Prologo La mucca è enorme. Il naso umido, le labbra scure, le orecchie che vibrano. Dietro di lei il cielo è di un azzurro acuto, quasi impossibile. Click. Si avvicina, ed è ancora più grande. Gli occhi lucidi, il fiato dolce di fieno. Calore. Click. Click. Click. Mi stendo sulla schiena. La mucca si avvicina ancora di più. Mi annusa. Poi tira fuori la lingua e mi sfiora. Dopo un po’, incerta, comincia a leccarmi. Il tocco è così ruvido che fa quasi male. La lascio fare. Dalla faccia passa alle mani. Le piacciono tantissimo, forse perché sono un po’ salate. Gli animali non amano le novità. Però sono molto curiosi. Essere curiosi è il loro modo di affrontare le cose nuove. Ogni cosa nuova può essere una buona occasione. Io non so che occasione offro a una mucca nera come il velluto. Ma so che le piaccio, che non ha paura. So che io qui mi sento bene.
6
Stare distesa in mezzo a un gruppetto di mucche Black Angus è una bella avventura. Sono nere, enormi. Pesano cinquecento chili ciascuna. Se fossero agitate non mi sentirei così serena, forse. Voglio fotografarle, e ho capito che se sto distesa tra loro si sentono più tranquille, molto più che se mi avvicino reggendo la mia attrezzatura strana, che forse le spaventa. Tranquille loro, tranquilla io. Click.
7
Capitolo 1
Senza ridere, senza piangere
L'
acqua è tanta, dondola, si muove sempre, parla sempre. La bambina invece sta zitta, anche lei dondola, stretta dal suegiù delle onde. Ha un giubbotto salvagente arancione addosso, galleggia alta e sicura, fuori dall’acqua dalla vita in su. È tranquilla. Non strilla, non batte le mani, non schizza dappertutto, non ride: lei non lo fa. Si limita a stare. La sua mamma, che l’ha già portata in piscina avvolta nello stesso giubbotto arancione, la guarda, seria come lei, trattenendola per le braccia. È un momento di pace anche se l’oceano romba nelle orecchie, il rumore infinito del mare, un mare grosso, potente, niente a che vedere con la piscina che le ha accolte finora. Poi la mamma si distrae. Succede alle mamme, ogni tanto. E in un attimo la corrente allontana la bambina dal suo fianco, gliela strappa via
9
con un gesto fluido. La bambina sta galleggiando un po’ più in là. Poi ancora più in là. La mamma si accorge di quello che sta succedendo, anzi, di più: come fanno le mamme, immagina quello che potrebbe accadere, tutto in fretta, troppo in fretta, e grida, si agita, si lancia verso la bambina. Cammina nell’acqua, che la frena, le impedisce i movimenti. L’agitazione non aiuta. Non riesce a riprenderla. La corrente è più veloce. C’è un uomo sulla spiaggia. Vede tutto, sente le grida sopra il rombo dell’acqua. Insegue la bambina da terra, osservando la traiettoria della corrente che la sposta veloce. Poi si tuffa, in un attimo è dalla bambina. Tutto finito ancora prima di cominciare. L’uomo torna a riva col suo carico fra le braccia, lo riconsegna alla mamma. Non è successo niente. La mamma rivedrà la scena mille e mille volte, tutte le volte che un salvagente arancione le entrerà nello sguardo: quello che non è successo, quello che avrebbe potuto accadere. Si darà mille colpe, come fanno le mamme. Ci metterà un secolo a perdonarsi. Avrebbe potuto fare anche lei come l’uomo: correre sulla spiaggia, invece che provare a farlo, goffa, dentro l’acqua; seguire la corrente invece di agitarsi inutilmente. Ma avrebbe dovuto lasciare la bambina da sola. Non ci ha nemmeno pensato. Non ha proprio pensato. La bambina in tutto questo è rimasta quello che era. Seria, silenziosa. Non ha strillato, l’urlo della mamma non l’ha sconvolta. È rimasta immobile, se possibile,
10
dentro l’acqua che non smette mai di muoversi. Nemmeno quando la mamma l’ha stretta a sé si è spaventata, anche solo per contagio, come fanno i bambini quando sono le mamme ad avere paura. Non ha pianto. Temple ha quasi un anno, ed è fatta così. La mamma di Temple, Eustacia, è una giovane donna alle prese con la sua prima figlia. Di bambini non sa niente; deve imparare tutto, come tutte le mamme. Ma si accorge molto presto, andando in visita dalle amiche che hanno a loro volta dei bambini piccoli, che Temple non si comporta come gli altri: non afferra le cose, non è curiosa, non lancia urletti, non ride, non cerca di aggrapparsi ai suoi capelli o ai bottoni o alla collana e di tirare forte. Non si mette niente in bocca, nemmeno il dito. Dorme moltissimo. Non parla. Non cerca il contatto né gli abbracci. Sembra chiusa dentro un cerchio, in un mondo tutto suo. Temple e la sua mamma giocano nella buca della sabbia insieme a un’altra mamma e un’altra bambina. Ceelie riempie il secchiello di sabbia, che bagna con un innaffiatoio. Poi armeggia con delle formine canticchiando una canzoncina, le rovescia, si aspetta gli sguardi affettuosi e le lodi delle due donne, che infatti arrivano. Tutta contenta, ripete il gioco, ancora e ancora. Temple, seduta lì vicino, non parla e non canta. Prende la sabbia a manciate e se la fa scorrere tra le dita.
12
– Facciamo una torta? – le dice la mamma. – Guarda, così. Prende una formina e la riempie, poi la rovescia. Temple resta indifferente. – Perché Temple non fa come Ceelie? Non è la mamma di Ceelie a dirlo, ma Eustacia. – Non lo so – dice l’altra mamma. – Ma credo che dovrebbe. – E continua: – Ceelie è un po’ più grande di Temple, e i bambini di due anni non giocano insieme. Però di solito si guardano e si copiano. Quello che fa uno lo fa anche l’altro. Nel silenzio rotto solo dal borbottio di Ceelie, l’altra bambina non alza gli occhi dalla sua sabbia. – Credo che possa imparare a parlare – dice la mamma di Ceelie. Perché Temple a due anni non parla ancora. Grida. È come se le parole non riuscissero a uscire, come se fosse sempre prigioniera di un enorme balbettio senza risultati; e allora bisogna spingerle fuori urlando. È il solo modo che conosce per farsi sentire. Non vuole essere toccata. Le piacerebbe, in verità. Ma quando succede è come se fosse troppo, un troppo che fa male. Questa bambina sa cose che gli altri non sanno, e non sa cose che altri sanno. Vede segreti nei granelli di sabbia: può passare ore a contemplarli, uno per uno, notandone tutte le differenze più minute, come se li guardasse al microscopio. Quando gli adulti parlano tra loro, non capisce, è come se usassero una lingua segreta. Quando
13
ci sono rumori troppo forti si dondola. Gira su se stessa in una vertigine che la isola e la fa star bene. – Falla vedere da uno specialista all’Ospedale dei Bambini – conclude la mamma di Ceelie. – Male non può fare. Eustacia porta Temple dal pediatra che la segue da quando è nata. Dopo una visita accurata, si sente dire: – Se vuole vada pure all’Ospedale dei Bambini. Ma io credo che lei sia semplicemente una madre apprensiva. All’ospedale, lo specialista osserva Temple e commenta: – È una bambina strana, sì. Ma se la fa giocare così… – E prende da un armadio una serie di barattolini colorati che stanno uno dentro l’altro. Il gioco sta nello scambiarli: tu mi dai questo, io ti do questo. Eustacia è perplessa. Le sembra un gioco qualunque, non diverso da altri che ha già tentato di fare con Temple. A casa gioca e rigioca con Temple, che sembra curiosa. Ma continua a non dire una parola. A quasi tre anni Temple ride per la prima volta. Una risata come un’esplosione, esagerata, forte, interminabile. Dick, il papà di Temple, è furibondo. – È ritardata! Tu lo sai ma non vuoi ammetterlo! – dice a Eustacia. Da una bambina ci si aspetta che sia carina, dolce e obbediente. Temple è carina, ma dolce e obbediente proprio no. Fa quello che vuole, non quello che ci si attende da lei. – Non è ritardata – replica Eustacia, arrabbiata e triste insieme.
14
– Sì, invece. E tu non vuoi affrontarlo. – E anche se fosse? Cosa vuoi fare, metterla in una scatola e abbandonarla? Temple gioca seduta sul tappeto. Fa a pezzi un giornale, appallottola le pagine, le guarda riaprirsi. Lancia i frammenti in aria e li osserva scendere piano. È una bella bambina, occhi azzurri, riccioli biondi. Una bella bambina tutta sporca di inchiostro nero, smarrita nel suo gioco. Eustacia, lì vicino, suona il pianoforte. Bach. Prova a giocare con Temple, coi bicchierini colorati. Temple si distrae un momento, poi torna ad armeggiare con il suo giornale. Eustacia ricomincia a suonare Bach. Temple canticchia. Ripete la melodia che ha appena ascoltato. Eustacia è soffocata da un misto di gioia e sollievo. Allora Dick si sbaglia. Allora tutti si sbagliano. Temple canticchia Bach. Temple strappa la tappezzeria lilla a fiorellini dalla parete della sua stanza. Fa a pezzi il materasso ricoperto di stoffa a coniglietti. Afferra l’imbottitura, la mette in bocca. La mastica, la sputa. Ride, e sputa ancora. Inutile cercare di calmarla. Prende tutte le cose nella sua stanza e le scaglia in un angolo: giocattoli, cuscini, vestiti. È l’epoca dei capricci. Solo che quelli di Temple non
15
sono capricci, perchÊ non si sa che cosa li scatena, e che cosa li fa finire. Quando Eustacia tenta di tranquillizzarla e la prende tra le braccia per cullarla, stringendola a sÊ, è come se perdesse vita, diventa una bambola di pezza: molle, abbandonata.
16