L’escursionismo in montagna

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A cura di Andrea Macchiavelli

L’ESCURSIONISMO IN MONTAGNA Fatti, comportamenti e prospettive


L’ESCURSIONISMO IN MONTAGNA Fatti, comportamenti e prospettive

Immagine di copertina di Tino Rovetta, Sezione di Bergamo.

A cura di Andrea Macchiavelli

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Capitolo 1 Tempo libero e frequentazione della montagna: un rapporto in evoluzione di Andrea Macchiavelli

p. 21

Capitolo 2 L’escursionismo alpino nella ricerca scientifica di Andrea Pozzi

p. 33

Capitolo 3 Immagine e fruizione della montagna nella popolazione del nord Italia di Roberta Garibaldi

p. 54

Capitolo 4 La montagna nello sguardo e nell’esperienza dei giovani di Silvia Biffignandi

p. 81

Capitolo 5 Le sezioni del Cai e l’attività escursionistica di Francesca Forno

p.111

Capitolo 6 Progetto Montagna Amica (MAS) di Renata Viviani

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Capitolo 7 7.1 Montagna e salute - montagna è salute: il profilo medico-sanitario degli escursionisti seniores nel progetto VETTA di Marco Cosentino, Simona Lombardo, Franca Marino, Carlo Plaino

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7.2 “Lo spirito del Senior C.A.I.: Atteggiamenti e benefici nelle escursioni in montagna.


Capitolo 1 Tempo libero e frequentazione della montagna: un rapporto in evoluzione di Andrea Macchiavelli 1

Docente di Economia del Turismo all’Università di Bergamo e direttore del CeSTIT

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1.1. Turismo, sviluppo e attività open air nelle Alpi

Secondo Bätzing, i risultati dell’analisi sui posti letto turistici, portano alla conclusione che “il turismo nelle Alpi non rappresenta un fenomeno capillarmente diffuso e neppure il settore economico dominante” (Bätzing 2005, p.218) e che conseguentemente “Nelle Alpi il turismo è dunque meno importante di quanto spesso si pensi (…). Tuttavia esso è economicamente e culturalmente irrinunciabile come fonte di posti di lavoro diffusi sul territorio di tutto l’arco alpino” (Bätzing 2005, p.231). Non sembrava dello stesso parere circa 20 anni prima Paul Guichonnet quando, in un’altrettanto ponderosa opera sulle Alpi, scriveva “Alla messa in discussione, spesso drammatica, dell’agricoltura e alla riconversione dell’ industria alpina, corrisponde il successo crescente del turismo che diventa l’attività economica specifica della catena alpina” (Guichonnet 1987, p.338). In realtà la contraddizione è più apparente che reale. Come lo stesso Bätzing precisa più oltre, si tratta di mettere meglio a fuoco cosa si intende per Alpi, una regione vastissima, caratterizzata da territori solo in parte di alta quota con una prevalente presenza di insediamenti urbani al di sotto dei 1000 metri e spesso in pianura, se pur circondati da montagne, come del resto le città alpine italiane per eccellenza (Bolzano, Trento, Sondrio e Aosta) stanno a dimostrare. Il turismo, quello alpino, ovvero quello che attrae il turista per la presenza delle sue montagne, fruibili nelle più diverse forme, attive o passive, si colloca nelle zone alte delle valli, dove si sono sviluppati i più consistenti e capaci insediamenti turistici, la maggior parte dei quali in anni lontani, quando il turismo alpino era ben altra cosa rispetto a quello attuale. Ed è qui che il turismo ha giocato il suo peso insostituibile nel mantenere in quota una componente pur minoritaria della popolazione montana, a fronte di uno spopolamento massiccio incominciato già nella metà del XIX secolo, ma poi proseguito con ben maggiore intensità nel secondo dopoguerra del XX secolo, quando le precedenti misere fonti di sostentamento generate dall’agricoltura e dall’attività silvo-pastorale hanno vieppiù perso il loro peso a favore delle altre ben più produttive attività economiche della pianura. Un turismo che ha avuto caratteri e implicazioni sul territorio assai diversi nel corso del tempo, con effetti benefici per le condizioni di vita della gente di montagna, ma anche con conseguenze vistose e irreversibili per il territorio e quindi anche per coloro che ci vivono. Senza avere alcuna pretesa di sintetizzare la storia del turismo montano, di cui molti autori hanno a lungo trattato (Guichonnet 1987, Bartaletti 1994, Bätzing 2005), può essere utile in questa sede richiamarne i passaggi principali, adottando come chiave di lettura l’interesse verso la montagna che ha caratterizzato questi turisti nelle varie epoche e il tipo di attività prevalente che vi veniva praticata. Dalla fine del XVIII secolo alla fine del XIX le Alpi sono state sostanzialmente terreno di scoperta e di conquista per pochi benestanti visitatori, attratti soprattutto dalla necessità di spiegare fenomeni che fino a quel momento venivano interpretati attraverso la superstizione e la magia; il desiderio di felicità spingeva, nell’epoca del razionalismo roussoniano, al dominio dell’uomo e della ragione sulla natura e questo esigeva conoscenza e conquista. Lo stesso de Saussure, considerato lo scopritore del Monte Bianco, giustifica la sua ascesa del 1787 in “Voyages dans les Alpes”, dichiarando: “Del resto il mio scopo era soltanto quello di raggiungere il punto più alto: dovevo soprattutto compiere le osservazioni e gli esperimenti che, soli, davano il senso a quel viaggio”. Ciò non toglie che la nascita dell’alpinismo venga fatto risalire a questa epoca ed emblematicamente proprio all’ascesa del Monte Bianco da parte di Balmat e Paccard l’anno precedente. Un alpinismo che ha tutt’altro che i connotati del piacere e dell’intrattenimento gioioso, ma che negli anni immediatamente successivi, anche per chi non sale sulle cime, esprime invece tutto il contrasto tra una ricerca di infinito ed una montagna te-

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nebrosa e drammatica che respinge il bisogno di una risposta alle inquietudini dell’uomo romantico. I primi valichi alpini della prima metà del 1800 (Sempione, Moncenisio, Montigevro e successivamente quelli dolomitici, per quanto riguarda l’Italia) ebbero una certa influenza nel ridurre l’isolamento delle regioni alpine, ma pressochè nessun impatto sull’interesse dei visitatori per le montagne come ambiente ricreativo, anche per la scarsità e la lentezza de mezzi che li potessero percorrere, tra cui il più diffuso era la carrozza a cavalli. Solo a partire dalla metà del 1800, grazie alla ferrovia e a i primi valichi ferroviari delle Alpi, l’isolamento cominciò a ridursi davvero e le località di montagna cominciarono ad essere collegate con le città di pianura. E’ questo il vero fattore che consente l’accesso ai monti per motivi ricreativi da parte dell’èlite, aristocratica prima e borghese poi, che caratterizzerà il periodo della Bella Epoque e che continuerà sino allo scoppio della prima guerra mondiale. I numeri certo non erano quelli di oggi, ma è in questo periodo che nascono le prime stazioni di vacanza per la stagione estiva, le stesse che continuano oggi a rappresentare destinazioni di grande richiamo; da Saint Moritz a Davos, da Chamonix a Courmayeur, da Cortina a Madonna di Campiglio. “Tra il 1860 e il 1914 nasce la maggior parte dei santuari dell’alpinismo, che formano, secondo la classificazione dei geografi alpini, le stazioni della prima generazione, destinati ai lunghi soggiorni estivi in albergo.” (Guichonnet 1987, p. 309). Ma l’alpinismo era – come oggi del resto – una pratica comunque minoritaria per i frequentatori delle valli alpine, ancorchè molto sentita ed ammirata: le motivazioni prevalenti erano legate alla possibilità di ammirare maestosi paesaggi, del tutto sconosciuti per i comuni mortali che vivevano nelle pianure. Una possibilità alimentata dalla corsa alla costruzione di impianti di risalita prima inesistenti, alcuni dei quali costituiscono ancora oggi infrastrutture assolutamente ardite e oggi irripetibili per molte ragioni; basti pensare alle ferrovie a cremagliera che raggiungono i 3450 metri della vetta della Jungfrau (1896) o al treno che da Zermatt raggiunge i 3130 metri del Gornergrat (1898), ancora oggi balconi incomparabili sui 4000 delle Alpi. La motivazione principale è dunque legata alla possibilità di godere di scenari, allora unici e non visibili altrove (era ancora lontana la possibilità di vedere atolli o deserti, oggi paesaggi che fanno grande concorrenza all’attrazione delle montagne) e l’escursionismo, ancorch è condizionato da un abbigliamento che oggi fa sorridere, era comunque una pratica di una certa popolarità nelle vacanze estive, lunghe anche più mesi per la ricca aristocrazia e borghesia dei primi ‘900. Più modesta e del tutto iniziale la frequentazione invernale, caratterizzata soprattutto da pratiche ludiche sulla neve (slittino, pattinaggio su ghiaccio), essendo lo sci un attività ancora del tutto pionieristica. Ma la realizzazione delle ferrovie consente di dare risposta anche ad un altro bisogno delle popolazioni urbane: la cura della salute, per la quale le aree alpine potevano garantire un’ aria salubre, soprattutto in funzione delle diffuse malattie polmonari, in conseguenza delle quali si diffondono i sanatori nelle località di montagna. Dall’emergenza delle malattie più preoccupanti si passa comunque presto ad una cura della salute a più largo spettro, favorita dall’aria pura e dall’armonia della natura, che ben si fondono con i paesaggi e con l’entusiasmo delle escursioni. Le terme, dove ci sono, diventano l’infrastruttura dedicata per questa prospettiva; la Svizzera, paese montano per eccellenza, è l’ambiente ideale per questo tipo di offerta. Per restare in casa nostra, a Bormio (SO), dove le terme esistono dall’antichità, a metà dell’800 viene costruito l’Hotel Bagni Nuovi, così come San Pellegrino (BG) costituisce una località montana termale in auge nel periodo della Bella Epoque. E’ significativo notare come questa integrazione tra montagna e cura della salute, tra bisogno di natura e di benessere, tra attività fisica e salubrità, torni oggi a costituire una delle motivazioni principali dopo che per anni l’attività sciistica invernale aveva di fatto monopolizzato l’attenzione e con essa gli investimenti e la programmazione delle località turistiche alpine.

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Dopo la prima guerra mondiale e fino allo scoppio della seconda, la frequentazione della montagna cambia sensibilmente. Sfuma progressivamente l’ambiente e il clima che aveva caratterizzato il periodo della Bella Epoque e alla classe più agiata tende a sostituirsi una fascia sociale, pur benestante, ma meno esclusiva, grazie anche alla progressiva modificazione dei tempi di lavoro; non siamo ancora al turismo di massa, ma se ne pongono le premesse. I treni cominciano a diventare “popolari” e la tecnologia consente di “dominare” la montagna attraverso gli impianti di risalita, soprattutto grazie alle funivie; questi, conseguentemente, dotano la montagna di infrastrutture per un accesso di massa da parte dei turisti, che si verificherà poi in forma massiccia nel secondo dopoguerra. “Tra il 1924 e il 1940 vengono realizzate in tutto l’arco alpino non meno di sessanta funivie e, grazie ad esse si afferma una nuova modalità di vivere l’esperienza delle Alpi”(Bätzing 2005 p.193). Da un lato, dunque, la motivazione principale della maggior parte dei frequentatori resta la possibilità di ammirare paesaggi, che ora, grazie alle altitudini facilmente raggiungibili, si moltiplicano; dall’altro, l’accesso alle montagne favorito dagli impianti di risalita induce lo sviluppo di una fase nuova dell’alpinismo, dove alla tensione della scoperta si sostituisce quella della conquista. E’ in questi anni infatti che “ si registra l’ interesse per le Alpi in senso tecnico-sportivo, accompagnato da una visione eroica dell’andare in montagna, molto selettiva, per certi versi molto competitiva, soprattutto nel periodo compreso tra le due guerre mondiali” (Salsa 2010, pag.10). Il fascismo incentiverà questa dimensione per ragioni nazionalistiche e così assisteremo alle imprese dei grandi nomi dell’alpinismo italiano (valga per tutti quello di Riccardo Cassin) anche per effetto di una vibrante competizione con l’alpinismo d’Oltralpe. Lo sviluppo dell’alpinismo porta con sè un ulteriore infrastrutturazione della montagna: non solo gli impianti di risalita, ma anche lo sviluppo della rete sentieristica e la nascita dei rifugi. E tutto questo presto cessa di essere a disposizione di un’élite per diventare un servizio alla collettività: i sentieri diventano rete percorribile da tutti e i rifugi, nati come ricovero per gli alpinisti, diventano presto mete in se stesse per il popolo degli escursionisti, che secondo molti non vanno contrapposti agli alpinisti (Dalla Porta Xydias 2005), proprio perchè ciò che caratterizza entrambi è innanzitutto l’”andar per monti” e in questo “andar per monti” c’è, pur con modalità diverse, un farsi carico della montagna come spazio da ammirare e quindi da salvaguardare quale dimensione culturale immateriale (Salsa 2010). Questa sensibilità non è totalmente fatta propria dal turismo invernale, che pur minoritario comincia ad interessare le località alpine, grazie al primo sviluppo dello sci, favorito dalla realizzazione delle funivie. Negli anni ‘30 “Sestriere e Cervinia si distinguono per essere le più attrezzate stazioni di tutte le Alpi, le uniche dotate di tre funivie.” (Bartaletti 2006, pag.300). In questi anni infatti si verifica un forte impulso al turismo invernale, pur con un certo ritardo rispetto alla Svizzera e all’Austria, e molti degli interventi hanno come oggetto le stazioni ubicate a breve distanza dalle grandi città, dove i cittadini avranno modo di misurarsi con lo sci; le località di Foppolo, della Presolana, dell’Aprica, in Lombardia, o quelle della Val di Susa in Piemonte, pur avendo visto la nascita qualche decennio prima come stazioni di soggiorno, trovano ora un nuovo impulso. Per la maggior parte le località vengono raggiunte in autobus o in treno e l’attività è quella dello sci da discesa, solo in minima parte insidiata dallo sci nordico. La neve, elemento che per i montanari era da sempre considerata una maledizione, comincia a diventare divertimento per chi non vive in montagna e fonte di reddito per chi ci vive. Ma gran parte dell’attività sportiva viene effettuata a piedi, con grande dispendio di energie e quindi con uno sforzo fisico rilevante, visto che le seggiovie e gli skilift faranno la loro comparsa solo nel dopoguerra; tra sci da discesa e sci-alpinismo i confini sono meno labili di quanto non siano oggi. E’ certamente un divertimento, ma è un divertimento che richiede impegno e una buona prestanza fisica.

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Il turismo di massa in montagna vede il suo sviluppo nel dopoguerra, supportato dal boom economico e grazie soprattutto alla diffusione dell’automobile. E’ una delle modalità di impiego del tempo libero (sempre più disponibile) che vede il suo culmine nel decennio ’60-‘70 parallelamente alle altre forme di turismo, dopo che gli italiani nel decennio precedente avevano soddisfatto i bisogni primari che la guerra aveva loro sottratto. E’ un turismo quasi interamente interno e tale è rimasto in gran parte ancora oggi, con eccezione dell’Alto Adige, che nel dopoguerra subisce peraltro notevoli limitazioni ai flussi di italiani per effetto del terrorismo altoatesino e delle tensioni tra la componente autonomista e lo Stato Italiano: nel 1972 erano infatti 8 milioni le presenze di tedeschi contro i 2,7 milioni degli italiani. Anche oggi il Sud Tirolo continua a restare la regione alpina italiana con la maggiore presenza di stranieri (64%), in massima parte tedeschi. La frequentazione della montagna, sia in estate che in inverno, vede in questo periodo il suo massimo sviluppo. Dal punto di vista dell’uso del territorio si verifica un grande sviluppo di insediamenti turistici, inizialmente alberghieri, ma via via sempre più residenziali, con la nascita di vasti insediamenti immobiliari soprattutto nelle valli più prossime ai grandi centri urbani; le ben note “seconde case”, che molte implicazioni avranno sulla gestione delle località turistiche (Macchiavelli 2011). Lo spopolamento della montagna, già iniziato negli anni precedenti, prosegue con forte intensità, frenato nelle alte valli solo dal turismo, che si avvia a diventare l’unica attività economica produttiva della montagna in quota. L’infrastutturazione sciistica è quella che condiziona maggiormente l’uso del territorio esigendo spazi per piste di discesa sempre più ampie, anche a fronte di impianti sempre più capaci, e soprattutto collegamenti con impianti e piste tra una valle e l’altra; indubbiamente questa vasta infrastrutturazione ha garantito, anche negli anni a venire, un importante numero di posti di lavoro. L’attività dei frequentatori della montagna si colloca fondamentalmente su due assi: l’escursionismo in estate, che per una componente minoritaria diventa alpinismo, e lo sci d’inverno. Il confine tra escursionismo ed alpinismo è abbastanza evidente per chi frequenta con assiduità la montagna, ma non per chi la guarda dal basso: lo zaino, l’abbigliamento, persino una parte dell’attrezzatura, sono sostanzialmente gli stessi per i praticanti dell’ uno o dell’ altro e per l’uno e per l’altro sono i sentieri e i rifugi. Le esigenze turistiche hanno contribuito a ridurre la differenza agli occhi del grande pubblico attraverso l’infrastrutturazione delle cime e delle pareti, che grazie alle vie ferrate e ai sentieri attrezzati sono diventate accessibili anche a modesti escursionisti. I frequentatori della montagna hanno quindi concorso, più o meno direttamente e consapevolmente, a conservare viva la montagna, anche se non si può negare che senza la loro ingombrante presenza la natura sarebbe meno compromessa, specie in alcuni luoghi. Di fatto gli escursionisti, soprattutto attraverso le loro associazioni impegnate nella cura di sentieri e ambienti alpini, hanno contribuito alla salvaguardia della montagna e conseguentemente a tenerla viva, finendo per sostituire il lavoro che era proprio dei montanari (Varotto 2009). Ma certo è difficile delimitare il profilo dell’escursionista da quello del “passeggiatore”, come vedremo anche nelle diverse fasi della nostra ricerca, riportate nei capitoli successivi. In questo periodo di grande sviluppo del turismo montano, comunque, quella del percorrere valli e sentieri, per brevi o lunghi tratti, è sostanzialmente l’unica pratica “attiva” propria del frequentatore estivo della montagna, essendo tutte le altre numerose attività attuali ancora lontane: e l’escursionismo si chiamava ancora così e non “trekking”, come è venuto in uso più tardi. A questa si affiancavano le pratiche meno fisiche, che per quanto riguarda il rapporto con il paesaggio, erano certamente favorite, oltre che dall’automobile, dall’abbondanza degli impianti di risalita, grazie soprattutto al grande sviluppo di seggiovie e cabinovie.

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derivava - era decisamente “sportivo”, indicando con ciò una pratica che esigeva una buona dotazione segnanti/allenatori (i maestri di sci), una costanza di apprendimento (i corsi almeno settimanali) e mente per la discesa. Le altre pratiche sulla neve (slittino, pattinaggio e anche lo sci da fondo) sono diventate di fatto marginali, più come diversivo che come alternativa allo sci; lo sci-alpinismo era riservato, come oggi del resto, agli alpinisti. Quello che oggi chiamiamo wellness non rappresentava li – almeno in Italia – non erano localizzati in montagna. Interessante notare che laddove invece all’avvento dello sci era una nota località termale, la società delle Terme ha preso in carico la gestione mico. 1.2. Nuove esigenze del turista e nuove potenzialità per la montagna

A partire dagli anni ’90 il turismo montano comincia a vivere una stagione di più evidente incertezza. Cominciano a diventare percepibili anche agli operatori meno lungimiranti alcuni fattori che ne limitano le potenzialità o quantomeno che mettono in discussione il ruolo che nel mercato del concretamente sentire con alcuni inverni consecutivi senza neve, ma anche con qualche punta di caldo torrido estivo che induce a fuggire dalla città per trovare refrigerio alle quote più alte. Si comincia a prendere atto che la popolazione invecchia e che la domanda di giovani e giovanissimi per le settimane bianche (che a loro volta diventano sempre meno settimane e sempre più weekend lunghi) tende a diminuire; così come si avverte l’emergere di una domanda giovanile che sulla neve chiede di divertirsi, con lo snowboard, senza vincoli di durata, senza l’abbigliamento tradizionale e con meno regole possibili. Ma l’insidia maggiore viene da un turismo che cresce in ogni direzione e non consente più alla “settimana bianca” di essere l’unica alternativa alla vacanza invernale; il periodo di soggiorno si accorcia, ma le opportunità si moltiplicano e le possibilità di soddisfarle nei modi più diversi sono sempre maggiori anche verso destinazioni lontane, con costi che, grazie alla diminuzione del prezzo dei voli, diventano assolutamente concorrenziali con quelle della settimana sulla neve, che, come è noto, ha complessivamente costi rilevanti. Alla luce di queste tendenze, gli studiosi individuano, nel turismo alpino la classica condizione di un prodotto che ha ormai raggiunto la sua maturità (Keller 2000; Macchiavelli 2008) e che nel trend del suo ciclo di vita esige un rilancio per ritrovare una nuova appetibilità nei confronti dei mercati tradizionali e di quelli emergenti. La prima componente da considerare per favorire un ripensamento della funzione delle destinazioni alpine è proprio quella delle motivazioni e delle attività che coloro nale, fondata in estate sull’ambiente, il paesaggio e le attività escursionistiche e alpinistiche, e in inverno su un turismo quasi esclusivamente orientato ad un’attività sportiva per persone attive e in buona salute (lo sci da discesa), soddisfa ormai solo una parte del mercato: i giovani chiedono spazi

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Il volume è il frutto di una ricerca svolta dal Centro Studi per il Turismo e l’Interpretazione del Territorio (CeSTIT) dell’Università di Bergamo per conto di Ersaf-Regione Lombardia, nell’ambito del Progetto Vetta, e rappresenta uno degli studi più completi sul rapporto della popolazione del Nord Italia con la montagna. Dopo un’analisi su come l’escursionismo alpino è stato affrontato dalla letteratura scientifica, il volume riporta i risultati di un’indagine sul rapporto della popolazione con la montagna. Si concentra poi sul mondo giovanile, grazie a un’analisi effettuata presso un campione di studenti delle scuole superiori delle province di Sondrio, Lecco e Milano. La ricerca dell’Università di Bergamo si conclude con un’analisi qualitativa svolta nelle stesse province sulle sezioni CAI, al fine di mettere a fuoco il ruolo oggi svolto dall’associazionismo alpino più rappresentativo nel favorire il rapporto con la montagna, in particolare in ambito giovanile. Il capitolo iniziale interpreta i risultati delle indagini citate in chiave di frequentazione turistica della montagna, ponendo l’accento sulle implicazioni che questa evoluzione del comportamento e delle aspettative dei turisti e degli escursionisti pone all’offerta turistica delle località alpine. Il volume accoglie inoltre i contributi di una ricerca effettuata da medici delle sezioni lombarde del Club Alpino Italiano sul rapporto tra montagna e salute e i risultati di un progetto realizzato dalle sezioni lombarde del CAI per avvicinare i giovani alla montagna. Andrea Macchiavelli è docente di Economia del Turismo al corso di laurea specialistica dell’Università di Bergamo ed è responsabile del Dipartimento Turismo di Gruppo Clas, società di consulenza milanese. Docente presso vari master e corsi di specializzazione, ha pubblicato libri e articoli scientifici su riviste italiane e straniere. Ha sviluppato approfondimenti in particolare nel campo del turismo montano. È coordinatore del CeSTIT (Centro Studi per il Turismo e l’Interpretazione del Territorio) dell’Università di Bergamo. È membro del Comitato scientifico di “Turistica, trimestrale di economia e management del turismo” ed è membro attivo dell’AIEST (Association Internationale d’Experts Scientifiques du Tourisme). ISBN 978-88-6627-153-6

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