Donne nella scienza Testi: Annalisa Strada Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano Illustrazioni: Daniela Tieni Progetto grafico: Alessandra Zorzetti Crediti fotografici: 123RF p. 100 © Jane Rix; p.101 © Ilgonis Feldbergs www.editorialescienza.it www.giunti.it © 2019 Editoriale Scienza srl via Bolognese, 165 – 50139 Firenze – Italia via Beccaria, 6 – 34133 Trieste – Italia Prima edizione: marzo 2019
Stampato presso Lito Terrazzi srl Stabilimento di Iolo
LA CACCIATRICE DI FOSSILI Mary Anning si racconta
Illustrato da Daniela Tieni
Capitolo 1
CONOSCO LA TERRA, IL VENTO E IL MARE
S
ono venuta al mondo il 21 maggio 1799, in una piccola casa che per un lato si affacciava sul mare e per l’altro su una piazza dall’orizzonte ristretto. Eravamo a Lyme Regis, un paesino arroccato tra la scogliera e il mare, nel sud dell’Inghilterra, in una regione che si chiama Dorset.
La prima aria che ho respirato era carica di salsedine e le prime mani che mi hanno stretta erano quelle callose di mia madre Molly e quelle dure e con le unghie nere di mio padre Richard. Sono sicura che mio fratello Joseph, di tre anni più grande, abbia storto il naso all’idea che fossi una femmina. Non sono stata la prima, in casa, a portare il nome Mary. L’ho ereditato da una sorellina morta sette mesi prima della mia nascita. In casa non se ne parlava mai e la verità l’ho ricostruita un poco alla volta. Accadde nel periodo di Natale. La piccola Mary aveva poco più di tre anni ed era stata lasciata a casa da sola. Faceva molto freddo e la mia sorellina, forse attratta dal calore e dal guizzare delle fiamme, si era avvicinata troppo al focolare e gli stracci in cui era avvolta avevano preso fuoco. I soccorsi erano arrivati troppo tardi, quando ormai l’incendio aveva attaccato anche i pochi mobili della nostra povera casetta e per lei non c’era stato più niente da fare. È una storia triste, ma non la più triste, se si considera che prima e dopo che nascessimo io e Joseph, erano già morti o morirono anche Marta, Elizabeth, due Henry e Percival. Di Richard, invece, avrò modo di raccontare più avanti. Mio padre e mia madre si erano trasferiti a vivere a Lyme Regis subito dopo il matrimonio, che era stato celebrato nell’agosto del 1793. Avevano scelto quel posto perché il porto commerciale lo rendeva un po’ meno
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misero dei piccolissimi villaggi da cui provenivano. Per di più, poco tempo prima, un medico aveva iniziato a sostenere e divulgare la notizia che stare al mare, fare bagni, berne l’acqua e utilizzarla per i gargarismi giovava alla salute. Dunque avevano iniziato ad arrivare a Lyme Regis i primi turisti che non erano abbastanza benestanti per frequentare le località più rinomate, per esempio Bath, ma che potevano sentirsi quasi ricchi in mezzo agli abitanti di questo paese. Insomma, Lyme Regis era un luogo che – a modo suo – era promettente. Avevano preso in affitto una casetta a due piani. Mia madre aveva il suo regno al primo piano. Era un saliscendi continuo e un interrotto andirivieni di donne che dicevano cose come: – Riesci per domani, Molly? – L’ultima volta non hai lavato bene! – La roba dei bambini falla bollire a lungo! Infatti mia madre, oltre a rassettare e a cucinare per noi, faceva il bucato per qualche vicino, così da arrotondare le scarse entrate di mio padre. Lui lavorava al pianterreno, che su un lato era un pochino al di sotto del livello della strada. Richard Anning era il falegname del paese, creava e aggiustava mobili. Gli commissionavano soprattutto stipi, stipetti, madie, scaffalature ma era capace di costruire qualsiasi tipo di arredo gli venisse richiesto. I suoi clienti erano quasi tutti uomini e le loro richieste erano brusche e chiare:
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– Riesci a fare un incastro a coda di rondine? Che i chiodi si arrugginiscono... – Il cassetto si incastra per l’umidità, riesci a ripararlo? – Grazie, ti pago appena posso… Era conosciuto come falegname, ma la sua reputazione era soprattutto legata al fatto di essere un cacciatore di fossili. Lyme Regis infatti aveva la particolarità di essere un luogo dove si trovavano pietre stranissime alle quali la gente del posto aveva attribuito nomi suggestivi: pietre serpente, artigli del diavolo, denti di squalo, vertebrelle, ali di angelo e conchiglie di pietra. Si trovavano sulla spiaggia, tra l’oro matto e la varietà infinita di pietre che si rinnovavano a ogni mareggiata, oppure quando – purtroppo o per fortuna abbastanza spesso – le scogliere ripidissime franavano e portavano allo scoperto gli strati più profondi della roccia. Dalla bottega di mio padre a volte capitavano turisti curiosi, con il loro accento bizzarro e i loro vestiti tutti eleganti e, ai miei occhi, pure bizzarri. Cercavano le parole con cura, imbarazzati: – È qui che possiamo comprare le pietre… della zona? Mio padre si tirava indietro il berretto con un gesto pigro della mano e sorrideva incoraggiante. – Certo, quali volete? – Le più belle! – chiedevano quelli istruiti. I meno colti e la gente del luogo, invece, domandavano
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“pietre contro i reumatismi” o “quelle che danno forza!” o ancora “quelle per tenere lontane le vipere”. Per gli abitanti di Lyme Regis e della costa, l’esistenza di quegli oggetti pietrificati era un fatto normale, da non discutere nemmeno, e ci avevano ricamato sopra qualche storia interessante che faceva nascere supposizioni affascinanti. Era infatti diffusa la convinzione che le pietre speciali tolte dalle scogliere avessero tutti questi e ben altri poteri. In pochissimi, a quell’epoca, sapevano che si trattava di fossili e, tra i pochissimi, erano ancora meno quelli che accettavano come possibile l’idea che parti di animali sconosciuti fossero arrivate, pietrificate, fino a noi. Raccogliere e ripulire quelle pietre era un vero e proprio lavoro che, come tutti i mestieri, richiedeva predisposizione e abilità. Erano assai rari i fossili riconoscibili a occhio nudo: per la maggior parte si presentavano come grumi di incrostazioni rocciose che andavano scavati dalla roccia o raccolti da terra, aperti con scalpello e martello, poi ripuliti con lime via via più sottili e, infine, lucidati con spazzole dure. Se la lavorazione era ben fatta, venivano alla luce venature sottilissime e linee in varie sfumature di colore. Mio padre era diventato abilissimo nel trovarli e molto bravo a lavorarli, il che significava ricavare un po’ di soldi in più per sfamare la famiglia, comprare la legna
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per scaldarsi e cambiare i vestiti quando erano troppo consumati e rattoppati. La sua abilità si era sviluppata da quando era venuto ad abitare a Lyme Regis. Aveva cominciato osservando quel che facevano i cercatori esperti, poi aveva chiesto di poterli seguire e aveva carpito con rapidità le loro conoscenze. Quando mio padre avviò questa attività, i cercatori non erano molti ed erano guardati dalla popolazione locale con una certa sufficienza, un po’ come se fossero dei bizzarri perditempo. Loro stessi lo consideravano un lavoro secondario, che richiedeva sacrificio e passione ma non dava né ricchezza né lustro. Forse per questo papà aveva trovato qualcuno disposto a condividere con lui i segreti della ricerca e della lavorazione, senza però arrivare mai a considerarsi del tutto soddisfatto delle proprie conoscenze. Tanto più il tempo passava e più aumentava il numero di signori in abiti eleganti che arrivavano dalle città, sedi delle università più prestigiose, come Oxford o Londra, e che utilizzavano paroloni e insolite formule di cortesia. Venivano da noi, cercavano i pezzi migliori, li pagavano bene e facevano commenti sugli animali che erano stati. Una parola qua una parola là, papà ascoltava e imparava. E io accanto a lui ascoltavo e imparavo, e non perdevo occasione per accompagnarlo alle scogliere.
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