Massimo Marino , ingegnere
ambientale, è uno dei fondatori di Life Cycle Engineering, società di consulenza strategica nel campo della sostenibilità ambientale. Da molti anni si occupa in particolare dell’applicazione della metodologia del Life Cycle Assessment ai prodotti del settore agroalimentare. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui il manuale Analisi del ciclo di vita lca (Edizioni Ambiente, Milano 2008). www.lcengineering.eu
giurano di conoscerla davvero la formula magica del ‘cibo perfetto’. Peccato che la ricetta cambi in continuazione, in base a mode, interessi, ideologie, o a vere e proprie guerre sante alimentari. E che quindi non esista in realtà, cioè valida ovunque e per tutti. Benvenuto dunque questo tentativo, riuscito, di fare ordine fra le mille soluzioni, e i mille anatemi, con cui ci martellano quotidianamente, e contraddittoriamente, medici e aziende, nutrizionisti e cuochi, guru e predicatori vari. Sotto un unico e condiviso cappello ideale, quello della sostenibilità, gli autori si muovono con l’intenzione di sottoporre al vaglio della verifica razionale e scientifica le varie, e fra loro conflittuali, istruzioni per l’uso che ci vengono insistentemente proposte per il nostro mantenimento, e per quello dell’intero pianeta.” Alessandro Cecchi Paone
www.edizioniambiente.it www.reteambiente.it www.nextville.it www.materiarinnovabile.it www.puntosostenibile.it www.freebookambiente.it
ISBN 978-88-6627-162-8
20,00 euro
il cibo perfetto
del corso Marketing, innovazione e sostenibilità all’Università Roma Tre. Dal 2009 collabora con il Barilla Center for Food and Nutrition per le attività di ricerca e comunicazione. È tra i fondatori dell’associazione InnovAction Lab e ha fatto parte del team RhOME, vincitore dell’edizione 2014 del Solar Decathlon Europe. È autore di numerose pubblicazioni, che vanno da Marketing dei prodotti alimentari di marca (Sperling & Kupfer, 1995) a Marketing digitale (McGrawHill, 2014). www.carloalbertopratesi.it
sunti, in perenne guerra gli uni contro gli altri, che
Marino Pratesi
Carlo Alberto Pratesi è titolare
“Siamo circondati da legioni di esperti veri o pre-
Chi inquina di più: l’insalata in busta o quella fresca? Sotto il profilo ambientale, sono meglio le galline allevate all’aperto o quelle in gabbia? E siamo sicuri che i prodotti a KM 0 abbiano sempre gli impatti più ridotti? E la carne, quale scegliere se vogliamo alleggerire la nostra impronta sul pianeta? E che dire del cibo biologico? E gli ogm? Ogni giorno ci facciamo domande come queste, e spesso le risposte a cui arriviamo sono basate su dati parziali o inesatti. Scritto da uno specialista di valutazione del ciclo di vita dei prodotti e da un esperto di marketing, Il cibo perfetto fa chiarezza in un settore in cui il dibattito spesso assomiglia a una guerra ideologica tra schieramenti opposti. Gli autori analizzano con la metodologia lca tutte le fasi di produzione degli alimenti – in campo o negli allevamenti, trasformazione industriale, confezionamento, distribuzione e consumo – e ne definiscono in modo scientificamente rigoroso gli impatti ambientali. Anche se la cosa può scontentare qualcuno, non esistono ricette facili, e ogni scelta alimentare ha conseguenze complesse, con vantaggi e controindicazioni tanto per noi – come individui consumatori e come parte di una collettività – quanto per l’ambiente.
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IL CIBO PERFETTO
aziende, consumatori e impatto ambientale del cibo
Massimo Marino, Carlo Alberto Pratesi
IL CIBO PERFETTO Aziende, consumatori e impatto ambientale del cibo
Massimo Marino, Carlo Alberto Pratesi il cibo perfetto aziende, consumatori e impatto ambientale del cibo realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it
coordinamento redazionale: Diego Tavazzi progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo
© 2015, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’Editore. ISBN 978-88-6627-162-8 Finito di stampare nel mese di giugno 2015 presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Stampato in Italia – Printed in Italy
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sommario
prefazione Alessandro Cecchi Paone
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presentazione
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introduzione
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contributi al lavoro
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1. cosa c’entra la sostenibilità con il mercato? 1.1 come si comportano le imprese 1.2 cosa vogliono i consumatori 1.3 esiste un marketing “perfetto”? 1.4 dal marketing ai processi
21 24 28 37 45
2. come si calcola e come si comunica l’impatto ambientale 2.1 cos’è l’impatto ambientale 2.2 gli impatti globali e locali 2.3 lca: una metodologia per valutare i sistemi complessi 2.4 gli indicatori usati nella comunicazione 2.5 la comunicazione perfetta: le etichette e la certificazione
51 51 53 57 61 67
3. verità e dilemmi della produzione alimentare 3.1 gli impatti ambientali della coltivazione 3.2 animali e piante: due sistemi interdipendenti 3.3 la fase di trasformazione industriale 3.4 quanto conta la confezione? 3.5 meglio se è a km zero? 3.6 la cottura perfetta: il coperchio sulla pentola 3.7 chi spreca di più 3.8 catena alimentare o filiera controllata?
75 76 94 110 119 129 131 132 134
4.  la sostenibilità vien mangiando
con la collaborazione di Claudio Mazzini e Luca Ruini 4.1 la dieta sostenibile 4.2 dieta e impatti ambientali: come si comunicano? 4.3 è solo il cibo a renderci insostenibili?
139 139 142 145
5. che fare?
149
6. concludendo
155
7. glossario
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note
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prefazione
Alessandro Cecchi Paone
Scrivo volentieri questa prefazione in omaggio al valore e al coraggio dei due autori, che peraltro conosco e stimo da tempo. Infatti, mettersi alla ricerca del “cibo perfetto” (mai titolo fu più accattivante), espone a ogni genere di critica e di fraintendimento. Perché in realtà siamo circondati da legioni di esperti veri o presunti, in perenne guerra gli uni contro gli altri, che giurano di conoscerla davvero la formula magica del “cibo perfetto”. Peccato che la ricetta cambi in continuazione, in base a mode, interessi, ideologie, o a vere e proprie guerre sante alimentari. E che quindi non esista in realtà una formula universale, cioè valida ovunque e per tutti. Benvenuto dunque questo tentativo, riuscito, di fare ordine fra le mille soluzioni, e i mille anatemi, con cui ci martellano quotidianamente, e contraddittoriamente, medici e aziende, nutrizionisti e cuochi, guru e predicatori vari. Sotto un unico e condiviso cappello ideale, quello della sostenibilità, gli autori si muovono con l’intenzione di sottoporre al vaglio della verifica razionale e scientifica le varie, e fra loro conflittuali, istruzioni per l’uso che ci vengono insistentemente proposte per il nostro mantenimento, e per quello dell’intero pianeta. Già su questo tema, come leggerete, prima di tutto la logica invita a non credere che una strategia agroalimentare, proposta in Italia e per l’Italia, possa essere estesa tale e quale ai grandi continenti dove mietono vittime la malnutrizione, l’acqua non potabile, se non la fame e la sete vere e proprie. E dunque: se può essere comprensibile la proposta di proteggere le tipicità enogastronomiche di un piccolo paese fortunato come il nostro dalle coltivazioni estensive e standardizzate geneticamente, come è pensabile sfamare una popolazione che galoppa verso la cifra spaventosa di dieci miliardi entro il 2050 senza investire in ricerca e innovazione? Senza cioè cercare sementi, metodi e nuovi strumenti tecnologici per aumentare la produttività dei campi, anche quelli aridi o salmastri, e difenderli dagli insetti nocivi e parassiti, riducendo l’uso di concimi chimici e pesticidi.
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il cibo perfetto
Stesso discorso vale per il business del biologico e del cosiddetto “chilometro zero”. Soluzioni che si possono permettere comunità medio-piccole con fasce di reddito elevate, disponibili ad acquistare prodotti alimentari che costano più di quelli industriali perché coltivati secondo ritmi stagionali, su appezzamenti di terreno poco estesi, con ampie riserve di acqua e di manodopera specializzata. Ma l’economista e l’ingegnere ambientale che hanno scritto questo utilissimo volume hanno facile gioco a dimostrare, numeri alla mano, che di fronte a mercati di massa, situazioni diverse e climi che cambiano, non esistono soluzioni che vadano bene ovunque, garantendo l’equilibrio sia sul versante dei conti, sia su quello ecologico. Come è normale che sia, nel passaggio dagli scenari macro a quelli micro, la giungla che si aggroviglia intorno al simulacro del “cibo perfetto”, rendendolo invisibile e irraggiungibile, si fa ancora più intricata. Il paradosso è che, trattandosi della salute individuale, anche i meno attenti agli scenari planetari si aggirano attentissimi fra libri, rubriche, diete e raccomandazioni, famelici di parole definitive, che invece non arrivano mai. Facciamo l’esempio di carne, uova, latte e derivati. Che nel mondo del cibo non ci sia una verità condivisa è evidente. Basti pensare a quante volte ci hanno detto, di volta in volta, o contemporaneamente, che alcuni cibi fanno male o che fanno bene. Per non parlare della interrelazione presunta o reale fra determinati alimenti e specifiche bevande e la genesi del cancro; delle alterne fortune del colesterolo e dei grassi in generale, dello zucchero o dell’alcol, dei dolcificanti, dei conservanti o dei coloranti. Lo stesso vale per la questione relativa all’impatto ambientale: anche da questo punto di vista non esiste un “cibo perfetto”. Nelle pagine che seguono capirete che tutto dipende dal criterio usato per misurarlo (consumo di acqua? produzione di CO2? impronta ecologica?) e dall’obiettivo (o valore) che ognuno di noi ha deciso di perseguire producendo o consumando cibo. Quanto poi a scelte radicali e definitive come il vegetarianesimo o il veganismo, la restrizione calorica o il digiuno ciclico programmato, se non altro ci viene qui dato il modo di discernere fra valutazioni medico-scientifiche dimostrabili, sui pro e i contro, e valutazioni filosofiche o etiche del tutto autonome e proprie dei singoli, liberi progetti di vita individuali. Come avrete già capito, segnalo questo studio per l’onestà intellettuale adottata per dire le cose come stanno, e cioè in sostanza: l’Italia non è il mondo, e viceversa; le “rivoluzioni verdi”, come quella che salvò l’India dalla fame, non possono che avere dimensioni industriali e di massa; il modello agricolo tradizionale-artigianale è un privilegio per “happy few”; la “piramide” alimentare mediterranea e la sua derivata “clessidra” ambientale sono di gran lunga i migliori modelli nutrizionali e di sostenibilità, soprattutto per salvare la salute di quel miliardo e mezzo di persone al mondo obese e malate di “junk food”; l’altro
prefazione
miliardo e mezzo che muore letteralmente di fame e sete, prima che di modelli generali, ha prima di tutto bisogno subito di qualcosa da mangiare e da bere; è vero che mangiare bene previene le malattie e allunga la vita; non è vero che si mangiava meglio una volta, quando c’erano i “sapori veri”, perché cento anni fa eravamo tutti più bassi, più brutti e campavamo la metà degli anni di oggi. Auguriamoci che di tutto questo si parli a lungo e bene durante l’Expo 2015, ai suoi esordi mentre andiamo in stampa, proprio perché dedicato a come nutrire il nostro pianeta inquinato e sovrappopolato; e che la Carta di Milano, che al termine ne sintetizzerà i contenuti, non resti un elenco di pur buone, condivisibili intenzioni.
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1. cosa c’entra la sostenibilità con il mercato?
Da decenni le crescenti diseguaglianze economiche, i cambiamenti climatici, la disoccupazione, il degrado, le catastrofi ambientali e le risorse naturali sempre più scarse mettono in discussione il nostro modello di sviluppo. Per troppo tempo ci si era illusi che per garantire il benessere fosse necessario (e bastasse) puntare sulla crescita a tutti i costi, facendo leva sull’aumento della produzione e sul costante incentivo al consumo, evitando di mettere in conto tutti i rischi ambientali e sociali a essi connessi. Ora sappiamo che questo modello economico non è più sostenibile o, come sarebbe meglio dire, non è più “durevole”. sostenibile? nel tempo La traduzione letterale dall’inglese del termine “sustainable” in “sostenibile” può generare confusione. In italiano, almeno nel linguaggio comune, sostenibile è inteso come sinonimo di “tollerabile” o “sopportabile” e, comunque, non è un aggettivo che richiama concetti positivi. Prova ne è che nessuno definirebbe sostenibile il proprio matrimonio, a meno di non essere a un passo dalla separazione. Dunque, la traduzione corretta è “durevole” (non a caso, in inglese, sustain è il pedale del pianoforte che prolunga la risonanza delle note): esattamente come propongono i francesi traducendo “sviluppo sostenibile” con il termine “développement durable”. Un’azienda, una società o un ecosistema possono essere definiti sostenibili solo quando hanno in sé la capacità di mantenersi nel tempo (ossia di generazione in generazione) senza perdere le proprie qualità. Sappiamo che per ottenere questo risultato non basta un equilibrio economico, ma occorre prendere in considerazione gli aspetti sociali e ambientali della pro-
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il cibo perfetto
pria attività. Se si consuma troppa acqua, per esempio, si rischia di non essere più sostenibili nel momento in cui questa diventa una risorsa scarsa e quindi costosa. Se non ci si cura degli interessi dei lavoratori o delle loro famiglie, a lungo andare si può perdere la capacità di attrarre risorse umane di qualità, oltre alla propria reputazione sui mercati finanziari, e così via. Quindi la sostenibilità richiede costante attenzione su tre fronti: economico, ambientale e sociale. Questo è chiaro a tutti. Ma qual è la particolare gerarchia che mette in relazione le tre variabili? La figura 1, che di solito viene utilizzata per illustrare il concetto di “sostenibilità”, presenta tre cerchi di pari dimensioni, affiancati in posizione triangolare, che solo in parte presentano delle aree sovrapposte. Questo schema, molto conosciuto e condiviso, lascia intendere che la “sostenibilità” è quella piccola area al centro dove tutti e tre gli ambiti si sovrappongono. In altre parole induce a pensare che l’obiettivo delle imprese (e dei governi) sia quello di cercare soluzioni e interventi che consentano di rispettare le tre istanze, nella implicita convinzione che, pur essendoci un certo livello di interconnessione tra di esse, nessuna delle tre sia più importante delle altre, né che ci sia una forte dipendenza dell’una nei confronti dell’altra. Purtroppo questa interpretazione è sbagliata. L’errore di fondo è che lo schema ipotizza l’esistenza di un’economia che è (almeno in buona parte) scollegata dalla società, e di una società che può vivere anche in modo slegato dall’ambiente. figura 1
l’approccio tradizionale alla sostenibilità
Economia Sostenibilità Società
Ambiente
Lo schema più frequentemente utilizzato per descrivere il concetto di sostenibilità: si pensa che sia sostenibile ciò che soddisfa contemporaneamente requisiti ambientali, sociali ed economici. Fonte: rappresentazione diffusa del concetto di sostenibilità.
1. cosa c’entra la sostenibilità con il mercato?
figura 2
una nuova visione della sostenibilità
Società
Economia
Ambiente
In questo schema innovativo, l’economia è tutta all’interno della società, che a sua volta viene completamente contenuta dall’ambiente naturale. Fonte: rappresentazione diffusa del concetto di sostenibilità.
Lo schema più corretto (figura 2) è invece quello che vede i tre cerchi in posizione concentrica: il più piccolo è quello dell’economia, situato all’interno dell’area “società”, a sua volta inserita nel cerchio “ambiente”. Il messaggio in questo caso è ben diverso: non può esistere un’economia se non all’interno di una società, e nessuna società umana può sopravvivere se non ha un ambiente naturale che la accolga e la sostenga. Il fatto che l’ambiente (ossia il pianeta) sia l’elemento nel quale tutto avviene e dal quale tutto dipende viene troppo spesso dimenticato. Solo le catastrofi, ormai sempre più frequenti, ci ricordano come bastino piccole variazioni ambientali (anche solo un paio di decimi di grado in più di temperatura media) a mandare in tilt la società e, di conseguenza, l’economia. E non è difficile immaginare cosa succederebbe all’economia e alla società se si esaurissero, o risultassero ancora più difficili da estrarre, alcune risorse naturali, come l’acqua potabile o il petrolio. Quando si parla di sviluppo sostenibile si pensa più spesso alle variabili ambientali, piuttosto che a quelle sociali o economiche. Non perché siano necessariamente le più critiche (sappiamo bene che sono i problemi economici quelli che più di frequente rendono insostenibili le aziende) ma perché la loro corretta gestione in un’ottica di medio-lungo periodo deve essere considerata come un prerequisito per la sopravvivenza. Ecco perché, in questo libro sulla sostenibilità, si parlerà soprattutto di questioni ambientali.
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il cibo perfetto
verso l’economia “circolare” Che lo si accetti a no, siamo chiamati a modificare il nostro modello di sviluppo basandoci sul presupposto che viviamo in un mondo finito, con risorse finite e una popolazione che potrebbe presto superare i nove miliardi di persone. Su questo si basa la nuova “economia circolare” che riconosce i limiti oggettivi alla capacità di carico del nostro pianeta, tenendo conto del numero di esseri umani che lo abitano, del loro stile di vita, dei livelli di produzione, dell’impiego di energia e materie prime, dei consumi e della produzione di rifiuti: un modello economico la cui stabilità non dipende dal continuo aumento dei consumi, ma dal mantenimento “durevole” di buone condizioni ambientali e sociali. In quest’ottica, il cambiamento che imprese e consumatori sono chiamati a porre in essere deve prevedere una rivisitazione completa dei modelli di business e degli stili di consumo, considerato che la stragrande maggioranza delle produzioni attuali non sono sostenibili, non solo per le risorse che consumano, ma anche per l’enorme quantità di scarti che generano e che non si è ancora capaci di recuperare in modo efficiente. Il nuovo sviluppo si deve ispirare al mondo della natura e della fisica, creando sistemi che siano autosufficienti, senza sprechi o perdite di energie. È possibile? Di certo non sembrano esserci alternative, se si vuole far convivere la nostra economia all’interno di un sistema ecologico finito.
1.1 come si comportano le imprese Nella seconda metà del secolo scorso, l’impatto ambientale delle proprie attività era considerato dalle aziende come un problema abbastanza marginale. La maggior parte dei manager ritenevano che fosse sufficiente impegnarsi per restare all’interno dei vincoli di legge. Se si andava oltre, lo si faceva solo per acquisire un posizionamento utile a raggiungere un numero piuttosto esiguo di potenziali consumatori, idealisti e quindi disposti a spendere soldi propri per un beneficio che sarebbe andato a vantaggio della collettività. Il più delle volte, quindi, quella della sostenibilità si rivelava una strategia di nicchia, spesso indebolita dal fatto che i consumatori percepivano l’opzione verde come un’alternativa d’acquisto penalizzante in termini di performance del prodotto.3 L’atteggiamento è iniziato a cambiare una quindicina di anni fa, quando le tematiche ambientali, inserite nel più ampio concetto della responsabilità sociale d’impresa (csr), sono diventate per le imprese una questione di (buona) re-
1. cosa c’entra la sostenibilità con il mercato?
putazione: non tenerne conto poteva trasformarsi in una scelta penalizzante. La pubblicazione del bilancio ambientale (o sociale) cominciò a essere percepita come un prerequisito per chiunque fosse interessato a gestire in modo proattivo gli stakeholder, e i prodotti verdi o biologici cominciarono a diffondersi anche tra gli scaffali della moderna distribuzione. Oggi, un impegno verso la sostenibilità non può più essere considerato come una semplice strategia di posizionamento. Per certi versi non è più neanche una scelta, considerato che ogni azienda è chiamata a inserire tra i suoi parametri di autovalutazione anche le tematiche dell’ambiente e del sociale. Essere sostenibili non è più la strada per acquisire un’identità sul mercato, o lo strumento per ammantarsi di un’immagine etica (considerato oltretutto che il rischio di essere accusati di greenwashing è sempre più alto). È molto di più: è la condizione necessaria per la sopravvivenza stessa del proprio business, soprattutto considerando che basta un sussulto dell’opinione pubblica, sapientemente diffuso attraverso i media (a partire da quelli social e digitali) per scatenare boicottaggi e accuse di “insostenibilità”. Bastano una denuncia riguardante le condizioni di lavoro in una fabbrica asiatica, il sospetto che una componente del prodotto alimentare sia poco sana o un atteggiamento troppo disinvolto sul fronte fiscale o finanziario, per generare danni difficili da controbilanciare con investimenti in pubblicità. greenwashing Quando c’è di mezzo la qualifica “green” è sempre bene valutare fino a che punto ciò che un’impresa comunica sia coerente con i suoi comportamenti. Sono infatti tutt’altro che rari i casi di greenwashing, intendendo con questo termine le attività messe in atto dalle aziende per acquisire una reputazione “verde”, senza in realtà avere titolo per farlo. Si fa greenwashing soprattutto attraverso attività di comunicazione, e un elemento che in genere contraddistingue questo tipo di pratica è l’assenza di riferimenti chiari alla propria specifica attività di business e di informazioni relative ad azioni concrete intraprese per renderla più sostenibile. Va detto che le attività di greenwashing non sono sempre il risultato di un atteggiamento opportunista, ma in molti casi possono dipendere da una mancanza di competenze in materia di management ambientale, da parte sia delle aziende sia del mercato. Oggi neanche i marchi più amati e blasonati possono fronteggiare un’accusa di scarsa sensibilità alle tematiche ambientali o sociali. Chi ancora si ostina a man-
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il cibo perfetto
tenere un atteggiamento basato sul breve periodo, ancorato a un vecchio modo di interpretare il valore dell’impresa, più vicino alle questioni finanziarie che a quelle sociali, rischia di vedere vanificati i propri investimenti di marketing. Permangono evidentemente delle notevoli differenze tra aziende che operano nello stesso comparto (si veda al riguardo il box “Behind the Brands”): alcune si sono impegnate di più e da più tempo, assumendo un atteggiamento proattivo, altre hanno optato per strategie attendiste, aspettando che fossero le regole del mercato a rendere inevitabile un loro cambio di rotta.4 behind the brands: la pagella di oxfam e la corsa alle sostenibilità del settore agroalimentare5 A cura di Eleonora Vannuzzi Molte aziende del settore agroalimentare si stanno impegnando in programmi e dichiarazioni di responsabilità sociale e ambientale. Gli interventi messi in atto dai diversi brand spesso non sono confrontabili tra loro, e poche aziende rilasciano informazioni complete relativamente ai loro processi produttivi. In poche parole, risulta difficile misurare, in modo concreto, quali interventi abbiano portato a un miglioramento tangibile, e quali invece siano da annoverarsi come meri tentativi di rafforzare la propria strategia comunicativa. Per ovviare a tale problema, nel 2013 Oxfam ha lanciato la campagna Behind the Brands (“Scopri il marchio”), che analizza le politiche sociali e ambientali delle principali multinazionali del settore agroalimentare e le sfida a competere per le migliori performance in termini di sostenibilità. All’interno della campagna Coltiva – il cibo, la vita, il pianeta, l’iniziativa ha preso in considerazione le dieci più grandi e influenti aziende del settore alimentare (Associated British Foods, Coca Cola, Danone, General Mills, Kellogg’s, Mars, Mondelez International, Nestlé, PepsiCo e Unilever). A ciascuna di esse, Oxfam ha assegnato un voto, esaminando le performance relative a sette tematiche fondamentali per il raggiungimento di una produzione sostenibile: il rispetto dei diritti di braccianti e produttori agricoli di piccola scala; le disuguaglianze di genere; la gestione della terra e dell’acqua utilizzate nel processo produttivo; le azioni di mitigazione e contrasto al cambiamento climatico; la trasparenza nella gestione delle proprie attività. Le multinazionali hanno risposto alla sfida cercando di migliorare di anno in anno i propri punteggi e la propria reputazione. Nestlé e Uni-
1. cosa c’entra la sostenibilità con il mercato?
figura 3
la “pagella” delle multinazionali dell’agroalimentare di oxfam Marzo 2015
Azienda
%
Suoli
Donne
Agricoltori
Operai
Clima
Apertura
Acqua
Totale
1
71%
7
5
8
8
9
7
6
50/70
2
69%
8
5
7
6
8
7
7
48/70
3
54%
8
6
2
6
6
5
5
38/70
4
43%
7
2
2
3
6
5
5
30/70
5
40%
2
5
4
4
6
4
3
28/70
6
37%
3
6
4
3
4
4
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26/70
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34%
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2
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5
3
24/70
=
31%
2
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3
6
5
3
22/70
=
31%
2
2
2
2
5
4
5
22/70
10
30%
3
2
3
4
4
3
2
21/70
8 8
8-10 Buono
6-7 Discreto
4-5 In miglioramento
2-3 Debole
0-1 Molto debole
Fonte: elaborazione su dati Oxfam 2015.
lever si sono piazzate in testa alla classifica, grazie a un numero maggiore di attività volte rispettivamente alla lotta al cambiamento climatico e alla tutela dei diritti di braccianti e piccoli produttori agricoli. Segue Coca Cola, impegnata a tutelare il diritto di accesso alla terra nei paesi e General Mills, i cui in cui opera, mentre nelle ultime posizioni impegni per mitigare l’impatto delle loro attività sui produttori, le comunità e l’ambiente non sono ancora adeguati. La campagna ha riscosso un grandissimo successo grazie al massiccio coinvolgimento della società civile. A partire da febbraio 2013, data di lancio dell’iniziativa, più di 700.000 persone hanno chiesto alle aziende coinvolte di impegnarsi per migliorare le proprie performance, sollecitandole a comportarsi in maniera più sostenibile.
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ambientale, è uno dei fondatori di Life Cycle Engineering, società di consulenza strategica nel campo della sostenibilità ambientale. Da molti anni si occupa in particolare dell’applicazione della metodologia del Life Cycle Assessment ai prodotti del settore agroalimentare. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui il manuale Analisi del ciclo di vita lca (Edizioni Ambiente, Milano 2008). www.lcengineering.eu
giurano di conoscerla davvero la formula magica del ‘cibo perfetto’. Peccato che la ricetta cambi in continuazione, in base a mode, interessi, ideologie, o a vere e proprie guerre sante alimentari. E che quindi non esista in realtà, cioè valida ovunque e per tutti. Benvenuto dunque questo tentativo, riuscito, di fare ordine fra le mille soluzioni, e i mille anatemi, con cui ci martellano quotidianamente, e contraddittoriamente, medici e aziende, nutrizionisti e cuochi, guru e predicatori vari. Sotto un unico e condiviso cappello ideale, quello della sostenibilità, gli autori si muovono con l’intenzione di sottoporre al vaglio della verifica razionale e scientifica le varie, e fra loro conflittuali, istruzioni per l’uso che ci vengono insistentemente proposte per il nostro mantenimento, e per quello dell’intero pianeta.” Alessandro Cecchi Paone
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Carlo Alberto Pratesi è titolare
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