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Cenni storici

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Ringraziamenti

Ringraziamenti

Agli inizi del ‘900 le vette di montagna sono mete di eroi, prima che di alpinisti. Nel secolo precedente sono state effettuate salite importanti, l’approccio alla montagna è ancora empirico. Non esistono imbracature, scarpette e materiali di sicurezza, ci si affida a esperimenti, ricerca, inventiva e molto coraggio.

Salire significa essere caparbi e spavaldi al punto giusto, capaci di dosare le proprie forze, sopportando fatica e freddo, sapendo di poter contare solo su se stessi. Nel 1908 Eugenio Ferreri, scrittore e alpinista torinese, fonda a soli sedici anni la Società Alpina Ragazzi Italiani, che diventa due anni dopo una sezione giovanile autonoma del Club Alpino Italiano. Questo gruppo studentesco organizza, a cavallo della prima guerra mondiale, uscite sulle palestre di Arrampicamento della provincia di Torino: a Rocca Sella, ai Bricchi del Pagliaio e alle ‘Lunelle’ di Mezzenile nelle Valli di Lanzo. Si tratta di salite preparatorie per poter affrontare i gruppi montuosi della zona: Orsiera, Rocciavrè e Cristalliera.

Negli anni ‘20 Ettore Ellena inizia a scrivere le pagine della storia dell’arrampicata sulle pareti di bassa valle, il suo diario ne è testimone. Ettore nasce da una famiglia di coltivatori e dedica molto tempo al lavoro nei campi, circondati dalle montagne che attraggono il suo sguardo e la sua attenzione. In breve il suo spirito di ricerca e la sua ambizione lo portano a salire la Rocca Sbarua per la ‘Via Normale’, insieme ad alcuni alpinisti pinerolesi. Un difficile passaggio non protetto che valuta V grado segna indelebilmente questa impresa.

Negli stessi anni un giovane torinese si distingue nell’audace conquista alpinistica. Gabriele Boccalatte, spinto da uno spirito inquieto e insoddisfatto, divide la sua vita tra due grandi passioni, quella per la musica che esprime suonando il pianoforte e quella per la montagna che traduce nella ricerca di belle e avventurose salite su roccia e ghiaccio. Gabriele è un tipo sensibile a ciò che è bello e questa ricerca la esprime anche nelle sue linee in ambiente naturale. Nel 1929, insieme a Ettore Ellena, scala l’improteggibile placca della Vena di Quarzo alla Rocca Sbarua e nel 1930, insieme ad altri alpinisti di gran valore, Bron, Chabod e Ravelli, sale la via Brik ai Denti di Cumiana.

Qualche anno dopo l’attenzione si sposta sulla ‘dolomitica’ Valle Stretta, al fondo della Valle di Susa. È il 1935 quando Boccalatte unisce a sé un’eccezionale cordata, con Piolti e Rivero, che sale lo spigolo Sud-Sud/Ovest alla Torre Germana. L’anno successivo uno scalatore trasferitosi a Torino dal Friuli, gli amici lo chiamano ‘il fortissimo’, rilancia e ritocca l’itinerario salendo direttamente sullo spigolo anche il primo torrione, il Torrione Gervasutti. Giusto Gervasutti è coetaneo di Ellena e Boccalatte, ma nasce all’ombra delle Dolomiti e forma la sua tecnica di arrampicata su quelle pareti. Arriva sulle Alpi e fissa nuovi parametri di difficoltà nella conquista verticale. Nel 1937 Gervasutti insieme a Renzo Ronco individua e sale una splendida linea di fessure e diedri sulla Rocca Sbarua, una ‘classica’ ancora attuale ma addolcita da qualche spit. Passa qualche anno e per la prima volta viene presa in considerazione una parete di bassa valle a pochi chilometri da Torino. Nel 1939 l’alpinista torinese Pietro Ravelli, in cordata con Grandis e Vecchietti, conquista le rocce del Monte Pirchiriano, salendo lo sperone a destra dalle cava. Stiamo parlando della Sacra di San Michele e la via di salita è quella percorsa dall’attuale via ferrata. Arrivano gli anni ’40 e anche le prime rivoluzioni tecniche. Si sente raccontare che un certo Nino Oppio, grande alpinista lombardo schivo e riservato, abbia usato per la prima volta nel gruppo dell’Adamello un

chiodo che non si pianta in una fessura, ma direttamente su una placca utilizzando un sistema di perforazione e di espansione. Ci vorrà però un po’ di tempo prima che questa innovazione tecnica si traduca in evoluzione alpinistica. Siamo alle porte della ‘nuova guerra’ che segna insieme alla morte di Gabriele Boccalatte sul Triolet nel 1938 e alla caduta di Giusto Gervasutti sul Mont Blanc du Tacul nel 1946, la fine di un’epoca di glorioso alpinismo.

Il dopoguerra inizia all’insegna delle tecnologie e di nuovi materiali, molti dei quali introdotti dagli ambienti militari. Arrivano in Europa dagli USA le prime corde in nylon, sviluppate dall’esercito americano per alcune truppe speciali e per il traino degli alianti. A differenza di quelle utilizzate oggi che si definiscono intrecciate, si tratta ancora di corde del tipo ritorto, dove un semplice intreccio delle fibre va a formare la fune. L’utilizzo però di nylon ad allungamento è la novità e rende più sicura la progressione perché in caso di caduta è capace di ridurre la tensione di impatto. Un’innovazione che modifica il rapporto tra l’uomo e la montagna, aprendo le porte all’arrampicata libera.

A Rocca Sbarua nel 1949, Luigi Bianciotto sale l’evidente spigolo all’omonimo settore, superando il primo VI grado piemontese in arrampicata libera. Il 1951 è l’anno del ritorno in Valle Stretta. L’alpinista Piero Fornelli, in cordata con Mauro e Pistamiglio, sale lo ‘Spigolo Grigio’ alla Parete dei Militi e poco dopo Mario De Albertis osa su una grande via della parete, superandola quasi tutta in libera. Su altri fronti Franco Ribetti, insieme a Giuseppe Dionisi, affronta nel 1956 il contrafforte dei Tre Denti, aprendo una via di libera ardita. In questi anni Torino è in piena ripresa industriale e accoglie nelle sue fabbriche molti lavoratori provenienti da altre parti d’Italia. Guido Rossa, di origine veneta, viene assunto come operaio fresatore e il suo trasferimento a Torino, unito alla passione per la montagna, lo portano a diventare il nuovo punto di riferimento per le valli piemontesi. Nel 1956, alla Parete dei Militi, concatena la Gervasutti di Sinistra con la fessura De Albertis e lo spigolo Fornelli. Il tutto in solo tre ore. Sono anni in cui si scala ancora con gli scarponi e Guido vuole osare di più, vuole salire, alla Rocca Sbarua, quelle placche lisce subito a destra delle linee evidenti già esplorate. Guido è un innovatore e le sue abilità manuali lo portano a studiare nuovi attrezzi di progressione. Così immagina un percorso su quelle ‘Placche Gialle’ e lo risolve nel 1960 in cordata con Corradino Rabbi, utilizzando rudimentali chiodi a espansione e tecniche di arrampicata artificiale: una via del tutto attuale che ora si supera in libera con difficoltà fino al 7b+.

Verso la fine degli anni ’60 il limite di difficoltà è il VI grado e la conquista di una parete è tuttora più importante del gesto dell’arrampicata. È il 1966 quando due giovani alpinisti si avventurano sul Torrione Grigio alla Rocca Sbarua, piantando chiodi, osando sugli strapiombi e utilizzando ogni mezzo artificiale per conquistarlo. Sono Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi e legano indissolubilmente i loro nomi a questa linea. Gian Carlo è un tipo con la faccia da ragazzino, come lo descrive Gian Piero, di taglia non proprio atletica, tutto nervi, agile e scattante. Calimero, così lo chiamano gli amici, ‘languisce’ (cit. Motti) in fabbrica ed è costretto a strappare con i denti ogni uscita in montagna. Il giovane Gian Piero proviene invece da una famiglia benestante, studia e gestisce con facilità le sue avventure in parete. “Era uno dei pochi giovani che sin dagli anni ’60 già possedeva un’automobile per recarsi in montagna, ma non si trattava di un’utilitaria bensì di un modello sportivo. Possedeva sempre i migliori materiali e quando era in giro per arrampicare amava trattarsi bene, scegliendo buoni ristoranti per pranzare ed alberghi anziché campeggi per dormire” [articolo di Ugo Manera su Scandere, 1989]. I due nello stesso anno risolvono un’altro vecchio problema nell’ambiente degli alpinisti torinesi. In Valle Stretta c’è un diedro dove negli anni i tentativi si sono arrestati, lassù, nel marcio, sotto il grande tetto dove Guido Rossa aveva interrotto i tentativi prima di lasciare Torino per trasferirsi a Genova. Gian Piero e Gian Carlo chiudono la questione, risolvendo quello che negli anni era diventato il Diedro del Terrore. Gian Carlo nel frattempo lascia la fabbrica e la città. Alla sicurezza del lavoro fisso preferisce la libertà e la possibilità di poter scegliere ogni giorno la via da seguire, così nella vita, così in montagna. Per arrivare a fine mese lavora in inverno sulle piste da sci e in estate in Francia a costruire muri paravalanghe. Questo gli permette di potersi dedicare a tempo pieno alla sua frenesia esplorativa, valorizzando anche le rocce minori delle valli piemontesi su cui l’attenzione si sposta sul finire degli anni ’60.

Nel Comune di Bussoleno, proprio a ridosso dell’abitato di Foresto, un tale ‘signor Cech’, alpinista e arrampicatore torinese di origini valsusine, è attratto dalle rocce strapiombanti che incombono sulle case. Presto si avventura su per quella strapiombante ‘Fessura Obliqua’ che resta per diversi anni la fessura più famosa del Piemonte. Di lì a poco questa parete di comodo accesso viene presa d’assalto da un gruppo di giovani alpinisti piemontesi. Nascono i Nani Verdi, una linea in artificiale di altissima difficoltà.

Sono gli anni del ‘Mucchio Selvaggio’ ispirato da una forza visionaria e trasgressiva. È un momento rivoluzionario per la scalata, si inizia a respirare l’idea di qualcosa che cambia e questi ragazzi sono tra i primi a utilizzare le pedule a suola liscia al posto dei pesanti scarponi.

In breve si delinea un’evidente spaccatura. Da una parte l’alpinismo tradizionale fatto di eroismo, drammaticità e principi conservatori, dall’altro un manipolo di scalatori talentuosi che vuole vivere avventure senza sfidare per forza la vita e affidarsi al coraggio. Gian Piero Motti, Gian Carlo Grassi, Danilo Galante, Roberto Bonelli, Andrea Gobetti, Ugo Manera, Mike Kosterlitz e altri ancora sono i principali attori del cambiamento in atto, che privilegia i fattori tecnici e ludici a quelli emotivi estremi. I tempi sono maturi per un cambiamento consapevole e documentato per mano del giovane Gian Piero Motti, il quale ama scrivere e scrive molto. In breve si fa portavoce di un movimento che teorizza il ‘Nuovo Mattino’ e diventa in poco tempo l’uomo più discusso dal dopoguerra in avanti nell’ambiente alpinistico piemontese. Inizia un percorso di pensiero nuovo, ipotizzando avventure senza necessariamente una vetta.

A metà degli anni settanta la fugace stagione del Nuovo Mattino era prossima al crepuscolo, ma le vie e i personaggi che l’avevano animata erano già entrati nel nostro immaginario. Molto si è scritto di quegli anni, e spesso a sproposito. In realtà, ad arrampicare in valle era una manciata di persone accomunate dalla ricerca di qualcosa di nuovo che ognuno interpretava a modo suo. Senza appelli alla retorica o alle facili conclusioni, le idee del Nuovo Mattino combaciavano per alcuni di noi con una libertà ideologica assolutamente controcorrente rispetto a tutto quel che ci circondava. Dal polveroso mondo del Cai, ai dogmi di una asfittica politica studentesca che imponeva estremismi di destra o di sinistra, fascista o compagno. Finalmente vi era un luogo, più della mente che reale, dove dare libero sfogo alla fantasia e all’avventura senza pregiudizi o costrizioni, in cui personaggi erano nuovi antieroi. Gabriele Beuchod ne era un esempio, viso di bambino e sognatore. Per primo sul Caporal, superò con la splendida lunghezza dell’Orecchio del Pachiderma i limiti raggiunti dai “vecchi maestri”. [Andrea Giorda - Alp Grande Montagne, Ed. Vivalda, Luglio 2001 n.195]

Nel 1977 a Rocca Sbarua Gabriele Beuchod sale in libera la bella fessura di 6a alla Torre del Bimbo, ancora oggi miracolosamente ‘illesa’ e dunque non richiodata. Nel frattempo, in bassa Valle di Susa, Grassi, Bonelli e Galante esplorano la grande parete di Cateissard, già tentata invano da Cech dieci anni prima. Nel mezzo di questa rivoluzione Isidoro Meneghin non sente influenze e ricorre all’artificiale anche su paretine di venti metri: a Borgone e a Caprie individua però linee che diventano di ispirazione per i liberisti della roccia.

Più a sud, Gaido e Marone inaugurano il Vallone del Bourcet con due impegnative salite artificiali che richiedono numerosi tentativi e addirittura bivacchi in parete: Urlo della vecchia e Deltaplano. Successivamente Fiorenzo Michelin, insieme a Renato Carignano, raccoglie il testimone lasciato da Gaido e sposta l’attenzione sulla libera salendo lo Spigolo Grigio, destinato a diventare negli anni successivi uno degli itinerari più frequentati della Val Chisone. Fiorenzo Michelin nasce a Villar Pellice nel 1948, pratica alpinismo dall’età di 17 anni e si afferma come instancabile valorizzatore di rocce dimenticate, aprendo oltre 150 nuove vie nelle valli Chisone, Pellice e Po.

Intanto, tra gli allievi di Gian Carlo Grassi, comincia a farsi luce un ragazzo talentuoso che si allena scientificamente, studia il gesto e segna in poco tempo una svolta nella storia dell’arrampicata italiana. Marco Bernardi sale in libera la Ribetti-Dionisi ai Tre Denti, poi lo Spigolo Centrale e la celebre Motti-Grassi a Rocca Sbarua. Marco in breve è già un passo avanti rispetto a quanto è stato fatto finora in Piemonte.

Arrivano gli anni ’80 che si aprono con la visita di Patrick Berhault a Foresto. Patrick è un ragazzino francese che già da qualche anno, insieme a Patrick Edlinger, si allena duramente a

secco con trazioni e flessioni per migliorare la propria preparazione fisica e affrontare difficoltà sempre più elevate. I locali Franco Salino e Marco Bernardi lo osservano alle prese con il tentativo a vista sulla temibile Nani Verdi, finora salita solo in artificiale. Lo spettacolo a cui assistono gli scalatori nostrani è fonte di ispirazione e illumina la strada da seguire. Il livello della scalata dei cugini transalpini è certamente più avanzato e il francese nello stesso periodo libera il mitico Bombement de Pichnibule (7b+) in Verdon. Inizia l’arrampicata sportiva in Valle di Susa e i protagonisti del Nuovo Mattino lasciano spazio ai nuovi pionieri.

A Rocca Sbarua nascono le prime vie a spit per mano di Marco De Marchi. Grassi chioda sistematicamente Caprie e Rocca Penna insieme a Mario Ogliengo. Isidoro Meneghin si dedica alle placche di Anticaprie e la Via degli Specchi sulla Rocca Bianca e insieme a Ugo Manera e Gian Piero Motti, apre alla Rocca Nera. Nel 1979 Marco Bernardi libera la via San Marco nella gola di Caprie, aperta da poco da Cosson e Vittoni. Nel 1981 sale la Motti-Grassi sul Torrione Grigio alla Rocca Sbarua e poi, uno a uno, i vecchi itinerari di artificiale. Marco alza l’asticella della difficoltà nell’area occidentale italiana fino a compiere un prodigioso balzo in avanti riuscendo su Strenous nel 1984 all’Orrido di Foresto, una linea al limite dell’8a con passaggi aleatori su piccole prese sfuggenti. Da quel momento l’attenzione si sposta dall’Orrido alle vicine Striature Nere che, in breve, diventano la sua palestra di casa. Non ci sono prese da avvitare o bollini da seguire come oggi, ma la novità è tale che quello che offre la natura è più che sufficiente per spingere il livello ancora più in alto.

Estate 1984, le pareti ‘dolomitiche’ della Valle Stretta tornano a essere protagoniste. Marco Bernardi e Renato Pirona aprono L’albatros, una linea di 200 metri con difficoltà fino al 7a in libera. L’anno successivo Andrea Mellano, forte alpinista degli anni sessanta, insieme a Emanuele Cassarà, giornalista e scrittore, organizzano qui le prime gare di arrampicata. È un momento decisivo, nasce un confronto sportivo basato su regole che mettono gli scalatori sullo stesso piano. Una giuria molto speciale presidia per decidere chi è il più forte: Riccardo Cassin, Oscar Soravito, Maurizio Zanolla (detto Manolo) e Heinz Mariacher.

Nella seconda metà degli anni ’80 Marco Bernardi si allontana dalla scena verticale lasciando il testimone della libera ad Andrea Gallo. Andrea scala da qualche anno e fa parte di una nuova generazione di arrampicatori che ha spezzato quel

legame apparentemente indissolubile con la montagna e l’alpinismo. L’agonismo, l’allenamento e la ricerca della difficoltà sono alla base dei suoi principi ispiratori. Andrea inizia da dove è arrivato Marco, ripete Strenous all’Orrido di Foresto e riesce prima di lui su Funeral Party (7c) alle Striature Nere. Finalmente nel 1987 rompe il muro dell’8a in Piemonte, liberando Mari del sud all’Orrido di Chianocco. La via è opera di Roberto Mochino, chiodatore, artista e insegnante di scultura, che cerca di lasciare sulla roccia il segno del suo estro.

Sulla strada aperta da Andrea Gallo seguono gli scalatori torinesi Massimo Ala, Andrea Branca e il duo Mauro Vaio e Franco Rebola che firma l’apertura di moltissimi tiri in bassa Valle di Susa. Andrea intanto lascia libero il campo in Valle, il suo intuito lo porta a Finale Ligure dove lascerà un segno indelebile nella storia di quelle pareti. Nelle valli a sud della Valle di Susa il tempo sembra scorrere più lentamente e il vento della libera inizia a farsi sentire solo nel 1988, quando il valsusino Oscar Durbiano sigla il primo 8a della zona: Aurora in Val Pellice. Intanto Parodi con Michelin valorizza la Parete del Pis, mentre con i fratelli Segatel chioda alcune falesie tra cui il Triangolo. Michelin e Rossetto riscoprono il Vallone del Bourcet regalandoci la Via degli Strapiombi. Vaio e Rebola aprono numerose vie a spit di alta difficoltà sui settori più lisci di Rocca Sbarua.

Arrivano gli anni ’90. L’evoluzione della scalata è rapida e il livello cresce a vista d’occhio. Donato Lella è il primo a portare la rotpunkt sulle vie di più tiri nel pinerolese, macinando alta difficoltà in Val Pellice e alla Rocca Sbarua. Nel frattempo in Valle di Susa le cronache della libera fanno riferimento a due nomi già conosciuti nell’ambiente delle gare di arrampicata: Marzio Nardi e Walter Vighetti. Marzio sigla il primo 8b con Robotica, in fondo all’Orrido di Foresto. Walter sale a Gravere, nello stesso giorno, La cura (8b+) e Oltre ogni limite (8b). “Quel pomeriggio lo ricordo bene. Scalavo da poco ed ero alle Striature Nere con mio papà quando arrivarono Oscar Durbiano e Paola Pons di ritorno da Gravere. Non li conoscevo di persona ma li avevo da poco visti ai Campionati Italiani che si erano tenuti alla palestra Guido Rossa del Palavela. Durante uno dei miei tentativi a pochi metri da terra su Fermenti lattici sento dire che poco prima Walter aveva realizzato i due progetti estremi”.

La piccola falesia di Gravere non brilla per bellezza naturalistica, le vie sono aggiustate con la resina e qualche presa è scavata. Le linee però sono belle, strapiombanti e di continuità come richiede la nuova tendenza emergente.

Su questa onda Alberto Bolognesi chioda nella zona di Novalesa, Roberto Mochino continua a sfornare itinerari belli e difficili in bassa Valle di Susa e Gabriele Bar, insieme a Claudio Bernardi, apre diverse multipitches dal basso sulla parete di Cateissard, sul paretone di Novalesa e sulla Parete dei Militi. Si afferma da questo momento una tendenza plaisir di scuola francese che porta alla chiodatura di falesie tranquille spesso super-spittate. Sono di questo periodo le Terrazze di Avalon e le vie di Michele Carbone a Rocca Sbarua. Più a sud, Michelin e Masoero tracciano una bella via sulla Rocca Ciabert, nel Vallone degli Invincibili. Sempre Michelin è l’autore di due vie nel Vallone di Massello (Val Germanasca), una delle quali vicino alla spettacolare Cascata del Pis.

A metà degli anni ’90 la Valle di Susa non è più al centro delle cronache della libera. Si ricerca una difficoltà addomesticata dalla continuità e da strapiombi omogenei e quando questo non si può ottenere la soluzione è un po’ di bricolage sulla roccia. Nel frattempo sono nate le prime palestre di arrampicata e gli appassionati diventano sempre più numerosi. Così si pensa a falesie più sicure e adatte ai principianti: in Val Chisone Carbone & friends attrezzano la zona del Gran Dubbione. In questo contesto Marzio Nardi sta perdendo quella voglia di verticale che lo aveva spinto nella ricerca della difficoltà fino a quel momento. Marzio ha da poco terminato la sua carriera da atleta, coronata da due vittorie del Campionato Italiano alla fine degli anni ’80 ed è passato dall’altra parte della barricata, diventando uno dei primi tracciatori di competizioni internazionali. Questa esperienza lo mette a contatto con il gotha dell’arrampicata mondiale, viaggia, conosce gli atleti più forti al mondo e traduce sulle pareti di casa le sue esperienze. Marzio, ispirato da Fed Nicole e dalla sua rubrica sulla rivista Roc’n’Wall, si concentra sull’essenza del gesto, il bouldering. All’inizio non c’è nulla da inventare per lui, semplicemente ripercorre quanto avevano fatto Grassi e il ‘Nuovo Mattino’ negli anni ‘80. Prende la guida di Gian Carlo e inizia a ripetere tutti i passaggi sui sassi della Valle. Poco dopo sente parlare di un nuovo attrezzo, prodotto da un’azienda americana: Marzio acquista per corrispondenza il suo primo crash pad e apre il suo laboratorio di esperimenti a Niquidetto (Colle del Lys). Non passa molto tempo e alla fine degli anni ‘90 corona l’attività di esplorazione e ricerca con il primo 8a italiano di boulder, Icaro a Villarbasse.

Il vecchio millennio si conclude con la libera su materiale tradizionale della Via del Deltaplano nel Vallone del Bourcet ma gli anni 2000 iniziano all’insegna delle vie multipitches ben attrezzate e confezionate alla perfezione. Fiorenzo Michelin trascorre molte ore appeso in parete, aprendo vie sulle montagne dell’alta Val Pellice, sulle Placche della Parete dell’Embergeria (Angrogna) e al Bourcet, proponendo finalmente una valida alternativa a Rocca Sbarua.

Intanto il popolo del bouldering è cresciuto grazie alle palestre di arrampicata e all’immediatezza del gesto: niente corda, niente imbracatura, avvicinamenti brevi e nessuna attesa ad assicurare. Al rifugio Levi Molinari è da poco cambiata la gestione. Tiziana e Marco, aperti alle nuove idee, lasciano carta bianca a Maurizio Puato che, nel 2003, organizza qui uno dei primi raduni di bouldering. Il Vallone viene invaso da una nuova generazione che incita, dà consigli, prova mille modi diversi, si confronta a contatto diretto, urla e applaude una volta in cima al sasso. Il gesto dell’arrampicata è al centro dell’attenzione. Nel frattempo Cristian Core, vincitore del prima edizione della Coppa del Mondo di bouldering, installa nei pressi del Rifugio Barbara in Val Pellice uno dei suoi laboratori di produzione di blocchi di alto livello, tra i più duri in Italia e in Europa. In falesia non ci sono novità di rilievo sul piano delle prestazioni. Si lavora a rendere sicuro quanto lasciato in eredità. Il restyling di Anticaprie e Borgone, promosso dalle amministrazioni locali dei rispettivi Comuni, assicurano alle nuove generazioni una chiodatura sicura per poter approcciare la roccia.

Nel 2002 Rebola apre Bandiera Rossa sul pilastro San Marco a Caprie che Valter Vighetti sale proponendo difficoltà fino all’8a, mentre in alta Valle Alberto Re e Manlio Motto aprono lo Spigolo Reale sulla Rognosa di Etiache. Nel 2008 a Rocca Sbarua il giovanissimo Alessandro Cesano di Pinasca sale in libera la Via degli Amici (8a) e l’anno successivo lo Strapiombo Rosso (7c+). Il numero di falesie e di vie attrezzate cresce in ogni angolo di roccia a portata di trapano. La chiodatura diventa una scienza quasi esatta e l’impegno emotivo lascia spazio alle capacità tecniche e condizionali. Esaurite le grandi falesie ci si concentra su piccole strutture che in alcuni casi racchiudono gioielli d’eccezione, la falesia dell’Alta Tensione è uno di questi. Siamo lontani dalle chiodature seriali, diventate ormai la regola. Qui Adriano Trombetta, aiutato dall’immaginazione arrampicatoria di Marzio Nardi, chioda la linea perfetta di Geo, uno spigolo che stabilisce una sottile divisione tra estremo e impossibile. Nel 2009 Gabriele Moroni scopre i movimenti che risolvono questa linea di 8c senza prese scavate o migliorate, una rarità offerta dalla natura.

Qualche anno dopo Stefano Ghisolfi, classe 1993, chioda una variante di una via di Walter Vighetti a Gravere. Nel 2014, oltre vent’anni dopo la libera di Walter sulla La cura, Stefano libera il primo 9a della Valle di Susa, TCT a Gravere, dedicato al giovanissimo talento Tito Claudio Traversa, morto prematuramente nel 2013. Qualche mese dopo anche Adam Ondra, mancata la semifinale di Coppa del Mondo di Chamonix, coglie l’occasione per fare un salto in questa piccola falesia e dare il suo omaggio a Tito salendo la via on sight. Il livello dei giovani nati con le prese artificiali tra le mani e la possibilità di scalare in sicurezza già da piccoli, cresce velocemente rispetto ai vecchi pionieri della roccia. Non si improvvisa più nulla, niente più formule casalinghe, la scalata e l’allenamento diventano scienza e le nuove generazioni alzano l’asticella della difficoltà abbassando quella dell’età. Nel 2017 Marcello Bombardi, coetaneo di Stefano Ghisolfi, risolve al Libro di Borgone una linea che Marzio Nardi intuisce venti anni prima. Cose preziose è un 8c+ rimasto lì, chiodato ad invecchiare come un buon vino, finché un bravo intenditore ha saputo tirarne fuori una linea pulita e complessa che richiede forza, tecnica di movimento e una bella fredda giornata di aderenza. Un buon esempio per il futuro.

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