La forza nell'atomo

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Capitolo 1

S

COME UNA LADRA

ono sul treno che mi sta portando via da Berlino, la città che è stata la mia casa per più di trent’anni e ora si è trasformata in un braccio della morte. Vorrei arrivare in Olanda e poi in Svezia, posti sconosciuti, ma che possono rappresentare l’inizio di una nuova vita.


Ho abbandonato tutto. Il lavoro, gli amici, la casa. Tutto. Un’unica cosa mi è rimasta: l’anello con il diamante che mi ha regalato il mio caro Otto prima di partire. Lo tengo in mano, la mano in tasca. Per non dare troppo nell’occhio. È un viaggio, anzi una fuga, per salvarmi dalle persecuzioni naziste contro gli ebrei. Dopo l’annessione dell’Austria, così, da un giorno all’altro, ho perso anche quella piccola protezione che mi era concessa in quanto cittadina austriaca. L’Austria è ormai solo una provincia della grande Germania... e tutto ciò senza che i nazisti abbiano dovuto sparare un solo colpo! Se rimanessi a Berlino potrei essere deportata in un campo di concentramento. Sarebbe la fine per me, come per molti altri. E tutti quelli che hanno potuto sono fuggiti dal paese. Guardo dal finestrino. Il paesaggio scorre davanti ai miei occhi. Ma io non me ne rendo conto, non vedo niente. Penso, chiusa in me stessa. La testa ovattata. Come una specie di anestesia. Sta veramente capitando a me? Non è un film? Un sogno, o piuttosto un incubo? Sto scappando come una ladra! Io, professoressa di fisica al Kaiser Wilhelm Institut... dovrebbe essere una posizione rispettabile. Dovrebbero apprezzare il mio lavoro, il mio impegno. Scienza ebrea, dicono! Ma la scienza non è stata sempre internazionale, senza confini? E poi, che cosa vuol dire ebrea... Non sono certo osservante... se mi sono fatta anche battezzare! È vero che di

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ariano non ho proprio niente! Sono piccola e scura, e ho un naso, diciamo, importante... Se penso agli ultimi tre mesi all’Istituto, non so come ho fatto a sopportare la tensione. Alcuni colleghi, per dimostrare il loro fervore nazista, pretendono che io venga immediatamente allontanata. I più tacciono, ma i loro sguardi sono eloquenti. Riunioni e consultazioni più o meno segrete si svolgono tra i vari direttori, avvocati, professori. A un certo punto Otto, l’amico e collega di trent’anni di ricerche, mi propone di dare le dimissioni e di continuare a lavorare per l’Istituto, senza stipendio e in modo non ufficiale. Secondo lui non c’è altra soluzione. Non so bene se sia una sua idea o sia stato consigliato. In ogni caso sono furente, e scoraggiata. Proprio da lui non me lo sarei aspettata. Se seguissi il suo consiglio perderei la mia posizione di professoressa, e di conseguenza verrei quasi certamente deportata. E così alla fine mi rimane un’unica possibilità: partire. Ma come? Non è facile emigrare di questi tempi, uscire dalla Germania è quasi impossibile, ci vogliono i permessi, i documenti in regola, un posto dove andare pronto ad accogliermi. Non ho niente di tutto ciò. Poi qualcosa si muove. Alcuni scienziati amici, in Danimarca, Olanda e Svezia, mi offrono il loro aiuto, spontaneamente. E così decido di partire. Il dodici luglio 1938 vado in Istituto per l’ultima volta, ci rimango fino alle otto di sera per correggere il lavoro di uno studente. Quando finisco mi tolgo il camice, lo appendo al solito

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gancio e me ne vado. Come sempre. Poi in mezz’ora faccio la valigia. Passo la notte a casa del mio collega Otto. Insieme concordiamo un codice segreto per comunicare l’eventuale successo della fuga. La mattina del tredici luglio mi avvio verso la stazione. All’ultimo momento quasi ci ripenso. Voglio tornare indietro, a casa mia, al mio lavoro. Ma la ragione ha il sopravvento e parto. Riesco anche a non piangere. “Gli ebrei sono una minaccia per l’Istituto...” è questo il motivo per cui mi hanno costretta ad andarmene. E non me l’hanno nemmeno detto in faccia! Codardi schifosi. E anche Otto... quando mi hanno proibito di insegnare, ha promesso che non avrebbe mai più messo piede in Istituto. Ma il richiamo della scienza è più forte di tutto… e il giorno dopo era già di nuovo lì per mettere insieme i risultati dell’esperimento con il torio. Anche lui mi ha abbandonata. Ha preferito sacrificare me, per salvare il buon nome dell’Istituto e, naturalmente, il suo. Non metterò mai più piede in Germania! Il treno avanza senza incidenti. Si avvicina la frontiera con l’Olanda. Ho la gola chiusa, le mani fredde e sudate. Non devo farmi prendere dal panico! I militari delle SS che controllano i passaporti sono il pericolo peggiore. Molte persone, nel tentativo di fuggire, sono state fermate proprio alla frontiera e arrestate. A me non capiterà, andrà tutto bene... Andrà tutto bene. Ma il treno è di nuovo fermo. Su, muoviti, muoviti, che

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arriviamo finalmente alla frontiera! È meglio che cerchi di pensare ad altro, altrimenti impazzisco. Guarda la vita com’è imprevedibile... Com’è possibile che io mi trovi qui, a fuggire in queste condizioni? Più di trent’anni fa arrivavo a Berlino. Allora non ero nessuno, non sapevo chi e che cosa avrei trovato alla fine del viaggio, come sarei stata accolta e cosa sarei diventata. A pensarci non è poi tanto diverso da adesso... solo che ho trent’anni di più, e non posso tornare indietro. Allora ero solo una giovane fisica appassionata: avrei fatto qualunque sacrificio, avrei lavorato anche in una stalla pur di fare fisica, pur di avere un laboratorio. Sì, perché ho sempre voluto fare la scienziata, fin da piccola… cosa strana per quei tempi.

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