E poi la sete

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verdenero

romanzo


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Alessandra Montrucchio E poi la sete

© 2010, Marsilio Editori © 2011, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 Edizione su licenza di Marsilio Editori Immagine di copertina: © Craig Aurness/CORBIS Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata al 100% Finito di stampare nel mese di maggio 2011 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR)

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


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Alessandra Montrucchio

E poi la sete


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A Maria Grazia, che mi ha dato l’idea. E a Dina, ai prossimi trentaquattro anni di amicizia.


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CADÙTA s.f. 1 Atto, effetto del cadere. 2 (stor.) Per antonomasia, il disastro ambientale avvenuto nel 2088 che causò tali e tante trasformazioni nella configurazione del globo terracqueo, nel clima e nella composizione della popolazione mondiale da essere considerato il momento di cesura tra il cosiddetto Vecchio Mondo e il Nuovo.

A nord ci sono i ricchi, a ovest vivono gli intellettuali e i burocrati, mentre a est e a sud c’è solo miseria. Adagio popolare Esiste qualcosa che si può desiderare e amare più di una donna: l’acqua. Un ambulante a Ryszard Kapus´cin´ski


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Non c’era niente di più brutto del cielo. Una landa grigia in cui brulicava un pulviscolo di particelle tossiche e che proiettava un bagliore opaco, eppure abbacinante. Come se il sole se ne fosse andato per sempre dall’Europa, dimenticando di portarsi via la luce. Gli occhi stretti nonostante le lenti scure, il milite 4037 riportò lo sguardo sul mare. Poco lontano dalla riva, i moduli dell’impianto fotovoltaico beccheggiavano al moto ondoso, e gli balenò alla mente una parola che non ricordava neppure di conoscere: armadillo. Un animaletto ridicolo, protetto da una specie di corazza; estinto, naturalmente. I moduli fotovoltaici sembravano le placche cornee di un armadillo che si muovevano a ritmo col suo respiro. Sempre che il termine “armadillo” volesse dire proprio quello che al milite 4037 pareva di ricordare. In fondo, “armadillo” per lui non aveva più significato di tante altre parole, estinte come l’animaletto ridicolo. Tuberosa, per esempio, oppure petrolio, salmone. Si diede un’occhiata intorno. Nessuno, né sulla spiaggia né al di là del reticolato che vi impediva l’accesso; sulla torretta di guardia non si scorgeva la sentinella. Forse sta facendo quello che sto per fare io, pensò, ed estrasse dal taschino della camicia la sola sigaretta che gli restava. Chissà quando gliene avrebbero portate altre, e quante. L’ultima volta se n’era trovate quattro in tasca, a nove giorni dal rifornimento precedente. Sapeva chi procurava sigarette ai militi nonostante fossero proibite – il Consiglio di Stato, o chi per esso – e sapeva perché – tenere buoni quelli di stanza in punti nevralgici come le porte del Paese o i dissalatori sulla costa –


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ma non sapeva come, e per saperlo avrebbe sacrificato volentieri metà della sua ultima sigaretta. Non esageriamo, si disse. Un quarto. L’accese con un cerino e tirò la prima boccata. Niente di meglio, a fine turno, che fumare tra le rovine. Si era seduto al solito posto, sulla soglia senza porta di un palazzo semisommerso. Pur butterata da decenni di salsedine, la facciata mostrava ancora strisce alterne di marmo bianco e nero, che creavano effetti di luce diversi a seconda dell’ora. A giudicare da tutto quel marmo e dall’imponente scalinata che dall’ingresso scendeva in mare, doveva essere stato un palazzo nobiliare, e all’improvviso il milite 4037 ricordò il significato della parola “tuberosa”. Era un fiore. Probabilmente, le donne che un tempo avevano abitato quell’edificio – donne grasse, di pelle bianchissima – profumavano di tuberosa. Scosse la testa tirando un’altra boccata. Inutile spenderci dei pensieri; tanto, per un bel pezzo lui non avrebbe avuto modo di odorare niente di diverso dal misto di salsedine e alghe marce che gli intasava narici e pori da quando l’avevano trasferito sulla costa. Profumo di tuberosa, si ripeté. Che idea. Me ne dài una? Il milite 4037 scattò in piedi e imbracciò il mitra; la sigaretta gli cadde di bocca. Su uno scalino pericolosamente vicino all’acqua c’era un uomo così gobbo da apparire nano. Aveva la pelle nera, pochi capelli raccolti in una coda. Un camicione di rigida canapa d’agave lo copriva fino al ginocchio, lasciandogli nude le gambe storte. Lo sguardo appannato dalla cataratta, ragnatele di lesioni sul viso e sui piedi. Un Irradiato. No, non solo. Aveva un bastone biforcuto in mano. Un rabdomante. Uno che batteva il deserto in cerca delle tubature che portavano l’acqua dal dissalatore costiero ai centri abitati dell’interno. Uno che, se ci riusciva, beveva quell’acqua, dissalata ma pur sempre contaminata dalle radiazioni, mortale. Dall’uomo si espandeva un fetore di piedi, sudore, pus e urina. Il milite 4037 non sapeva se gli ispirasse più repulsione, pena o paura. Che vuoi?, lo aggredì. Una sigaretta, rispose l’altro, e sorrise. I pochi denti che gli rimanevano erano così macchiati da perdersi nel nero della pelle. Fumare è vietato. Il rabdomante fece un cenno a qualcosa che stava ai piedi del milite. Prendo quella che ti è caduta, va bene? Solo in quel momento il milite 4037 realizzò che la sigaretta gli era sfuggita dalle labbra. Abbassò gli occhi, la vide, vide l’artiglio proteso dell’altro.


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Indietro!, urlò. Il rabdomante ritirò l’artiglio. Che ci fai qui? Il rabdomante si strinse nelle spalle. Come hai fatto a superare il reticolato? Oh, ci sono tanti buchi. Prendo quella che ti è caduta? Il milite 4037 riabbassò lo sguardo sulla sigaretta. Era ancora accesa, appena cominciata. Era l’ultima. Si chinò e se la rimise in bocca. Sei cattivo. Il rabdomante scosse la testa. Tu sei cattivo e io gentile. Ora ti insegno a essere gentile. Scese un paio di gradini, e con orrore il milite 4037 lo guardò immergersi in mare fino alle caviglie, chinarsi e raccogliere dell’acqua nei palmi delle mani. La trovi gentile l’acqua in faccia? Con il cuore che gli furoreggiava in petto, il milite 4037 imbracciò meglio il mitra. Provaci e sei morto! Io sono già morto. Tu no. Il milite 4037 abbassò il mitra e tese la cicca. Il rabdomante la prese con delicatezza, facendo perfino attenzione a non toccargli le dita con le sue unghie lunghe e mollicce. Il milite 4037 si lasciò cadere su uno scalino. Il rabdomante uscì dall’acqua e sedette a sua volta, a distanza. Ora sei gentile, disse. Il milite distolse gli occhi dalla sigaretta che si accorciava di boccata in boccata e li spostò sulle turbine dell’impianto eolico. Sbucavano dal mare a un centinaio di metri dalla riva, e si stagliavano contro il cielo slanciate come alberi. Praticamente gli unici alberi che io abbia mai visto, considerò. Perché?, domandò al rabdomante. Voi Irradiati continuate ad assaltare l’impianto. Perché? Il rabdomante lo guardò coi suoi occhi lattiginosi, e il milite 4037 si chiese che cosa vedesse. Perché abbiamo sete. Ma l’acqua dissalata è radioattiva. Se la rubo, muoio domani. Se non la rubo, muoio oggi. E chi cerca di bere in mare? Lo sanno tutti, che l’acqua salata disidrata e... Tu non sai cos’è la sete, vero? Il milite 4037 non rispose. Stava cercando di capire che cosa fissasse il rabdomante. La lista dei divieti, si sarebbe detto. È severamente vietato: 1. immergersi in acqua;


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2. riempire d’acqua orci, secchi, bottiglie e qualsiasi tipo di recipiente; 3. immagazzinare acqua, in qualsiasi modo; 4. bere. 5. vivere, aveva inciso qualcuno in fondo alla lastra d’acciaio. Al milite 4037 parve di cogliere un sorriso sul volto del rabdomante. Forse non ci vedeva così male. Ma tu non ci fai bere, sospirò il rabdomante. Si alzò, producendo una ventata di puzzo. Tu non vuoi farci bere. È per il bene delle persone. Perché non vengano contaminate. Il rabdomante spostò le sue cataratte su di lui e il milite 4037 si mosse, a disagio. Come essere fissati da un cadavere. Tu non sai niente, milite. So che quest’acqua non si può bere. Si può solo usare per le industrie e l’elettricità eccetera, capito? Il milite 4037 si stava accalorando. Senti. L’acqua del nostro mare non si può bere. Neanche se la trattano con il radiofago. Quella molecola che riduce la radioattività, no? Non basta. Capito? Non basta. La nostra acqua non è potabile. Capito? Il rabdomante buttò il mozzicone in mare, senza rispondere. Grazie della sigaretta, disse, e cominciò ad allontanarsi. Ehi!, lo richiamò il milite. Il rabdomante si fermò. Con quella bacchetta trovi davvero qualcosa? Il rabdomante gli sorrise. Conosci la leggenda della città sommersa? Il milite diede uno sguardo alle rovine e scosse la testa. Il rabdomante si appoggiò coi gomiti alla biforcazione del bastone piantato nella sabbia. Si dice, cominciò a raccontare, che se c’è tempesta suonano le campane della chiesa antica, e quel suono significa che qualcuno sta per morire di morte violenta. Il milite 4037 fece una risatina. Ma qui di tempeste non ce ne sono mai, disse. A te la tua leggenda e a me la mia, concluse il rabdomante, e riprese la sua strada. Il milite 4037 restò a guardarlo. Un gobbo in riva al mare, che non si preoccupava se le onde gli afferravano le caviglie e passeggiava sulla battigia, coi talloni che affondavano nella sabbia bagnata. Lui non aveva idea di quale consistenza avesse o di quanto fosse fredda la sabbia bagnata. Si alzò, si spolverò i pantaloni, raccolse il mitra e inspirò a fondo. Ora che il rabdomante si era allontanato, salsedine e alghe marce parevano quasi profumare di tuberose. Facendo attenzione a dove metteva i piedi,


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girò intorno al palazzo, percorse una via costeggiata da spunzoni di granito che un tempo avevano probabilmente formato un colonnato, e si trovò sulla spiaggia aperta. Avrebbe dovuto arrestare il rabdomante? Non aveva assaltato l’impianto, si era limitato a superare il reticolato e a bagnarsi; e l’atto più illecito era quello che aveva compiuto lui stesso: fumare. Cinque anni di lavori forzati, per punire un vizio che significava piantagioni di tabacco e quindi terra e acqua sottratte a colture più necessarie. Era al reticolato che correva a venticinque metri dalla riva e avrebbe dovuto impedire a chiunque di avvicinarsi al mare. A quanto pareva, occorreva di nuovo controllare tutta la linea costiera e riparare i buchi. Un lavoraccio, sotto il sole inclemente di ottobre e con quel tanfo di mare morto nelle narici. Sempre meglio che stare ai confini orientali e meridionali, a trattenere oltre il Muro i profughi degli Stati poveri d’acqua. La sentinella di guardia al cancello del reticolato gli rivolse un cenno di saluto. Il milite 4037 lo ricambiò e proseguì verso l’avamposto militare. Quanti mesi aveva passato alla Porta meridionale? Otto. Ore e ore sotto un fuoco che gli arrostiva il cranio e gli frollava i piedi negli stivali, quando faceva il turno di giorno. E quando faceva il turno di notte, ore e ore di un buio ostile, interrotto solo dai profughi, dal bianco dei loro occhi e dei loro denti. Se quel bianco fosse venuto troppo vicino, avrebbe potuto sfondare la porta, superare il Muro e dilagare alle sue spalle, mentre lui sarebbe rimasto a terra, calpestato come un sasso, ignorato come un sasso: non gliene importa niente delle pietre, a chi cerca l’acqua. Otto mesi. Lo avevano richiamato dalla Porta meridionale appena in tempo, pochi giorni prima che scoppiassero i disordini e che un milite rischiasse di diventare peggio di un sasso: una lapide. Entrò nell’avamposto. Ecco la sua tenda, là in fondo. C’era afa, troppa afa perfino per ottobre, e il sudore gli colava giù per la schiena, lungo le braccia. Se solo avesse potuto lavarsi. A te la tua leggenda e a me la mia. Il milite 4037 pensò alle notizie degli ultimi giorni. Ai profughi accalcati ai confini e a quella che era stata battezzata “acqua della morte”: acqua in bottiglia che avrebbe dovuto essere sicura, e invece era contaminata. C’erano state decine di morti e centinaia di Irradiati, soprattutto nel Terzo Mondo ma anche in Europa. La multinazionale produttrice, la Brandis, aveva parlato di sabotaggio. A te la tua leggenda.


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Il milite 4037 posò il mitra, si tolse gli stivali e si sdraiò sulla branda pensando al sudore sul collo, pensando al prossimo turno, pensando perfino, remotamente, alle tuberose. In lontananza sentÏ un suono, una specie di mugghio. Le campane maledette? Scosse la testa. Non doveva lasciarsi suggestionare dalle leggende. Intorno alla mezzanotte del giorno dopo, sarebbe morto.


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