La danza delle rane

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“Ho pochi giorni da vivere, Signore, e li passerò a leggervi e a stimarvi.” Il vecchio malato di Ferney Lettera di Voltaire all’abate Lazzaro Spallanzani, 1766


Testi: Anna Vivarelli e Guido Quarzo Pubblicato in accordo con Grandi&Associati, Milano Illustrazioni: Silvia Mauri Progetto grafico: Alessandra Zorzetti www.editorialescienza.it www.giunti.it © 2019 Editoriale Scienza srl via Bolognese, 165 – 50133 – Firenze – Italia Via Beccaria, 6 – 34133 – Trieste – Italia Prima edizione: aprile 2019

Stampato presso Lito Terrazzi srl Stabilimento di Iolo


G. Quarzo * A. Vivarelli

La

delle

Illustrazioni di Silvia Mauri



Prologo

I

due uomini avevano posato la cassa nel locale delle scuderie che l’abate usava per i suoi esperimenti, e ora se ne stavano lì, perplessi, aspettando che Spallanzani scendesse dallo studio. Quando finalmente l’abate si presentò per pagare il lavoro e congedarli, era accompagnato da un ragazzino di circa tredici anni, che lo seguiva come avrebbe fatto un cagnolino con il suo padrone. I due si levarono rispettosamente il berretto e uno di loro disse: – Eccellenza, noi la cassa l’abbiamo presa, come avevate comandato, però ci è venuto un dubbio... E con un’occhiata invitò il compagno a proseguire. – Non vorremmo esserci sbagliati – disse l’altro. – Noi non abbiamo toccato nulla: l’abbiamo presa così com’era e l’abbiamo portata fin qua come ci avevate chiesto – fece il primo. – Però, eccellenza, noi siamo abituati a trasportare casse e altri pesi e, per la verità, questa cassa ci è sembrata un po’ troppo leggera – tornò a precisare il secondo. – Vedete, eccellenza, a nostro parere, per esperienza... il peso di questa cassa non supera quello del legno di cui è fatta. – E siccome ci diceste che era piena di pietre...

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– Pietre, sì – lo interruppe Spallanzani. – Fossili di piante e di animali antichi. – ... e quindi piuttosto pesante da trasportare… – continuò a dire l’uomo. – Se sua eccellenza volesse controllare... – concluse l’altro. – La cassa è senz’altro questa, la riconosco – fece Spallanzani con tono spiccio. – Prendete un attrezzo e apritela! L’uomo che aveva parlato per primo andò al carretto usato per il trasporto e tornò con un piede di porco. I due fecero poi leva sul coperchio, i lunghi chiodi cigolarono e cedettero, e la cassa fu aperta. L’abate si avvicinò e sbirciò dentro: era vuota. – Guarda anche tu, Antonio – disse Spallanzani. Il ragazzo si sporse in avanti. – C’è soltanto un po’ di polvere – commentò sottovoce. – Giurate di non averla mai persa d’occhio? – chiese l’abate. Era chiaro che stentava a restare calmo. – Non è che per caso avete fatto una sosta in osteria? I due scossero la testa. – Vi diamo la nostra parola – disse uno. – La nostra parola – ripeté l’altro. – Bene – disse Spallanzani col tono di chi si prepara a combattere. – Bisognerà venirne a capo e non sarà piacevole. Pagò i due uomini, che se ne andarono parlottando tra loro.

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Antonio immaginò che commentassero quello strano incarico: trasportare una cassa piena di pietre che chissà perché qualcuno aveva pensato di rubare... Avrebbero faticato a capire, come avrebbe faticato lui solo qualche tempo prima. Ora invece incominciava a comprendere l’importanza di quelle pietre. E ormai conosceva anche un po’ il suo padrone: l’abate Spallanzani era un uomo tutt’altro che mite e remissivo. No, non sarebbe stato piacevole. Ma interessante forse sì… E pensare che tutto era incominciato per caso, una mattina dei primi di luglio.

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CAPITOLO 1

Il cacciatore di rane

E

ccolo di nuovo lì, chinato verso la roggia a raccogliere rane. Erano le nove del mattino, ma il sole era già alto e l’aria era afosa. A mezzogiorno il caldo sarebbe diventato insopportabile, ma per quell’ora lo strano tipo che Antonio stava osservando se ne sarebbe già andato, forse a mangiare le rane che riempivano la sua sacca a tracolla. Era da almeno una settimana che Antonio spiava quell’uomo piuttosto in là negli anni, che attraversava la campagna e faceva incetta di rane. Doveva essere un gran mangiatore di rane: rane a pranzo e ranocchi a cena, vista la quantità che tirava su. – Antonio! Cosa fai lì fermo come uno sfrindäri in mezzo a un campo? Va’ ad aiutare tuo fratello a caricare i sacchi sul carro. Suo padre non lo lasciava in pace un momento. – Arrivo! – rispose Antonio. Lo sconosciuto intanto si era voltato, e per acchiappare con il retino un ranocchio particolarmente vivace,

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si era sbilanciato in avanti ed era finito ginocchioni sul bordo della roggia. Antonio rimase fermo a guardarlo mentre si rimetteva faticosamente in piedi e si spazzolava le brache con una mano. Era ancora lì imbambolato, quando l’uomo lo vide e gli fece un cenno col braccio. Chiaramente voleva dirgli qualcosa. – Vieni qui, ragazzo. Come ti chiami? – Antonio. Quel signore parlava in modo strano, come se leggesse da un libro. – Antonio, bene. Porti il nome di uno dei santi che amo di più, Sant’Antonio da Padova. Che non era padovano per nulla, bensì portoghese. Al secolo, Fernando Martins de Bulhões, discendente di Goffredo di Buglione. Predicò per la prima volta a Forlì, sai? Antonio annuì educatamente. Non ci capiva un fico secco. Sapeva solo che Forlì stava sotto il papa, e ci viveva un cugino di sua madre che faceva il tintore di stoffe. – Sto cercando un assistente, solo per il tempo che starò qui a Scandiano – stava dicendo il signore delle rane. Aveva un curioso naso a becco che faceva pensare a un uccello, un falchèt, di quelli che vanno a caccia di topi e serpenti. Assistente: Antonio non conosceva il significato di quella parola. Si guardò intorno, poi si grattò la testa.

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– Volete che chieda a mio padre? – Ma no, mi occorre un ragazzo che mi aiuti nel mio lavoro e sbrighi per me le incombenze più semplici… Pagandogli un salario, s’intende. Sai leggere e scrivere? – Sono andato a scuola dal parroco – rispose timidamente Antonio. – Chi, don Liborio? – chiese l’uomo aggrottando la fronte. – No, il parroco che c’era prima… Avrebbe voluto aggiungere che don Tommaso era sempre stato contento dei suoi risultati, che non lo sgridava quasi mai, che avrebbe voluto che lui continuasse a studiare, ma che suo padre si era opposto: “Mi serve al mulino”, aveva detto a don Tommaso. E con questo la sua vita scolastica si era conclusa. Peccato, perché gli piaceva leggere, e lo scrivere gli dava una certa soddisfazione. Certo, al mulino non c’erano molte occasioni di esercitarsi. Intanto si era avvicinato suo padre, un’espressione diffidente sulla faccia impolverata. Antonio fece un passo indietro e i due adulti si misero a discutere. Antonio puntò gli occhi sulla sacca dello sconosciuto: l’uomo doveva tenerci molto, perché non aveva mollato la presa nemmeno per un momento, nonostante la caduta. La sacca si gonfiava e si sgonfiava: le rane, lì dentro, si agitavano parecchio. Mentre il ragazzo faceva queste considerazioni, suo padre e lo sconosciuto continuavano a parlare: parlava-

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no di lui, questo Antonio l’aveva capito, ma non lo guardarono nemmeno una volta. Alla fine si strinsero la mano: suo padre sembrava contento. – Gli dia pure uno scupiòt quando serve – disse. – E non va mica nutrito a tajadell, se no mi diventa un signorino… Così due giorni dopo Antonio smise di lavorare nel mulino di suo padre e diventò l’assistente dell’abate Lazzaro Spallanzani. Che fosse biologo, naturalista e botanico, professore di greco, filosofia, retorica, fisica e matematica Antonio lo scoprì in seguito, un pezzo per volta, anche se imparò soltanto molto tempo dopo che cosa stessero a indicare questi paroloni.

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