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marzo 2019. Katmandu 109
from TATO
5 aprile 2019 KaTMaNDU
Metto un post sul mio profilo Facebook.
Questo viaggio mi ha dato molto da pensare. Ho osservato a lungo il pedaggio che esige dai nostri cari questo nostro pericoloso “lasciarsi andare alla deriva tra le montagne”. Anche se sono a casa ad aspettarci ce li portiamo emotivamente con noi, ogni volta. Questa volta, ed è la prima, mi trovo dall’altra parte della frontiera ed ho avuto l’opportunità di vivere l’attesa e osservare l’apprensione che mi gravita tutt’attorno.
Sono convinto che è molto più facile starsene in parete che aspettare con un senso d’impotenza e sempre in allarme una notizia dopo l’altra su come vanno le cose.
Si pone una domanda sull’alpinismo e sui limiti della volitività oltre i quali non si parla più di scalate ma di ruota della fortuna e di lotta per la sopravvivenza. Cosa diventa allora lo sport? Cosa ci spinge a pericoli così evidenti? Le voci delle sirene? A quanto pare il loro canto può essere sentito non solo sulle creste delle onde, nel mare. Cosa ci danno le montagne, ci illuminano o ci accecano? L’alpinismo, secondo me, è una forma di equilibrio tra tutti i mondi in cui viviamo. È allora che diventa un’arte. Dobbiamo trovarci dentro, dopo tutto non possiamo rinunciare del tutto al rischio e alle scalate, altrimenti andremmo a perderci in cento altri modi.
Ho fatto molte domande. Penso che ognuno troverà la propria risposta personale.
Ho passato gli ultimi giorni in ospedale a curarmi un’infezione alla gamba per una puntura di zecca. Quale ironia del destino! Questa spedizione si è risolta per me in una bella lezione di umiltà. Non è stato comunque quell’evento a determinare la mia rinuncia alla scalata, in quel momento ancora non c’erano grandi ragioni per stare a preoccuparsi. Qualche giorno fa ho incontrato il resto della troupe a Katmandu. Sono tutti stanchi, ma felici.
Eliza e Zosia hanno fatto una gran cosa e sono certo che abbiano contribuito molto al lieto fine di questa missione.
Sento dentro di me un senso di confusione e faccio davvero fatica ad organizzarmi. Continuo a tornare col pensiero agli ultimi mesi, al compagno morto tragicamente, alla rinuncia al sogno della salita sullo Jannu, al ritiro dalla squadra e a quel cavolo di zecca!
Che per te lui era più importante di tutto.
Lui va dicendo: “Papà mi ha abbandonato e tu lo hai permesso”.
Non mi sento colpevole. La tua passione in qualche modo mi aveva colpita.
Arrivavi sempre con racconti fantastici. Ti ricordi con che occhi ardenti guardavamo i templi indù e le donne che indossavano il sari?
Le montagne e la gente che le abita, un qualcosa di fantastico. Quando mi viene posta la domanda “Ma perché ci vanno?” rispondo “Andateci anche solo una volta… Bisogna toccare con mano ciò che si cerca di capire”. ©
Sai che quando te ne andasti terminammo anche la costruzione della casa. Prima assieme avevamo preparato gli schizzi con la disposizione delle stanze dei bambini e avevamo scelto i colori.
Andavamo ogni giorno a vedere la costruzione e ogni singolo mattone equivaleva ad una festa per tutti noi. Un giorno scrivemmo una poesia sul nostro amore, che poi firmammo tutti, bambini compresi, e che nascondemmo poi dentro alla colata di cemento.
Non ci fu data la possibilità di godere a lungo insieme di quella casa. Dopo la tua morte non riuscivo a sopportare quelle pareti, il giardino e quei posti che avevi costruito con le tue mani. Fuggii dunque con i bambini dai miei genitori e non fui mai più in grado di tornare in quel luogo così permeato dalla tua presenza.
Vendetti la casa e acquistai un appartamento nel quale di notte non potessi essere svegliata dal tuo profumo, nel quale il pavimento non scricchiolasse, quel rumore preannunciava sempre che stavi per tornare in camera da letto.
La prima lacrima traccia il solco per quella successiva.
Amore, sai come hanno vissuto la tua scomparsa tuo padre e tua madre?
Mamma, papà… Il buio si fa più chiaro e lascia il posto a dei tulipani rossi che sembrano sussurrare qualcosa… Subentra poi un silenzio sempre maggiore…
Dopo la tua morte tua madre si è chiusa in sé stessa. Forse quella sofferenza che in questi casi viene senza dubbio vissuta da parte di una madre ha contribuito ad accelerare lo sviluppo della malattia. Lentamente dopo di te hanno iniziato a scomparire la memoria e la coscienza, con la sua mente che richiamava sempre più immagini scollegate dalla realtà.
Era a casa sua, nel suo letto, quando se ne è andata. Subito dopo la sua morte abbiamo scoperto una lettera che per tutto quel tempo aveva tenuto nascosta sotto il cuscino e che iniziava con queste parole:
“Figlio mio, sono…”.
Salutandoti non pensava a quanto pericolosa potesse essere quella spedizione.
Prima della tua scomparsa raccontava spesso la storia delle tracce. Ci piaceva ascoltarla, piaceva anche a te, perché durante quel racconto la vedevamo piena di orgoglio e di gioia per la tua vita. Quando dopo una scalata difficile nella nebbia fitta e nella neve ormai marcia non eri riuscito a trovare la strada per tornare al rifugio, inaspettatamente avevi notato alcune impronte di scarponi che ti avevano riaccompagnato sul sentiero sicuro. Sembrava impossibile che quelle orme fossero profonde al massimo qualche centimetro quando tu per imprimerle nella neve fresca e soffice eri sprofondato fino alle cosce, sopra alle ginocchia. Sembrava quasi che fossero state lasciate da scarponi indossati da una qualche anima o da un angelo custode. Terminando quel racconto, ti rivolgeva sempre un sorriso dicendoti: “Figlio mio, ero io il tuo angelo custode”. Credeva davvero che non ti sarebbe mai successo nulla.
Uno squillo di telefono arriva ad interrompere quel silenzio … – Pronto. – È la signora…? – Sì… – La preghiamo di presentarsi immediatamente al commissariato di polizia, è stato ripescato dal mare suo figlio. Abbiamo una fotografia, signora, dovrebbe passare a identificare il defunto. – È mio figlio maggiore! Sentii il corpo afflosciarsi, mi sentii pervasa dal vuoto, come se la vita avesse abbandonato il mio corpo. Poi, improvvisamente, un pensiero! Ma come dal mare, quello non puoi essere tu, figlio mio!!! A meno che, tornando dalle montagne, tu non sia andato a farti una nuotata… Non mi ricordo come fossi arrivata in commissariato. Tutte le forze mi avevano abbandonato e mi ero messa seduta sul pavimento ad attendere che mi portassero quella foto.
[…] Mi era stata data una possibilità. Da quel momento la mia spedizione più grande, quella destinata a non avere mai fine, divenne il viaggio nel profondo di me stesso. Dovendo decidere tra famiglia e montagne, cerco di trovare l’aurea via di mezzo tra quei due mondi paralleli, senza i quali non sono in grado di esistere.