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Neomateriali nell’economia circolare a cura di Anna Pellizzari ed Emilio Genovesi con i contributi di Emanuele Bompan, Rudi Bressa, Sergio Ferraris, Marco Gisotti, Irene Ivoi, Roberto Rizzo © 2017, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Coordinamento: Anna Re Coordinamento editoriale: Marco Moro Redazione: Diego Tavazzi Progetto grafico: Mauro Panzeri Impaginazione: Roberto Gurdo Infografiche: Michela Lazzaroni referenze iconografiche ©2017 Material ConneXion, Inc. – Riproduzione autorizzata (18, 19, 33, 37, 38, 39, 42, 43, 45, 46, 47, 49, 53, 57, 58, 59, 61, 63, 65, 68, 73, 74, 75, 77) Oleg Fedorenko (86, 87); Alberto Bernasconi (96, 102-105); Caterina Parona (106); Studio Gaggini (118); Massimo Mastrorillo (120-129); Andrea Tappo (140, 141, 166, 167); Studio Badini Createam (196); Quaranta Group (204); Stahlbau Pichler (204, 205); Enrico Cano (204); Oskar Da Riz (205) Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’editore
ISBN 978-88-6627-197-0 Finito di stampare nel mese di febbraio 2017 presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Stampato su carte Favini: copertina Biancoflash Premium 350 g/m2, interno Biancoflash Premium 120 g/m2. Stampato in Italia – Printed in Italy
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LIBRI
NEOMATERIALI NELL’ECONOMIA CIRCOLARE a cura di Anna Pellizzari ed Emilio Genovesi
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Prefazione di Rodrigo Rodriquez
Gli scenari della materia di Anna Pellizzari ed Emilio Genovesi
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Dalla linea al cerchio
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La materia è finita
16
Neomateriali circolari come elemento tangibile della nuova economia
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I materiali circolari: un percorso che parte da lontano
24
Sfide e opportunità
36
I materiali bio-based: fonti rinnovabili per vecchie e nuove filiere
38
Materiali bio-based vegetali: da dove vengono
44
Materiali bio-based animali: da dove vengono
44
I microorganismi: processi efficienti che imitano la natura
44
Bio-based e circolare
52
I materiali neo-classici: le grandi filiere dell’economia circolare
54
I materiali neo-classici: processi, filiere e tecnologie
62
Filiere più recenti: il riciclo dei prodotti tecnologici avanzati
68
Ex-novo materials: quando l’innovazione parte dai rifiuti
68
Materiali da scarti dell’industria alimentare e cosmetica
70
Materiali da reflui e fanghi
72
Materie sottratte alla discarica: filiere sperimentali
74
Materiali da rifiuti dispersi nell’ambiente
76
Materiali da ceneri di inceneritore
78
Materiali da CO2
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Fonti
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I materiali dell’economia circolare Le materie chiave
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Acciaio di Sergio Ferraris
96
Alluminio di Sergio Ferraris
106
Bioplastica di Emanuele Bompan
116
Calcestruzzo di Marco Gisotti
120
Carta di Sergio Ferraris
130
Legno di Roberto Rizzo
140
Plastica di Emanuele Bompan
150
Pneumatici di Emanuele Bompan
160
Vetro di Marco Gisotti
Applicazioni innovative, ricerche e start-up 166
Pneumatici riciclati per traversine smart di Rudi Bressa
172
Polifenoli per la cosmetica di Rudi Bressa
176
Il bio-based per la carta grafica di Sergio Ferraris
180
Le infinite sfumature di grigio degli aggregati industriali di Rudi Bressa
190
Fibra di basalto per la nautica di Sergio Ferraris
192
rPET di Sergio Ferraris
194
L’uovo diventa palazzo di Sergio Ferraris
196
La carta tra presente e futuro di Irene Ivoi
200
Quando il polimero è vegetale di Sergio Ferraris
202
Terre di spazzamento per pietre artificiali di Anna Pellizzari
204
L’acciaio nelle costruzioni: una risorsa infinita
207
Gli autori
SOMMARIO
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Nella pagina accanto: Saccharum officinarum, Franz Eugen Köhler, Köhler’s Medizinal-Pflanzen 125 6
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Wikimedia Commons
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Prefazione
di Rodrigo Rodriquez
Mentre, nell’agosto del 1997, scrivevo l’introduzione al catalogo della mostra Riusi, che sarebbe stata inaugurata alla Triennale di Milano nel novembre 1997, non avrei mai immaginato che oggi avrei avuto il piacere di introdurre questo autorevole volume sui “Neomateriali” dell’economia circolare. Ri-usi era l’edizione italiana della mostra Re(f)use, il cui concetto era scaturito, a Miami, da uno degli scambi di idee che, nel mio ruolo di componente attivo del committee della piccola e nobile Arango Design Foundation, avevo ogni anno con Judith Arango, “pioniera e missionaria del design”, per decidere il tema della successiva edizione della Design Competition. Judith conosceva, e io ne avevo letto soltanto un’ampia recensione, lo scritto di Kenneth E. Boulding, The Economics of the Coming Spaceship Earth, che iniziava così: “Siamo nel mezzo di un lungo processo di transizione nell’immagine che l’uomo ha di se stesso e del suo ambiente”, e il cui messaggio complessivo era che a breve saremmo stati costretti a utilizzare con parsimonia le risorse che abbiamo, così come devono fare gli astronauti che sanno che il viaggio può essere più lungo del previsto. Nel ragionare sui possibili temi, venne naturale a entrambi pensare che questo messaggio si sarebbe rafforzato e diffuso nel prossimo futuro, diventando un ingrediente sempre più presente nei briefing forniti dall’industria al mondo del progetto. Dunque, nel 1995 la Design Competition ebbe come tema il riutilizzo dei componenti del manufatto per svolgere funzioni diverse: Re(f)use, appunto. A circa 20 anni di distanza, mi vien da sorridere, per la mia volenterosa ingenuità, rileggendo, nel catalogo della mostra, che “Ri-usi si propone di dimostrare come il design – inteso come processo che dall’idea innovativa porta al prodotto – sappia darsi carico di creare, dal vecchio, una generazione di nuovi beni di consumo durevoli, di stimolare il progetto della metamorfosi, di assumere la sostenibilità come variabile centrale del progettare”.
Rodrigo Rodriquez Nato a Roma nel 1937, ha ricoperto ruoli di vicepresidente e amministratore delegato presso Cassina Spa, C&B Italia e della Marcatrè Spa. È stato inoltre presidente di Federlegno-Arredo e di UEA (Union Européenne de l’Ameublement). Attualmente è presidente di Forza Projects Ltd, Londra, e di Material ConneXion Italia Srl, amministratore unico di Material Connexion Bilbao SL, membro del Cda di Antares Illuminacion Sa (Gruppo FLOS), del collegio dei probiviri di Confindustria di Roma e del Cda di Fondazione ADI Compasso d’Oro.
Come hanno scritto Emilio Genovesi e Anna Pellizzari in questo libro, quell’intenzione ha preso corpo, diventando l’economia circolare. È una materia interdisciplinare che, come ci spiegano nei capitoli della sezione “Dalla linea al cerchio”, conduce a un sistema economico pensato per potersi rigenerare da solo. Due ultime notazioni, personali. Nella mia introduzione a Ri-usi scrivevo che la mostra, presentando prevalentemente oggetti italiani, era anche un omaggio alla tradizione italiana, che dalla limitatezza delle risorse, quando non dalla povertà, ha sempre tratto stimolo per recuperare, per conservare ridando valore, grazie alla mescola tra opportunismo e genialità, tipica della cultura, anzi della civiltà, italiana. E questo libro è scritto da intelligenze e sensibilità italiche, e racconta esperienze italiane, vere best practice di cui andare orgogliosi. Infine, come presidente di Material ConneXion Italia, leggo con piacere, e quindi lo sottolineo, che “il materiale è il protagonista fisico dell’economia circolare”. Prefazione
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1 Gli scenari della materia di Anna Pellizzari ed Emilio Genovesi
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Dalla linea al cerchio È in corso una svolta nello scenario delle materie prime che riforniscono la produzione industriale. Cambiano i materiali, cambiano le determinanti economiche, e in breve tempo può cambiare il rapporto con le risorse primarie e il patrimonio naturale. Un elemento centrale di questi cambiamenti risiede nella comparsa sul mercato di nuovi materiali che definiremo “circolari”. Questo volume esplora il mondo delle nuove materie prime che, pur prodotte con impatti ridotti sulle risorse naturali, offrono prestazioni e caratteristiche sempre più vicine ai materiali tradizionali. Verrà proposta una definizione di questa categoria di materiali e ci si interrogherà sul contributo che offrono ai processi di ottimizzazione delle risorse; e infine si fornirà una serie di casi-studio concreti attraverso alcune “storie” di materiali circolari, esempi tangibili di questo cambio di paradigma.
La materia è finita
Nella pagina accanto: il primo principio della termodinamica afferma che la variazione dell’energia interna di un sistema (∆U) è pari alla differenza tra il calore assorbito dal sistema (Q) e il lavoro fatto dal sistema (W)
La percezione della finitezza delle risorse ha da sempre accompagnato l’uomo e lo sviluppo delle civiltà; la corsa alle materie prime, fossero esse di tipo alimentare, manifatturiero, o energetico, è stata determinante nelle politiche, nei conflitti e negli spostamenti di merci e persone – basti citare le vie del sale, della seta o delle spezie; la corsa all’oro o le campagne del grano; fino alle più recenti guerre per il petrolio. Tuttavia, se un tempo tale percezione si esplicitava in una prospettiva locale e immediata, attraverso carestie, siccità, o l’indisponibilità di materie prime per condizioni geografiche o economiche, con il tempo essa ha assunto contorni e dimensioni più complesse e sfumate. A seguito della Rivoluzione industriale, infatti, e in particolare a partire dal secondo dopoguerra, lo straordinario sviluppo tecnologico dell’Occidente ha determinato un’improvvisa ricchezza complessiva e una percezione di disponibilità di prodotti e materiali pressoché infinita. A questo fenomeno hanno contribuito diversi fattori: il boom economico e la nascita della cosiddetta “società dei consumi”; la plastica come materiale dalle illimitate possibilità applicative e originata da una materia prima abbondante e a buon mercato come il petrolio; lo sviluppo dei trasporti di materiali e prodotti, che iniziano a spostarsi rapidamente nel mondo consentendo un approvvigionamento di risorse anche da luoghi lontani e attivando quel processo che oggi definiamo “globalizzazione”. Questa illusione di infinitezza è stata quindi nel contempo causa ed effetto dello sviluppo di un modello di produzione e consumo, definito “lineare”, ancora oggi praticato in gran parte dell’industria globale, basato su produzioneuso-dismissione dei beni. Un ciclo “produco, utilizzo e butto via” che è sempre più rapido, perché per alimentare questo meccanismo e generare una crescita dei consumi il modello lineare non può che prevedere la riduzione dei tempi di vita dei prodotti, tipicamente attraverso politiche più o meno consapevoli di obsolescenza programmata, di tipo funzionale e semantico. I prodotti, siano essi a elevato contenuto di tecnologia o, all’opposto, di valori immateriali, come avviene nella moda, invecchiano sempre più velocemente, richiedendo una sostituzione con cicli temporali sempre più ridotti. Anche quando il loro valore è riconducibile ad aspetti intangibili, essi sono pur sempre fabbricati a partire da materie prime che tangibili lo sono eccome, e spesso sono anzi preziose, come nel caso, per esempio, di smartphone e tablet, la cui componente elettronica contiene argento, platino, rame, oro, terre rare.
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Dalla linea al cerchio
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È oggi universalmente riconosciuto come questo impiego frenetico e compulsivo delle risorse, combinato con l’accelerata pressione demografica a cui il pianeta è e sarà sottoposto negli anni a venire, e con un utilizzo spesso poco efficiente delle risorse, non sia più sostenibile. Non si contano gli studi e le analisi che dimostrano, numeri alla mano, come l’era delle risorse abbondanti e a buon mercato sia finita da un pezzo: tutte le risorse di materie prime, dai materiali fossili, ai metalli, così come le riserve ittiche, di legname, acqua, terreno fertile, aria pulita e biomassa non possono più essere considerate alla stregua di “commodity infinite”. Le previsioni, inoltre, non sono ottimistiche: si stima che la richiesta di materie prime alimentari potrebbe aumentare fino al 70% nel 2050 e che, nel contempo, almeno il 60% degli ecosistemi a livello mondiale da cui queste risorse dovrebbero derivare siano in effetti già degradati o sfruttati in maniera eccessiva. Se questa doppia tendenza dovesse procedere all’attuale velocità, nel 2050 ci troveremmo ad aver bisogno di due pianeti. Oltre a rappresentare un problema ambientale, questi scenari hanno ripercussioni dirette sugli equilibri economico-industriali: operando in un sistema sempre più collegato e complesso, le imprese si trovano a dover affrontare i rischi della scarsità e volatilità dei prezzi delle materie prime, il che ha effetti negativi che si riflettono sull’economia in generale. Ciò è particolarmente vero in quei paesi o regioni, come l’Europa, che, non potendo contare su risorse interne, fanno affidamento sull’importazione per l’approvvigionamento di moltissime risorse di base. Ciononostante, oggi in Europa ben 6 tonnellate di materie prime, delle 16 complessive consumate ogni anno da ogni singolo cittadino dell’Unione, diventano scarti. Ma non solo: di queste 6, metà non vengono nemmeno recuperate e finiscono in discarica. Mettere in atto politiche e azioni per un cambio di paradigma risulta quindi una necessità, economica in primis. L’indice McKinsey dei prezzi delle materie prime mostra un’impennata verticale a partire dal 2005, e in qualche anno ha raggiunto valori visti in passato solo in corrispondenza della Prima guerra mondiale. Va peraltro sottolineato come negli ultimi anni la crescita abbia rallentato, ma sia comunque destinata a non ridimensionarsi in maniera significativa nel prossimo futuro. Siamo quindi di fronte non a singoli fenomeni acuti, bensì a problematiche croniche che determinano uno scenario permanente con cui la nuova economia sarà necessariamente obbligata a fare i conti.
Indice McKinsey dei prezzi delle materie prime 260 240
I guerra mondiale
220 200
1970 Shock petrolifero
180
II guerra mondiale
160 140 120 100
14
13 20
10 20
00 20
90 19
0 19 8
0 19 7
0 19 6
50 19
40
20 19
10 19
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00
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Punto di svolta nel trend dei prezzi
Grande depressione 19
Depressione post bellica
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Neomateriali circolari come elemento tangibile della nuova economia Le risposte a questi scenari sono di natura diversa: da quelle offerte dal modello liberista neo-classico, che ritiene il mercato in grado di regolare questi fenomeni da sé, producendo gli anticorpi necessari a individuare nuovi percorsi; alle proposte alternative che sostengono la necessità di superare l’idea di crescita economica come portatrice e misura del benessere individuale e collettivo e propongono un cambio di paradigma centrato sul rallentamento e sulla decrescita. Indipendentemente dalle singole posizioni, e dalle relative ricette, però, tutti paiono convergere verso la necessità di non limitarsi a operare sulla quantità, riducendo materiali, energia e, in ultima analisi, consumi, ma di intervenire invece sulla qualità e sulle caratteristiche strutturali dei processi di produzione, ribaltandoli e riorganizzandoli attraverso un percorso che riduca gli sprechi e utilizzi al meglio le risorse. È esattamente questa la direzione in cui si muove l’economia circolare. Ma che cos’è l’economia circolare? Posto che la definizione univoca di economia circolare è un’attività in progress, e di cui si discute molto a livello istituzionale e industriale, possiamo rimandare allo schema realizzato dalla Ellen McArthur Foundation e fare riferimento al volume di Emanuele Bompan e Ilaria Brambilla Che cos’è l’economia circolare per maggiori approfondimenti. Si tratta in sostanza di un superamento dello schema lineare produco-consumo-dismetto attraverso un modello che punta a reimmettere nel ciclo produttivo la massima quantità possibile (tendenzialmente: tutto) di risorse – laddove per “risorsa” non si intende solo la materia fisica che compone il prodotto ma anche i collaterali che entrano nel processo di trasformazione, come aria, acqua o energia impiegate nella produzione di un prodotto, sia esso derivante da fonte fossile o da fonte rinnovabile. Ciò non si limita a dismettere e riciclare il prodotto finito ma si estende a diverse “policy di rientro”, che possono essere indirizzate ai vari livelli della catena produttiva, dall’auto-riparazione fino allo smaltimento e al ritorno all’origine nella catena che porta a una nuova produzione. L’idea di economia circolare va oltre il ciclo del singolo prodotto, proponendo sinergie tra diverse imprese finalizzate al riutilizzo di ciò che per un’industria è scarto e che per altre industrie può essere risorsa; oppure immaginando modelli di consumo diversi, come il noleggio, in cui la gestione, e quindi in ultima analisi la responsabilità, del manufatto rimane in capo all’azienda, la quale riesce a centralizzare le pratiche di gestione del prodotto (riparazione, aggiornamento, sostituzione pezzi, fino al ritiro e smaltimento finale) in maniera più competente ed efficiente. Pur essendoci dunque un sostanziale accordo su cos’è l’economia circolare nella sua definizione teorica e nei suoi obiettivi, la sua implementazione in pratiche e processi industriali è tuttavia ancora un tema aperto e tutto da esplorare. L’idea di economia circolare comprende infatti, come abbiamo visto, pratiche affatto diverse, che si possono ricondurre a cinque strategie principali: filiera circolare; recupero e riciclo; estensione della vita di un prodotto; sviluppo di piattaforme di condivisione; passaggio da prodotti a servizi.
• • • • •
Far riparare la lavatrice (e quindi, come azienda produttrice, renderne più facile la riparazione), per esempio, è un’azione che rientra nell’economia circolare, così come, dal punto di vista di un’azienda, utilizzare 100 piante per costruire cassetti e metterne a dimora altrettante. Ricondurre questi singoli elementi entro una policy unitaria che punti a un impatto zero è l’obiettivo dell’economia circolare. 16
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L’economia circolare – un sistema industriale progettato per recuperare
Attività mineraria/ fabbricazione di materiali
Agricoltura/raccolta*
Materiali biologici
Materie prime biochimiche Recupero
Materiali tecnici
Fabbricazione di parti
Fabbricazione di prodotti
Riciclo
Biosfera
Rimessa a nuovo/ rifabbricazione
Fornitori di servizi Biogas
Riuso/redistribuzione Manutenzione
Cascate Digestione anaerobica/ compostaggio Estrazione delle materie prime biochimiche**
Consumatori
Utilizzatori
Raccolta
Raccolta
Recupero energetico
Discarica
* Caccia e pesca ** Può utilizzare come input i rifiuti post-raccolta e post-consumo
Fonte: Ellen MacArthur Foundation, “Towards The Circular Economy – Vol. 2”, 2013 (www.ellenmacarthurfoundation.org/assets/downloads/publications/TCE_Report-2013.pdf)
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Pebax® Rnew è un elastomero termoplastico, resistente agli UV, al calore e agli sbalzi termici, realizzato in polietere flessibile e poliammide da fonte rinnovabile. Il contenuto bio-based di questo polimero varia tra il 17% e il 97%. Pebax®, sviluppato da Arkema, viene usato per gli articoli sportivi per le sue proprietà termoplastiche anche alle temperature più rigide
In questo spazio aperto si può dunque sviluppare una grande ricchezza di opportunità tecnologiche e produttive, ma anche di creatività, design e servizio, in cui il materiale assume grande centralità. Il materiale è infatti il “protagonista fisico” della produzione industriale e come tale ne porta il peso tangibile in termini di consumo di risorse primarie, essendo sia elemento costituente dei prodotti di consumo, sia a sua volta prodotto. Ed è proprio in questa seconda accezione che il materiale può diventare circolare: possiamo definire “neomateriali circolari” tutti i materiali rinnovati e rinnovabili, ovvero: materiali che provengono da risorse che sono per loro stessa natura rinnovabili, perché di coltura; materiali che sono prodotti a partire da materia “rientrata” nel ciclo produttivo, sia essa proveniente da filiera omogenea o diversa.
• •
Rispetto al modello lineare, in cui la materia prima veniva considerata solo nella sua relazione unidirezionale verso il prodotto, nell’economia circolare essa diventa parte di un sistema potenzialmente in rapporto con altri, e come tale viene vissuta. Questi sistemi “altri” possono essere cicli industriali simili o diversi da quello da cui il materiale ha origine e in cui esso rientra come nuova materia prima, oppure la biosfera nel caso dei materiali di derivazione biologica e rinnovabile.
Moquette di EGE Carpet costituita da quadrotti in filato di nylon rigenerato ECONYL® e da un supporto in feltro Ecotrust, derivato da bottiglie di plastica riciclate. I filati ECONYL® sono prodotti a partire da rifiuti post-consumo (reti da pesca, tappeti e prodotti tessili) e rifiuti industriali pre-consumo, puliti e sottoposti a processi meccanici e chimici
Queste pratiche di riutilizzo e reimmissione hanno radici antiche. Ciò che accade oggi, tuttavia, è che questi processi hanno assunto scalabilità industriali e ottimizzazioni produttive che li rendono realmente competitivi in termini economici e prestazionali. I biomateriali non sono più utilizzati per realizzare gadget da far decomporre in giardino, ma per fabbricare scarponi da sci, occhiali, cover di cellulari, imballaggi, senza che il contenuto rinnovabile sia nemmeno percepito dall’utilizzatore finale. I polimeri da riciclo non sono più agglomerati di mix plastico, ma materiali di qualità del tutto paragonabili, in aspetto e prestazioni, a quelli vergini. La carta raccolta post-consumo diventa materia prima per pannelli utilizzati nei piani da banco della più famosa catena di caffè al mondo perché più resistenti all’usura, alle macchie e alle temperature di materiali competitor. Tessuti dalle eccellenti prestazioni vengono ricavati dalle bottiglie in PET o da altri rifiuti in plastica, in un’ottica di upcycle per cui il prodotto ottenuto dalla seconda vita del materiale risulta di maggior valore rispetto al prodotto precedente. Questi neomateriali, quindi, non solo vengono prodotti in una prospettiva di circular economy, partendo da risorse non vergini o rinnovabili e rientrando nella filiera produttiva a diversi livelli, ma si pongono come valide alternative alle materie prime tradizionali anche da un punto di vista tecnico-prestazionale ed estetico. In quest’ottica, possiamo identificare tre grandi famiglie di materiali circolari: i primi sono i “bio-based”, ovvero quei materiali di origine vegetale o comunque biologica, costituiti quindi, in tutto o in parte, da componenti organiche che, come tali, vanno considerate rinnovabili in quanto sono riproducibili secondo le modalità e i ritmi della vita biologica. Tra questi materiali oggi assumono crescente importanza i biopolimeri che sostituiscono, con prestazioni sempre più interessanti, i tradizionali materiali plastici da fonte fossile, nonché quelli “coltivati” a partire da batteri o miceli, in cui ai vantaggi della componente organica si aggiunge la sensibile riduzione dell’energia impiegata per la loro trasformazione. La seconda famiglia di materiali circolari proviene invece dalle cosiddette “miniere urbane” o “miniere industriali”. Sono quelli che fino a poco tempo fa chiamavamo “rifiuti” e che oggi si candidano a diventare nuove materie prime. Si tratta di materiali già da tempo sottratti alla discarica attraverso filiere industriali consolidate, e quindi definiti “neo-classici”: carta, vetro, alluminio, acciaio, legno e, più recentemente, le materie plastiche e la gomma, ma anche i rifiuti elettronici.
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Paperstone è un pannello realizzato a partire da carta riciclata compressa, utilizzando una resina naturale come legante. Ăˆ molto rigido, impermeabile e resiste alle macchie, agli agenti chimici, alla temperatura, il che lo rende una superficie ideale per piani da cucina e da bar
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2 I materiali dell’economia circolare
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I materiali dell’economia circolare Le materie chiave
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Bioplastica
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Un materiale da fonti che si rigenerano da sole, compostabile e anzi nutriente, a bassa impronta idrica e di carbonio, resistente, isolante, idrorepellente, che usa terreni marginali e scarti di produzione per i suoi elementi di base. Una descrizione che sembrerebbe parte di una magia alchemica, frutto di un sogno esoterico, panacea universale della materia, sostanza eterea, che al pari dell’irraggiungibile pietra filosofale renderebbe la chimica moderna la nuova frontiera dopo l’età del petrolio. Questa è la bioplastica, neo-materia che più di altre incarna il principio secondo cui “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Una promessa per il mondo industriale e una grande sfida globale, per trovare il processo più efficiente per crearla.
di Emanuele Bompan
Secondo la definizione dell’European Bioplastics, la bioplastica è un tipo di plastica che deriva da materie prime rinnovabili (“bio-based”) oppure è biodegradabile o ha entrambe le proprietà. Un materiale giovane e promettente, che ha aperto una pletora di scenari legati in particolare al consumo alimentare, settore che da anni cerca un materiale sostenibile, circolare e di facile approvvigionamento. La bioplastica da fonti rinnovabili nasce sia da colture tradizionali, quali mais, grano, patate dolci, canna da zucchero, sia da colture sperimentali o inusuali, come colture oleaginose, alghe, semi vegetali, jatropa, scarti agricoli tra
cui mais, avena, grano, crusca e segatura. Le bioplastiche biodegradabili possono derivare da polimeri da fonti fossili o rinnovabili e possono essere decomposte attraverso batteri saprofiti, ovvero cianobatteri e funghi. Ma per semplicità di trattazione si discuterà di bioplastiche bio-based biodegradabili e compostabili, visto l’importante ciclo di vita della materia, che secondo il think tank Bioplastics Europe può ridurre le emissioni di CO2 tra il 30 e l’80% rispetto alle plastiche convenzionali. Un vantaggio anche strategico per i mercati carenti di fonti fossili, come l’Europa, che possono ridurre l’import di greggio da altri paesi.
Posate, capsule per caffè, piatti, sacchetti. Le bioplastiche sono un sostituto perfetto per le materie plastiche, nei casi in cui queste possono contaminare il rifiuto organico
Sebbene i processi non siano semplicissimi, i vantaggi strutturali e di processo di questa biomateria circolare sono alla base della crescita esponenziale del mercato, che ha lasciato a bocca aperta anche gli analisti più ottimisti. Oggi il settore cresce tra il 20 e il 100% annuo. Secondo una ricerca svolta dalla University of Applied Sciences and Arts di Hannover, in Germania, la capacità produttiva mondiale è cresciuta di cinque volte, superando i 6 milioni di tonnellate. Dietro questa grande crescita si cela da un lato la fluttuazione delle fonti fossili, dall’altro la crescente richiesta di prodotti eco-compatibili e Bioplastica
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Capacità di produzione globale di bioplastiche (2018) Altro* 1,7% Bio-PVC 1,2% Bio-PA 1,5% PTT 1,6% Bio-PE 3,0%
climate-friendly, specie legati al settore alimentare (contenitori, sacchetti, cialde per il caffè ecc.) e per eventi (posate, bicchieri, piatti). Il packaging impiega circa il 40% della produzione mondiale di bioplastiche, seguito dal 22% da beni di consumo e dal 14% nel segmento automotive. Il settore agricolo, che pesa solo il 3%, sta tuttavia registrando crescite costanti di volume, riconducibili alla sensibile riduzione delle dispersioni accidentali nei terreni agricoli di plastiche comuni (piccoli dispositivi agro-farmaceutici o componenti per la gestione di piante e alberi). Secondo l’Institute for Bioplastics and Biocomposites l’Asia ha la quota di produzione più rilevante (58,1%) ed è seguita dall’Europa (15,4%), che però potrebbe continuare a crescere, sostenuta da una forte domanda interna e da regolamentazioni europee.
Bio-based/non biodegradabile 83,3%
Tipi di bioplastiche differenti
Bio-PET30** 74,3%
Vediamo in dettaglio quali prodotti sono rintracciabili sul mercato. A seconda dell’impiego di materie prime rinnovabili (bio-based), che abbiano caratteristiche di compostabilità/biodegradabilità o entrambe si hanno tipi di bioplastiche differenti. I player più noti sono Basf e Mitsubishi con i poliesteri sintetici, quindi non-biobased, DuPont con i polimeri basati su Bio-PDO, Coca Cola che utilizza PET, un poliestere tradizionale la cui componente alcolica (circa il 30%) ha origine da bioetanolo, NatureWorks, Purac/Synbra, Futerro che producono polilattato (PLA), il materiale più usato nella realizzazione di prodotti mediante l’utilizzo di macchine di prototipazione rapida, meglio note come stampanti 3D. In Italia ha sede Novamont, grande leader mondiale delle bioplastiche biodegradabili a base di materie prime vegetali, ottenute grazie a tecnologie proprietarie integrate per la produzione di biomonomeri e di biopoliesteri. Un altro tipo di poliesteri sostenibili sono i poliidrossialcanoati (PHA), polimeri poliesteri termoplastici sintetizzati da vari generi di batteri (Bacillus, Rhodococcus, Pseudomonas) attraverso la fermentazione di zuccheri o lipidi. In condizioni di coltura particolari, quale l’assenza di nutrienti come azoto, fosforo e zolfo, queste macromolecole lineari vengono accumulate dai batteri come fonte carboniosa di riserva, sotto forma di granuli. I granuli possono raggiungere elevate concentrazioni, fino anche al 90% del peso secco della massa batterica.
Biodegradabile 16,7%
Altri*** 0,5 (biodegradabili) PHA 1,1% Miscele di amidi biodegradabili 3,1% Poliesteri biodegradabili**** 5,5% PLA 6,5%
* Bio-based/non biodegradabile, contiene miscele di amidi durevoli, Bio-PC, Bio-TPE, Bio-PUR, Bio-PP, PEF ** 30% di contenuto bio-based, incrementi di volume soggetti agli impianti programmati *** Contiene cellulosa rigenerata ed esteri di cellulosa biodegradabili **** Contiene PBAT, PBS, PCL Fonte: European Bioplastics, Institute for Bioplastics and Biocomposites, nova-Institute (2014), www.bio-based.eu 108
Gran parte delle bioplastiche sul mercato sono derivate principalmente da oli, farina o amido di mais, grano o altri cereali. Tuttavia non sono esenti da critiche. Uno degli elementi, diciamo così, non positivi delle bioplastiche è l’impiego, in alcuni casi, di materiale organico alimentare (mais, barbabietola da zucchero ecc.) non di scarto. Ma sebbene siano preferibili le bioplastiche da fonti vegetali a basso impatto o da scarti di produzione, anche per non competere sui mercati internazionali delle commodities tra il segmento della chimica e quello alimentare, l’impatto non è ancora per nulla disastroso. Nel 2016 si è rilevato che a scala globale le bioplastiche impiegano 1,2 milioni di ettari di suolo, circa lo 0,02% del totale della superficie agricola, circa 50 volte in meno della superficie occupata dai biocarburanti di prima generazione, cioè basate su colture vegetali tradizionali. Certo per i produttori, in particolare quelli americani, la canna da zucchero, il mais e l’olio di ricino rimangono le fonti maggiormente redditizie, ma i nuovi processi di raffinazione da fonti di terza e quarta generazione continuano a mostrare un potenziale crescente, dato che queste fonti sono più sostenibili, derivano da scarti (quindi sono più circolari) o da ambiti di coltivazione marginali (come nel caso delle alghe e del cardo.)
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La (post)vita della bioplastica Uno degli elementi unici delle bioplastiche compostabili è la fine vita del prodotto. Di fatto, chi decide il fato della bioplastica, scegliendo se renderla materia prima secondaria o meno, è il consumatore. Se il vetro può solo finire nel bidone del vetro, un oggetto in plastica bio può finire sia processato come plastica (elementi di scarto che possono costituire plasmix) sia nel compostaggio: film shopper, bottiglie, stoviglie e altri imballaggi rigidi e flessibili in plastica biodegradabile possono essere infatti avviati a compostaggio, ai sensi della norma UNI EN 14432. Servirà quindi presto un simbolo univoco sugli imballaggi biodegradabili, con una funzione duplice: da un lato la distinzione dell’imballaggio biodegradabile da quello non biodegradabile, facilitando la raccolta differenziata, dall’altro per semplificare la separazione automatica negli impianti di selezione e per la tracciabilità dell’imballaggio nell’arco della sua vita. Pensiamo poi agli impatti economici. Va infatti sottolineata la potenziale riduzione degli oneri di gestione dei rifiuti, perlomeno nell’eventualità che i materiali bio inizino a sostituire vetro, plastiche e rifiuti riciclabili, i produttori di generi alimentari comincino a utilizzare materiali bio per gli imballaggi e i produttori di plastiche immettano in commercio plastiche biodegradabili.
Alma Mater Il Mater-Bi è la bioplastica versatile e innovativa Made in Italy, creata da Novamont per soluzioni e prodotti green per la vita di tutti i giorni: i sacchetti della spesa, quelli per la raccolta dell’umido, i teli per la pacciamatura agricola, le reti della frutta, gli involucri per la carta e i fazzoletti, i piatti, le posate e i bicchieri, le coppette per il gelato e i cucchiaini. La storia del Mater-Bi è affascinante. Inizia nel modo più pop possibile: nel 1989 viene prodotto il primo oggetto in bioplastica di consumo. Nasce dai laboratori Fertec, il centro di ricerca strategico del gruppo Montedison, creato con lo scopo di gettare un ponte tra il mondo delle materie prime agricole di Eridania e le tecnologie chimiche di Montecatini. L’oggetto in questione è un orologio di plastica ricavato dal mais, a tema disneyano e allegato al settimanale a fumetti Topolino. In pieni anni Ottanta, affetti (anche) dalla febbre per gli orologi di plastica Swatch, quell’orologio da polso con la faccia di Topolino veniva presentato ai giovani lettori per “educarli” a un mondo più ecosostenibile. Dietro quel progetto geniale ed ecologico c’è una donna, Catia Bastioli, ricercatrice nata tra i colli umbri trapiantata fra le risaie del Piemonte, nella quieta Novara. Nel 1990 nasce Novamont Spa con l’obiettivo di industrializzare il processo produttivo. “Fin dalla sua nascita Novamont ha cercato di contribuire in modo significativo alla realizzazione di una nuova politica industriale in grado di saldare le esigenze di crescita con la sostenibilità, incoraggiando la transizione verso un nuovo modello di sviluppo e verso un nuovo paradigma, che è prima di tutto culturale”, spiega Catia Bastioli. “L’approccio è quello olistico della bioeconomia, che guarda non soltanto alla riduzione dell’impatto ambientale, ma a un tipo diverso di economia, basata su un utilizzo saggio delle risorse, in un’ottica di efficienza e di risparmio, sul superamento del concetto di prodotto in favore di quello di sistema, sulla rivitalizzazione di siti deindustrializzati attraverso bioraffinerie integrate e sul ripensamento dei rifiuti come ulteriori risorse.” 110
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Nel 1996 Novamont taglia il cordone ombelicale dal gruppo Montedison per diventare una società indipendente e profittevole. Inizia così il piano di sviluppo industriale a larga scala per integrare chimica, ambiente e agricoltura, in particolare attraverso l’impiego di fonti rinnovabili per la produzione di bioplastiche. In questo periodo nasce il Mater-Bi. “Il Mater-Bi nasce con la scoperta della tecnologia dell’amido complessato – spiega Luigi Capuzzi, direttore della ricerca Novamont –. Catia Bastioli scoprì che una componente dell’amido, l’amilosio, prodotto dalla distruzione in determinate condizioni (all’interno di un estrusore) della struttura cristallina poteva combinarsi con specifici polimeri e creare una struttura cristallina diversa, permettendo di ottenere materiali con proprietà macroscopiche tipiche delle materie plastiche.” A quel punto Novamont, che per la prima generazione di Mater-Bi impiegava poliesteri biodegradabili commerciali, decide di sintetizzare biopoliesteri proprietari per rendersi indipendente dalla fornitura degli agenti complessanti, essendo specialità in mano a un manipolo di compagnie. Per seconda generazione dunque si intende il Mater-Bi con poliesteri biodegradabili di proprietà di Novamont, la cui produzione è iniziata tra il 2005 e il 2006 in piccoli impianti (quattro nel sito di Terni) ed è poi continuata con l’avvio dell’impianto di grandi dimensioni di Patrica (Fr). Nasce così Origo-Bi, un polimero non in vendita, usato in maniera integrale nella produzione di Mater-Bi. L’ultimo step – ma c’è da scommettere ce ne saranno altri in futuro – è duplice: creare un monomero che svolga la funzione acida e un altro che svolga la funzione alcolica tipica dei poliesteri. Novamont ha sviluppato e introdotto due diverse tecnologie per produrre questi tipi di monomeri: uno proveniente dalla filiera produttiva degli oli vegetali e ottenuto tramite la trasformazione degli
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Tecniche di coltivazione e isolamento di microrganismi da matrice ambientale, nei centri di ricerca Novamont
oli in acido azelaico e in altri acidi, in particolare attraverso un processo chimico, e l’altro, che svolge la funzione alcolica dei poliesteri, proviene dagli zuccheri trasformati tramite fermentazione da parte di batteri a 1,4 BDO, grazie a una tecnologia sviluppata congiuntamente con Genomatica. Proprio sulla tecnologia della fermentazione a 1,4 BDO punta in particolare l’azienda novarese che, tramite Mater-Biotech, sua controllata, ha realizzato il primo impianto al mondo di questo tipo. A partire dalla filiera del cardo, e in particolare dalle radici, la ricerca Novamont sta ora sviluppando la propria tecnologia per una serie di polimeri fondamentali per nuovi tipi di bioplastiche. Il tutto da realizzarsi sempre attraverso un complesso sistema di tecnologie integrate, tutte ispirate alla logica del basso impatto. Sarà possibile così realizzare il Mater-Bi di quinta generazione, nonché una serie di prodotti con proprietà barriera all’ossigeno e all’anidride carbonica. La materia prima potrà essere ricavata dalle radici delle piante di cardo e sarà sempre più abbondante con l’espansione di questa filiera agricola. Bioplastica
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I materiali dell’economia circolare Applicazioni innovative, ricerche e start-up
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L’uovo diventa palazzo di Sergio Ferraris
È uno degli imballaggi più efficienti che esistano. Non stiamo parlando di qualche invenzione ecologica dell’ultimo momento, ma di un contenitore che esiste dalla notte dei tempi e che non è nemmeno d’origine umana. L’uovo, il contenitore brevettato dalla natura per conservare e sviluppare ciò che c’è di più prezioso: la vita. Oggi ci serviamo delle uova per una moltitudine di impieghi, alimentari e non e, dopo il processo, il guscio, nella sua perfezione e purezza, diventa un rifiuto. O meglio, diventava. Già, perché Calchèra San Giorgio, azienda trentina che studia e produce materiali edili per il restauro monumentale e artistico e per la ristrutturazione di edifici storici, ha deciso di riusare il guscio d’uovo come materia prima seconda e dargli nuova vita, e nobiltà, usandolo nella conservazione dell’arte e della storia, ma non solo. “Da alcuni anni ci stiamo interessando ai materiali che possano coniugare la sostenibilità con il restauro, sempre con grande attenzione alla qualità dei lavori edili di restauro che in Italia devono essere al massimo livello” spiega Gianni Nerobutto, responsabile di Calchèra San Giorgio. L’azienda sta esplorando i possibili utilizzi di nuovi materiali, anche da riciclo, come il vetro, e in questo percorso ha incontrato l’uovo, o meglio il suo guscio. Ogni anno nel nostro paese si producono 13 miliardi di uova, che per il 90% vengono usate per l’alimentare. Il restante 10% è rappresentato dal guscio e dalla membrana interna che pesano, in termini assoluti, 6,5 grammi per uovo. Questa piccola quantità, moltiplicata per 13 miliardi, crea oltre 84.500 tonnellate di residui, usati al 26,6% come fertilizzante, al 21,1% come mangime per animali, il 15,8% in altri utilizzi e il 26,3% è smaltito in discarica come inerte. In pratica il riciclo dei gusci d’uovo, composti da carbonato di calcio (CaCO3) al 99%, percentuale molto più elevata di quella dei materiali di origine minerale, ogni anno potrebbe fornire all’industria italiana 55.000 tonnellate di questo materiale. E sarebbe una filiera corta, visto che l’Italia è autosufficiente sul fronte dell’approvvigionamento delle uova che sono di produzione nazionale per il 94,8%. Il primo utilizzo del guscio d’uovo a cui sta lavorando Calchèra San Giorgio è proprio nell’edilizia. Il carbonato di calcio è infatti il componente fondamentale della calce. Il legante idraulico, ossia il cemento, ottenuto dalla frantumazione dei gusci d’uovo miscelati con l’argilla sta
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Sotto, da sinistra a destra: intonaco “cocciopesto”, “vetro murano”, “canapulo”
Fase di indagine del materiale al microscopio
dando ottimi risultati. Ma non basta. L’azienda, infatti, cuoce l’argilla con i gusci d’uovo utilizzando come fonte energetica le biomasse. Quindi sul fronte energetico la sostenibilità è elevata, anche in considerazione del fatto che produzione e utilizzo della calce sono a emissioni zero, dato che la CO2 emessa durante il processo di calcinazione (il riscaldamento a temperatura elevata di composti o miscugli solidi per eliminarne l’acqua o altre parti volatili), viene risequestrata e fissata al suo interno durante il successivo indurimento nel corso della messa in opera. In pratica l’azienda sta mettendo a punto un legante idraulico che, miscelato con gusci d’uovo e argille, è un cemento a tutti gli effetti che riprende l’antica tradizione di rinforzare la calce, che è un materiale debole, mescolandola con materiali come le pozzolane, il cocciopesto e la pomice. Il cemento moderno come il Portland ha una resistenza massima di 525 chilogrammi, mentre ci sono malte romane vecchie di duemila anni che arrivano a 1.000 chilogrammi. “Ci siamo spostati verso il cemento perché oggi è ciò che viene impiegato nell’edilizia comune e abbiamo deciso di farlo con i gusci d’uova e l’argilla naturale – prosegue Nerobutto –. Ma abbiamo fatto anche un’altra scelta verso la sostenibilità: quella legata al risparmio energetico. Poiché non sempre è necessaria la resistenza del Portland abbiamo portato la cottura a 900 °C, anziché 1.500 °C del Portland”, scelta che garantisce un notevole risparmio di energia. La Calchèra San Giorgio sta comunque lavorando a un’ulte-
riore diminuzione dei consumi energetici: “L’obiettivo è arrivare a sole due ore di cottura e con il forno elettrico – aggiunge Nerobutto –. E a questo punto potremmo pensare all’utilizzo di un forno elettrico alimentato da impianto fotovoltaico.” Cemento a filiera breve, con energia prodotta sul sito, quindi. L’economia circolare che incontra l’autoproduzione energetica, in un nuovo paradigma di sviluppo. Sostenibile. Con l’obiettivo di mercato di abbassare il costo della calce idraulica a livello del cemento Portland. Le quantità di gusci disponibili nel nostro paese sono sufficienti a coprire tutte le esigenze dell’azienda trentina, che punta a soddisfare il fabbisogno di calce del settore della bioedilizia italiana che è, oltretutto, in crescita. Per arrivare a ciò, però, serve ancora un po’ di tempo. Nerobutto, infatti, stima che ci vogliano ancora alcuni anni perché si arrivi alla produzione industriale. Servono ancora delle ricerche, specie per quanto riguarda la miscelazione tra i gusci d’uovo e le argille, e restano da risolvere alcuni problemi del forno, che deve avere una forma e un sistema di funzionamento diverso da quelli normalmente usati nel settore. Ma la strada è tracciata e le uova diventeranno, presto, un ingrediente delle nostre case bio, con le montagne che ringraziano. Già, perché più gusci di uova saranno utilizzati, meno montagne saranno sventrate. Le cave attive in Italia, secondo Legambiente, sono 5.592, dalle quali si estraggono ogni anno 120,2 milioni di metri cubi di materie prime per l’edilizia, dei quali 31,6 milioni di metri cubi sono di calcare. Evitare di ferire qualche altra montagna utilizzando un rifiuto come il guscio dell’uovo trasformato in calce e cemento, oltre a ridurre i rifiuti, farebbe quindi bene al clima a aiuterebbe il paesaggio. L’uovo diventa palazzo
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