Solo Fango

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noir di ecomafia


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Giancarlo Narciso Solo fango © 2010, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2010, Giancarlo Narciso Immagine di copertina: © VR Photos /Shutterstock Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di marzo 2010 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

Gli autori devolvono una parte delle proprie royalties al progetto SalvaItalia di Legambiente. VerdeNero è una campagna di mobilitazione contro l’ecomafia e il silenzio che l’avvolge, un’occasione concreta per affermare nel paese una nuova cultura della legalità a difesa dell’ambiente. Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


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GIANCARLO NARCISO

SOLO FANGO


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I feel like I’m going, like I’m going down slow Questo è per Cristina, mia sorella.


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1. stava, val di fiemme, trentino, 18 luglio 1985

Il fango è sotto, sul fondo del bacino, quasi immobile. Invisibile. Dall’alto non vedi che due enormi pozze d’acqua stagnante, una sopra l’altra, incastonate fra i prati sul limitare del bosco. Anche d’estate, con il caldo, non sono invitanti, non ti fanno venire voglia di tuffarti, non con la schiuma grigia che affiora alla superficie e il tanfo che ne emana. Non è un bello spettacolo. ma tutto sommato non disturba più di tanto. Non è che un terrapieno, alto; sembra quasi una collina spuntata per caso fra gli alberi e l’erba. Ma il fango è sempre lì, che respira, quasi fosse vivo. Un’entità maligna impregnata d’un odio accumulato per anni, di un desiderio malsano di strisciare fuori, verso la luce, di protendere i suoi viscidi tentacoli verso la valle là sotto. Verso il villaggio, che d’inverno non ospita che poche dozzine di abitanti, ma d’estate si riempie di turisti. E, soprattutto, di bambini. Come quelli che, in questa bella giornata, hanno passato buona parte del pomeriggio a rincorrersi fra gli alberi del bosco, schiamazzando felici. Ora ne sono usciti e stanno lentamente scendendo per i prati, verso il minuscolo villaggio con la chiesa, le case e gli alberghi. Il sole non è più così alto e bisogna tornare a casa. La scuola è finita da più di un mese e le vacanze sembrano ancora lunghe. Come tutti gli anni, i bambini che sono a Stava in villeggiatura hanno fatto comunella con quelli del villaggio, formando un’unica banda.


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Riprendono a correre giù per il pendio, tutti tranne uno, che si è fermato incuriosito vicino all’argine del bacino superiore. A un tratto gli pare di udire un lamento, un brontolio sordo. Proviene dal terrapieno e, a tratti, sembra quasi che siano parole impastate che escono dalla melma. Come se, là sotto, ci sia sepolto qualcuno, o qualcosa. Qualcosa che sta cercando di uscire, di sfuggire alla morsa. Di venire a prenderlo. E trascinarlo sotto terra, con lui. Vuole scappare ma non riesce a muoversi, quasi aspettandosi che la terra si apra e qualche orribile mostro ne strisci fuori e lo afferri. Urla. Sua sorella Cinzia, che è più sotto, già a metà del prato, si volta. «Sandro!» gli grida di rimando. Le parole rompono l’incantesimo e improvvisamente riesce di nuovo a muoversi. Scappa via di corsa, verso il gruppo.

2. oggi – riva del garda

Solo allora si rese conto che stava per essere ucciso. Fino a quel momento la possibilità non gli aveva nemmeno sfiorato la mente. Morire, lui? Che sciocchezza. Quando la prima martellata gli aveva frantumato la mascella, l’unico suo pensiero era stato chiedersi come far capire al suo aggressore che stava esagerando, che doveva calmarsi e chiamare un’ambulanza. Facile. Bastava dirglielo. Peccato solo che non riuscisse nemmeno ad aprire la bocca, a un tratto piena di sangue e di piccoli oggetti che dovevano essere i suoi denti, e non potesse esprimere a parole la sua sofferenza, il suo bisogno di immediato soccorso. Si puntò l’indice contro la bocca e mugolò in un ultimo, disperato tentativo di comunicare il suo dolore.


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Il martello si levò una seconda volta nell’aria e, in quell’attimo, capì che non c’era alcun bisogno di dire all’altro quanto stesse male. Lo sapeva già. Era proprio quello il suo scopo: fargli male fino a ucciderlo. Non terminò nemmeno il pensiero che il martello gli frantumò il cranio e un dolore acuto gli avvampò nella mente. Non durò a lungo. O forse durò un’eternità, non era più in grado di capirlo. Non era più in grado di capire nulla se non che stava andando lentamente giù, che il mondo come lo conosceva era diventato una spugna, un’enorme spugna scura che lo avvolgeva fino a soffocarlo. Poi anche la spugna si trasformò e divenne un’informe e scura massa di fango. E dal fango spuntarono braccia, mani, dita: dozzine di mani che gli afferravano i polsi e le caviglie, aggrappandosi a lui, trascinandolo giù nel buio. Non aveva più modo di rendersene conto, ma l’uomo con il martello continuò a colpire con furia cieca il suo corpo ormai inerte, chinandosi su di lui, finché, tutto a un tratto, non sembrò accorgersi che la forma raggomitolata sulla moquette era ormai priva di vita. Lo guardò istupidito, come se non si rendesse conto di cosa aveva fatto. L’aria gli sfuggì dai polmoni con un sibilo rauco e la rabbia che aveva fatto di lui una belva si dissolse come fumo. Lasciò cadere l’attrezzo e si portò la mano guantata alla fronte, cercando di dominare l’affanno che gli bruciava in gola, di sfuggire ai ricordi che avevano preso a girargli attorno impazziti. Respirò a fondo, poi scese nel salotto e si avvicinò barcollando al mobile dei liquori. Prese una bottiglia di grappa, raggiunse il divano e ci si lasciò cadere sopra. Portò la bottiglia alle labbra e mandò giù un lungo sorso, poi un altro e un altro ancora. Prima di andarsene, risalì nello studio al primo piano, diede un’ultima disgustata occhiata al cadavere, poi raccolse il martello, ritornò al piano terra, andò alla porta e la aprì. Vicino all’uscio, sotto l’appendiabiti, c’era uno specchio. Non


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riuscì a evitare di guardarsi. E sussultò. Il volto che contraccambiava il suo sguardo era deformato da una smorfia di rabbia. «Fottiti, bastardo» mormorò riconoscendosi. «Sei contento, finalmente?» Uscì tirandosi dietro la porta che si chiuse a scatto e si allontanò nella notte.

3. Tutto era cominciato molti anni prima. Anzi, a ben guardare, molti secoli prima, addirittura quando sulle terre del sacro romano imperatore Carlo V non tramontava mai il sole e da Trento il suo fedele vassallo, il principe vescovo Bernardo II da Cles, corrispondeva allegramente con Erasmo da Rotterdam. Già allora, sui fianchi del monte Prestavél esisteva una piccola miniera, anche se a quel tempo non si estraeva ancora fluorite ma solo galena argentifera. Di fluorite, e di attività estrattiva su scala industriale, si cominciò a parlare solo nel Novecento, verso la metà degli anni trenta, quando venne rilasciata la prima concessione mineraria alla società Atesina, alla quale subentrò cinque anni più tardi la Montecatini. A non essere sempre stata lì era l’escrescenza che solo in epoca recente era sorta al limitare del bosco, deturpando la bellezza solenne della valle di Stava. Era spuntata all’improvviso agli inizi degli anni sessanta, quando gli uomini che ora avevano in concessione la miniera avevano dapprima disboscato una parte della foresta di abeti che chiudeva la valle, proprio a monte del villaggio di Stava, per poi erigere quello che all’inizio era apparso come un piccolo argine di sabbia. Un invaso l’avevano chiamato alcuni. Un terrapieno, altri. Un rilevato, altri ancora. Un bacino di decantazione, avevano spiegato i più informati. Ma nessuno aveva mai osato chiamarlo con il suo vero nome.


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4. Come l’anatomia indicava con un ragionevole margine di certezza, la vittima era un uomo. Per il resto, di certo c’era ben poco. Non il suo volto, ridotto in poltiglia. Non il colore dei capelli, coperti di sangue e materia cerebrale. Non l’età, era un corpo adiposo e dai muscoli flaccidi, che avrebbe potuto avere tanto quarant’anni come sessanta. Era raggomitolato nudo sul tappeto del soggiorno, al primo piano di una piccola villetta a schiera in località Volta di No, una piccola frazione a cinque chilometri dal centro di Riva del Garda, lungo la strada che sale verso Madonna di Campiglio. Un uomo in divisa da agente di polizia e un altro, sui quarant’anni, in borghese, erano in piedi a qualche metro di distanza dal cadavere. Chino su di lui, un terzo uomo in abiti civili gli stava controllando il polso. «È morto» disse alla fine. «Mi dica qualcosa che non so, dottore» biascicò fra i denti l’uomo in borghese. Il medico legale, non sembrò apprezzare la battuta. Tipico, pensò il poliziotto. I medici sono sempre convinti di essere gli unici, con la possibile eccezione dei preti, ad avere il diritto di discutere spassionatamente della morte, senza alcun coinvolgimento emotivo. «Non appena avrò accertato la causa del decesso vi manderò il mio referto» disse Simonini. «Diciamo al più tardi domani sera, salvo complicazioni impreviste.» «Non vedo l’ora di riceverlo, dottore. Ma ho come la sensazione che scoprirà che la morte non è dovuta a cause naturali.» Il medico non ricambiò il suo sguardo. Rimise gli strumenti nella borsa e si avviò verso la scala che portava al piano terra. «Arrivederci, ispettor Costa» disse gelido. Se ne andò senza dare tempo agli agenti di contraccambiare il saluto.


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Costa aspettò che gli uomini della scientifica, usciti sulla terrazza per consentire al medico legale di constatare ufficialmente il decesso, rientrassero nel soggiorno per riprendere a passare al setaccio la scena del delitto. «Allucinante» borbottò fra sé e sé. Poi si rivolse al suo collega. «Allora, Manfrini, ce la facciamo a dare un nome a quest’uomo?» «Forse. La targa sulla porta dice Raffaele Fronza.» Indicò una bolletta della AGS fissata alla porta del frigorifero con una farfalla di legno che copriva un magnete. «E visto che coincide con l’intestazione della bolletta del gas, direi che possiamo ragionevolmente presumere che sia il nome della persona che vive qui.» «Non necessariamente. Mi risulta che questo sia una specie di residence. Se l’appartamento è stato affittato per un periodo breve potrebbero avere lasciato il contratto intestato al proprietario.» «Lo sapremo presto. I ragazzi stanno già controllando con i vicini. Purtroppo il residence è quasi vuoto, al momento c’è solo un altro appartamento occupato, ma è dalla parte opposta. Ci siamo già stati ma sono tedeschi venuti qui in ferie. Dicono di non sapere o avere visto nulla.» Costa sembrava non avere sentito. «Senza contare che non sta scritto da nessuna parte che la vittima sia l’inquilino» disse fissando il vuoto, come se stesse pensando ad alta voce. «Anzi, potrebbe essere proprio lui l’assassino, mentre la vittima è qualcuno che è venuto a trovarlo. Hanno litigato, l’inquilino ha ucciso il visitatore ed è scappato.» Il sovrintendente Manfrini fissò il cadavere con lo sguardo perso. «Se c’è una cosa che scopriremo presto è proprio se il morto e chi abita qui sono o no la stessa persona» mormorò. «Domani stesso avremo i test del DNA. Certo che, chiunque sia stato a ucciderlo, doveva odiarlo davvero tanto per ridurlo in quelle condizioni. Quanto meno, possiamo eliminare la possibilità che si tratti di un’esecuzione pianificata a freddo. Questo è un chiaro caso in cui l’assassino potrebbe essere una donna. Non è il classico delitto commesso da un professionista.»


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«No, vero?» disse Costa. Tirò fuori un pacchetto di MS, ci tamburellò sopra fino a farsene cadere una in mano e se la portò alle labbra, senza accenderla. «E chi l’ha detto che il professionista non possa essere donna?» Manfrini sembrò preso in contropiede. «B-be’, in genere non lo è» balbettò. «Non ho mai sentito che…» «Scherzavo, Manfrini. Però un professionista potrebbe comunque esserlo. Solo che si tratterebbe di un professionista molto furbo.» Si sentì il rumore di un auto arrivare e fermarsi. Costa scese al piano terra. La porta si aprì ed entrò il dottor Baldi, il commissario. «È arrivato il procuratore?» chiese rivolgendosi a Costa senza salutare. «Ha telefonato poco fa che era ancora alle Sarche» spiegò Costa. «Dice che ha trovato traffico. Ci metterà almeno un’altra mezz’ora.» «Si sa chi è?» «Il dottor La Russa.» Il commissario sollevò gli occhi al cielo e sbuffò, poi annuì. «Allora, cosa è successo qui?» «Cadavere al piano di sopra. Ucciso a martellate, probabilmente nel corso della notte. Non abbiamo ancora un’identificazione certa. La segnalazione è arrivata alla centrale operativa poco più di un’ora fa.» «Chi è stato a trovarlo?» «La donna delle pulizie. Viene qui un giorno sì e uno no. È entrata alle otto e mezza e ha visto il cadavere sul pavimento.» «Lo ha riconosciuto?» «Non lo sappiamo ancora, ma da come è ridotto ne dubito. La donna è ricoverata all’ospedale di Arco in stato di shock. Sembra che l’abbia accompagnata il fratello. Ho mandato Bettini a raccogliere la sua deposizione, ma è sotto sedativi.» «E il fratello?» «Ha lasciato l’ospedale dicendo che andava al lavoro. Non siamo ancora riusciti a rintracciarlo.»


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«Chi è stato a segnalarci il fatto?» «L’ospedale.» Il commissario annuì. «Forza, andiamo a vedere.» Si avviarono lungo la scala. Al primo piano gli uomini della scientifica venuti da Trento stavano sciamando nelle due stanze da letto e nel bagno come vespe sopra un campo fiorito.

5. Privo di nome, l’argine di sabbia si è rapidamente innalzato fino a raggiungere l’altezza di nove metri. E lì avrebbe dovuto fermarsi, in attesa che venissero firmate le autorizzazioni necessarie. Perché l’argine contiene fanghi, allo stato quasi liquido. E se raggiungesse l’altezza minima di dieci metri, sarebbe necessario battezzarlo, dargli il suo vero nome, riconoscerlo per quello che era veramente. Una diga. Sì, perché una diga, non solo nella provincia di Trento, ma anche nel resto d’Italia, per essere eretta ha bisogno di speciali autorizzazioni, verifiche, controlli. Ma un rilevato no. Specie se non compare su nessuna mappa o carta topografica che sia, se non ha un nome e, soprattutto, se ufficialmente non esiste.

6. «Vladic?» disse la voce che conosceva bene. «Sì, dottore, dica.» «Abbiamo un problema.» Apollo? Qui Houston. Ricevuto. Ah, avete un problema? Oh, no, davvero? Be’ sapete cosa potete farci del vostro problema? Razza di stronzo. Prova un po’ a chiamarlo quando il proble-


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ma ce l’hai tu, quando sei tu ad avere bisogno di un favore. I vari cellulari sono spenti, ovviamente, e allora sei costretto a chiamarlo sul fisso e, immancabilmente, non riesci a superare lo sbarramento delle segretarie. No, mi spiace, al momento il dottore è in riunione, se mi lascia detto la faccio richiamare… Ti lascio detto cosa, lurida troia? Ti lascio detto che ho bisogno che il tuo riverito dottore mi trovi in gran fretta un appartamento di tre locali in affitto in centro, a un prezzo di favore perché mi hanno dato lo sfratto e ho due figli che vanno a scuola e non posso trasferirmi di punto in bianco in alta val Rendena o a San Martino di Castrozza? Non glielo puoi dire, primo, perché sei al telefono e non si sa mai chi controlla i telefoni di questi tempi; secondo, perché non vai certo a raccontarlo a lei, alla segretaria, che stai chiedendo un piacere, una raccomandazione, qualcosa a cui i cittadini normali non hanno diritto. E allora le dai nome e numero di telefono e lasci detto di richiamarti, tanto lo sai che non lo farà mai e dovrai essere tu a richiamare, decine di volte, prima di riuscire a parlare con il dottore. Ma siccome adesso è proprio il dottor Bleggi ad avere un problema, allora il dottor Bleggi ti chiama sul cellulare speciale, quello con la scheda svizzera, quello che devi tenere sempre acceso e devi anche rispondergli al primo squillo e dirgli sì dottore, perché lo sai benissimo che quasi sicuramente ti assegnerà un altro incarico, in cambio del quale riceverai dei bei soldoni extra, sui quali non dovrai pagare un centesimo di tasse e non dovrai nemmeno renderne conto a tua moglie, che in fatto di avidità si lascia alle spalle la stessa agenzia delle entrate. «Che tipo di problema?» «Immagino abbia letto i giornali. E se non lo ha fatto, lo faccia subito. Cronaca di Riva.» «Li ho letti, dottore. Immagino si riferisca alla cronaca nera. Non si parla d’altro.»


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«Già. Per fortuna non tutti i particolari sono stati divulgati. Siamo riusciti a evitare che certe informazioni filtrassero alle agenzie di stampa. Dobbiamo rintracciare del materiale.» Mirko Vladic non chiese di che tipo di materiale si trattasse. Un gestore di telefonia svizzero non è soggetto all’obbligo di consegnare le registrazioni delle conversazioni alla magistratura italiana, ma questo non vuol dire che il numero sia completamente sicuro. Per quanto ridotto, esiste sempre il rischio che un fottutissimo hacker figlio di puttana, o anche solo un radioamatore con uno scanner, riesca a intercettare la frequenza. «Cosa devo fare?» «Vediamoci domani sera alla dieci e un quarto. Solito posto.» In codice significava quella stessa sera alle nove e un quarto. Un giorno e un’ora prima. Quale diabolica astuzia. In gioventù il dottore doveva essere stato un grande appassionato dei film di James Bond. «Ricevuto» confermò Vladic. «Passo e chiudo.»

7. Un bacino di decantazione è parte integrante del processo produttivo di una miniera. Per essere utilizzato il minerale deve infatti venire prima separato dal prodotto greggio tramite un processo detto di flottazione, con il quale il materiale estratto in miniera viene macinato finemente e lavato con acqua, schiumogeni e solventi. Il residuo di questo processo è un fango molto liquido con una forte presenza di sostanze chimiche inquinanti, che viene depositato a decantare in grandi bacini per poi essere smaltito. Ed ecco allora che nel 1961, la Montecatini, che ha bisogno di fluorite per la sua industria chimica ed è titolare della concessione per la miniera, costruisce un impianto di flottazione sulle pendici del Monte Prestavél e chiede l’autorizzazione al Genio Civile di Trento a costruire un “rilevato” nella val di Stava, a monte del vil-


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laggio omonimo, «onde decantare l’acqua proveniente dall’impianto di flottazione e restituirla chiarificata al rio Stava». È solo una formalità. L’autorizzazione viene concessa e così, a un’altitudine di oltre milletrecento metri, un terrapieno comincia a sorgere dal nulla, e nel giro di pochi giorni fra i prati della idilliaca val di Stava nasce il primo bacino di decantazione. Visto dall’alto appare solo come un laghetto d’acqua torbida. Visto da sotto è ben più minaccioso: un enorme muro di terra che fa a pugni con il paesaggio e incombe minaccioso sull’abitato. Ogni tanto, qualcuno alza lo sguardo in direzione dell’invaso. È brutto, emana uno strano odore, sembra un animale strano, in letargo. Ma in fondo, porta anche lavoro. E come fai a vivere senza lavoro? Un prezzo dovrai pure pagarlo.

8. «Allora, ricapitoliamo» disse l’ispettore Costa posando sulla scrivania il referto del medico che aveva effettuato l’autopsia sul corpo della vittima. «Causa della morte, avvenuta intorno alle 23.30 di mercoledì 8 luglio, trauma cranico. La vittima era effettivamente la persona che abitava nella villetta: Raffaele Fronza, 62 anni, nato a Trento, di professione ingegnere minerario. Da un paio d’anni direttore tecnico della discarica di rifiuti situata nel comune di Tenno.» Costa alzò gli occhi e fissò Manfrini. «La discarica. Sbaglio o di questa discarica è un po’ che se ne parla?» «Non sbagli» disse Manfrini. «Sono mesi che ci sono proteste per il traffico notturno di camion che arrivano da ogni parte di Italia. Gli ambientalisti sostengono che si tratta di rifiuti tossici che nessuno vuole e che potrebbero inquinare la falda acquifera.» «E li portano proprio qui?» intervenne Costa sarcastico. «Allucinante. Fammi capire, Manfrini: il Trentino, l’oasi verde, che accetta sul suo territorio rifiuti inquinanti di altre regioni?


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Non ci posso credere. Se ricordo bene quando c’era stata la questione dei rifiuti della Campania, il governatore Dellai si era rifiutato di accettarli perché qui si smaltisce solo spazzatura prodotta sul proprio territorio, non è così?» «Sì, è vero» confermò Manfrini. «Ma lo sai anche tu come vanno le cose dalle nostre parti.» «Dalle tue parti, Manfrini. Io, per quanto cresciuto a Trieste, sono nato a Cortina e Cortina è in Veneto fino a prova contraria… Anche se da come vanno le cose al giorno d’oggi potrebbe non rimanerlo a lungo. Ma tornando alla discarica, può entrarci secondo te?» «Delitto di ecomafie?» Manfrini scosse il capo, deciso. «Mi sembra molto improbabile. Lo sai anche tu che qui la mafia c’è ma non uccide. No, il delitto mafioso non mi pare un’ipotesi percorribile.» «Sarà, ma da qualche parte dobbiamo pure cominciare.» «Appunto.» Manfrini fissò il suo superiore con un certo orgoglio. «Ero proprio venuto a dirti che non vale la pena di perdere il nostro tempo a verificare piste fantasiose quando ne abbiamo già una che promette di essere quella giusta.» «E cosa aspetti a dirmela? Che ce la estorca il commissario con la forza?» «Dammi tempo. L’ho appena scoperto. Allora, ricordi che ti ho detto che secondo me quel tipo di delitto aveva la firma di una donna?» «Sarebbe stata una donna?» «Non proprio, ma quasi.» «Cristo santo, Manfrini, non mi fare perdere la pazienza. Chi è stato?» «Alt, non corriamo troppo. Chi potrebbe essere stato. Allora, cominciamo con i fatti. Fronza aveva una relazione omosessuale. E non con un coetaneo, ma con un ragazzo.» «Minorenne?» «No, ma poco ci manca. Diciotto anni. Ne compie diciannove fra tre mesi.»


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«Legalmente non perseguibile, anche se forse un po’ disgustoso.» «Andiamo, capo, lo sai anche tu che oggi l’omosessualità è accettata...» «Mi riferivo alla differenza di età, non agli orientamenti sessuali. In ogni caso non è compito nostro occuparci di cosa disgusta o meno i cittadini, ma solo di reati. Vai avanti. Chi è questo moccioso che si fa sbattere da un vecchio che potrebbe essere suo nonno?» «Tal Ovidiu Stanciu, detto Roberto. Cittadino rumeno, residente a Rovereto dal 1995 ma, a quanto abbiamo appurato, domiciliato a Riva. È probabile che lo facesse per soldi, visto il tipo. Vuoi sapere cosa ne penso?» «Non vedo l’ora.» «È stato un delitto passionale, come sostengo fin dall’inizio. Pare che lo Stanciu sia bisessuale e abbia una relazione stabile anche con una donna, una messicana, che però non abbiamo ancora identificato. Forse Fronza era venuto a saperlo, forse aveva solo dei sospetti, comunque sia, metti che abbia affrontato lo Stanciu, i due abbiano litigato, la cosa sia degenerata, magari è Fronza a colpire per primo, lo Stanciu perde la testa, afferra il primo oggetto che gli capita sotto mano e lo colpisce ripetutamente alla testa. Quando si rende conto di cosa ha fatto, scappa. Cosa te ne sembra? Bella come ricostruzione?» Costa restò zitto solo un paio di secondi. «Fin troppo» disse poi. «Ma non vedo perché devo perdere il mio tempo a fare congetture. Cosa dice il rumeno? Lo avete interrogato?» «E come? È sparito. Dalla notte del delitto nessuno lo ha più visto in città.» Costa non disse nulla, ma aggrottò le sopracciglia. Manfrini sembrò assaporare la soddisfazione di essere riuscito per una volta a sorprendere il suo diretto superiore. «Bene» disse l’ispettore alla fine, «mettiamogli il telefono sotto controllo e segnala i dati alla Questura di Trento. E apri un fasci-


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colo su di lui. Dirò a Baldi di chiedere a La Russa di inserire il nome di Ovidiu Stanciu nel registro degli indagati per l’omicidio di Raffaele Fronza. Si sa dove abitava?» «Stava in un appartamento in affitto all’Albola. Ho già chiesto che preparino il mandato e questo pomeriggio ci faremo aprire la porta dal proprietario.» «Bene.» «Sono arrivati i primi risultati della scientifica?» «Non ancora. Ma se riusciamo a recuperare campioni di DNA dello Stanciu da casa sua per confrontarli con quelli raccolti nella villetta del Fronza, sapremo per certo se il rumeno è entrato o meno in quella casa.» Costa raggruppò i fogli sparsi sulla scrivania, li ripose in una cartella e si alzò. «Ottimo lavoro, Manfrini» disse. «Ora mi aspetta il commissario. Datti da fare e ci sentiamo stasera.»

9. Il terrapieno che deturpa la valle non poggia su basi solide, ma su un acquitrino che non assicura la stabilità sufficiente. La zona, infatti, è stata scelta non in seguito a un accurato studio geologico, ma unicamente sulla base di considerazioni di natura economica. Deve essere il più vicino possibile agli impianti. Neanche a farlo apposta, viene scelto il punto peggiore. Non solo, come verrà appurato più tardi, l’argine è cronicamente instabile, ma è anche posizionato proprio a monte di un centro abitato. Se dovesse cedere sarebbe una strage. Ma il villaggio di Stava non è popolato da geologi e nemmeno da ingegneri minerari. È abitato da persone normali, da famiglie che vivono là da generazioni, per lo più contadini. E nessuno si preoccupa. La miniera non appartiene al primo imbecille passato da quella parti per caso. La miniera è della Montecatini. Quella è gente che


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sa il fatto suo, che ha a disposizione i migliori esperti del paese, se ha investito dei soldi, avrà pur fatto le sue valutazioni, no? No, non c’è da preoccuparsi. Possiamo dormire sonni tranquilli, si dicono gli abitanti di Stava.

10. Butch chiuse la comunicazione e posò il telefono. Gli girava leggermente la testa, come se avesse bevuto un paio di bicchieri di prosecco a stomaco vuoto. Quanti anni erano passati dall’ultima volta che si erano sentiti? Quattro? Cinque? Eppure aveva immediatamente riconosciuto la sua voce. Butch? Era bastata quella parola. Non c’era stato bisogno che aggiungesse altro. Niente sono io, sono Sigrid, ti ricordi di me? Solo Butch. Per un attimo nessuno dei due aveva detto nulla. La loro era una relazione mai decollata. All’inizio era stata lei a manifestare interesse. Lui aveva fatto finta di niente. Non tanto nei suoi confronti, cosa che sarebbe potuta rientrare in una comprensibile tattica di prime schermaglie amorose, quanto con se stesso, negandosi ogni possibile apertura e gettando secchi d’acqua gelida sull’attrazione che provava per lei. Non poteva permettersi di allacciare una relazione con una donna, non con una che lo prendeva in modo così coinvolgente. Non allora, quando non si sentiva ancora libero. Anche se la sua relazione con Adriana era terminata da secoli, era dolorosamente consapevole che la sua era ancora una presenza ingombrante nella sua vita. E come avrebbe potuto non esserlo? Agguerrita psicologa post femminista dotata di una lingua abrasiva, Adriana non solo era saldamente radicata nella convinzione di aver sempre ragione, ma era anche in grado di dimostrarlo in qualsiasi discussione e con ogni interlocutore.


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Nel corso degli anni non aveva mai smesso di vigilare sul suo benessere spirituale; di assicurarsi che tutto gli andasse bene; e soprattutto, di spiegargli che solo lei lo aveva amato, anzi, lo amava ancora e lo avrebbe amato sempre, che nessun altra lo avrebbe amato, che l’amore non aveva nulla a che vedere con il sesso, che il fatto che lei avesse posto fine a un certo tipo di relazione intima, ovviamente a causa dei numerosi limiti e disturbi della personalità di Butch, non significava che avesse smesso di provare affetto per lui. La relazione non era terminata, semplicemente si era spostata su un altro, più nobile, piano. E come manifestava nella realtà quotidiana questo profondo, disinteressato affetto? Telefonandogli ogni dannato momento per informarsi sul suo stato di salute mentale e consigliargli come comportarsi nei pericolosi frangenti che ogni giorno la vita gli metteva di fronte, ecco come. No, non era libero. Né mai lo sarebbe stato fino a che non avesse preso la decisione di guardare Adriana negli occhi e dirle, esattamente, cosa poteva farsene di tutta la sua ampia e sfaccettata comprensione del mondo. Restò a lungo senza dire nulla e solo un attimo prima che il silenzio diventasse imbarazzante, riuscì finalmente a spiccicare due parole. «Come stai?» Bravo, Butch. Bravo. Molto originale. Ah, sì? Be’, sai cosa ti dico? Fanculo l’originalità. Me lo spieghi tu come faccio a sapere che quella non è nella fase terminale di un cancro al pancreas, eh? Cinque anni che non senti una persona per cui provi qualcosa e la prima reazione che hai è quella di informarti sul suo stato di salute, che cazzo c’è di male? Mica devi essere originale per forza. Hai provato a immaginare cosa succederebbe veramente a volere essere originali fino in fondo? «Pronto, Butch? Ciao sono Artemisia (o Gelsomina, Filomena, vedi tu).»


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«Artemisia? Ma dai, che sorpresa. Cazzo vuoi da me brutta stronza?» «Ma Butch…» «Ma Butch i miei coglioni, doppiamente stronza! Vedi un po’ d’andare a dare via il culo da n’altra parte invece che scassare la minchia a me.» Ecco cosa succederebbe. Più originale di così... «Sto bene» aveva risposto lei. «E tu?» Ecco, non è che invece lei in quanto a originalità fosse tanto meglio. Tante volte vai a preoccuparti di qualcosa e poi scopri che gli altri nemmeno ci fanno caso. «Sto bene anch’io.» «Fai sempre lo stesso lavoro?» «Non mi hanno ancora tolto la licenza, se è questo che intendi, per cui continuo a fare l’investigatore privato. Anche perché, a parte scaricare camion al mercato della frutta, è l’unico lavoro che so fare. E tu come te la passi, insegni ancora yoga?» «Non più così spesso come un tempo. Adesso lavoro per i servizi sociali della provincia di Trento. Aiutiamo gli immigrati a inserirsi.» «Dovrebbe piacerti.» «Sì, abbastanza. Mi piace credere che quello che faccio serva a qualcosa.» «Sono sicuro che è così.» «Credimi, c’è un abisso fra quello che riesco a fare e quello che potrei fare impegnando la stessa quantità di energia e risorse, semplicemente usandole meglio.» «E allora perché non le usi meglio?» «Sarebbe un discorso troppo lungo e ti ho chiamato per un’altra ragione.» E così lo aveva chiamato per una ragione. Si accorse di essere leggermente deluso. Per qualche attimo la sua mente aveva giocherellato con l’idea che lo avesse chiamato solo per il gusto di sentirlo. Di scambiare qualche parola con lui.


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«Ah, e per cosa mi hai chiamato, allora?» disse cercando di non fare trapelare il disappunto che gli foderava la voce. Non era sicuro di esserci riuscito. «Mi stavo chiedendo se poteva interessarti un incarico per conto di un cliente che però non ha molti soldi.» «Be’…» «Voglio dire, non devi accettare per forza solo perché te lo chiedo io, Butch. So quanto è difficile la vita in questo periodo per chi non ha la fortuna, come me, di lavorare per gli enti pubblici. O comunque di avere un lavoro fisso.» «No problem. Di che razza di incarico si tratta?» La storia, a sentire Sigrid, era semplice nella sua agghiacciante brutalità. Poco lontano da dove viveva, un uomo era stato massacrato a martellate. Secondo la polizia, il presunto assassino era un ragazzo di diciannove anni di nome Ovidiu Stanciu, conosciuto da tutti come Roberto, figlio di una rumena che frequentava il centro di assistenza immigrati presso il quale Sigrid lavorava come volontaria. Terrorizzato, il ragazzo, che da qualche tempo aveva lasciato la casa della madre a Rovereto per trasferirsi a Riva del Garda, era scomparso. La polizia sosteneva che Roberto e la vittima, un ingegnere di sessantadue anni, avessero una relazione omosessuale e che l’omicidio fosse avvenuto in seguito a una lite scaturita dalla gelosia del vecchio, il quale da tempo accusava il suo giovane amante di avere un’altra relazione. Sempre secondo le ricostruzioni della polizia, la lite era degenerata e Roberto aveva ripetutamente colpito l’ingegnere fino a ucciderlo. Dopo il delitto il ragazzo era scappato in stato di shock e ora si stava nascondendo da qualche parte. Nonostante le accurate ricerche, la polizia non era ancora riuscito a trovarlo. La signora Maria, madre del giovane, non aveva alcun dubbio sugli orientamenti sessuali di suo figlio. Non l’aveva forse cresciuto con sani principi cristiani? E anche per quanto riguardava l’omicidio, che aveva chiaramente fatto intendere di considerare di gran


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lunga il minore dei due crimini, era fin troppo evidente per chiunque lo conoscesse che non poteva essere stato Roberto a commetterlo. La signora Stanciu si aspettava quindi che Butch riuscisse là dove la polizia aveva fallito: rintracciare il figlio e convincerlo ad affrontare la giustizia, nella granitica certezza che, non appena giudici e poliziotti avessero visto il suo volto d’angelo, non avrebbero potuto fare a meno di riconoscere che un così bel giovane non poteva essere colpevole degli orrendi delitti di cui era accusato. In sostanza, la cosa che più preoccupava Maria era che, con la sua latitanza, Roberto stesse peggiorando la sua posizione, trasmettendo alle autorità l’impressione di avere qualcosa da nascondere. La donna era sicura che, se solo avesse potuto parlare con il ragazzo, sarebbe riuscita a infondere un po’ di buon senso nella sua giovane mente. Ma per parlargli doveva prima rintracciarlo. E come poteva riuscire da sola là dove perfino la polizia aveva fallito? Da avida spettatrice di serie televisive poliziesche sapeva bene che esistevano gli investigatori privati: persone che, in cambio di un compenso, fanno quello che la polizia non può o non vuole fare. Ma come trovarne uno onesto? E, soprattutto, come avrebbe potuto, con il suo misero stipendio di badante, pagare le esose parcelle che sicuramente le avrebbe chiesto? Era stato allora che Sigrid, commossa dal suo dolore, le aveva suggerito il nome del suo amico, il campione di indagine e deduzione Bruno Moroni detto Butch, private eye straordinario e unico titolare della NPI, la No Problem Investigation, di Milano. Butch si era già convinto che il caso fosse disperato. Oltre al fatto che non gli avrebbe fruttato un soldo, le possibilità di trovare il ragazzo prima delle forze dell’ordine erano praticamente nulle. Chiaro, no? Un incarico inaccettabile. Non valeva la pena nemmeno di discuterne. E invece le parole gli sfuggirono di bocca prima che potesse rendersene conto. «Posso provarci, Sigrid. Potrei essere da te domani verso mezzogiorno.»



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