CAPITOLO PRIMO
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aceva freddo per essere primavera. Una di quelle giornate in cui se non hai i guanti ti
vengono i geloni alle dita. Suki camminava con le mani in tasca fissando avvilita la neve sporca sul bordo della strada. Era stata una brutta giornata: durante la lezione della professoressa Napier, Paul Kasugak aveva detto delle cose orribili su suo fratello Levi, cosĂŹ lei lo aveva picchiato ed era stata sospesa.
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Levi e il suo migliore amico Peter si cacciavano sempre nei guai. Questa volta erano scappati e nessuno li vedeva da una settimana. – Scommetto che hanno fatto una brutta fine – aveva detto Paul. – Saranno congelati sotto un cumulo di neve. Era stato allora che Suki l’aveva colpito. Tutti sapevano che molti giovani Inuit prendevano una brutta strada, commettevano crimini o arrivavano perfino a suicidarsi perché non c’era lavoro, né speranza. Ma non suo fratello, non Levi. Suki rabbrividì dentro il giaccone imbottito e cercò di scacciare dalla mente il pensiero di poter perdere Levi. Ciambelle, ecco di cosa aveva bisogno per tirarsi su! Si fermò alla caffetteria e ne comprò tre diverse, dei suoi gusti preferiti. Se non si sbrigava si sarebbero congelate, allora accelerò il passo: superò il noleggio video e il bar frequentato da Levi e Peter, attraversò la strada e salì le scale fino a casa, sopra l’ambulatorio del dentista.
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Una finestra era illuminata. Suki ebbe un tuffo al cuore: forse Levi era tornato a casa? Batté i piedi a terra per liberarsi dalla neve e si precipitò in corridoio. Ma al posto del fratello trovò sua madre Sarah con due valigie ai piedi. Il suo volto era teso, le labbra serrate come se stesse cercando di tenere dentro qualcosa. Quando parlò, le parole le uscirono a stento. – Tuo fratello è a Redknife – disse. – Con Peter. Suki provò un’ondata di sollievo: se non altro, questo significava che Levi non era “congelato sotto un cumulo di neve”. Ma Redknife distava più di ottocento chilometri! – Cosa ci fanno lì? – esclamò Suki. Sarah evitò il suo sguardo. – Meno sai, meglio è – disse. – Adesso prendi questa valigia. Si va all’aeroporto. Io andrò a Redknife e tu a Whale Bay dalla bisnonna Jaiku. La bocca di Suki si spalancò come quella di un pesce. – Perché? – Perché io non posso essere a Redknife e con-
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temporaneamente qui, a prendermi cura di te – sbottò sua madre. – Allora, vuoi prendere quella valigia? – ripeté, risoluta. Suki raccolse il bagaglio e indietreggiò fino alla porta, ma non era ancora pronta ad arrendersi. Dovunque si trovasse Levi, era lì che voleva essere anche lei. Fece un respiro profondo e si sforzò di assumere un tono calmo e pacato. – Perché non posso venire a Redknife con te? – chiese. Sarah era irremovibile. – Perché non voglio che tu sia coinvolta nei guai di Levi – disse. – Andrai da Jaiku, punto e basta. – Ma non la vedo da quando ero piccola – protestò Suki. – Motivo di più per farle visita adesso! – Sua madre chiuse la porta alle loro spalle. Suki si fermò in cima alle scale mentre Sarah buttava la sua valigia di sotto, sulla strada. – Ma perderò scuola! – gemette, aggrappandosi all’ultima motivazione che avrebbe potuto funzionare.
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Sarah alzò un sopracciglio e disse: – Pensi che non sappia che ti hanno sospesa di nuovo? Il taxi si fermò sul bordo della strada e Sarah salì. – Sbrigati, Suki! Nessuna delle due aprì bocca fino quasi all’aeroporto. – Cos’avete voi ragazzi di oggi? – sospirò Sarah alla fine, rivolta al finestrino del taxi. Suki non parlò, ma conosceva la risposta. Erano incastrati tra due mondi, quello vecchio in cui gli Inuit cacciavano le foche e vivevano negli igloo e quello nuovo fatto di città e computer, senza appartenere realmente a nessuno dei due. E adesso, come se non fosse abbastanza, veniva spedita lontano da suo fratello, da una vecchia parente che non vedeva da anni, in un posto dove non c’era nemmeno una caffetteria! A volte odiava sua madre. Non parlarono nemmeno all’aeroporto, ma quando arrivò il momento di salutarsi gli occhi di
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Sarah erano lucidi. Mentre saliva la scala metallica che portava sul piccolo aereo, anche Suki faticava a trattenere le lacrime. Si lasciò cadere su una poltrona vicino al finestrino. Poi ricordò che era soltanto la seconda volta che andava in aereo e provò una punta d’eccitazione. Anche se era stupido sentirsi elettrizzata per un viaggio in aeroplano quando a suo fratello Levi poteva essere successo di tutto. E poi, probabilmente il cielo sarebbe stato troppo nuvoloso per riuscire a vedere qualcosa. Suki si morse il labbro. Le emozioni si agitavano nel suo petto come se fossero in una centrifuga. L’aereo era mezzo vuoto e Suki aveva due sedili tutti per sé. Aveva appena finito di allacciare la cintura di sicurezza quando le eliche si misero in moto e l’apparecchio sfrecciò a tutta velocità sulla pista di decollo. Si staccò da terra con uno scossone e Suki premette il naso sul piccolo finestrino accanto alla poltrona. Il cielo non era affatto nuvoloso! Anzi, era perfettamente limpido. Cristalli di ghiaccio scintillavano nell’aria come una cascata di lustrini men-
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tre l’aereo saliva attraverso la luce obliqua del sole. Al di sotto, Ullavit stava già rimpicciolendo. Lassù, nel lontano, lontano nord, tutti la chiamavano “la Città”, ma a sud non l’avrebbero considerata più di un piccolo paese. Man mano che l’aereo saliva, le case e i negozi divennero piccoli come zollette di zucchero, poi come teste di fiammifero, per ridursi alla fine a semplici puntini, microscopiche pulci su una gigantesca distesa ghiacciata di terra e mare. Il sole calante proiettava le ombre delle montagne a est e striava il ghiaccio argentato di luce rosa. Laggiù, nella sua ordinaria vita di città, l’Artico era qualcosa da cui intendeva scappare non appena fosse stata abbastanza grande. Non aveva mai considerato il lato selvaggio della sterminata, fredda regione in cui viveva. Ma adesso, la vastità e la bellezza di quel panorama le mozzarono il fiato. Per tutto il viaggio non staccò gli occhi dal finestrino. Dimenticò Levi, la bisnonna Jaiku e perfino le tre ciambelle, intatte nella sua borsa.
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Solo quando l’aereo atterrò a Whale Bay, Suki sprofondò di nuovo nello sconforto. Il villaggio sembrava un’accozzaglia di scatole gettate sulla riva del mare e lasciate lì perché la neve le coprisse. Era il crepuscolo e si intravedeva qualche punto di luce gialla, nient’altro. Chiaramente in quel posto non succedeva mai nulla. Suki era sicura che sarebbe stata l’unica a scendere; gli altri passeggeri avrebbero proseguito il volo verso i centri urbani più grandi lungo la costa, dove gli uomini del sud cercavano il petrolio nel mare e l’oro sulle montagne. Si stupì quando quattro qallunaaq* scesero insieme a lei. Indossavano costosi giubbotti imbottiti di piuma con lo stesso logo sulla manica, un cerchio verde intorno a una mano rossa, e portavano grossi borsoni da cui sporgevano gambe di treppiedi e altre strane attrezzature. Camminavano davanti a lei e parlavano fittamente tra loro. Suki trascinò la sua
* Qallunaaq: parola che indica i bianchi in inuktitut, la lingua parlata nella provincia di Nunavut, nel Canada settentrionale.
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valigia attraverso la porta del piccolo terminal e si guardò intorno. Gli uomini stavano salendo su una quattro per quattro nera con il simbolo della mano rossa sulle portiere. Suki si domandò se qualcuno fosse venuto a prenderla. Controllò il cellulare, ma naturalmente lì non prendeva! Tutt’a un tratto si sentì molto, molto piccola. E sola. Poi, un piccolo Inuk* con addosso un parka blu piuttosto sporco entrò trafelato dalla porta. Il suo viso incorniciato dalla pelliccia del cappuccio era un paesaggio di rughe in mezzo al quale scintillavano due occhi vivaci come quelli di un uccello. – Suki? La figlia di Sarah? – disse. Suki annuì. Poi l’uomo le parlò in inuktitut, e per un attimo la mente di Suki si bloccò. A casa, lei e sua madre parlavano sempre inglese perché era la lingua di suo padre. Era da parecchio che non usava la sua lingua madre fuori da un’aula scolastica.
* Inuk: è il singolare di Inuit, termine che indica uno dei gruppi etnici che popolano le regioni costiere dell’Artico.
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Con aria preoccupata, l’uomo ripeté quello che aveva detto e da una parte di lei, più remota del cervello, le parole vennero a galla. – Qanuinngittunga! – gli rispose. Sto bene! – Ah! Grazie al cielo mi capisci! – L’uomo sorrise. – Il mio inglese è un po’ arrugginito, – disse rimettendosi il berretto in testa con una mano nodosa come un tronco. – Probabilmente non ti ricordi di me – continuò. – Sono il tuo prozio Noah. L’ultima volta che ti ho vista eri piccola come un coniglio. – Sei il fratello di nonna Jaiku? – disse Suki. Lo zio Noah annuì. – Il fratello minore. Anche se ormai non sono più tanto piccolo, eh? – ridacchiò e allungò una mano per prendere la valigia. Suki non era sicura che una persona così anziana fosse in grado di sollevare un bagaglio così pesante, ma lui se lo caricò sulle spalle come se non pesasse più di un sacchetto di farina. – Sarei venuto prima, ma ero a pescare – disse, – e poi il macchinone della compagnia petrolifera
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Red Hand Oil mi ha quasi fatto uscire di strada! Come se non si accontentassero di spaventare ogni foca e balena della baia con il frastuono dei loro assurdi aggeggi. In un attimo le sue rughe si incresparono in un’espressione cupa, triste e arrabbiata al tempo stesso, ma rapidamente si appianarono in un sorriso. – Scusa piccola, non far caso alle mie lamentele! – ridacchiò. – Avrai fame, immagino. Su, andiamo via di qua! Fuori, una lampada a fluorescenza illuminava fiocamente il ghiaccio. Suki si guardò intorno cercando la macchina di Noah, ma vide soltanto un vecchio gatto delle nevi con un piccolo rimorchio, sul quale l’anziano sistemò la valigia. Poi montò agilmente in sella e accese il motore. – Salta su e reggiti forte! – le disse. Suki si tirò la sciarpa sul naso, strinse il cappuccio del parka e salì dietro di lui. Era già stata su un gatto delle nevi, con Levi, ma lui era andato così veloce da farla urlare, e alla fine era ruzzolata giù.
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Per fortuna Noah era un guidatore piÚ prudente e, nonostante il terreno sconnesso, Suki si sentiva al sicuro. Sotto di loro, il villaggio si estendeva lungo la curva della baia ghiacciata, riparato alle spalle da alte montagne. Mentre il gatto delle nevi scendeva lungo la pista serpeggiante, Noah spense i fari. Non ce n’era bisogno. Il cielo era rischiarato da un bagliore perlaceo che si rifletteva sulla neve e sul ghiaccio. CosÏ a nord, non ci sarebbe stata una vera notte fino alla fine dell’estate*. Suki poteva senti-
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re il silenzio al di sopra del ronzio del motore: non c’erano sirene, né voci, né camion come a casa, qui c’era solo il grande, silenzioso crepuscolo artico. Anche il freddo era più penetrante: Suki aveva la sensazione che delle gelide dita si stessero infilando sotto i suoi vestiti. Sperava di essere quasi arrivata a casa di nonna Jaiku, ma non appena si avvicinarono al villaggio, Noah cambiò direzione lasciandoselo alle spalle. Per un attimo, Suki pensò che fossero diretti verso il nulla, ma poi scorse un bungalow e un capanno nascosti dietro una bassa collinetta, circa a metà della baia. Quando finalmente arrivarono, era intirizzita fino alle ossa. Tremando, attese che Noah sistemasse il gatto delle nevi nel capanno. Da qualche parte, oltre la casa, dei cani abbaiavano. – Nessuno a Whale Bay tiene più i cani da slitta – le disse Noah tristemente uscendo dal capanno.
* A nord del circolo polare artico, in primavera le notti sono molto brevi e da maggio a settembre la luce del giorno dura ventiquattro ore.
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– Dar loro da mangiare costa troppo. Ma io non potrei vivere senza i miei. Suki cercò di sorridere, ma era troppo infreddolita. – Su – disse Noah, – vieni dentro! – Portò la valigia fino all’ingresso e la posò a terra. In quel momento, la porta del bungalow si aprì riversando sulla neve una luce gialla, e una vecchietta apparve sulla soglia. – Benvenuta, figlia di Sarah! – disse la bisnonna Jaiku. – Benvenuta!