tascabili dell’ambiente
Vandana Shiva
campi di battaglia biodiversitÀ e agricoltura industriale titolo originale Tomorrow’s Biodiversity © Vandana Shiva pubblicato in Italia su concessione di Thames & Hudson LTD, Londra traduzione Anna Bruno Ventre, Carlo Modonesi, Marco Moro realizzazione editoriale Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it edizione italiana a cura di Gianni Tamino coordinamento redazionale Diego Tavazzi progetto grafico: GrafCo3 Milano immagine di copertina: Alexandr Vlassyuk / Shutter © 2009, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax. 02 45487333 ISBN 978-88-96238-17-2 Finito di stampare nel mese di ottobre 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100%
Vandana Shiva
campi di battaglia BiodiversitĂ e agricoltura industriale
sommario
introduzione
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di Gianni Tamino
prefazione alla nuova edizione
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di Vandana Shiva
prefazione
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che cos’È la biodiversitÀ e perché È così importante
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la famiglia terra e la miniera genetica
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modificazioni genetiche e cibo frankenstein
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bioinquinamento e biosicurezza
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avere la nostra torta (e mangiarcela)
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il futuro della biodiversità
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bibliografia selezionata e fonti
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note
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di Gianni Tamino
introduzione di Gianni Tamino
Sono passati quasi dieci anni dalla stesura originaria del libro Tomorrow’s Biodiversity di Vandana Shiva, eppure, nonostante il tempo trascorso, questo testo mantiene intatta la sua attualità. Anzi, negli ultimi anni il problema della biodiversità in generale e agricola in particolare ha assunto maggiore importanza, ma la tendenza dell’agricoltura industriale è stata ancora una volta quella dell’uniformità delle coltivazioni, dell’utilizzo di grandi quantità di prodotti chimici biocidi (cioè in grado di uccidere organismi viventi) e delle coltivazioni transgeniche (OGM, organismi geneticamente modificati). Siamo nel corso di una grave crisi economica che è strettamente collegata alla crisi ecologica. A partire dalla Rivoluzione industriale, lo sviluppo economico si è alimentato grazie allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, portando a un crescente squilibrio ecologico del pianeta. Le soluzioni adottate nel passato e che si stanno prospettando oggi per l’uscita dalla crisi continuano a spingere sui consumi. È un errore, che rischia da un lato di provocare un irrecuperabile squilibrio ecologico planetario, dall’altro una divaricazione in continuo aumento nella distribuzione del reddito. Nel caso dei consumi alimentari, in particolare, significa continuare a produrre cibo per la parte ricca dell’umanità con grande dispendio di energia derivata dal petrolio, con grandi consumi di sostanze chi-
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miche nocive, riducendo la varietà di specie negli ecosistemi e la biodiversità agricola. La FAO ha di recente dichiarato che, pur essendo i prodotti agricoli sufficienti per una popolazione maggiore di quella attuale, il numero di persone che non hanno cibo sufficiente è cresciuto fino a raggiungere un miliardo di abitanti dei paesi poveri. Questa situazione, apparentemente paradossale, deriva sia dall’iniqua distribuzione del cibo sia da un’economia che sembra ignorare le regole della produttività naturale degli ecosistemi. Se si analizza il flusso di energia nei sistemi naturali si può verificare che quasi tutta l’energia proviene dal Sole, sotto forma di fotoni, che, raggiungendo le piante, attivano il processo di fotosintesi. Grazie a una serie complessa di reazioni, si formano in tal modo, a partire da acqua e anidride carbonica, molecole organiche come gli zuccheri, veri accumulatori di energia. È proprio l’energia contenuta nei legami chimici di queste molecole a garantire tutte le attività che richiedono energia sia nelle piante sia, attraverso la catena alimentare, negli animali e poi negli organismi decompositori. Le reazioni chimiche necessarie per le diverse attività biologiche sono molteplici e danno origine al complesso metabolismo di ogni essere vivente. Inoltre, i processi produttivi naturali sono ciclici, cioè i materiali vengono continuamente riciclati, senza produzione di rifiuti, come nel caso della fotosintesi e della respirazione, l’altro fondamentale processo energetico degli esseri viventi. Nella fotosintesi si utilizza l’energia solare per far reagire l’acqua e l’anidride carbonica, ottenendo zuccheri e come scarto ossigeno; nella respirazione si ottiene energia ossidando gli zuccheri con l’ossigeno, ottenendo come sottoprodotti acqua e anidride carbonica: cioè i sottoprodotti di un processo sono le materie prime dell’altro.
introduzione
Ciò non vale solo per fotosintesi e respirazione (cioè il ciclo del carbonio), ma anche per tutte le altre materie prime utilizzate dagli organismi viventi, nell’ambito delle catene alimentari nei diversi ecosistemi (cicli dell’azoto, del fosforo, dell’acqua). In altre parole la Terra è un sistema che scambia energia con l’esterno, ma è un sistema sostanzialmente chiuso, cioè non scambia con l’esterno (se non in misura molto limitata) la materia, che può solo subire processi di trasformazione e/o trasferimento da un comparto all’altro del pianeta. Da quando esiste sulla Terra, l’intera massa di acqua degli oceani, per esempio, è evaporata, ha prodotto precipitazioni ed è ritornata negli oceani attraverso i fiumi molte migliaia di volte (ciclo dell’acqua). E, come abbiamo visto, ossigeno, carbonio e azoto, attraverso specifici cicli, vengono continuamente riciclati all’interno del sistema, principalmente a opera degli organismi viventi. L’energia necessaria per questi processi di trasporto e trasformazione di materia nei vari comparti è l’energia che la Terra riceve dal Sole. Dunque la logica produttiva dei sistemi naturali si basa su una fonte di energia esterna al pianeta, il Sole, e su un continuo riciclo della materia, senza utilizzo di processi di combustione e senza produzione di rifiuti o di inquinanti. Nelle attività industriali invece l’energia viene ricavata per la maggior parte da reazioni di combustione, utilizzando fonti fossili (interne al sistema Terra). Il calore prodotto o viene trasformato in energia elettrica per l’uso a distanza, o utilizzato direttamente in macchine termiche, come nel motore a scoppio. Ma gran parte dell’energia che si trasforma in calore non è più disponibile per compiere lavoro utile, con conseguente aumento di entropia, che si evidenzia nell’aumento di inquinamento e di rifiuti e perdita di materie prime disponibili.
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Per lungo tempo l’uomo si è limitato a utilizzare il fuoco per scaldarsi, cucinare, tenere lontani gli animali pericolosi o per uso bellico. Solo recentemente, con la Rivoluzione industriale, la combustione, soprattutto di combustibili fossili (prima il carbone, poi petrolio e metano), è diventata la principale reazione per produrre l’energia necessaria per le più svariate attività: riscaldamento, energia elettrica, energia per trazione dei veicoli e, recentemente, per aumentare la produttività in agricoltura. Un tempo le calorie contenute nei vegetali coltivati derivavano quasi esclusivamente dall’energia solare, salvo l’energia umana e animale utilizzata per il lavoro dei campi (comunque garantita dal cibo così prodotto). Dopo la Rivoluzione industriale, si cercò non solo di aumentare la superficie coltivata, ma anche di aumentarne la resa produttiva, impiegando altre fonti di energia, oltre quella solare. La recente “Rivoluzione verde”, iniziata negli anni Sessanta, ha comportato, oltre a un forte incremento di produttività, anche un notevole aumento di energia impiegata in agricoltura. Questa energia aggiuntiva non proviene da un aumento della luce solare disponibile, ma è fornita dai combustibili fossili sotto forma di fertilizzanti (derivati da petrolio e gas naturale, principale materia prima per la produzione di urea), pesticidi (prodotti da industrie agrochimiche) ed energia per la lavorazione del terreno, per i trasporti, per l’irrigazione, per trasformazioni, ecc. (petrolio e derivati). Secondo Giampietro e Pimentel1 la Rivoluzione verde ha aumentato di circa 50 volte il flusso di energia, rispetto all’agricoltura tradizionale. Così nel sistema alimentare degli Stati Uniti sono necessarie fino a 10 calorie di energia fossile per 1 Mario Giampietro, David Pimentel, The Tightening Conflict: Population, Energy Use, and the Ecology of Agriculture, Edited by L. Grant, Negative Population Forum, Teaneck, NJ, Negative Population Growth, Inc., 1993.
introduzione
produrre una caloria di cibo consegnato al consumatore: ciò significa che il sistema alimentare statunitense consuma dieci volte più energia di quanta ne produca sotto forma di cibo o, se si vuole, che utilizza più energia fossile di quella che deriva dalla radiazione solare. Considerando solo la produzione dei fertilizzanti, servono circa due tonnellate di petrolio (in energia) per produrre e spargere una tonnellata di concime azotato: gli Stati Uniti in un anno consumano quasi 11 milioni di tonnellate di fertilizzanti e ciò corrisponde a poco meno di cento milioni di barili di petrolio. La produttività delle coltivazioni ad alto contenuto tecnologico è dunque garantita da un massiccio impiego di energia e prodotti chimici in ogni fase lavorativa. Si tratta di un enorme flusso di energia supplementare (cioè oltre a quella fornita negli ecosistemi naturali dal Sole) che trasforma il sistema produttivo primario da accumulatore di energia (grazie alla fotosintesi) in forte consumatore di energia di origine fossile. Inoltre l’agricoltura industrializzata garantisce alte rese solo a fronte di elevati consumi idrici: oltre il 70% dei consumi umani d’acqua serve per la produzione di derrate alimentari, ma con forti disparità tra continente e continente. Un sistema naturale raggiunge l’equilibrio solo se la produzione eguaglia i consumi e cioè se l’energia utilizzata, proveniente dal Sole e “fissata” con la fotosintesi dai vegetali, viene consumata dagli animali in modo proporzionato. Ma indipendentemente dalla presenza di limiti fisici, anche prima di raggiungerli, le società umane vanno incontro a difficoltà economiche e sociali. Gandhi (come riporta il libro) osservava a questo proposito che “il mondo è abbastanza ricco per soddisfare i bisogni di tutti, ma non lo è per l’avidità di ciascuno”.
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I sistemi produttivi umani dovrebbero rispondere alle esigenze biologiche e sociali dell’uomo e non alla logica dello spreco e del consumismo, che trasforma la natura in merce e l’uomo da soggetto in oggetto passivo, bombardato dalla pubblicità. La logica consumistica ha garantito cibo per i più ricchi e ha imposto produzioni ad alto input energetico, che hanno portato a un forte indebitamento i paesi più poveri, che sono stati costretti a produrre soprattutto cibo di lusso per i più ricchi (ananas, banane, caffè, tè ecc.) senza avere i mezzi per garantirsi il cibo necessario al proprio sostentamento. Ma anche a livello dei paesi ricchi questo tipo di agricoltura industrializzata pone rilevanti problemi ambientali e sanitari: inquinamento delle falde (a causa dell’impiego di fertilizzanti e di fitofarmaci), accumulo di residui tossici nell’intera catena alimentare, incremento del tasso di emissioni gassose connesse all’effetto serra, riduzione della fertilità del suolo (valori di materia organica inferiori al 2 e anche all’1%). Per esempio la Pianura Padana, secondo analisi dell’Arpa Emilia Romagna, è soggetta all’impoverimento dei suoli: ben il 22% del territorio ha una percentuale così bassa di sostanza organica (inferiore all’1%) da essere soggetto alla desertificazione, mentre il 26% presenta una percentuale di materia organica inferiore al 2%. In ogni caso i contadini dei paesi più ricchi come quelli dei paesi più poveri, in una logica di globalizzazione, sono condizionati dalle scelte dell’industria (multinazionali) e del grande commercio. Ma la sicurezza alimentare non si può raggiungere se poche multinazionali hanno il controllo mondiale del settore agroalimentare. L’aggressività commerciale di queste aziende, che si è dapprima concentrata sul controllo delle sostanze chimiche impiegate in agricoltura, è ora rivolta al controllo delle risorse genetiche e delle sementi, grazie anche ai prodotti
introduzione
transgenici e ai brevetti biotecnologici, controllando in tal modo buona parte della produzione mondiale e riducendo quella biodiversità agricola che garantiva il cibo ai paesi in via di sviluppo. Ma i prodotti transgenici (OGM), soia e mais in particolare, vengono utilizzati non tanto per fornire cibo agli esseri umani, quanto per alimentare gli animali da carne, che diventeranno cibo per gli abitanti dei paesi ricchi. Le attività umane stanno dunque cambiando l’ambiente del nostro pianeta in modo profondo e in alcuni casi irreversibile. Questi cambiamenti sono dovuti non solo all’immissione di materiale inquinante nell’ambiente, ma anche ai cambiamenti nell’uso del territorio e alla conseguente perdita di habitat e riduzione della biodiversità. La biodiversità è a un tempo l’insieme dei diversi geni e dei diversi individui che troviamo in ciascuna specie, che interagendo tra loro nei diversi ambienti danno origine ai diversi ecosistemi. Tutto ciò rende così vasto e complesso l’assortimento presente in natura, che, in pratica, ogni individuo è diverso da ogni altro. Così una popolazione di individui di una stessa specie risulterà costituita da individui tutti diversi, ciascuno dei quali avrà maggiore o minore probabilità di sopravvivere e avere figli in base alla capacità di adattarsi all’ambiente. Si capisce dunque perché sia così importante mantenere la biodiversità: infatti in una popolazione tutta omogenea un cambiamento ambientale o una epidemia o una malattia di qualunque genere potrebbe determinare, per selezione, una situazione inammissibile dal punto di vista evolutivo: o tutti gli individui della popolazione riescono a sopravvivere o non ne sopravvive nessuno. In natura le strategie evolutive tendono a evitare questa logica da “roulette russa”,
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favorendo la sopravvivenza di almeno una parte della popolazione. Qualunque attacco alla biodiversità rappresenta dunque un rischio per il mantenimento degli equilibri naturali di un ecosistema, ciò che corrisponde a porre in discussione la sopravvivenza di molte specie, compresa la nostra. La perdita di biodiversità, iniziata più di un secolo fa, ha accelerato la sua corsa fino a raggiungere un ritmo 1.000 volte superiore a quello naturale. Un disastro mai visto prima se si pensa che a causare le crisi precedenti ci sono voluti svariati milioni di anni e delle catastrofi naturali. Nel lanciare l’allarme, un migliaio di scienziati, ecologisti e rappresentanti di circa 30 paesi, riuniti dal 24 al 28 gennaio 2005 presso la sede dell’UNESCO a Parigi per la Conferenza Internazionale “Biodiversità: scienza e governo”, hanno puntato il dito contro l’inquinamento e la frammentazione degli ecosistemi causati dagli esseri umani. La scomparsa delle foreste, lo sfruttamento degli oceani, le culture intensive, il surriscaldamento del pianeta sono alcune delle questioni sulle quali il meeting ha voluto richiamare l’attenzione dei governi, dei cittadini e del settore privato. Anche l’agricoltura ha bisogno di biodiversità per garantire nuove varietà e per adattare le varie coltivazioni alle diverse condizioni del pianeta. “Biodiversità e sicurezza alimentare” è stato il tema della giornata mondiale dell’alimentazione, celebrata il 16 ottobre 2004 dalla FAO. Conservazione e utilizzo sostenibile della biodiversità sono fondamentali per sfamare circa 800 milioni di persone denutrite nei paesi in via di sviluppo. Secondo le stime della FAO, nel corso dell’ultimo secolo sono andati perduti circa tre quarti della diversità genetica presenti nelle colture agricole.
introduzione
Delle 6.300 razze animali, 1.350 sono in via d’estinzione o già estinte. La diversità biologica, spiega una nota della FAO, comprende innumerevoli piante in grado di nutrire e curare le persone, molte varietà di colture e di specie acquatiche con caratteristiche nutrizionali specifiche, specie animali adattate ad ambienti rigidi, insetti che impollinano i campi e microrganismi in grado di rigenerare i terreni agricoli. La biodiversità, spiega ancora la FAO, indispensabile per l’agricoltura e per la produzione alimentare, è minacciata dall’urbanizzazione, dalla deforestazione, dall’inquinamento e dalla trasformazione delle zone umide. Secondo l’organizzazione internazionale, a causa della modernizzazione agricola, dei mutati regimi alimentari e della densità di popolazione, l’umanità dipende sempre di più, per le sue risorse alimentari, da una diversità biologica agricola ridotta: quattro colture forniscono da sole la metà delle calorie di origine vegetale nella dieta umana. Nel corso dell’ultimo secolo sono andati perduti circa tre quarti della diversità genetica presente nelle colture agricole. Un pericolo per la biodiversità è rappresentato anche dalle coltivazioni transgeniche. Gli OGM, cioè quegli organismi di cui si vorrebbero predeterminare alcune caratteristiche inserendo nel loro DNA geni estranei, sono un esempio della concezione riduzionistica e deterministica della vita: si ritiene sufficiente inserire un gene estraneo per determinare un nuovo specifico carattere, ma i geni agiscono secondo la logica delle reti, sono cioè un sistema complesso, in cui ogni gene interagisce con tutti gli altri. Così, anche se nel trasferimento di geni da un organismo vivente a un altro non ci sono limiti, tuttavia l’ingegneria genetica non è in grado di operare con precisione ed è difficile prevedere dove si inserirà il DNA iniettato e quali
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saranno le interazioni del nuovo gene con gli altri geni e con il metabolismo dell’organismo.2 Ma questi nuovi organismi (soprattutto piante), frutto di manipolazione genetica, attraverso la diffusione di pollini e semi, possono contaminare la biodiversità naturale e agricola, mettendo in discussione quella ricchezza di specie e varietà colturali, evolutesi in milioni di anni e ritenute indispensabili per garantire il futuro dell’alimentazione umana. Per queste ragioni nel 1992, a Rio de Janeiro, è stata adottata la Convenzione sulla salvaguardia della Diversità Biologica (o CDB), che tratta in maniera esplicita, tra i vari problemi, anche quello degli organismi geneticamente modificati e ne prevede l’utilizzo solo se, in base al principio di precauzione, non costituiscono un pericolo per la biodiversità. A seguito di tali manipolazioni genetiche le multinazionali del settore agrochimico hanno preteso, per meglio affermare il loro monopolio, di poter brevettare sia gli organismi manipolati sia i geni utilizzati e, in prospettiva, anche le parti di corpo e geni umani. Ma un organismo, anche se geneticamente modificato, come del resto ogni sua parte e ogni suo gene, non è un’invenzione, tutt’al più una scoperta: brevettare materiale biologico e organismi significa accreditarsi come inventori, “creatori” della vita. Gli organismi non sono né macchine né oggetti inventati, però la loro equiparazione a “utensili” ne permette la brevettazione e una più vasta mercificazione. Le multinazionali biotecnologiche stanno brevettando (o hanno già brevettato) geni di piante utilizzate nella medicina e nell’agricoltura tradizionali, senza coinvolgere i popoli che 2 Gianni Tamino Il bivio genetico, Edizioni Ambiente, Milano 2001.
introduzione
per secoli hanno utilizzato queste piante, come frutto della loro storia e della loro cultura: siamo di fronte, come ben spiega Vandana Shiva, a una vera azione di “biopirateria” dei geni, che dovrebbero essere patrimonio collettivo dell’umanità. A subirne le conseguenze sono ancora una volta i popoli più poveri, che rischiano di essere strangolati da questa economia, ma anche gli equilibri ecologici rischiano di essere irreversibilmente sconvolti, con danni che prima o poi si ripercuoteranno su tutti gli abitanti del pianeta, popoli ricchi compresi. Inoltre, grazie al brevetto, le grandi aziende possono esercitare un controllo delle risorse genetiche e delle sementi, riducendo quella biodiversità agricola che garantiva il cibo ai paesi in via di sviluppo. Questa concezione del brevetto, applicabile anche agli organismi viventi, è una conseguenza recente del mercato globale, voluto dal WTO (o OMC, Organizzazione mondiale del Commercio) e in particolare degli accordi TRIPs. La sigla TRIPs sta per Trade Related Intellectual Property Rights (cioè diritti di proprietà intellettuale collegati al commercio). Gli accordi TRIPs rendono la protezione della proprietà intellettuale (brevetti, diritti d’autore, marchi di fabbrica, segreti industriali, ecc.) parte integrante del sistema di commercio e i brevetti di un paese valgono in tutti i paesi che hanno aderito al WTO (infatti l’art. 4 afferma: “Gli Stati aderenti devono recepire le eventuali normative più favorevoli adottate da qualunque stato membro”), che è come dire che i paesi ricchi possono pretendere i diritti brevettuali dai paesi che non dispongono di fondi sufficienti per la ricerca e la tecnologia. Se un paese non rispetta gli accordi incorre in pesanti sanzioni commerciali, che possono strozzare l’economia di un paese.
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Per queste ragioni, nel 2003, al vertice di Cancun del WTO, le Ong hanno chiesto che il diritto alla sovranità alimentare e alla salute divenisse prevalente sul profitto industriale e che fosse possibile rinegoziare importanti aspetti degli accordi TRIPs. Analogamente, i rappresentanti internazionali dei popoli indigeni (riuniti a Quintana Roo, Cancun, il 12 settembre 2003) hanno dichiarato: “La biopirateria e la brevettabilità delle forme di vita è facilitata dall’Accordo TRIPs. Chiediamo che venga dichiarato esplicitamente il divieto di brevetti sulle forme di vita nell’accordo TRIPs. Chiediamo inoltre che i diritti di brevetto, le domande di brevetto e le rivendicazioni delle corporation, degli individui e dei governi sulle piante medicinali indigene, sui semi, sulla conoscenza e persino sul materiale genetico umano dei Popoli Indigeni siano ritirati. La biopirateria dovrebbe essere fermata e il consenso libero e informato e preventivo dei Popoli Indigeni dovrebbe essere ottenuto prima di accedere alle loro risorse. La questione della protezione della conoscenza indigena non dovrebbe essere trattata nell’Accordo TRIPs del WTO perché parte da presupposti che contraddicono i concetti, i valori e l’etica su cui si basano i sistemi di conoscenza indigena.” Anche organizzazioni ufficiali, come l’UNDP (United Nations Development Programme), hanno criticato la logica dei brevetti. A pagina 68 del Rapporto sullo Sviluppo Umano del 1999 si legge: “Le nuove leggi sui brevetti fanno scarsa attenzione alla conoscenza degli indigeni, lasciandola vulnerabile alle rivendicazioni di altri. Queste norme ignorano la diversità culturale del creare e condividere le innovazioni – e la diversità di vedute su cosa si può e dovrebbe essere posseduto, dalle varietà di piante alla vita umana. Il risultato è un furto silenzioso di secoli di conoscenza dai paesi in via di sviluppo verso i paesi sviluppati”.
introduzione
D’altra parte, tutto il sistema WTO/TRIPs è entrato in crisi dopo la sesta Conferenza ministeriale, che ha avuto luogo a Hong Kong dal 13 al 18 dicembre 2005. I partecipanti, pur riconfermando l’impegno di massima a concludere positivamente il negoziato entro il 2006, non sono riusciti a raggiungere l’accordo su un documento finale. Persistenti difficoltà e vivaci contrasti di interesse tra le maggiori potenze commerciali – soprattutto in materia di agricoltura e di accesso al mercato dei prodotti non agricoli – hanno condotto, alla fine di luglio 2006, alla grave (ma non inattesa) decisione di sospendere formalmente la trattativa multilaterale, con pesanti ripercussioni sulla credibilità del sistema commerciale internazionale. Di fronte alla perdita di biodiversità collegata ai rischi dei cambiamenti climatici, della desertificazione, delle carestie e della mancanza di fonti di energia, occorre voltar pagina al più presto, occorre un cambiamento concettuale a livello scientifico ed economico. L’uomo non è né padrone né schiavo della natura: come essere vivente, e perciò naturale, deve interagire con il suo ambiente, anche modificandolo, ma, come essere pensante e quindi responsabile delle proprie azioni, deve rispettarne le regole e i criteri. Come affermano Prigogine e Stengers3 la nuova epistemologia deve passare da una conoscenza manipolatrice della natura, che seleziona e semplifica i sistemi oggetto di studio, a una conoscenza volta ad approfondire l’intreccio complesso di connessioni tra i diversi sistemi, alla luce della coordinata tempo. 3 Prigogine Ilya e Isabelle Stengers, La nuova alleanza, Einaudi, Torino 1981.
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Alla rozza semplificazione che riduce i fenomeni naturali a fenomeni meccanici, bisogna sostituire un’analisi della complessità dei sistemi, interagenti tra loro. Ma soprattutto dobbiamo considerare l’irreversibilità dei fenomeni temporali, ciò che porta a riconoscere la storicità di una epistemologia naturale. Questa epistemologia naturale è una necessaria premessa per una società sostenibile, in cui le attività umane “non riducano a merce ogni bene materiale e immateriale”, come afferma Marcello Cini,4 ma sappiano inserirsi nei complessi e delicati equilibri dinamici, presenti nell’ambiente naturale, senza distruggerli, senza trasformare le risorse in rifiuti, senza ridurre la biodiversità degli organismi viventi. A. Langer5 osservava vari anni fa: “Ci troviamo al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via della sviluppo, cercando di fronteggiare con più raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi che emergono (basti pensare all’attuale scontro sul petrolio) o invece tentare di congedarci dalla corsa verso il ‘più grande, più alto, più forte, più veloce’ chiamata sviluppo, per rielaborare gli elementi di una civiltà più ‘moderata’ (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerante nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le future generazioni e verso la stessa ‘biodiversità’ (anche culturale) degli esseri viventi”. E sempre Langer osservava che quest’ultima è un’utopia “concreta”, mentre la crescita infinita, basata sul “sempre più veloce e sempre più grande”, è una pericolosa illusione, comunque irrealizzabile. La lettura del libro di Vandana Shiva Campi di battaglia – 4 Cini Marcello, Dialoghi di un cattivo maestro, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 5 Langer Alexander, nella rivista “Azione nonviolenta”, 1991.
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Biodiversità e agricoltura industriale, non solo fornisce ottime risposte a molti degli interrogativi che la crisi in atto ci pone, ma ci obbliga anche a porci importanti interrogativi sul futuro dell’umanità, primo fra tutti “come garantire in modo sostenibile cibo per tutta l’umanità”. Gianni Tamino
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prefazione alla nuova edizione di Vandana Shiva
Scrivo questa prefazione dal Ladakh, la fredda regione desertica che occupa gran parte dell’India settentrionale. L’unica fonte d’acqua è costituita dalla neve che si scioglie sui ghiacciai, ed è grazie ai piccoli ruscelli formati dal disgelo che le comunità del Ladakh hanno potuto creare oasi ricche di vegetazione. Ogni cosa deriva dalla terra e dalla sua biodiversità: gli yak, le pecore e le capre danno latte e fibre, i salici e i pioppi forniscono legname che viene usato per le costruzioni e come fonte di energia, nei campi si coltivano l’orzo e il grano su cui si basa l’alimentazione di queste popolazioni. Quello del Ladakh è un caso lampante di economia basata sulla biodiversità. È quindi nelle società tradizionali che scopriamo come si può vivere oltre il petrolio e gli altri combustibili fossili. I cambiamenti climatici rappresentano un’altra ragione per rivolgersi alla biodiversità come base del sostentamento umano. Innanzitutto, la biodiversità offre alternative ai combustibili fossili e all’industria petrolchimica. Inoltre, converte l’anidride carbonica – un gas a effetto serra – in carbonio utilizzabile dalle piante e in ossigeno che possiamo respirare. Un’economia incentrata sulla biodiversità agisce quindi come sink per il car-
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bonio, e aiuta sia nell’adattamento sia nella mitigazione dei cambiamenti climatici. Ciononostante, il paradigma industriale e meccanicista, obsoleto e fuori moda, resiste ostinato. Quando scrissi per la prima volta Campi di battaglia, le applicazioni commerciali dell’ingegneria genetica erano appena iniziate. Oggi stiamo sperimentando le conseguenze ecologiche ed economiche del cibo e dei raccolti geneticamente modificati. Negli Stati Uniti e in Canada, le colture trattate con l’erbicida Roundup sono state invase da erbe infestanti estremamente tenaci. In India, il cotone Bt geneticamente modificato ha soppiantato le varietà locali, ha fatto salire il prezzo delle sementi da 7 a 17.000 rupie al chilo, ha incrementato di 13 volte l’uso dei pesticidi, ha costretto molti coltivatori a indebitarsi e li ha spinti al suicidio. Dal 1997, 200.000 persone si sono uccise, e la maggioranza dei suicidi è avvenuta nell’area in cui viene usato il cotone Bt. L’impiego di questo cotone sta anche determinando la scomparsa di specie utili, come api e farfalle, fondamentali per i processi di impollinazione, e dei microrganismi che assicurano la fertilità del suolo. Durante lo scorso decennio le coltivazioni geneticamente modificate si sono diffuse in cinque paesi. Soia, grano, canola e cotone rappresentano le colture geneticamente modificate più diffuse in commercio, e la sola Monsanto vende il 95% dei semi geneticamente modificati di tutto il mondo.
prefazione alla nuova edizione
Vengono fatte, ovviamente, affermazioni in merito alla selezione genetica di tratti resistenti ai cambiamenti climatici e nel settore sono stati registrati più di 530 brevetti. Tuttavia, le attuali tecnologie di ingegneria non possono manipolare tratti multigenetici. La resistenza alla siccità, alle alluvioni o all’eccesso di salinità è stata selezionata dalla natura e dai coltivatori. Brevettare questi tratti costituisce una forma di biopirateria, un furto culturale ed ecologico di tratti genetici. La biodiversità deve rimanere nelle mani dei coltivatori, sia perché ne sono stati i primi allevatori, sia perché è solo attraverso la biodiversità che gli agricoltori possono garantire la sicurezza alimentare in tempi di caos climatico. Mentre i bulldozer abbattono le foreste tropicali per far posto al grano e alla soia, e questi vengono trasformati in bioetanolo e biodiesel per le auto, gli effetti dei cambiamenti climatici e la fame si aggravano. Per essere basato su monocolture, il sistema alimentare è diventato sempre più dipendente dai combustibili fossili che servono per produrre i fertilizzanti chimici, per alimentare i mezzi agricoli, per i trasporti a lunga distanza che aggiungono chilometri alla filiera alimentare. Con la diffusione delle monocolture e la scomparsa dei produttori locali, stiamo “mangiando” sempre più petrolio, non cibo, mettendo a repentaglio il pianeta e la nostra salute. Superare le monocolture della mente è diventato un imperativo per risanare il sistema alimentare. Le piccole aziende agricole che basano il loro lavoro sulla biodiversità hanno una maggiore
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produttività e garantiscono introiti maggiori ai contadini, e una dieta “biodiversa” nutre meglio e con un gusto migliore. Riportare la biodiversità nelle nostre fattorie significa anche restituire il territorio ai piccoli coltivatori. Il controllo delle multinazionali prospera sulle monocolture; la libertà alimentare dei cittadini si basa invece sulla biodiversità. La libertà degli esseri umani e delle altre specie viventi si rafforzano a vicenda. La possibilità di avere uno sviluppo sostenibile richiede che la nostra alimentazione quotidiana si basi sulla democrazia del cibo, ossia la condivisione della rete alimentare da parte di tutti gli esseri viventi. Mangiare cibi locali, freschi e biologici è un piccolo passo per ripristinare e migliorare la rete alimentare. La democrazia del cibo è un elemento essenziale della democrazia sulla Terra, del vivere come suoi cittadini, rispettando i diritti di tutti, ricordando i nostri doveri nei confronti della salute nostra e del pianeta. Mangiando in modo sostenibile, contribuiamo anche alla giustizia e alla pace. Questa è democrazia del cibo, democrazia sulla Terra. Questa è biodemocrazia: la democrazia per tutte le forme di vita. Vandana Shiva
prefazione
Ho studiato fisica e un tempo pensavo che avrei trascorso ogni giorno della mia vita in compagnia delle particelle elementari. Invece, ho passato gli ultimi venticinque anni insieme alle specie forestali e alle varietà agricole, a fianco degli agricoltori impegnati nella conservazione della straordinaria diversità di piante e animali. Nei due decenni scorsi ho tentato di capire alcuni perché: perché tante creature vengono costrette all’estinzione? Perché sempre più persone cadono vittime della fame mentre le tecnologie alimentari sbandierano abbondanza di risorse alimentari? E perché i contadini vengono espropriati e costretti a indebitarsi da modelli economici che promettono invece profitto e prosperità? Dal punto di vista filosofico, posso dire che la mia formazione da fisico quantistico mi ha aiutato molto a occuparmi di questioni così complesse. Mentre la fisica classica di Cartesio e di Newton descriveva un mondo formato da entità atomizzate, isolate e immutabili, la teoria dei quanti ha riformulato il mondo definendolo un insieme di sistemi interagenti, inseparabili e in costante cambia-
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campi di battaglia
mento, dotato di potenzialità inestimabili piuttosto che di proprietà e fenomeni fissi. Sono queste caratteristiche di “inseparabilità” e “indeterminatezza” che ispirano il mio approccio ai sistemi naturali e all’impatto umano sull’ambiente. Osservando la biodiversità ho imparato a percepirla in termini di relazioni tra le specie, nonché di relazioni fra gli assetti genetici e i loro contesti ambientali. Attraverso la lente della biodiversità il mondo si rivela molto differente e reclama un cambiamento nei modelli tecnologici e di mercato dominanti. Un passo necessario verso la sostenibilità. In fondo, io mi rapporto alla biodiversità come all’indicatore per eccellenza della sostenibilità: più riusciamo a conservarla, e più sostenibili si riveleranno le nostre azioni; più la distruggiamo, e più insostenibile si dimostrerà il nostro impatto. Qual è dunque il futuro della biodiversità? L’incertezza è un’altra eredità della teoria dei quanti. Il futuro della biodiversità è incerto come il futuro della specie umana e della sua società. Sono in corso molte iniziative e programmi per la conservazione della biodiversità, sia su scala locale sia in termini di trattati globali (come la Convenzione sulla Diversità biologica, siglata all’Earth Summit di Rio nel 1992). Dall’altra parte però vediamo che la distruzione della biodiversità sta nel contempo allargandosi e accelerando. Sulla spinta della globalizzazione, che come previsto dal WTO mira a sciogliere qualsiasi regola del commercio, la diffusione planetaria dell’agricoltura industriale conduce a una rapida erosione della diversità. Nel 1992 la conservazione della biodiversità era il trend dominante. Nel 1995, con la violazione dei trattati ambientali e delle
prefazione
normative nazionali da parte del WTO, la distruzione della biodiversità ha cominciato a configurarsi come una minaccia inevitabile; ma nel 1999 l’andamento apparentemente ineluttabile di quegli eventi è stato rimesso in discussione dalle proteste di Seattle. Sia a livello locale che globale hanno preso corpo soluzioni attente ai bisogni degli esseri umani (e non), libere dai vincoli imposti dal mercato e dal profitto. Non esiste alcuna certezza sui trend che decideranno il nostro destino, e il destino della biodiversità. Vincerà l’avidità o la solidarietà? Solo il futuro può dirlo.
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