La scatola dei sogni

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Un meccanismo trascinava la pellicola agganciando i fori lungo il bordo. Ogni fotogramma si arrestava per un tempo brevissimo e poi la pellicola ripartiva. Sedici volte in un secondo. Un fascio di luce attraversava i fotogrammi e permetteva la proiezione ingrandita. Era il cinematografo. G.Q. & A.V.


Testi: Anna Vivarelli e Guido Quarzo Pubblicato in accordo con Grandi&Associati, Milano Illustrazioni: Silvia Mauri Progetto grafico: Alessandra Zorzetti www.editorialescienza.it www.giunti.it © 2021 Editoriale Scienza srl via Bolognese, 165 – 50139 – Firenze – Italia via C. Beccaria, 6 – 34133 – Trieste – Italia Prima edizione: gennaio 2021

C115118 Stampato presso Elcograf SpA, stabilimento di Cles


G. QUARZO • A. VIVARELLI

LA

SC ATOL A

SOGNI Illustrazioni di Silvia Mauri



CINQUE SPARI NEL BUIO UN GIORNO DI PRIMAVERA DEL 1895

L’

uomo che si alzò dalla sedia e sparò cinque colpi contro lo schermo sapeva benissimo che mirava a un’immagine, a una specie di fotografia in movimento. Tuttavia non poté resistere alla vista di quel volto che, per pochi secondi, appariva in primo piano. Si alzò impugnando il revolver e per cinque volte tentò di colpire la figura sullo schermo. Nella sala si creò immediatamente il caos. Donne che strillavano, svenimenti, un fuggi fuggi generale. Così, in quella confusione, l’uomo si allontanò indisturbato borbottando fra sé parole che nessuno pensò di raccogliere. La conseguenza di tutto ciò fu il ferimento inspiegabile, e per un certo verso persino comico, del proiezionista. Come ancora si usava allora, dietro lo schermo c’era un giovane che manovrava il proiettore, e a lui arrivò uno dei cinque proiettili destinati al muto personaggio in bianco e nero dall’altra parte del telone. Uno solo, per fortuna, che gli ferì la coscia destra. Si poté leggere la cronaca di questo misterioso e strambo episodio sui giornali del giorno dopo. Gli articoli erano accompagnati dalla foto del giova-

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ne proiezionista, che si chiamava Marcel Moreau ed era stato iniziato a quel mestiere nientemeno che dai fratelli Lumière. Il nome dello sparatore, invece, non c’era. Comunque non aveva una buona mira, questo è certo. Se l’avesse avuta, il proiezionista sarebbe certamente morto. Per scoprire l’identità del misterioso uomo del revolver, fu necessario capire contro chi intendeva sparare. Nessuno credette che ce l’avesse con il giovane Moreau, il quale, poco più che ventenne, era uno squattrinato ex giardiniere con una giovane moglie a carico. Era arrivato a Torino quasi un anno prima e non pareva implicato in affari poco puliti. Il filmato che si proiettava in quel momento era intitolato Tutti in carrozza, ed era stato girato alla stazione di Lione. Si vedeva il treno che arrivava sul piazzale e una discreta folla che si accalcava davanti al vagone. C’era chi doveva salire, c’era chi scendeva. Due uomini si incontravano e parlavano fittamente tra loro. Dopo un’amichevole stretta di mano, uno dei due si voltava verso la cinepresa e aveva un moto di stizza. Subito si abbassava il cappello sulla fronte e dava le spalle agli spettatori, ma per un attimo il suo viso restava in primo piano. E in quell’istante lo sconosciuto sparò. Al momento dell’incidente, la moglie di Moreau era seduta su uno sgabello a pochi metri dal marito. Lo accompagnava a ogni proiezione e rimaneva seduta per tutto il tempo nella penombra.

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In realtà, qualcosa faceva anche lei. Prima che iniziasse il nuovo film, che durava meno di un minuto, si alzava e leggeva i titoli da un foglio: – La pesca dei pesci rossi! – oppure: – Fabbri! – o anche: – Colazione del bimbo! Li annunciava a squarciagola perché farsi sentire in sala non era cosa facile: gente che andava e veniva, prendeva posto, salutava i conoscenti. Gli uomini si toglievano il cappello, le signore sistemavano le pieghe delle lunghe gonne. Li annunciava urlando, dunque, per sovrastare il rumore e le voci, e con un marcato accento francese. Perché sia lei che il marito provenivano da Lione, ed erano due fuggiaschi. – Tutti in carrozza! – aveva annunciato quindi la giovane moglie del proiezionista. E subito dopo si era scatenato il finimondo.

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PRIMA PARTE UN GIORNO DI PRIMAVERA DEL 1895



CAPITOLO 1

IN CASA LUMIÈRE

L

e due cameriere in grembiule nero e crestina portavano in sala vassoi con i pasticcini alle mandorle e i canapè con il paté e i gamberetti, brocche con la limonata, due bottiglie di vino di Xères e bicchieri di cristallo. Ufficialmente si trattava di una proiezione privata, ma la scelta degli invitati tradiva il vero scopo della riunione: era chiaro a tutti che la speranza dei Lumière era di suscitare l’entusiasmo di alcuni capitalisti e di ottenere da loro una sorta di benedizione. Su divani e poltrone sedevano i ricchissimi Fournier, un banchiere con la consorte e il giovane figlio dalla faccia cavallina; Monfort, proprietario di una catena di grandi magazzini con sedi a Lione, Parigi e Nantes, anche lui con moglie al seguito, e le loro due figlie adolescenti, una immobile come una statua, l’altra nervosa come un’anguilla. Poi c’era Paul Girard, un armatore con una discreta flotta commerciale, e la sua anzianissima madre. E, infine, quello strano individuo di mon-

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sieur Bourdin. Nessuno sapeva esattamente che mestiere facesse: dove occorreva spostare denaro da una tasca all’altra, da un conto in banca a un altro, lui non mancava mai, e lo si ringraziava pure con una discreta percentuale. Procacciatore d’affari? Mediatore? Forse quel giovanotto vagamente untuoso era poco più di uno scroccone, ma negli ultimi tempi non c’era ricevimento a cui Jean-Baptiste Bourdin non fosse invitato. E poi, naturalmente, c’erano i tre Lumière, industriali della fotografia: il padre Antoine e i due figli, Auguste e Louis. Il parlottio degli invitati si mescolava con il tintinnio dei bicchieri e dell’argenteria, come una fastidiosa musichetta. “Che noia!” si disse Nina. Alla figlia più giovane e agitata del proprietario dei grandi magazzini non interessavano queste chiacchiere: gente vecchia che si occupava di cose vecchie! Antoinette Madeleine Monfort de Villon detta Nina aveva diciassette anni, e in quel momento soffriva le pene dell’inferno. Intanto l’avevano costretta a vestirsi di bianco, con un fiocco in testa che le pesava come se fosse di marmo (un assurdo fiocco da bimbetta!) e un paio di stivaletti che le serravano i piedi senza pietà. Sua sorella Eunice, seduta accanto a lei su quel divanetto scomodo, era come sempre imperturbabile. “Dove la metti sta” pensò Nina. Inutile provare a sfogarsi con lei: non avrebbe trovato la minima comprensione.

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Eunice aveva soltanto tredici mesi più di lei, ma sembrava più vecchia della zia Geraldine, che invece era adorabile. Almeno per lei, perché in famiglia se ne parlava invece con un briciolo di vergogna. Oh, sì, zia Geraldine era decisamente stramba. Per questo Nina la adorava: trascorreva con lei buona parte dell’estate, in quel posto incredibile che era il castello di Fernon, a un tiro di schioppo da casa loro. Nonostante la vicinanza, negli ultimi anni suo padre ci aveva messo piede solo due volte, e ancora ne parlava come di un’esperienza spaventosa. Sua madre e sua sorella trovavano che quella specie di fortezza fosse inquietante, e invece Nina ci stava benissimo. Intanto a Fernon poteva andare a cavallo tutte le volte che lo desiderava, fare picnic nei boschi con la zia mangiando il pollo con le mani e pulendosi con le foglie, e osservare i nidi degli uccelli con un binocolo. In quelle occasioni, entrambe indossavano calzoni di tela spessa e giubbe con tasche e taschini. Nina sbuffò, per il caldo e per la noia. – Sai che ai matti fanno indossare delle camicie speciali con le maniche che si legano dietro la schiena? – disse a Eunice. Sua sorella girò leggermente la testa e aggrottò le sopracciglia: – Eh? – Si chiamano camicie di forza. Le hanno inventate un secolo fa per i matti furiosi. Eunice scrollò le spalle. – Vuoi che il babbo te ne regali una per il compleanno?

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– Perché no? Certi prestigiatori si fanno legare stretti e poi si liberano di fronte a un pubblico pagante. – Allora quelle camicie non funzionano. Gran bella invenzione davvero – concluse Eunice. – Berrò un po’ di limonata. Con questo sua sorella fece intendere a Nina che non aveva alcuna voglia di conversare con lei. Se almeno fosse iniziato lo spettacolo! Nina non sapeva bene che cosa aspettarsi. Avrebbero assistito al cinematografo, le pareva di ricordare. Fotografie che si muovevano, o qualcosa del genere. Comunque per ora tutti sembravano soltanto interessati al rinfresco, e per quel cinematografo, qualsiasi cosa fosse, c’era ancora tempo. – Posso andare a fare un giro in giardino? – chiese Nina a sua madre. – Non pensarci neppure. Mettersi a vagare per le case altrui! Sei ammattita? – Oh sì. Chiederà in regalo una camicia di forza – osservò Eunice con un sorrisino. – Antoinette, prova a star ferma e raddrizzati quel benedetto fiocco – le ordinò sua madre. Nina si mise a osservare le persone sedute nella grande sala che puzzava di sigaro. Le piaceva collezionare facce e voci: zia Geraldine si divertiva moltissimo ad ascoltare i suoi raccontini su tizio e caio, e apprezzava la sua straordinaria abilità nell’abbinare ogni persona a un animale.

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C’erano i due fratelli Lumière, che avevano organizzato quel noioso ricevimento. Uno dei due aveva gli occhiali e l’altro no, ma per il resto erano molto simili. Spinoni. Era così che si chiamavano quei cani dall’aria mansueta? Due spinoni, sì. Erano certamente imparentati con uno spinone più anziano dalla testa scarmigliata, che sedeva silenzioso in una poltrona al fondo della sala. Una cameriera gli si avvicinò con un vassoio, e posò accanto a lui una bottiglia di birra e un calice. Subito lui la allontanò con un cenno della mano: quello era il capobranco, senza dubbio, il vecchio Lumière. Poi c’era quel giovanotto, il figlio del banchiere Fournier, con la faccia lunga e i denti grossi. Troppo facile: cavallo. Perché la fissava con l’occhio liquido? Che aveva da guardare? Nina gli rivolse una smorfia e finalmente lui distolse lo sguardo. Sul divano al fondo c’era un tale davvero grasso (tricheco!) con una vecchia decrepita che forse era sua madre (tartaruga, sicuro). Lei era sorda come una campana, e lui le stava urlando qualcosa in un cornetto. – Canapè ai gamberetti! – Merletti? – gridò lei scuotendo la testa. Poco interessanti. Ma ecco, quello laggiù sì che era un tipo notevole! Trent’anni, forse meno. Impomatato, baffetti con riccioli al fondo, colletto rigido alto mezzo metro, pantaloni a righine, una giacca stretta dai giganteschi revers e una spilla da cravatta con una perla grossa come un uovo di

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quaglia. Osservandolo meglio, Nina notò le strane orecchie a punta. – Lince! – borbottò. Eunice le diede una gomitata. – Piantala di fare la matta. Nina si alzò, finse di avvicinarsi al tavolino con la limonata, controllò che sua madre guardasse da un’altra parte e scivolò fuori dalla porta finestra.

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