verdenero 20
noir di ecomafia
Paolo Roversi Pescemangiacane © 2010, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2010, Paolo Roversi Immagine di copertina: © Alex Fleming/Shutterstock, © woraput/Shutterstock Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di maggio 2010 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)
Gli autori devolvono una parte delle proprie royalties al progetto SalvaItalia di Legambiente. VerdeNero è una campagna di mobilitazione contro l’ecomafia e il silenzio che l’avvolge, un’occasione concreta per affermare nel paese una nuova cultura della legalità a difesa dell’ambiente. Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
PAOLO ROVERSI
PESCEMANGIACANE
A mio padre e alla gente del fiume
1
la voce grossa del fiume
I «Il fiume dà e toglie: la gente della Bassa è abituata a convivere con questa realtà.» I racconti di mio zio iniziavano sempre con le stesse parole. La sera, dopo una lunga giornata di pesca, quando le braci ancora rosse riscaldavano la stanza e nei piatti non restavano che le lische. Grappa o nocino nel suo bicchiere. Io seduto sul pavimento di pietra della cascina, accanto al camino: le storie della gente del Po. «Il giorno in cui il fiume fece la voce grossa, 12 novembre 1951. Quei momenti sono rimasti impressi a fuoco nella mia memoria. Impossibile scordare il grande, gonfio fiume nero che corre via nel vuoto della Bassa. Sempre quando fa freddo, quando siamo più indifesi... Ma non si può odiare il fiume. Ci provi quando accadono disgrazie del genere, ma non ci riesci. Il Po è parte di te. Lo diventa piano piano, sin da quando sei piccolo e ti portano a vederlo per la prima volta, una passione che cresce giorno dopo giorno, che ti scava dentro finché non ci puoi più fare niente. È lì, lento e maestoso, e pretende rispetto. L’Eridanio per i greci, il Padus per i romani, il Bodincus per i celti. Seicentocinquantadue chilometri, sedici milioni di persone che vivono sulle sue sponde. Quella volta finì con centottantamila persone costrette ad abbandonare case e averi, e ottantaquattro vittime. Il basso Polesine sommerso: il Po aveva rotto gli argini ruggendo.
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L’Italia povera del 1951, allora, si mobilitò: arrivammo da ogni parte, ci sentivamo tutti uniti. Eravamo la gente del fiume, una sorta di famiglia allargata. Ciascuno sentiva di aver perso qualcosa. Arrivarono anche dalle altre regioni: dalla Puglia, dalla Calabria, dalle Isole; persone che già non sapevano come provvedere ai loro bisogni, alle loro disgrazie, venute comunque per dare una mano. Aiutavano, rincuoravano. Proprio come sarebbe accaduto nel 1966 a Firenze: tutti italiani, tutti insieme, tutti a ricostruire dopo la furia dell’Arno di quel 4 novembre. Nei giorni precedenti, anche qui nella Bassa, ogni ora si andava a controllare il fiume sull’argine. Conoscevamo il Po. Non ci fidavamo. E infatti accadde, più a valle, ma accadde. Non dovrebbero esserci case abitate nelle golene, i campi fra il grande fiume e le seconde difese, ma nessuno, nel Polesine degli anni Cinquanta, poteva dire no alla povera gente che viveva a polenta ed erbe. Quasi subito arrivarono gli sciacalli da Modena e da Reggio per comprare sottocosto case e animali. La natura umana è sempre la stessa: mors tua vita mea. Ci ritrovammo in tanti nella piazza del paese: tutti ammassati su un camion. Non c’era stato bisogno di consultarsi, di discutere. Appena la radio aveva dato la notizia ci eravamo radunati lì, pronti a partire. Gente del fiume che aiuta altra gente del fiume. Fu una tragedia in bianco e nero quella, niente tv, le notizie arrivavano solo da radio e giornali. Ma non per questo facevano meno paura. Partimmo all’alba per arrivare all’immenso lago che il Po aveva formato da Occhiobello fino al mare. I primi giorni era torbido di fango: carogne di animali, alberi divelti, mobili trascinati da correnti e gorghi. Ci caricarono su delle barchette. Navigavamo a vista nel grande acquitrino; a vista di campanili dato che i borghi sommersi dall’acqua non si vedevano. Bisognava guardare gli alberi in cerca dei superstiti, scampati arrampicandosi fra i rami come scoiattoli; intirizziti dalla fame e dal freddo. Li dovevamo tirar giù a forza e avvolgere in coperte.
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Il secondo giorno vidi un uomo che si agitava in piedi sulla carcassa di un vecchio Landini. L’unico sopravvissuto di sei o sette che erano riusciti a salire sul tetto di una cascina quando l’acqua aveva cominciato a crescere. Andammo a prenderlo ma non voleva venire; non riusciva quasi a parlare: suo figlio di otto anni era stato l’ultimo a scomparire nell’acqua. Era distrutto. Dopo qualche giorno riuscimmo anche a rompere l’isolamento di Adria. In città c’erano più di trentamila abitanti ma sembrava un luogo infestato dai fantasmi. C’era un nebbione tremendo. Il nostro convoglio di anfibi si muoveva lento come un branco di pachidermi. La via principale si era trasformata in una specie di Canal Grande: la gente affacciata agli ultimi piani dei palazzi ci festeggiava. Ci capitò di passare davanti al bordello del paese. Le signorine applaudivano e salutavano: avevano alzato anche una bandierona tricolore. Sembravamo gli americani che venivano a liberarli. Liberarli dalla paura, dalla furia del fiume. Oggi è tutto ricostruito, tutto dimenticato: cinquantadue ponti caduti, milleduecento abitazioni danneggiate, cinquantacinquemila ettari di coltivazioni coperti di sabbia, tredicimila capi di bestiame morti, centosettantaquattromila sfollati che sono andati a vivere altrove, e più di ottanta morti. La voce grossa del fiume.» II Quaranta giorni senza pioggia. Il fiume ridotto a un rigagnolo. L’alveo scoperto, trafitto da crepe e rami secchi. Golena d’erba gialla e terra aguzza. In quella radura desolata e polverosa si schiattava dal caldo; nemmeno un’ombra a pagarla oro. Il maresciallo Barillà si asciugò la fronte con il fazzoletto di seta nero, sbuffando. L’avevano tirato giù dal letto all’alba. La solita procedura d’urgenza, come se ce ne fosse effettivamente bisogno: quando lo chiamavano, in genere, il danno era già stato fatto. Inutile affrettarsi quindi.
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Al telefono la voce roca del grande capo del nucleo operativo di Milano, il tenente Colombo. Grado e cognome su cui era meglio non scherzare. Parecchi dei suoi commilitoni l’avevano imparato a furia di giorni di rigore. La chiamata era arrivata a casa, dato che il cellulare di servizio era spento. Poche parole; anzi un solo ordine: «Vai» e l’indirizzo di un luogo sperduto nella Pianura Padana. Riva di Suzzara, settecento anime a vegliare fra il grande fiume e il nulla. Centosessanta chilometri esatti dal suo appartamento. E soprattutto la fatica di doversi separare dal corpo caldo a cui era avvinghiato. Per cosa poi? Non era ben chiaro. Un morto. Ammazzato forse. In ogni caso che diavolo c’entrava lui? Il mal di testa per il poco sonno e la calura di quel giorno non lo aiutavano certo a ragionare, così la smise di farsi domande. In macchina il tenente l’aveva richiamato, giusto per precisare che era stata la dottoressa a chiedere espressamente di lui. Barillà si fece bastare quella spiegazione che, nelle intenzioni del suo superiore, doveva essere sufficiente per convincerlo a lavorare anche nel suo giorno di riposo. La rogna sarebbe toccata a un altro, di regola; al fortunato di turno, ma la dottoressa aveva chiesto espressamente di lui. Vai a sapere perché. Ormai comunque era lì, l’avrebbe scoperto. Accese una Camel. Caldo per caldo tanto valeva darsi fuoco e farla finita. La luce della fiamma si riflesse nelle lenti a specchio dei suoi Ray Ban. Assomigliare a uno dei Village People non lo disturbava. Aveva una pistola e gli piaceva menare le mani: in pochi si sarebbero permessi il lusso di fare dell’ironia a riguardo. Un appuntato con la faccia da faina gli si parò davanti. Uno sbarbato con la divisa zuppa di sudore per il sole di mezzogiorno. «Non si può stare qui» esordì. «Se ne deve andare.» Barillà non era in divisa. Non la metteva mai. Indosso aveva solo un paio di jeans, una camicia azzurra con le maniche arrotolate e la valigetta con l’attrezzatura. Mostrò il tesserino.
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«Sono un collega, fammi passare.» «Noe?» «Non ci chiamiamo più così. Ora siamo solo i Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente, CTA.» «Ma fate sempre le stesse cose, no?» Barillà non ritenne opportuno continuare quella discussione e passò oltre senza più degnare l’appuntato di uno sguardo. Il magistrato Federica Della Lovere osservò il maresciallo camminare lentamente nella sua direzione. Aria accigliata e sigaretta a un angolo della bocca. Espressione da mastino mitigata soltanto da un paio di mustache alla Freddy Mercury, curatissimi. Alto e ben piazzato. Avevano già lavorato insieme in un paio d’occasioni. Facile inquadrare il tipo: tronfio, pieno di sé, supponente. Uno stronzo, in una parola. «Buongiorno» lo salutò abbozzando un sorriso. Il militare si limitò a un cenno del capo. «Si può togliere gli occhiali per favore? Vorrei vederla negli occhi quando le parlo.» «No.» «Affabile come sempre vedo.» Barillà non perse ulteriore tempo in convenevoli. «Il morto dov’è?» La donna gli fece cenno di seguirla. III Sull’isola non pioveva mai. Le nuvole si rincorrevano per tutto il giorno ma non lasciavano cadere nemmeno una goccia d’acqua. Quella volta mio zio mi aveva portato lì in vacanza per una settimana: la mia iniziazione alla pesca d’altura, nell’oceano. Era la prima estate senza i miei; avevo otto anni. Ricordo l’acqua nera, al largo, prima dell’alba. Piano piano cambiava colore, fino a esplodere d’azzurro.
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«Perché usciamo così presto?» chiedevo stropicciandomi gli occhi. «I pesci dormono ed è più facile catturarli. Hanno gli occhi aperti ma dormono.» Rientravamo per pranzo con la rete piena di prede. Mangiavamo e poi, mentre lui puliva il pesce e preparava l’attrezzatura per il mattino successivo, mi lasciava giocare sulla lunghissima spiaggia di sabbia dorata. Diversa da quella del fiume. Anche i pesci che catturavamo erano diversi. «Nel fiume sono piccoli» diceva mio zio. «Ma anche più astuti.» Non ho mai capito se dicesse sul serio o se mi prendesse in giro. Così come sul fatto che dormissero con gli occhi aperti. Questo anni fa. Ora i pesci grossi li trovi anche nel fiume. Enormi e paurosi. I lucci sono solo vecchi e sbiaditi ricordi. Pesciolini. Così come il conte Dracula del fiume Po. Importato dall’est, ha denti da vampiro, occhi luminescenti ed è un vagabondo notturno assetato di prede. Si chiama lucioperca. A vederlo fa paura: i suoi occhi, fuori dall’acqua, brillano di luce propria per lo strato di sostanza fluorescente che li ricopre e che riflette come uno specchio la luce. Può arrivare a quasi un metro e mezzo per quindici chili. Robetta. Non sto parlando nemmeno dello storione, animale maestoso, famoso per le sue carni pregiate e il caviale. Come specie può arrivare a cento anni di età, cinque metri di lunghezza e un peso di trecento chili, ma in Italia non sono mai stati catturati esemplari più lunghi di un paio di metri. Quindi nemmeno lui è il re del fiume. Ora le acque del Po sono il terreno di caccia di un pesce privo di predatori naturali, arrivato qui grazie alla stupidità umana. Può raggiungere dimensioni ragguardevoli e forse per questo gli è stato affibbiato un nome da guerra sottomarina, siluro.
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IV L’uomo era disteso bocconi, la testa seppellita in una montagna di sabbia fino alle spalle. Macabra parodia di uno struzzo: il corpo all’esterno e il capo sotterrato. «Il suicidio è fuori questione direi» ironizzò Barillà. Il magistrato non ribattè alla boutade. Era chiaro a entrambi che la vittima era stata sistemata in quella posizione volutamente. «Come avete fatto a trovarlo?» chiese il maresciallo. «Una segnalazione anonima al 113.» Il militare stava per dire qualcosa ma la donna lo precedette. «Nel caso se lo stia chiedendo, abbiamo controllato: chiamata effettuata da una cabina con una scheda che a quest’ora sicuramente sarà nella spazzatura.» «Perché mi avete fatto venire? Non mi occupo di omicidi io.» «Lo so bene, Barillà: l’ho fatta chiamare perché lei conosceva la vittima.» Il maresciallo ebbe un moto di sorpresa ma non disse nulla. «Gli abbiamo trovato i documenti in una tasca dei calzoni» proseguì il magistrato. «Evidentemente l’assassino voleva che lo identificassimo subito. Si chiama Giancarlo Gherardi. Le dice qualcosa questo nome?» Alla donna parve di scorgere una contrazione sulla bocca del maresciallo. Barillà si piegò sulle ginocchia per esaminare il corpo, senza toccarlo. Camicia Lacoste a mezze maniche, pantaloni Armani, Hogan ai piedi, Rolex d’oro al polso. Certo che lo riconosceva: era proprio Gherardi, un imprenditore edile della zona. Durante l’interrogatorio – cui l’aveva sottoposto la settimana precedente – si era tormentato il polso per tutto il tempo, allacciando e slacciando il cinturino dell’orologio. Ora non l’avrebbe più fatto. Il maresciallo guardò la Della Lovere annuendo. Le mosche ronzavano a schiere intorno al cadavere, il caldo diventava sempre più soffocante.
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«Contate di lasciarlo così tutto il giorno?» domandò rialzandosi in piedi. «Non faccia lo spiritoso maresciallo: aspettavamo lei per procedere.» «Beh dottoressa come vede ora sono qui.» Il magistrato emise un sospiro, poi fece un segno d’assenso e quelli del RIS, impacchettati nelle loro tute bianche, iniziarono a fotografare e a imbustare indizi. Dopo qualche minuto il cadavere di Gherardi venne liberato dalla sabbia e sistemato sulla schiena. Faccia gonfia, occhi sbarrati. Il medico legale, un uomo sui quaranta con i capelli raccolti in una coda e la barba di due giorni, piegò il volto del morto verso gli inquirenti affinché lo vedessero bene. «È lui, non ci sono dubbi» confermò il maresciallo. «Non presenta ferite evidenti né segni di violenza» osservò il medico. «E quelli?» La Della Lovere indicava dei piccoli fori presenti su entrambi gli avambracci. «Sembrano tracce di un ago. Iniezioni, forse.» Barillà si piegò per vedere meglio. «L’hanno rivestito» disse. «Prego?» Il maresciallo mostrò al magistrato un bottone della camicia. «Hanno saltato un’asola. Nessuno da vivo si abbottonerebbe così, la camicia rimarrebbe tutta storta... L’hanno rivestito.» «Magari prima l’hanno drogato.» «Lo scopriremo dalle analisi.» «Un’idea della causa della morte?» domandò la Della Lovere. «Nessuna per ora.» «Ora del decesso?» «Fra le sei e la mezzanotte di ieri» suggerì Barillà. Il magistrato si voltò a guardarlo.
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«E lei che ne sa?» «L’orologio cammina ancora. Quel tipo di Rolex con carica a bilanciere funziona per circa diciotto ore senza carica.» «È morto da dodici ore» decretò alla fine il medico legale estraendo il termometro dal fegato della vittima. «A mezzanotte quindi.» «Almeno faceva fresco a quell’ora» sbottò il maresciallo rimettendosi in piedi. «Abbiamo finito qui?» chiese poi rivolto al magistrato. La donna lo scrutò con fastidio, ritrovando la propria immagine riflessa nelle lenti a specchio. «Non ancora. Secondo me dovrebbe prelevare un campione di questa sabbia...» «Io?» «Lei, Barillà. Vuole che le spieghi anche perché?» Il maresciallo scosse la testa; aprì la valigetta e si mise al lavoro.