pianello, luogo di residenza, e di Nibbiano. Negli anni Settanta riprese in mano le tavolette di legno, ma con risultati differenti rispetto agli anni Cinquanta: egli sperimentò nuovi territori della creatività, rifacendosi al Primitivismo e al Surrealismo, e si dedicò anche al disegno e alla pittura, che non poté praticare a lungo, causa la morte precoce, a soli 49 anni, avvenuta a Pianello nel 1983. Grazie all’operosità della moglie Eugenia, gli vennero tributate numerose rassegne postume a Piacenza, curate da Stefano

Fugazza e Ferdinando Arisi, e all’estero. In mostra sono presenti tre xilografie, dotate di accentuata forza drammatica, cui si lega la scelta del mezzo e del supporto (il legno di pero, essenza tradizionalmente impiegata per questo tipo di intaglio e prediletta dall’artista). Come ebbe a scrivere Enzo di Martino, “l’intaglio del legno nella crudezza dell’impatto del gesto dell’artista con il materiale, non consente infatti facili seduzioni figurali, non lascia spazio ad una rappresentazione retorica, perché tutto è affidato ad un segno necessariamente scarno ed essenziale, a volte anche duro, che difficilmente conduce a risultati formalmente eleganti” (Di Martino 1987, p. 15). Sono opere nelle quali si ritrova il linguaggio dei grandi incisori del Nord, come James Ensor e George Grosz, con l’aggiunta, tutta personale, di un’accentuata compassione per i vinti, gli umiliati e gli offesi, che riconduce il linguaggio di Bonfatti al clima del Neorealismo (si pensi alla produzione coeva di Renato Guttuso). Lo esemplifica bene Il bar della stazione (1955), nel quale “tutta la noia e il senso di frustrazione di un simile non-luogo è descritto con un segno incisivo, icastico e con un’attenzione estrema ai particolari” (Ettore Bonfatti Sabbioni 2003, p. 20), e che sembra anticipare uno dei più celebri dipinti di Guttuso, Il Caffè greco (1976). Al pari del pittore di Bagheria, anche Bonfatti era interessato alle pieghe più drammatiche della società italiana del secondo dopoguerra. Il boom economico, che stava iniziando, era già carico dei germi della disparità: se le novità tecniche miglioravano il tenore di vita (si pensi all’ingresso nelle case italiane degli elettrodomestici), non eliminavano le tradizionali barriere sociali, spostandole semmai tra i ceti medi e quelli dirigenti. Il progresso stava mutando lo stile di vita delle persone, costringendole a ritmi sempre più frenetici. La xilografia Operai (1957) denuncia questo abbruttimento, con la distanza e il contrasto tra i lavoratori che, in primo piano, camminano piegati dalla fatica e altri che faticosamente si avviano in bicicletta, mentre eleganti macchine nere sostano davanti a imponenti edifici dietro i quali una serie di ciminiere sparge fumi inquinanti verso la campagna. Proprio alle conseguenze dell’inquinamento, avvertite in maniera lungimirante già in quegli anni, rimanda la xilografia Uccelli feriti (1957), con i volatili in primo piano, che giacciono a terra storditi, prossimi alla morte. Con le loro dimensioni monumentali occupano quasi due terzi della superficie, realizzata a forti contrasti di neri e bianchi, tipici dell’espressionismo di Bonfatti.

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Cinello (Umberto Losi) Classe 1928, frequentò la Scuola d’arte Gazzola dal 1942 al 1946, allievo dell’architetto e pittore Alfredo Soressi, che insegnava ornato. Dal maestro apprese le prime nozioni di disegno e le tecniche pittoriche, in particolare quella antica della tempera all’uovo. L’importanza dell’apprendimento fu più volte da lui ribadita: “prepararsi scrupolosamente nel disegno e nelle tecniche. Studiare i grandi maestri che più attraggono. Lavorare, lavorare sodo e, soprattutto, essere modesti. Non avere fretta di arrivare e non farsi illusioni. Guadagnare il pane dipingendo è difficile, molto difficile” (Margonari 2000, p. 14). Terminati gli studi presso la scuola d’arte, proseguì la formazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, alternata al lavoro nella macelleria di famiglia. Dopo l’esperienza come militare a Taranto, in aeronautica – che dovette offrirgli punti di vista “inediti” per i futuri dipinti – tentò senza successo di avviare una fabbrica di luci al neon a Cremona. Ristabilitosi a Piacenza, tentò fortuna esponendo a Milano e poi a Roma, allacciando un fruttuoso legame con la Galleria Schneider, grazie alla quale poté far conoscere il proprio mondo immaginifico al di là dei confini nazionali, esponendo negli Stati Uniti, e ottenendo l’esclusiva per la Galleria Arno di Firenze. Negli anni Cinquanta aveva ormai messo a punto un modo personale, al quale sarebbe rimasto sempre fedele, riconducibile alla scuola del “Fantastico”, che aveva in Gustavo Foppiani e Luciano Spazzali i suoi corifei, e che diede risonanza internazionale alla pittura piacentina del periodo. Si specializzò nella rappresentazione di un mondo dominato da fiabe e miti, nel quale convergono rimandi all’arte del passato – dai mosaici bizantini alle tavole trecentesche – e a quella a lui contemporanea – dai Surrealisti ai Naïves a Paul Klee e Marc Chagall. Nella tavola in mostra, Ragazza con palloncini (1969), una giovane donna, dai lunghi guanti rossi e dalle lucide scarpette nere, cammina in equilibrio precario su un filo rosso. Il vento, che impertinente le solleva la gonna, ne destabilizza l’incedere e muove la sua chioma azzurra, sospingendo lontano i palloncini. Con formula fumettistica, una nuvoletta racchiude la surreale battuta in dialetto piacentino di questa donna “leggera”. La città sulla sinistra funge da contrappunto formale – e solido – alla sua vicenda: sul profilo si stagliano cupole, tetti e cancellate bianche che ricordano i decori del Taj Mahal. Al dipinto si attagliano bene le paro-

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le di Margonari: “Cinello è pungente, impertinente, ma non giudica o tantomeno condanna o denuncia, né pronuncia sentenze: è una mente acuta e candidamente anticonformista, attenta, cronista malizioso e serafico della vita intima cittadina” (Margonari 2000, p. 18). La figura femminile, privilegiata protagonista delle opere di Cinello, torna ne Il flauto (1972): una sorta di apparizione fantastica, inondata di luce, con uno strumento da sempre associato alle favole, in grado di incantare uomini e animali (si pensi, ad esempio, al Flauto magico di Mozart) e sottomettere la natura, qui evocata dagli alberi stilizzati. L’opera testimonia inoltre l’interesse dell’artista per la musica – condivisa con colleghi concittadini quali Luigi Arrigoni – in particolare quella lirica: amico del tenore Gianni Poggi, collezionò migliaia di incisioni fonografiche. La musica è qui evocata non solo dallo strumento, ma anche dai colori e dalle forme che costituiscono lo “sfondo”, realizzati secondo un ritmo cadenzato, molto “musicale”. Ancora la donna è protagonista nella terza opera in mostra: Maternità (1977). Numerose sono le tempere dedicate a questo soggetto, a partire dagli anni Sessanta. Vi si ritrovano elementi dell’arte bizantina – nell’oro dello sfondo e nella ieraticità tipica delle icone –, delle Madonne in maestà del Trecento Toscano – nel trono ligneo –, della pittura di Paul Klee – nel decoro geometrico della pavimentazione a rombi e nella città sullo sfondo resa attraverso i profili delle cupole e dei tetti. Cinello gioca sul contrasto tra i piani: il pavimento è sottoposto a fughe prospettiche differenti rispetto a quelle del trono ligneo. Come molti artisti contemporanei – si pensi a Gaetano Previati – Cinello recupera l’iconografia cristiana della Vergine in trono con il bambino per raffigurare e trasmettere il concetto universale di maternità.


Umberto Concerti Nato a Stienta (Rovigo) nel 1891, frequentò l’Accademia di Belle Arti di Parma, dove ebbe come maestro Paolo Baratta. Nel 1911 ottenne l’abilitazione all’insegnamento e sette anni dopo si licenziò dal corso di pittura. Nel 1930 partecipò al concorso per la cattedra di figura alla Scuola d’arte del Gazzola, tenuta ad interim da Nazzareno Sidoli dopo la scomparsa di Francesco Ghittoni nel 1928. Egli ottenne il posto, secondo artista di Parma alla guida della scuola piacentina: già nel 1790, per intervento del duca don Ferdinando, era salito in cattedra Gaspare Bandini, che avrebbe retto la scuola sino alla morte, nel 1801. Concerti insegnò per trentasette anni, traghettando il Gazzola attraverso gli anni cruciali di metà secolo. L’arte piacentina in quel periodo visse momenti particolarmente significativi: per esempio, nel 1939 si scatenò la polemica tra sostenitori di Bruzzi e quelli di Ghittoni, secondo molti ingiustamente dimenticato; a partire dagli anni Cinquanta si affermò una sorta di “scuola di Piacenza” formata da ex-allievi del Gazzola, come Foppiani e Cinello, incentrata sulla rappresentazione di paesaggi e vedute urbane in chiave fantastica. Non è forse un caso che tale scuola si sia formata durante gli anni di insegnamento di Concerti: egli prediligeva il paesaggio sopra ogni altro genere, come il collega Soressi che al Gazzola insegnava ornato. La rappresentazione dello spazio era quindi tra quelle maggiormente incentivate presso gli allievi. Se le opere di Concerti erano radicate nella tradizione figurativa, dallo stile sospeso tra Impressionismo e Pittura di macchia, gli artisti del “Fantastico”, che spesso avevano subito influenze “estere”, vollero aggiornare l’arte piacentina, rendendola più “moderna”. Sotto Concerti la scuola ebbe un notevole incremento di iscrizioni: gli studenti passarono dai dieci di inizio secolo a oltre trenta a fine anni Quaranta, fatto questo che implicò il rialzo della parte dell’edificio che si affaccia sul cortile di servizio (dopo che quella sul cortile nobile era stata rialzata nel secolo precedente). Molti furono i pittori, gli scultori e gli architetti formatisi in questo periodo, alcuni dei quali, come Carlo Scrocchi e Luciana Donà avrebbero a loro volta insegnato al Gazzola, mentre altri avrebbero intrapresero l’insegnamento di storia dell’arte nelle scuole cittadine. Numerosi sono ancora operosi e tengono alto il nome di Piacenza in Italia e all’estero.

Durante il lungo periodo di Concerti, l’Istituto Gazzola fornì agli studenti più meritevoli borse di studio per frequentare con più agio la scuola oppure perfezionarsi presso l’Accademia di Brera, acquistò loro opere durante le mostre e promosse iniziative espositive e culturali. Nel 1935 mise in palio 2000 lire per il miglior dipinto realizzato – non a caso – nel genere del paesaggio alla IV Mostra provinciale d’arte. Infine, nel secondo dopoguerra organizzò viaggi di istruzioni a Firenze, Roma, Parigi, Napoli, Madrid, Bonn, Amsterdam e Bruxelles, mentre dal 1948 visite alla Biennale di Venezia. All’insegnamento di figura al Gazzola, Concerti affiancò, a partire dal 1945, quello di scenografia presso l’Istituto d’arte Toschi di Parma, dove nel 1959 sostituì il pittore Umberto Lilloni, e l’attività di restauratore e frescante. Tra i restauri, si ricordano quelli nella sala Maria Luigia della Biblioteca Palatina di Parma e nella cattedrale (affreschi di Lattanzio Gambara); tra gli affreschi, quelli di palazzo Roverella di Ferrara, delle chiese parrocchiali di Toccalmatto di Fontanellato, Mariano di Valmozzola e Gropparello di Piacenza, e della cappella dei decorati al valore militare al cimitero della Villetta di Parma. Concerti, che aveva debuttato nel 1923 al Premio Nazionale Perpetuo del Comune di Parma, conseguendo il primo premio ex-aequo con Donnino Pozzi, e aveva collaborato con Galileo Chini alla decorazione delle terme Berzieri a Salsomaggiore, continuò a esporre in mostre collettive a Milano, Torino, Parma, Ferrara, Piacenza. Tra le personali, si ricordano la prima organizzata a Parma nel 1943 e l’ultima nel 1961, mentre a Piacenza quella allestita nel 1968 in occasione dell’addio alla scuola (egli sarebbe morto a Parma nel 1979) Il dipinto in mostra, Sant’Agostino dagli orti sotto il Facsal, rappresenta bene il suo stile, così come i temi prediletti a Piacenza: complessi monumentali – spesso chiesastici – immersi nel verde e ripresi da angolazioni insolite. Realizzato intorno agli anni Cinquanta, può essere accostato alla Veduta di Santa Maria di Campagna (Piacenza, Museo Gazzola) per l’impostazione scenografica, con un albero a dividere la composizione, l’abile e rapida stesura pittorica e l’assenza di presenze umane.

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Gustavo Foppiani Nacque a Udine nel 1925, ma già nel 1930 viveva a Piacenza con la famiglia. La fanciullezza fu rattristata dalla perdita del padre e da un soggiorno obbligato di tre anni in collegio. Arruolatosi come volontario nel 1942 in Sicilia, fu fatto prigioniero dagli Americani. Trasferito in Africa Settentrionale, prima a Biserta, poi a Orano, reagì cominciando a dipingere, affascinato dai paesaggi maghrebini, come confidò a una pagina del proprio diario: “questo è il momento più felice della mia vita: il colore ed io siamo una cosa sola. Sono pittore!”. Arruolato nelle truppe alleate a Marsiglia e a Mannheim, al termine della guerra tornò a Piacenza e si iscrisse nel 1946 alla Scuola d’arte del Gazzola, che frequentò sino al 1949. Ebbe come maestro di figura Umberto Concerti, dal quale apprese, oltre ai fondamenti del disegno e della composizione, a coltivare l’amore per il paesaggio e le vedute, mentre studiava con Secondo Tizzoni la geometria descrittiva. Grazie all’abilità di disegnatore, ottenne un viaggio-premio a Firenze e la possibilità di passare direttamente dal primo al terzo anno. Terminati gli studi, negli anni Cinquanta diede vita con Luciano Spazzali alla “scuola di Piacenza”, sorta di movimento teso a superare la rappresentazione realistica del visibile proponendo una nuova cultura figurativa legata alla favola, al sogno e al mito. La forte inclinazione all’elemento fantastico trovava fonti di ispirazione nel Simbolismo, nell’arte naïf e nel Surrealismo. Molti furono gli artisti che vi appartennero o che ebbero contatti con questa corrente, alcuni ancora oggi operanti e di chiara fama. Grazie a un contratto in esclusiva con la romana Galleria l’Obelisco, Foppiani, pur restando radicato a Piacenza, divenne famoso in Italia e all’estero, anche grazie alle esposizioni allestite a Bologna e Bruxelles. Lungo quattro decenni di attività artistica sperimentò differenti tecniche (dalla tempera all’acquerello), sempre mantenendosi fedele a una maniera unica e personalissima, che del “fantastico” coltivava gli aspetti più dolci, ironici e malinconici. Cessato il rapporto con la Galleria l’Obelisco nel 1964, Foppiani si volse sempre più alla rappresentazione della città e del suo territorio, reinterpretati attraverso una sensibilità onirica, al limite dell’informale, quasi in polemica con le brutture di una speculazione edilizia che stava rapidamente cambiando il volto di Piacenza. A questo corposo nucleo di Mappe e Vedute di città appartengono i due pendants in mostra, entrambi del 1959: Mappa del-

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la Corneliana e Tracciato d’antica città con sole nero, giocati sui toni del rosso e della terra, forse suggeriti dalla visione dei tetti di Piacenza e dai ricordi della permanenza in Africa, sorta di ricognizioni aeree. Le forme forzate da un anelito sempre più astratto raggiungono esiti, secondo Rossana Bossaglia, di “geometrizzazione magica, addirittura esoterica”. Gli edifici sono evocati soltanto da cupole in forma di tonde, piatte coppelle e da tetti triangolari, mentre poche linee semplificate suggeriscono gli abitanti. La superficie pittorica è ottenuta mediante la stesura di innumerevoli strati di colore, in parte poi rimossi: a una visione ravvicinata appare graffiata, in alcune parti incisa, in altre anticata (spesso con uso di verderame e di polvere pirica incendiata) con risultati di raffinato arcaismo. La terza opera in mostra, Prima dell’eclissi (1967), rivela l’attenzione per i grandiosi fenomeni naturali, come l’eclissi totale di sole del 12 novembre 1966. Su una tela rotonda – formato particolarmente caro ai maestri del Rinascimento fiorentino, in primis Sandro Botticelli – è rappresenta una porzione di città sulla quale domina un grande sole dalle molteplici sfumature rosate. Il 5 agosto 1986 Foppiani si spegneva a Piacenza. Nell’arte locale la sua figura si staglia per respiro internazionale, sostenuto anche dalla vasta cultura in campo artistico e letterario. Fonte di ispirazione costante furono le letture di Calvino, Hemingway e Trilussa, dei Simbolisti francesi e dei Russi dell’Ottocento. L’artista fu molto rimpianto anche dagli artisti in formazione, che incoraggiava e aiutava con generosità.


Francesco Ghittoni Nato a Rizzolo (San Giorgio Piacentino) nel 1855, mostrò sin da piccolo una spiccata attitudine per il disegno. Il parroco del paese, che ne comprese le doti, caldeggiò la sua iscrizione alla Scuola d’arte Gazzola, dove ebbe come insegnanti per la figura prima Lorenzo Toncini e poi Bernardino Pollinari, per ornato e architettura Gaetano Guglielmetti. A fronte delle disagiate condizioni economiche della famiglia, la Congregazione del Gazzola gli permise di frequentare i corsi dal 1867 al 1880, con una breve interruzione nel 1876-1877, fornendogli sussidi e borse di studio: la sua formazione risultò quindi fortemente radicata nella tradizione accademica, della quale si sarebbe fatto vessillifero una volta chiamato a insegnare al Gazzola. Egli sperimentò il passaggio dall’impostazione neoclassica di Toncini a quella verista di Pollinari, che privilegiava lo studio dal vero, sia del modello che del paesaggio. Già durante gli anni scolastici partecipò ad esposizioni, con apprezzabili risultati. I suoi lavori degli anni Settanta, come Vecchio rigattiere, Capraio e David (Piacenza, Museo Gazzola) e Giovane operaio che riposa (Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi) risentono dell’impostazione scolastica, sia nei temi particolarmente cari al Pollinari che nelle pose dei protagonisti. Nelle successive opere si fece più evidente l’influsso di altri artisti, conosciuti attraverso le riviste o de visu durante le esposizioni a Milano e Venezia: in particolare, Giacomo Favretto e, soprattutto, Domenico Morelli, che divenne per lui un vero e proprio riferimento. Ghittoni ebbe un’esistenza travagliata da lutti e dispiaceri, minata dall’incubo dell’indigenza, ma rasserenata da una profonda fede e dall’intensa pratica artistica. Affrontò quasi tutti i generi: dalla pittura aneddotica a quella sacra, dai ritratti ai paesaggi, con composizioni studiatissime e una tavolozza sempre misurata, al limite della severità. Splendide le marine realizzate nel 1895 e nel 1896 durante i soggiorni in Liguria, a Sori, ospite del pastore protestante Charles Bachofen, che lo fece conoscere a Ginevra. Nel 1903 divenne conservatore del primo Museo Civico di Piacenza, collocato presso Palazzo Gazzola, e comprendente i maggiori tesori della città riuniti per qualche decennio in un’unica sede: il tondo di Sandro Botticelli, l’Ecce Homo di Antonello di Messina, il Fegato etrusco. Il contatto con questi e altri capolavori rappresentò certo per Ghittoni un’occasione irripetibile, che corroborò una già

ricca e variegata dotazione estetica e culturale. Nel 1911 all’attività di conservatore aggiunse quella di professore di figura, prendendo il posto dello scomparso Stefano Bruzzi, che aveva affiancato già dal 1908 per problemi di salute. Come insegnante formò un’intera generazione di artisti piacentini, tra i quali: Nereo Zanco, Luciano Ricchetti, Paolo Sgorbati, Carlo Sverzellati, Alberto Aspetti, Alberico Bossi, Ugo Rancati, Savino Ferranti, Luigi Corbellini, Alessandro e Mario Marenghi, Giacomo Bertucci e Giovanni Marchini. All’inizio degli anni Venti, tuttavia, la generazione nata tra 1895 e 1900 si mostrò insofferente ai suoi valori e insegnamenti: culto del dovere, senso del sacro e dirittura morale, legati a una concezione tradizionale dell’arte e dell’artista. Tale gruppo, da lui definito la “generazione maleducata”, era attirato dalle Avanguardie e dalla modernità, e si ribellava all’eredità di Pollinari, con il quale Ghittoni condivideva l’idea di insegnamento come “missione”: non a caso, come aveva fatto il maestro quattro decenni prima, riorganizzò la scuola, inserendo un corso di storia dell’arte. A undici anni dalla sua scomparsa, nel 1939 gli allievi Giacomo Bertucci e Giovanni Marchini gli dedicarono un’importante retrospettiva a Palazzo Gotico – in risposta ai sostenitori di Bruzzi – che lo consacrò ben al di là di Piacenza, grazie anche all’interessamento di Guido Piovene, Enrico Somaré, Carlo Carrà e Aldo Carpi. La Sacra Famiglia (1918), esposta in mostra, è un disegno d’après della grande pala realizzata nel 1898 per la chiesa di San Sepolcro a Piacenza. Numerosi sono gli studi preparatori per questa versione di un soggetto già affrontato per la chiesa parrocchiale di Rizzolo. Ghittoni ne parla in una lettera a Bachofen del 18 luglio 1897: “rappresento la famiglia di Nazaret, all’aperto, e, si può dire, sull’uscio di casa e sul campo del lavoro. Il sole dev’essere da poco tramontato; e le tre figure sante metto in piedi attorno ad un desco poveretto sul quale è ammannita la cena. Le figure dunque sono in piedi, e pregano, e Giuseppe, capo famiglia, invoca sul cielo la benedizione del Signore. Ho già fatto un poco di schizzi e non sono malcontento”. L’opera in mostra evoca a un tempo l’importanza del disegno durante gli anni di Ghittoni, la maestria raggiunta dall’artista in questo campo e la centralità che rivestiva per lui l’arte sacra: la composizione semplice è particolarmente efficace nel trasmettere il suo personale senso religioso, raccolto e partecipato.

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Ludovico Mosconi Nato a Piacenza nel 1928, iniziò a dipingere attorno ai dodici anni. Tra 1942 e 1944 studiò presso la Scuola d’arte Gazzola, dove fu allievo di Umberto Concerti e ottenne nel 1944 una menzione onorevole con premio di lire 200. Pur avendo appreso i rudimenti artistici dal pittore parmigiano, piacentino d’adozione, Ludovico non lo considerò il suo vero maestro: in contemporanea, dal 1942 al 1945 frequentava infatti lo studio di Luciano Ricchetti, dove si respirava certo un’aria più libera e meno accademica, e in seguito, dal 1945 al 1950, lavorò presso il decoratore e restauratore Alberto Aspetti, ricordato in un’intervista comparsa sul quotidiano cittadino “Libertà” il 13 marzo 1972, come “un tipo cinquecentesco […] dal quale ho imparato non solo a dipingere ma anche a vivere”. Dopo la variegata formazione nella città natale, tra 1951 e 1954 soggiornò a Parigi, anche in compagnia della moglie, Sandrina Gazzola. Si iscrisse all’Académie de la Grande Chaumière ed entrò in stretto contatto con Édouard Georges Mac-Avoy, pittore di paesaggi, vedute e ritratti, ancorato allo stile figurativo, declinato con accenti espressionistici. Nella capitale francese Mosconi studiò la pittura di Georges Braque, Henri Matisse e Pablo Picasso, ma anche di Claude Monet, come ricorda una marina che riprende uno scorcio celebre del padre dell’Impressionismo. A Piacenza espose in diverse gallerie, con personali o collettive. La difficoltà di inserirsi appieno e la necessità di trovare acquirenti lo spinsero a trasferirsi a Milano – come aveva fatto anche Cassinari –, allestendovi la prima personale nel 1955. L’ambiente milanese era in quegli anni particolarmente stimolante. Mosconi vi si integrò, allacciando amicizie con artisti come il fotografo Ugo Mulas, che lo immortalò in splendidi scatti. Nel capoluogo lombardo guardò con ammirazione al pittore e scultore Gino Meloni, che stava passando da soluzioni influenzate dal Cubismo e dall’Espressionismo ad altre di tipo informale. Nel 1961 il direttore della Pinacoteca di Brera, Franco Russoli, lo presentò al Cavallino di Venezia, sancendone la definitiva consacrazione, alimentata nei decenni successivi da numerose esposizioni a Milano e in altre città italiane e sostenuta dal mercante d’arte Alberto Montrasio. Tuttavia, Mosconi non dimenticò Piacenza, dove lavorava ospite del collega William Xerra, e dove espose paesaggi padani alla VII Biennale nazionale della Cassa di Risparmio del 1982. Il retaggio culturale piacentino è avvertibile nella sua interpretazione dell’Ecce homo di Antonello da Messina (1968), come negli echi di alcuni suoi lavori che richiamano la rarefazione delle nuvole di Francesco Mochi nei bassorilievi dei monumenti equestri. Importanti influssi

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sulla sua opera lasciarono tanto il viaggio in Spagna alla fine degli anni Settanta, quanto lo studio di Filippo De Pisis e Renato Guttuso. La sua ricca produzione, inaugurata con opere di carattere figurativo (con predilezione per vedute e figure), si impone per l’apporto personalissimo all’Informale, con dipinti di notevole impatto espressivo accanto ad altri connotati da una grazia sottile. Notevole, come già accennato, fu la sua cultura in campo artistico – non a caso amava lavorare nella secolare Villa Litta a Orio Litta – e letterario, in particolare poetico, come testimonia il libro postumo Io ti voleva uguale al primo bene (Piacenza 1989), nel quale confessa la propria irrequietezza: “non mi resta che un lembo gracile di cielo a spezzare i confini di questa mia grande inquietudine”. Il 2 aprile 1970, su “Il Corriere della Sera”, Dino Buzzati metteva in risalto le doti poetiche della sua pittura e l’assoluta originalità, pur nel costante riferimento a grandi artisti: “trent’anni fa sarebbe stato definito poeta ermetico. Oggi, l’ermetismo essendo stato ormai digerito, semplicemente poeta… Siamo in piena lirica, in pieno sentimento, d’accordo, però con che trasfigurata ed ultraintellettuale eleganza. Affinità eventuali di forma? Certo Max Ernst, certo Masson, certo Licini… Che cosa si vede? Tremuli spazi, nuvole, spiritelli, reticoli, gerasie, sbirzi, esili plinchi, barocchismi alla Savinio, spiritosi sigilli, nonché i cuori…”. Nel 1985 Milano gli dedicò un’importante antologica nella Sala Viscontea del Castello Sforzesco con catalogo curato da Renato Barilli, mentre Piacenza, più di recente, la mostra postuma Ludovico Mosconi. Inquiete stelle a Palazzo Gotico (novembre 2003-gennaio 2004) a cura di Luigi Cavallo. Mosconi morì assassinato nel suo studio di via Solferino, a Milano, nel 1987. Nelle tre opere in mostra, dall’accentuato formato verticale, è assente qualsiasi retaggio figurativo a favore di eleganti grafismi, come segni di un alfabeto sconosciuto, che rimandano a certe ricerche del linguaggio verbo-visuale milanese. Linee diritte si intersecano a segni mossi e tortuosi, con l’aggiunta di quadratini neri – a formare una sorta di scacchiera – spesso con la comparsa del coloro rosso che si addensa in un piccolo cuore. Come architetture costruite nella mente e con l’anima sfilano le tre composizioni di fronte ai nostri occhi: spazi inafferrabili, leggeri e aggraziati, attraversati da guizzi di aerei movimenti. Per leggerle, vale la raccomandazione di Luigi Cavallo di evitare “talune attrezzerie della critica, i precetti forma-contenuto, organicità di linguaggio, uniformità di stile, coerenza espressiva. Servirebbero strumenti umani, impropri e marginali per addentrarsi nelle sue stanze insieme esoteriche e infantili” (Ludovico Mosconi 2003, p. 13).


Luciano Ricchetti Nato a Piacenza nel 1897, si iscrisse alla scuola d’arte del Gazzola nel 1908, quando Francesco Ghittoni iniziò a sostituire l’anziano Stefano Bruzzi. Nel 1913 completò la propria formazione di stampo prettamente accademico, della quale il maestro si faceva sempre più geloso custode, in polemica con le prime Avanguardie. Tra 1920 e 1922 partecipò alle mostre organizzate dagli Amici dell’Arte, al pari di Mario Cavaglieri e Luigi Arrigoni, con i quali aveva instaurato un affiatato sodalizio. Grazie a una borsa di studio poté frequentare il corso di Ambrogio Alciati presso l’Accademia di Brera, dal 1923 al 1927. Ebbe così la possibilità di ampliare il proprio orizzonte, passando da Ghittoni e il suo stile debitore nei confronti di Domenico Morelli, allo stile del nuovo maestro, sospeso tra la scapigliatura di Tranquillo Cremona e la maniera ammiccante di Giovanni Boldini. Legato ai modi del maestro milanese, Ricchetti conseguì il premio Bozzi Caimi per una testa; si indirizzò poi verso la pittura di Armando Spadini e in seguito verso quella di Mario Sironi, legato a “Novecento”, che lo influenzò con le sue forme monumentali e le cromie smorzate. Dopo aver conseguito nel 1934 il premio nella Prima mostra regionale sindacale emiliana, raggiunse la fama con la vittoria nel 1939 del primo Premio Cremona con l’opera In ascolto, elogiata da Ugo Ojetti per la “saldezza, chiarezza e umanità”, e distrutta nel 1945 a causa delle connotazioni esplicitamente fasciste (ne esistono alcuni frammenti conservati presso la Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi e la Banca di Piacenza). Durante il dopoguerra partecipò a una Biennale di Venezia, alle Quadriennali di Roma e alla Permanente di Milano, per poi ritirarsi definitivamente a Piacenza: la sua pittura, fortemente ancorata alla tradizione figurativa, non destava particolare interesse nell’Italia percorsa da nuove correnti artistiche. Sino alla morte, nel 1987, si dedicò con risultati spesso assai alti a tutti i generi: pittura di storia e sacra, scene di genere, ritratto, natura morta, paesaggio e veduta, affiancando all’attività da cavalletto, quella di illustratore per riviste, scultore e frescante, attivo per privati e istituzioni. Molti artisti piacentini di secondo Novecento trovarono in lui un maestro e un riferimento: la sua mano felicissima e l’occhio allenato e sensibile gli permettevano di comporre con facilità scene complesse e di vaste dimensioni. Il dipinto Paesaggio in Val Nure (anni ‘30) testimonia

il fascino esercitato dalla provincia anche sul “cittadino” Ricchetti. Con rapidi tocchi di colore, il pittore rappresenta la varietà della veduta, con terreni arati, macchie boschive e manti erbosi. Sottili alberi dalla scarna chioma sono raffigurati in primo piano sulla destra, a celare in parte lo sfondo e, allo stesso tempo, indurre l’occhio dello spettatore verso l’edificio posto al centro della composizione. Linee diagonali caratterizzano la veduta, dalla quale è assente la figura umana, a restituire tutto il silenzio e la pace della Natura. Diversamente, l’opera Rumba. Danza spagnola (1925), che appartiene a un ciclo “spagnoleggiante”, è una sorta di compiaciuto manifesto dell’abilità di Ricchetti nel cogliere il movimento della figura umana: con taglio fotografico, vi è eternato l’attimo di un passo agile eseguito da un’ammiccante ballerina. L’ultima opera in mostra Deposizione (1957) è una personale – e molto partecipata – riflessione su un tema diffusissimo nell’arte occidentale. Ricchetti rappresenta solo due donne, Maria e la Maddalena, a sorreggere il corpo del Cristo morto, dalle membra smisuratamente allungate, come in certa pittura toscana del Trecento. Nella monumentalità delle figure e nel trattamento scarno delle loro membra è avvertibile la lezione di Mario Sironi. A mio avviso, le considerazioni di Ferdinando Arisi e Garibaldo Marussi riguardo la netta distanza di Ricchetti dal maestro Ghittoni possono essere in parte riviste alla luce di quest’opera, e delle altre di carattere sacro: la semplificazione delle forme, la sobrietà della rappresentazione e i rimandi ai Primitivi (anche nelle aureole non scorciate) rimandano ai numerosi contributi ghittoniani nello stesso genere, intravisti certo attraverso la lezione di Novecento e uno stile più aspro, figlio del suo tempo.

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Alfredo Soressi Nacque a Mucinasso di San Lazzaro Alberoni (Piacenza) nel 1897. Con alcune nozioni apprese dal parroco del paese natale, don Pietro Leoni, nel 1914 si iscrisse alla scuola d’arte Gazzola, dove frequentò le lezioni di Francesco Ghittoni colpito però dallo stile e dai soggetti di Stefano Bruzzi, scomparso sei anni prima. Nel giudizio sullo scolaro, Ghittoni si mostrò entusiasta: “Ottimamente nel primo anno e ottimamente in questo secondo”, si legge nella relazione dell’anno accademico 1915-1916. Accanto alle lezioni di figura, Soressi frequentò anche quelle di ornato, tenute da Camillo Guidotti, maestro dei futuri architetti Paolo Costermanelli e Pietro Berzolla. Chiamato alle armi nel 1916, fu in prima linea: dalla ritirata di Caporetto all’offensiva del Grappa, sino a quando, nel giugno 1918, una granata lo lasciò mutilo di un piede. Al termine del conflitto, si iscrisse all’Accademia di Brera, frequentando le lezioni dei pittori Giuseppe Mentessi e Camillo Repetti, dell’architetto Luigi Pellini e dello scultore Giannino Castiglioni. Insieme con il diploma, ottenne nel 1921 la cattedra di ornato e nel 1922 la direzione della Scuola professionale di Ponte di Legno (Brescia), affiancando all’attività di ornatista quelle di pittore, architetto (aggiudicandosi il piano regolatore dell’isola Comacina sul lago di Como) e incisore. Scomparso Camillo Guidotti, nel 1925 partecipò al concorso indetto dalla Congregazione del Gazzola per scegliere il suo successore, arrivando primo davanti a Pietro Berzolla e Ottorino Romagnosi. A Piacenza espose per la prima volta alcuni dipinti nel 1926, alla quarta mostra organizzata dagli Amici dell’Arte, salutato da Aldo Ambrogio con parole di lode: “il suo metodo personale, il colorito caldo e vivo delle sue tele, hanno il facile incontro nel pubblico. Non affronta problemi ardui di tecnica e di forma, ma tentando una o altra scuola, dona alle sue opere vigore personale, non discompagnato da un sano equilibrio di studio diligente e appassionato” (Omaggio ad Alfredo Soressi 2002, p. 7). Sin dall’inizio della sua attività, optò per dipinti raffiguranti il lavoro nei campi, le nature morte, le vedute cittadine e i paesaggi con animali al pascolo, cercando di apprendere da diverse correnti anche molto lontane nel tempo (dall’arte veneta del Cinquecento al paesaggismo seicentesco di Le Lorrain sino ai maestri del Gazzola e di Brera). Fortemente ancorato alla tradizione figurativa,

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Soressi fu reputato “passatista” dai alcuni suoi contemporanei: Foppiani, ad esempio, lo definiva “il pittore che dipingeva gli occhi alle formiche”, per via del suo stile minuzioso e indifferente nei confronti delle avanguardie. Le sue opere non affrontano temi impegnati o di denuncia, ma offrono una visione quasi arcadica della realtà, sorta di rifugio nostalgico dell’artista in tempi sempre più difficili e frenetici. All’insegnamento al Gazzola e all’attività di pittore (espose molto spesso a Piacenza, ma anche a Milano), affiancò l’attività di illustratore di libri, direttore del Museo Civico (dal 1937 al 1950), che aveva sede nel palazzo dell’Istituto, e architetto, progettando nel 1938 la Casa del Mutilato (1939-1941), oggi sede del Rotary Farnese, la facciata della propria casa in via San Sepolcro a Piacenza e il Palazzo del Comune a Farini. Tra quanti lo conobbero, la giovane scrittrice Giana Anguissola ne tracciò un gustoso ritratto: “seduto dietro una gran tela issata sul cavalletto; una stinta coperta chiazzata d’ogni colore lo copre disordinatamente dalla cintola in giù, ha le mani impossibili a descriversi, i baffi mogi, il ciuffo negli occhi: il suo aspetto rammenta quello di una vecchia strega” (Omaggio ad Alfredo Soressi 2002, p. 7). Negli anni Cinquanta tentò, senza successo, di dar vita a un “villaggio per artisti” sull’Appennino piacentino, nei pressi di Bosconure, nel quale pittori e scultori potessero convivere, creando le loro opere a contatto con la Natura. Tra i suoi allievi si ricordano, oltre a Cinello presente in mostra: Ludovico Muratori, Angelo Cravedi, Luciano Fornasari, Gabriele Marzoli e Secondo Tizzoni, nonché molti abili ebanisti e intagliatori, marmisti, artigiani del ferro, decoratori e arredatori. La grande opera Veduta del castello di Rivalta (1954) fu realizzata pochi anni prima di lasciare la cattedra al Gazzola. Si tratta di uno scorcio caro agli artisti piacentini (si pensi alla versione di Giovanni Paolo Panini), in virtù della presenza del pittoresco maniero. Animato da bestie al pascolo e da contadini intenti a preparare una colazione al sacco, il dipinto ben esemplifica l’approccio sentimentale alla pittura caratteristico di Soressi, e l’importanza da lui attribuita allo studio del disegno, della prospettiva e della composizione, così come della ricerca cromatica – giocata qui su toni caldi e soffusi – e luministica – il primo piano in ombra contrasta teatralmente con lo sfondo fortemente rischiarato.


Bibliografia essenziale Una bibliografia generale sugli artisti qui ricordati sarebbe fuori luogo in un catalogo di limitate dimensioni, qual è questo. Ci si limita a riportare, in ordine alfabetico, soltanto le pubblicazioni più recenti, dalle quali si risale facilmente alla letteratura anteriore.

F. Arisi, Francesco Ghittoni 1855-1928, Piacenza, Galleria Braga, 1988 F. Arisi, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi Piacenza, Piacenza, Tip.Le.Co., 1988 F. Arisi, Luciano Ricchetti, Piacenza, Tip.Le.Co., 1997 F. Arisi, La pittura, in Storia di Piacenza. Il Novecento I (1900-1946), Piacenza, Tip.Le.Co., 2002, pp. 462-521 F. Arisi, La pittura, in Storia di Piacenza. Il Novecento II (1946-2000), Piacenza, Tip.Le.Co., 2003, pp. 1243-1323 Arte e storia: Luciano Ricchetti alla prima edizione del Premio Cremona (1939), catalogo della mostra (Piacenza, Galleria d’arte moderna Ricci Oddi, 13 dicembre 2003-11 gennaio 2004), a cura di S. Fugazza, Piacenza, Tip.Le.Co., 2003 R. Bossaglia, Gustavo Foppiani: opere 1945-1986, con un saggio di S. Fugazza, Piacenza, Galleria Braga, 1993 Bruno Cassinari. Tra colore e segno, catalogo della mostra (Piacenza, Biffi Arte, 10 marzo-14 aprile 2012), con testo di L. Sansone, Piacenza, NuovaLitoEffe, 2012 Cassinari Mediterraneo, catalogo della mostra (Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, 17 marzo-27 maggio 2012), a cura di M. Rosci, Piacenza, Tip.Le.Co., 2012 Cinello. Il mito e altri luoghi del mito, catalogo della mostra (Rivergaro, Centro di Pubblica Lettura, 2007), a cura di G. Dadati, S. Fugazza, Piacenza, Tip.Le.Co., 2007 Cinello 1928-1982. L’enigma della realtà, catalogo della mostra (Rivergaro, Centro di Pubblica Lettura, 7 agosto-7 settembre 2008), a cura di G. Dadati, S. Fugazza, Piacenza, Tipolito Farnese, 2008 E. Di Martino, Ettore Bonfatti Sabbioni: l’opera grafica 1952-1973, Venezia, Centro Internazionale della Grafica, 1987 Dipinti, sculture, mosaici: 80 opere di Luciano Ricchetti, Francesco e Luigi Perotti, a cura di S. Pronti, Piacenza, Grafiche Lama, 2008 Ettore Bonfatti Sabbioni. Disegni (1954-1982), catalogo della mostra (Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, 6 dicembre 1992-21 febbraio 1993), a cura di F. Arisi, Piacenza, Tip.Le.Co., 1992 Ettore Bonfatti Sabbioni, catalogo della mostra (Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, 19 ottobre-16 novembre 2003), a cura di S. Fugazza, Piacenza, Tipografia Cassola, 2003

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G. Fiori, Sculture e dipinti inediti di Luciano Ricchetti, in “Strenna Piacentina”, 2009, pp. 147-152 Giancarlo Braghieri con l’occhio della mente, con testi di P.L. Peccorini Maggi, C. Francou, S. Fugazza, L. Gavioli, Piacenza, Tip.Le.Co., 2003 Gustavo Foppiani: opere 1947-1986, con un saggio di A. Dragone, Piacenza, Galleria Braga, 1989 Gustavo Foppiani e gli artisti piacentini del fantastico, catalogo della mostra (Piacenza, Spazio Rosso Tiziano, 16 dicembre 2006-21 gennaio 2007), a cura di S. Pronti, Piacenza, Tip.Le.Co., 2006 Il Gazzola, a cura di F. Arisi, G. di Groppello, G. Mischi, Piacenza, Istituto Gazzola, 1981 Inediti. Dipinti di artisti piacentini da collezioni private (‘800-‘900), catalogo della mostra (Piacenza, Sala degli Amici dell’Arte, 24 aprile-6 maggio 1999), a cura di F. Arisi, S. Fugazza, Piacenza, Tip.Le.Co., 1999 Ludovico Mosconi, catalogo della mostra (Milano, Castello Sforzesco, 5 dicembre 1984-6 gennaio 1985), a cura di R. Barilli, Milano, Mazzotta, 1984 Ludovico Mosconi. Inquiete stelle. Dipinti 1948-1986, catalogo della mostra (Piacenza, Palazzo Gotico, I novembre 2003-18 gennaio 2004), a cura di L. Cavallo, Cinisello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2003 Luigi Arrigoni 1896-1964, catalogo della mostra (Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, 30 novembre 1996-9 febbraio 1997), a cura di F. Arisi, S. Fugazza, Piacenza, TEP, 1996 R. Margonari, Omaggio a Cinello Losi, Piacenza, Galleria Braga, 1986 R. Margonari, Cinello. Il gioco visionario del sogno, catalogo della mostra (Piacenza, Palazzo Farnese, 10 giugno-3 settembre 2000), Piacenza, Tip.Le.Co., 2000 Omaggio ad Alfredo Soressi: 41 opere del pittore piacentino Alfredo Soressi (1897-1982), catalogo della mostra (Rivergaro, Centro di Pubblica Lettura, 13 luglio-25 agosto 2001), a cura di S. Fugazza, Piacenza, Tipolito Farnese, 2002 Rotar’art. Pittura piacentina di ieri e di oggi, catalogo della mostra (Piacenza, Sala degli Amici dell’Arte, 5 maggio-23 maggio 2007), a cura di F. Arisi, R. Braceschi, S. Fugazza, F. Mastrantonio, Piacenza, Tip.Le.Co., 2007 Serge Belloni: omaggio a Parigi e Venezia, catalogo della mostra (Piacenza, Palazzo Gotico, 15 dicembre 2001-13 gennaio 2002), a cura di F. Arisi, S. Fugazza, Piacenza, Tip.Le.Co., 2001 Sulle orme delle opere di Ricchetti con Arisi: diario di Oreste Grana, a cura di R. Passerini, Piacenza, G.M. Editore, 2015

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rotary farnese: trent’anni di STORIA a cura di Francesco Mastrantonio

Anno sociale 2015/2016 Presidente: Giuseppino Molinari Vice Pres.: Raffaele Veneziani, Incoming: Donatella Pigozzi - Past President: Guido Libelli - Segretaria: Pigozzi Donatella - Tesoriere: Giorgio Croci - Prefetto: Roberta Braceschi - Consiglieri: Z. Cademartiri, F. Garilli, O. Knefaty Fornari, F. Mastrantonio, B. Zuccone

Sembra ieri di Ernesto Leone, Socio fondatore Il Rotary Club Piacenza Farnese - o più precisamente “di Piacenza Farnese” come amava precisare il suo fondatore Aldo Aonzo che poneva l’accento su quel “di” comunemente dimenticato - compie trent’anni. E’ nato nel 1985 e nel giro di tre decenni ha dimostrato di essere un organismo dinamico e vitale, capace di sviluppare una fervida e meritoria attività, permeata da quello spirito di servizio che rappresenta la ragione d’essere dell’organizzazione rotariana. Dalla costituzione ad oggi, al vertice del Club si sono susseguiti presidenti di notevole competenza e prestigio, al cui fianco hanno operato di volta in volta gruppi direttivi

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che si sono prodigati con capacità e dedizione. L’impegno di tutti, compreso il sostegno collaborativo dei soci, ha permesso di sviluppare una proficua azione che ha fatto del Rotary Farnese una realtà viva, ben radicata e apprezzata nell’ambito della comunità in cui è insediata. Anno dopo anno il Club ha accumulato nel suo ideale forziere un consistente patrimonio fatto di benemerenza e autorevolezza. In definitiva, il meno che si possa dire è che non si è mai rimasti con le mani in mano. E quando c’è entusiasmo e voglia di fare il tempo passa velocemente. Lo prova il commento ricorrente tra chi ha partecipato alla partenza del 1985 ed è ancora presente nei ranghi del Rotary Farnese: “Sono passati trent’anni, ma sembra ieri”. Trent’anni che sono serviti a stringere e consolidare amicizie, una rete di rapporti fatti di stima ed affetto che porta con sé anche gli unici motivi di rammarico sorti lungo la strada percorsa insieme; e cioè il rimpianto per chi durante questi due decenni ci ha detto definitivamente addio. Lungo dibattito prima del “via” Quando nel 1985 il Rotary Farnese ha preso vita esistevano nel Piacentino già due club rotariani: lo storico Rotary Piacenza, nato nel lontano 1926, e il Rotary di Fiorenzuola, costituito nel 1979. Dopo il “Farnese” sarebbero arrivati il Club della Valtidone (1997), quello delle Valli del Nure e della Trebbia (1999), il Sant’Antonino (2003) ed ora anche il Cortemaggiore Pallavicino. Nell’ordine cronologico, il Club Piacenza Farnese avrebbe dunque occupato il terzo posto; e pur non essendo ancora prevedibili le successive accelerazioni, non rappresentava comunque una novità assoluta in fatto di ampliamento della base rotariana nel Piacentino. Tuttavia si configurava una situazione fino ad allora mai sperimentata, cioè il fatto che il nuovo arrivato avrebbe dovuto condividere il territorio cittadino con il glorioso sodalizio del ‘26. La cosa aveva sollevato, nell’ambito rotariano, discussioni trascinatesi per anni. Fino a che, nell’ultimo scorcio del 1984, l’allora presidente del primo Club piacentino, Gianfranco Chiappa, e il segretario Luciano Tempestini ruppero gli indugi considerando che fosse giunto il momento di dare il benestare alla creazione del nuovo gruppo. Fu così che la decisione venne posta all’ordine del giorno ed approvata: il secondo Club cittadino sarebbe nato da una costola del primo, cui sarebbe toccato il compito di assumere il ruolo di padrino. Perché si giungesse a questo sviluppo si erano attivati i vertici distrettuali che sollecitavano non solo a Piacenza l’espansione della sfera rotariana per una più larga ed aperta presenza del Rotary nella vita delle comunità e per poter contare, a tale scopo, su energie fresche in grado di dedicare tempo e capacità professionali al servizio della collettività. Se il concepimento aveva richiesto anni, la gestazione del nuovo Club piacentino è stata rapida. Occorreva fare

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presto perché bisognava essere pronti al varo della nuova navicella rotariana per la successiva annata rotariana. Considerando le pratiche ed i passaggi burocratici che si dovevano necessariamente compiere ai vari livelli dell’organizzazione sia distrettuale sia internazionale, il tempo disponibile era piuttosto limitato, considerando che l’iter era allora meno spedito di oggi. Ma le tappe, comunque, sono state superate brillantemente. Il merito va ascritto ad Aldo Aonzo, l’uomo a quale venne affidato il compito di portare l’impresa al traguardo nel ruolo di rappresentante speciale del governatore, prima, e di primo presidente del nuovo Club, poi. Chiedeva il permesso di amare Piacenza Nell’operazione l’ing. Aonzo seppe mettere a frutto, oltre al peso del proprio nome, anche le doti di un carattere risoluto e concreto che gli erano unanimemente riconosciute. Come sapeva guidare una grande industria più con la persuasione che con l’imperioso comando, così arrivava ad aprire le porte apparentemente più inaccessibili con un’arte diplomatica impastata inusitatamente di franchezza e di logicità. Era un conversatore asciutto ed essenziale, che coglieva subito il nocciolo delle questioni. Poiché riusciva a dimostrare di avere ragione, era difficile dirgli di no. Aveva il dono di trasmettere le sue convinzioni anche semplicemente facendo domande, come possono testimoniare i tanti rotariani che si sono trovati, quasi senza accorgersene, in sintonia con i suoi indirizzi dopo aver avuto con lui colloqui iniziati da posizioni del tutto diverse. A capo di una grande industria cementiera, l’ing. Aonzo godeva di largo prestigio nel mondo economico non solo italiano. Al titolo accademico ottenuto come universitario, ne avrebbe aggiunto un secondo “honoris causa” e quello, ancor più prestigioso, di Cavaliere del lavoro. Come per tutte le iniziative che gli era capitato di affrontare, l’ingegnere portò avanti con grande capacità anche il nuovo impegno rotariano. E mentre esplicava il suo notevole spirito di servizio, dava dimostrazione anche dell’attaccamento che lo legava a Piacenza nonostante le sue origini liguri. “Sono un piacentino d’adozione - diceva, quasi scusandosi - ma innamorato di quella che mi permetto considerare la mia città”. Con quel voler chiedere il permesso di amare Piacenza, l’ing. Aldo Aonzo palesava una delle molte doti della sua personalità, il grande garbo nel rapporto umano e la discrezione di chi si sente protagonista, ma non intende per questo imporre la sua presenza. Sul piano affettivo, insomma, mostrava quasi il bisogno di un lasciapassare, lui che tan-

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to dava alla città con l’importante industria che presiedeva, la Cementirossi, e con l’instancabile opera di mecenate e di benefattore, condotta senza mai voler mostrarsi alla ribalta. Questa sua ritrosia all’apparire nel campo privato era tale che le iniziative più importanti, quelle che non potevano passare inosservate, le dedicava preferibilmente al nome di Giovanni Rossi, il capitano d’industria che aveva creato l’impresa cementiera le cui redini erano successivamente passate ad Aonzo. (E.L) In trentatré alla partenza Erano trentatré i soci che hanno fondato il Rotary Club di Piacenza Farnese. Ecco i loro nomi con l’indicazione, per ciascuno, degli incarichi ricoperti o dell’attività professionale esercitata in quel periodo: ing. Aldo Aonzo, presidente della Fincem-Finanziaria Cementi Spa; dott. Pier Germano Bongiorno, notaio a Piacenza; dott. Alessandro Bosoni, chirurgo alla Clinica Lodigiani di Piacenza; dott. Ettore Canepari, direttore del Consorzio agrario provinciale di Piacenza; avv. Michelangelo Camussi, con studio legale a Piacenza; prof. Giuseppe Carella, primario di Oculistica all’Ospedale civile di Piacenza; cav. uff. Pietro Celaschi, presidente e amministratore delegato dell’industria meccanica Celaschi Srl di Vigolzone; dott. Valter Cordani, contitolare della Farmacia Fiorani di Piacenza; p.i. Armando Corsi, presidente dell’industria produttrice di macchine utensili Jobs Spa di Piacenza; sen. Sergio Cuminetti, presidente dell’Industria meccanica produttrice di raccorderia O.M.C. di Piacenza; ing. Paolo De Lama, con studio di ingegneria idraulica e impiantistica a Piacenza; ing. Guido Fornasari, dirigente della Zona Enel di PC (distribuzione elettricità) cav. uff. Angelo Furia, titolare di industria del legno di Castelsangiovanni; dott. Mario Galazzetti, direttore dello Zuccherificio Eridania di Sarmato; dott. Ugo Gazzola, primario di Cardiologia all’Ospedale civile di Piacenza; dott. Benvenuto Girometti, con studio di commercialista a Piacenza; ing. Luciano Gobbi, condirettore della Marchant Banking Groupe di Milano (The Chass Manhattan Bank NA); dott. Erasmo Gregori, con studio di odontoiatria a Piacenza; giornalista Ernesto Leone, redattore capo del quotidiano “Libertà”; Luigi Manfredi, agricoltore; dott. Giacomo Marazzi, direttore operativo dell’Astra Veicoli Industriali Spa di Piacenza; dott. Massimo Massoni, agente generale procuratore dell’assicurazione La Fondiaria Spa, via Cavour, Piacenza; prof. Gian Carlo Mazzocchi, docente di Politica Economica all’Università Cattolica del S. Cuore di Milano;

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comm. Alfredo Mazzoni, vicepresidente della Banca di Piacenza; avv. Pier Angelo Metti, con studio legale a Piacenza; prof. don Franco Molinari, docente di Storia Moderna all’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia; ing. Giuseppe Parenti, amministratore delegato dell’industria di prodotti per l’edilizia e prefabbricati “PC Spa”; prof. Giuseppe Rettanni, (già primario di medicina all’Ospedale civile) con studio medico a Piacenza; dott. Vittorio Roncoroni, consigliere d’amministrazione dell’industria di fibre tessili Safta Spa di Piacenza; ing. Roberto Rosnati, dirigente Enel, settore lombardo della produzione elettrica; ing. Luca Tattara, direttore di mercato della società telefonica SIP, sede di Piacenza; dott. Giovanni Carlo Zani, direttore della filiale di Piacenza del Credito Romagnolo Spa; dott. Bruno Zuccone, direttore della sede piacentina della Banca Popolare Commercio e Industria. Servire in amicizia: la strada resta quella Una delle parole d’ordine del Rotary International è senza dubbio quella che si declina nella strategia di individuare i migliori, i cosiddetti “eccellenti”, di ogni campo professionale e di mettergli all’occhiello del bavero della giacca l’inconfondibile distintivo con la rotella dentata. Detta così, l’operazione – ancorché abbastanza banale – sembrerebbe facile e sbrigativa: in realtà la cosa non è semplice e merita una riflessione più estesa e approfondita e - poiché la cerca e l’investitura rappresentano il momento più delicato ed essenziale ai fini del successo dell’ Associazione – giustifica appieno la richiesta di ospitalità anche in una rappresentazione celebrativa com’è questo libro. Innanzitutto cos’è il Rotary: un’organizzazione di persone impegnate nelle più varie professioni ed attività economiche in ogni parte del mondo, unite nel rendere un servizio umanitario alla società, nell’incoraggiare il rispetto di elevate norme etiche nella condotta degli affari e nell’esercizio della propria professione, come pure nel promuovere la pace e le buone relazioni in campo internazionale. Il che è riassunto con indubbia chiarezza ed efficacia nel suo motto ufficiale: servire al di sopra di ogni interesse personale. Tutto ciò funziona e va avanti esattamente da cent’anni, dal 23 febbraio 1905, quando un avvocato, Paul P. Harris, fondò a Chicago il primo club rotariano, inizialmente per promuovere lo spirito d’amicizia fra i propri conoscenti, ma aggiungendovi, subito dopo, l’idea e l’obiettivo di rendersi utili agli altri. Così nacquero via via, decine, centinaia e poi migliaia di altri club all’interno di una ben definita comunità (città o area municipale) guidato ogni anno da un presidente diverso, coadiuvato da un consiglio direttivo. Per questo nacque vent’anni fa anche il nostro club che, sulla scorta degli scopi fondamentali del Rotary International, si è messo in marcia per:

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• promuovere e sviluppare relazioni amichevoli fra i propri membri per renderli meglio atti a servire l’interesse generale • informare ai principi della più alta rettitudine la pratica degli affari e delle professioni; riconoscere la dignità di ogni occupazione utile a far si che vengano esercitate nella maniera più degna, quali mezzi per servire la società; • orientare l’attività privata, professionale e pubblica dei soci alo concetto di servizio; • diffondere la comprensione reciproca, la buona volontà e la pace fra nazione e nazione mediante il diffondersi nel mondo di relazioni amichevoli fra persone appartenenti alle più varie attività economiche e professionali, unite nel comune proposito e nella volontà del servire.

Il piacere di incontrarsi nelle conviviali del martedì Si ha un bel dire: le quattro vie d’azione, i service, l’attenzione al distretto …, ma il Rotary si “consuma” in gran parte durante le conviviali. E’ lì che pulsa il cuore della sua vita associativa, in quell’incontro settimanale sempre stabilito, immutabile negli anni, che il socio prova il gusto pieno di sentirsi un rotariano. E’ il suo rifugio, come in una zona franca, dove si sente irraggiungibile, dove sa di non trovare sorprese, dove caccia via tutti gli altri pensieri e si abbandona disarmato e tranquillo alla gioia di stare con gli amici, al piacere di parlare in totale, rilassata libertà, o di ascoltare – se preferisce – storie di tutti i giorni, importanti, banali, divertenti o noiose. Ma sue, di un privato particolare, coperte e protette dalla complicità di un gruppo, in quel momento, tutto speciale. La conviviale è il rito del club, con tanto di gestualità e di e simbolismo, a cominciare dal suono della campana con cui il presidente dà inizio, ufficialità e solennità all’incontro, che non è solo – come qualche malizioso e disinformato critico sussurra – mangiare insieme, ma pure e soprattutto, momento di ideazione, progettualità e feconda proposta di attività rotariana. E’ nella magica atmosfera della ruota che gira a raccogliere le firme dei presenti che nascono e maturano le azioni rotariane. Da un’informazione nasce un service, da un’esperienza vissuta sul lavoro, in viaggio o in un incontro, nasce il progetto per portare il Rotary nel mondo. L’appuntamento successivo è una riunione di commissione per sviluppare l’idea o un Consiglio direttivo per formalizzare l’impegno assunto. Nella nostra conviviale si sta insieme, seduti in tanti tavoli rotondi da otto persone - più un tavolo di presidenza -. A regolare il tutto c’è un socio con compiti speciali, è il prefetto, una sorta di maggiordomo che pensa a smistare il traffico, pilotare gli eventuali ospiti ai loro posti, a far girare la famosa ruota di cui si è detto, a tenere i rapporti con il cuoco e via dicendo. Non è il solo a “lavorare”, lo affianca infatti il segretario, personaggio indispensabile e rassicurante per ogni presidente: sbriga tutto il necessario, dalla posta alle comunicazioni interne, dalle statistiche sui presenti alle convocazioni per gli incontri successivi. Su tutti, poi, veglia l’abile capacità di sintesi dell’editor, vale a dire colui che all’indomani stilerà il bollettino, cioè il giornale interno rotariano, con

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tanto di verbale delle cose dette e decise e il racconto di quanto è successo. La conviviale, inoltre, è quasi sempre arricchita da una conversazione su argomenti d’attualità, di cultura, di approfondimento professionale. Si tratta, com’è evidente, di relazioni di grande livello: i relatori sono spesso gli stessi soci, non di rado, tuttavia, arrivano ospiti illustri. In questi trent’anni il nostro club ne ha conosciuti di veramente di eccellenti: giornalisti, scrittori, imprenditori, scienziati, medici, architetti, magistrati, ministri… Ma la conviviale non è la sola occasione per stare insieme e coltivare la proverbiale amicizia rotariana… Il fascino sottile del Rotary di don Franco Molinari II Rotary Club d’Italia registrano un notevole incremento di nuovi gruppi, cui fa eco una crescente attività sociale, che non comprende solo le riunioni settimanali dei soci, ma anche una vasta gamma di iniziative filantropiche (dalle borse di studio per i giovani meritevoli, all’operazione Polio, che attraverso la vaccinazione salva milioni e milioni di bambini del Terzo Mondo). Quali sono le componenti del sottile fascino rotariano? Far parte dell’attuale boom associazionistico, per cui ogni cittadino è ingerito in molteplici sodalizi, oppure esiste uno specifico diverso? E qual è? Qualcuno ha definito il Rotary club “brava gente, che non s’immischia negli affari di religione o di Stato ed è dedita a mangiar bene e a bere meglio”. C’è all’estremo opposto chi attribuisce al Rotary il merito della cura dimagrante per manager in sovrappeso, data la consueta sobrietà della tavola rotariana. Lasciando da parte questi aspetti di folklore conviviale, mi pare di dover partire dai documenti. La carta costituzionale, valida 80 anni fa al tempo del fondatore Paul Harris come oggi, parla di “servire, affinare le capacità professionali per una più larga disponibilità, rafforzare e migliorare la cordialità dei rapporti amichevoli per rendere la società più giusta e più umana”. E’ di qui che conviene prendere le mosse, senza dimenticare la tremenda solitudine della società di massa. Oggi il mondo è un villaggio. Non c’è località così lontana che non si possa raggiungere in 24 ore di viaggio. Eppure si muore di solitudine. Le

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persone anziane sono depresse, perché non si credono amate e non si sentono utili. Gli imprenditori, che danno lavoro e pane a tante famiglie, si sentono utili alla società, ma non hanno mezza giornata alla settimana da dedicare alla moglie, agli impegni gratuiti, all’amicizia. Siamo poveri di amicizia, di gratuità, di comunicazione profonda. Mi piace questa definizione dell’amicizia: essere un’anima sola in due corpi (Aristotele). Il vero amico è come un confessore laico: puoi fare davanti a lui l’esame di coscienza a voce alta nella certezza di non essere mai condannato. Questa mi pare l’essenza della tavola rotariana: l’amicizia di chi spezza il pane insieme e condivide l’anima, ossia il meglio di sé. Il meglio di sé è ciò che si dà agli altri. lo ho quello che dono (D’Annunzio). Sotto tale aspetto io, che sono antiformalista e brucerei volentieri tutti i codici, capisco persino la cravatta. Ciascuno di noi è il meglio che esiste. Se io manco al mio compito di amicizia, nessuno potrà espletare la mia parte. Il mondo infinito è un immenso arazzo, in cui ciascuno di noi è un piccolissimo filo. Se manca quel filo, resta il vuoto. Perciò io devo presentarmi alla riunione rotariana con la cravatta, che non ha alcun valore in sé, ma è un simbolo dell’uomo completo, dell’io totalmente disponibile al tu. Il dialogo dell’amicizia, che talora tocca temi impegnativi e tal altra si svilupperà nella giovialità delle battute giocose e delle barzellette esilaranti, mi svuoterà la testa degli assilli e mi riempirà del tutto. Il Tutto è l’armonia universale, per cui ciascuno di noi si sente il filo del grande arazzo, la pietra bene levigata nella cattedrale della fraternità. La riunione rotariana è gradevole non solo per l’aria condizionata dell’albergo, ma perché mi insegna che il paradiso sono gli altri. Sartre sostiene che l’inferno sono gli altri. Ma è il contrario, come ci insegna questo apologo orientale sulla virtù del distacco. In un’isola vicino alla Thailandia c’è un monastero buddista, che non ha acqua. Bisogna andare a prenderla in barca sulla terraferma e conservarla in un barile. Arriva a casa un monaco dopo una giornata di intenso lavoro, con un gran desiderio di bere dell’acqua, che sa di non poter sprecare. Alza il coperchio, immerge il mestolo e vede una formica. Se il monaco manca di distacco, s’infuria e schiaccia la bestiola che ha osato usurpare un goccia d’acqua. Se invece ha distacco, riflette e dice: “Questo è il posto più fresco dell’isola nella giornata caldissima. La formica non danneggia la mia acqua”.

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Hanno presieduto il club: 1985 – 1986 1986 – 1987 1987 – 1988 1988 – 1989 1989 – 1990 1990 – 1991 1991 - 1992 1992 – 1993 1993 – 1994 1994 – 1995 1995 – 1996 1996 – 1997 1997 – 1998 1998 – 1999 1999 – 2000 2000 – 2001 2001 – 2002 2002 – 2003 2003 – 2004 2004 – 2005 2005 – 2006 2006 – 2007 2007 – 2008 2008 – 2009 2009 – 2010 2010 – 2011 2011 – 2012 2012 – 2013 2013 – 2014 2014 – 2015 2015 – 2016

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Aldo Aonzo Aldo Aonzo Ettore Canepari Giuseppe Rettanni Pier Angelo Metti Guido Fornasari Massimo Massoni Antonio Maria Manfredi Gastone Zilio Benvenuto Girometti Mario Galazzetti Giulio Cesare Grassini Francesco Mastrantonio Sandro Molinari Paolo De Lama Giovanni Mondini Franco Stampais Manfredo Ferrerio Luigi Galli Carlo Bazzoni Valter Cordani Bruno Zuccone Marco Cavallari Fabrizio Garilli Riccardo Lignola Domenico Toscani Giorgio Croci Luciano Gobbi Gabriele Zanelli Guido Libelli Giuseppino Molinari


Appunti essenziali sugli ultimi dieci anni 2005/06 - 2015/16 Dopo la Ruota d’Oro, altri 10 anni di service e progetti

2005 - 2006 2 box (strutture igienico sanitarie per i pellegrini disabili) al Santuario della Madonna del Faggio (Diocesi di Piacenza e Bobbio) in loc. Tornolo (Borgotaro) lungo un vecchio percorso della via Francigena. Stage per équipe medico chirurgica proveniente dalla Moldavia, con impiego di risorse professionali del nostro club (dott. Ennio Banchini).

2006 – 2007 ROTAR’ART, un servizio alla cultura e allo spirito di Luigi Galli Cento quadri inediti. Non sono pochi e la loro raccolta, con la conseguente esposizione, rappresentano un bell’impegno! Tuttavia il Rotary Club Piacenza Farnese ha voluto decisamente dedicarsi a questo settore, attento come è sempre stato ai valori culturali da proporre alla comunità. Andiamo per gradi. Perché l’esposizione di quadri d’autore, piacentini, realizzati tra Ottocento, Novecento e Duemila? Perché rappresentano una testimonianza dell’evolversi di poetiche, gusti e stili che rivelano il segreto intimo di un sentire artistico che spesso travalica i confini provinciali. Ed è parso giusto ai Rotariani del Club questa vasta presa di coscienza, quasi un’educazione a vivere in profondità i valori, anche estetici del proprio tempo. E’ stata interessante la raccolta. Il vedere staccare un quadro amato dalla parete di casa magari acquistato con sacrificio, ha commosso. Ma non ha rallentato l’impegno di servire la cultura. Sono usciti i Ricchetti, i Giacobbi, i Sidoli, i Sichel, i Foppiani, gli Armodio, i gallerati, i Tagliaferro … Una lunga rassegna che rappresenta un po’ la storia della pittura piacentina raccontata con la sensibilità degli acquirenti. Che cosa narra questa storia? L’impegno di tanti nostri artisti

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a seguire una spinta interiore, personale e profonda, ma anche a confrontarsi con le vicende dell’arte nazionale e internazionale. Sì, una specie di sguardo aperto ad integrare in modo autentico la propria espressione, così da arricchirla e renderla autonoma. Chi vorrà ammirare la Mostra, potrà seguire un’accurata evoluzione che va da un naturalismo di matrice ottocentesca, via via a un surrealismo padano per giungere alle più marcate presentazioni dell’informale. In definitiva, un notevole servizio per una comunità che desideri recuperare una visione complessa di movimenti pittorici. Ed eccoci ad un punto importante: il servizio culturale. Si tratta di una delle costanti dello spirito rotariano. Lo sguardo dei soci è sempre ampio e, se s’impegna per le disavventure del terzo mondo, malattie, guerre, miserie che lì aduggiano, non trascura però la comunità in cui vive. Infatti, con l’umile pretesa di elevare i valori di sensibilità culturale, i soci rotariani si sono resi conto che gli uomini e le donne migliorano. Quale premessa più importante per cui questi possano aiutare i più bisognosi in una catena di tenace solidarietà umana?

2007 – 2008 Progetto per una serie di incontri con gli studenti delle scuole superiori per sostenere l’attività di orientamento per la scelta universitaria con la partecipazione dei soci dei club (dalla comunicazione ufficiale). “In sostanza, il nostro club si mette a disposizione della scuola e degli studenti per fornire indicazioni, consigli e suggerimenti in vista delle loro scelte universitarie. Nel caso specifico incontreremo studenti del quinto anno dell’ITIS interessati alla facoltà di ingegneria ai quali andremo ad offrire il bagaglio delle esperienze professionali dei soci ingegneri del nostro club. La nostra idea consiste nel mettere a disposizione l’esperienza di chi, conseguita la laurea tanti anni fa, ha poi fatto un lungo percorso professionale. Chi nella libera professione, chi nelle amministrazioni pubbliche, chi nell’imprenditoria, chi nei diversi Enti, chi nella scuola e nell’università... L’incontro con gli studenti sarà introdotto dal socio Giuseppino Molinari, direttore del Politecnico di Milano, che affronterà brevemente il problema della nuova università, coi semestri, con le lezioni quotidiane, gli esami numerosi e più ravvicinati; insomma quella nuova dimensione, che spesso disorienta gli studenti e ne frena un po’ l’immediato inserimento nella nuova realtà. Dopo questa prima fase, intervengono i nostri soci, uno per ogni filone professionale - come si diceva prima - e infine spazio per domande. Non si prevede più di un’ora e mezza di impegno”.

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Si sono tenuti incontri all’Ist. tecn. Industriale; al Liceo artistico, all’Ist. Agrario; all’Ist. Comm. Romagnosi; al Liceo Classico. Due importanti donazioni di strumentazioni diagnostiche all’Ospedale di Piacenza: colonscopio per il reparto di gastroenterologia e Microlaser colposcopio per il reparto di ostetricia e ginecologia.

2008 - 2009 Concorso Strumentale Regionale “AMILCARE ZANELLA” indetto dal Rotary Piacenza Farnese in collaborazione con il Conservatorio “G. Nicolini”MARZO-APRILE 2009 Premiazione 16 aprile Teatro Municipale di Piacenza ore 21 Per Mendida Fabrizio Garilli consegna al Presidente dell’Associazione“ Michele Isubaleu” Il contributo del nostro club per l’allestimento di una sala parto a Mendida (Etiopia)

2009 – 2010 Sostegno economico tramite le suore dell’Istituto Buon Pastore di Piacenza per gli ambulatori pediatrici in Eritrea. Premio letterario riservato agli studenti dell’ultimo anno delle scuole medie superiori

2010 – 2011 Domenica 12 dicembre a Palazzo Farnese in carrozza Service a sostegno dei Musei Civici di Palazzo Farnese

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Sabato 7 maggio FORUM Distrettuale “Ambiente, alimentazione e salute” è un progetto INTERCLUB promosso dal nostro club con la partecipazione di: RC PIACENZA - RC FIORENZUOLA - RC VALTIDONE – RC VALLI NURE E TREBBIA - RC S. ANTONINO (al quale è seguito - nel successivo anno rotariano - la divulgazione nelle scuole piacentine delle basi della corretta alimentazione giovanile) 24 giugno 2011, Palazzo Galli Presentiamo il Cielo d’oro, il libro celebrativo dei nostri 25 anni Il cielo d’oro: i polittici delle chiese piacentine impegnati i soci: Don Giuseppe Lusignani, Francesco Mastrantonio, Ernesto Leone, Luigi Galli

2011 – 2012 Bruno Cassinari. Tra colore e segno: mostra tenutasi presso Biffi Arte dal 10 marzo al 14 aprile 2012 per celebrare il grande pittore piacentino nel centenario della nascita. Cassinari: un artista di livello europeo, protagonista delle grandi stagioni artistiche degli anni Quaranta e Cinquanta.

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Concorso rivolto agli studenti delle scuole elementari e medie: Giuseppe Nicolini e la Piacenza del suo tempo, in collaborazione con il Conservatorio “Nicolini” per celebrare un grande musicista concittadino.

A Kabinda nel cuore del Congo L’amico Don Roger riceve il nostro sostegno per realizzare una scuola di formazione agraria. “Le sfide si possono vincere” Un progetto promosso da TUTOR Scrl e sostenuto dal Rotary Club Piacenza Farnese che premia quegli allievi che nel loro percorso di formazione e specializzazione professionale si sono distinti per la loro particolare volontà di sapere superare momenti di difficoltà vissuti nella loro esperienza scolastica pregressa, fino a realizzare quegli obiettivi umani e professionali che sono stati loro offerti dal progetto TUTOR.

2012 – 2013 Amico Campus: adesione a un progetto distrettuale che prevede l’accoglienza di persone disabili in una struttura gestita da operatori (medici, animatori) rotariani per un periodo di vacanza. Africa Mission Lo scopo è quello di recare aiuto alle popolazioni in difficoltà dell’Africa, degli altri paesi del Terzo Mondo e dell’Est Europeo, attraverso il sostegno ai missionari operanti negli stessi Paesi.

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Assofa – Il Germoglio Un aiuto concreto economico per acquisto di tecnologie multimediali per le attività di recupero rivolte agli ospiti nelle strutture delle due Associazioni. Donazione di un laboratorio completo di apparecchi informatici in occasione del 150° anniversario della fondazione del Politecnico dedicato alla memoria dell’ingegnere Aldo Aonzo grande promotore della nascita della sede piacentina dell’Ateneo milanese.

2013 – 2014 “Bambini all’opera” Un progetto pluriennale che vede i bambini di una scuola elementare della nostra città impegnati nella realizzazione di un’opera lirica al fianco di cantanti professionisti, guidati dalla straordinaria regia del M° Corrado Casati.

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Sempre vicini al progetto Kabinda (da un bollettino) Giovanni Sali ha fatto il punto della situazione sul progetto Kabinda, avviato ormai da diversi anni e iniziato con l’invio di cinquanta capi di bestiame per farne strumenti di lavoro là dove le macchine agricole sono difficili da usare. Il progetto continua con successo grazie allo straordinario impegno di Don Roger, un sacerdote laureatosi in Agraria nella nostra città e tornato nelle sue terre per mettere a frutto le sue acquisite competenze. Don Roger ha ora impiantato una scuola professionale di cui egli stesso è preside e ha allargato gli orizzonti del progetto iniziale con allevamenti di galline, nuove piantagioni e costruzione di strade. Ne ha parlato lo stesso don Roger, presente alla nostra serata.

2014 – 2015 L’esperienza di don Mauro Bianchi nelle parrocchie del Brasile “povero” «Una terra che ha bisogno di grandi aiuti» Emozioni alla Scala Il nostro club al Concerto

Basic English for Expo Corso gratuito di inglese rivolto agli operatori economici, del commercio, del turismo e dei servizi che avranno necessità di relazionarsi a visitatori stranieri di passaggio nella nostra città in occasione dell’EXPO.

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Borse di studio (Università Cattolica) Ormai da vent’anni il nostro club assegna una Borsa di studio al miglior studente del biennio di Giurisprudenza

Con Tutor le sfide si possono vincere Continua la nostra presenza a fianco di Tutor per sostenere lo sforzo di tanti giovani impegnati in un percorso di qualificazione professionale.

La gioia dei “bambini all’opera” Ancora una volta sostenitori di un progetto straordinario con i bambini delle scuole elementari protagonisti sul palcoscenico.

L’impegno verso il volontariato nel nome della solidarietà a fianco di ASSOFA

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La trama nascosta della Cattedrale un volume sugli ultimi studi della storia del nostro Duomo

2015 – 2016 Le tematiche e i service dell’anno L’assistenza sanitaria a Piacenza Il Welfare Sostegno alla Caritas

Il futuro di Piacenza Presentati dal presidente Molinari, hanno parlato nella conviviale di martedì 10 novembre, per il ciclo di conversazioni riguardanti la città di Piacenza, il Sindaco di Piacenza Paolo Dosi ed il presidente della Provincia Francesco Rolleri. Il presente e il futuro di Piacenza nella visione degli Imprenditori Per Piacenza iniziative della Confindustria Alla conviviale di martedì 24 novembre l’oratore era Alberto Rota, attuale presidente della Confindustria Piacentina.

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La stampa e la città Piacenza e la stampa nazionale: conversazione di Gian Giacomo Schiavi e la partecipazione di Gaetano Rizzuto. La sicurezza a Piacenza Il territorio di Piacenza e la SICUREZZA con partecipazione del Prefetto, del Questore e del Comandante provinciale dei Carabinieri. L’Università e la città Le Università a Piacenza: conversazione dei proff. Pieri, Zaninelli e Cassamagnaghi. Borse di studio (Università Cattolica) Contributo al Politecnico per un laboratorio Progetto Tutor (Consegna del contributo al Progetto dell’Istituto di formazione TUTOR) Vicini al Conservatorio (con borse di studio).

La storia e l’arte a Piacenza Alla scoperta dei Musei civici di Palazzo Farnese: visita guidata con il Direttore, dott.ssa Antonella Gigli.

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Alla scoperta dell’istituto Gazzola e dell’arte Piacentina: visita guidata con il prof. Alessandro Malinverni

Invito all’opera (con i bambini delle scuole primarie) Concorso di poesia “Emozioni e magie del Natale” Premio alla professionalità (conferito al Dott. Enrico Periti e al Dott. Giuseppe Colpani) Commedia a Carnevale (incasso devoluto per la ricostruzione di due campi da gioco in Val Nure e Val Trebbia distrutti dall’alluvione). 30 × 30= ’900 Trenta opere di artisti piacentini del Novecento per il trentennale del Rotary Farnese. Mostra realizzata in collaborazione con Biffi Arte e curata da Alessandro Malinverni.

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30 × 30 = ’900 Trenta opere di artisti piacentini del Novecento per il trentennale del Rotary Farnese


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