Il cielo che si muove

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A mio padre e a mia madre

Testi: Mario Lodi Illustrazioni: Simona Mulazzani Progetto grafico: Alessandra Zorzetti Postfazione: Carla Ida Salviati www.editorialescienza.it www.giunti.it © 2006, 2017 Editoriale Scienza Srl via Bolognese, 165 – 50139 Firenze – Italia via Beccaria, 6 – 34133 Trieste – Italia Prima edizione: settembre 2006 Nuova edizione: aprile 2017

Stampato presso Lito Terrazzi Srl Stabilimento di Iolo


Indice Erbe profumate................................................................................. 7 Lucertole............................................................................................. 12 Le cavolaie......................................................................................... 15 Il formicaleone................................................................................. 20 Le formiche........................................................................................ 23 L’albergo degli uccelli.................................................................. 26 Il diverso............................................................................................. 31 I pipistrelli......................................................................................... 34 Il fuoco................................................................................................. 40 La storia piÚ bella.......................................................................... 45 Il tarlo................................................................................................... 48 Le sculture del treno..................................................................... 51 Lampi e tuoni................................................................................... 55 Dove nascono le nuvole............................................................... 60 Le stelle............................................................................................... 64

Nota di Carla Ida Salviati ........................................................... 70


L A LBER G O D EG L I UC C E L L I

L

a nostra cucina aveva il focolare, e quando non si accendeva il fuoco lo si chiudeva con un telaio sul

quale mio padre aveva dipinto un paesaggio. Ogni tanto dentro il focolare sentivamo dei rumori: era un uccellino piccolo che cadeva nella cappa del camino durante i suoi primi tentativi di volo. Allora la mamma toglieva il parafuoco, apriva le finestre e l’uccellino, spaurito, si nascondeva sotto i mobili e poi spiccava il volo della salvezza e usciva in cortile. Ma non sempre era la salvezza perché se i gatti se ne accorgevano l’uccellino finiva male. La mamma diceva che era meglio catturarlo e poi liberarlo in cortile lanciandolo sui tetti, dove la sua mamma o il suo papà venivano a prenderlo. E cominciammo a fare così. La prima volta che sono riuscito a catturare un passerottino e a tenerlo stretto nella mano sentivo battere forte il suo cuore, come se stesse per scoppiare. L’uccel-

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lino era spaurito, cercava di fuggire dalle mie dita, mi fissava con quegli occhietti scuri come per implorarmi di lasciarlo andare. Mio fratello voleva dargli da mangiare i bocconcini di polenta ma lui aveva ben altro in mente: mi beccava la mano, voleva andare dalla sua mamma che da fuori lo chiamava. Ogni volta che un passerottino cadeva nel camino, il popolo dei passeri che viveva sul tetto si agitava, riempiva il cielo del cortile di voli concitati e di gridi. Lo liberavamo lanciandolo in alto, verso i tetti del pollaio, dove si posava e dove calavano gli altri passeri schiamazzando per portarlo in salvo. La mia casa era abitata dagli uccelli in ogni stagione. Chi andava e veniva, chi restava: era come un albergo tutto gratis. Ospiti per tutto l’anno erano i passeri e i piccioni. Finito l’inverno, i primi ad arrivare, senza valigie nÊ documenti, erano gli storni e le rondini. Gli storni facevano i nidi sul tetto, sotto le tegole, ed era un continuo andare e venire dal tetto al cortile e ai campi intorno in cerca di pagliuzze e rametti che portavano nel becco. Facevano i figli, li allevavano, beccavano in campagna quel che gli piaceva, in settembre e ottobre si riunivano a stormi e calavano nelle vigne. Incuranti degli spaventapasseri, facevano le loro ultime scorpacciate d’uva e se ne andavano chissà dove.

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Le rondini invece costruivano i loro nidi sotto i portici e fra le travi dei fienili. Molte ritornavano nel vecchio nido lasciato l’autunno prima, lo rimettevano a nuovo, vi covavano le uova, curavano i figli finché erano capaci di volare da soli e riempivano l’estate dei loro voli. Tutto il cielo del cortile era ricamato dai voli guizzanti e spericolati di quegli equilibristi dell’aria che a becco spalancato sfrecciavano a caccia di insetti. Quante rondini! Ora non ce n’è quasi più, i campi sono avvelenati, gli insetti scarsi. Allora, quando i contadini falciavano l’erba per le mucche, si alzavano sciami di moscerini e altri insetti che nell’erba vivevano, e le rondini si lanciavano in picchiata ad abbuffarsi. Erano nuvole di rondini che avvolgevano il contadino e lo accompagnavano nel suo lavoro. Anche loro, quando cibo vivo non ce n’era più, partivano. Si riunivano sui fili della luce, una accanto all’altra, cinguettavano (chissà cosa si dicevano), aspettavano le correnti buone e sparivano. Un mattino ti alzavi e sentivi il cielo muto. Se n’erano andate, senza bagagli e senza passaporto, oltre il mare, in un mondo senza confini, senza capi né leggi se non quelle della natura. “In natura” mi diceva mio padre “non ci sono rondini italiane o egiziane, storni slavi o pettirossi tedeschi. Il

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loro mondo non ha confini né stati né continenti, ha per tutti posto e cibo, e nessuno compra e vende, nessuno è ricco e povero”. Partivano le rondini e arrivava il pettirosso: era austriaco, tedesco, svedese, russo? Era solo il pettirosso, che alloggiava nei piani bassi del giardinetto. Piccolo, elegante, gioioso, in cerca di bacche e larve, non aveva paura di noi: ci guardava dal ramo del calicanto come se fosse lui il padrone del giardino, il suo piccolo regno. E infatti lo era, durante l’inverno. “È sempre quello oppure è un altro?” mi chiedevo ogni anno. Mio padre diceva che era quello dell’anno scorso, che veniva ad occupare il suo giardinetto-appartamento. E che ogni pettirosso si sceglie il suo spazio.

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Più tardi, quando fischiava il vento freddo che portava neve e gelo, ecco apparire, puntuale, piccolo come un neo, lo scricciolo: zip zip. Saltellava tra gli arbusti della rose, cercava e trovava quel che voleva perché stava lì tutto l’inverno insieme al pettirosso. Poi, un giorno, quando l’aria era diventava meno rigida, ti accorgevi che non c’era più. Senza salutare, anche lui se ne andava oltre le frontiere umane, in altri giardini e boschi, dove si parlava un’altra lingua, luoghi che per lui erano lo stesso la sua patria. Intorno alla mia casa c’erano anche altri uccelli. A maggio, sugli alberi di fronte, il concerto degli usignoli in amore riempiva la notte di canti. Sui tetti delle case vicine c’erano le civette e i barbagianni, e anch’essi, a modo loro, cantavano: cucubio cucubio… e la gente diceva che portavano male e qualcuno sarebbe morto. Ma erano solo superstizioni. Mio padre una volta catturò un piccolo di civetta e lo allevò: lo teneva su un bastone in cortile e quando andava a caccia se lo portava con sé perché richiamava gli altri uccelli. Io mi incantavo a fissare i suoi grandi occhi luminosi.

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