Materia Rinnovabile #2

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 02 | febbraio 2015 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Robert Costanza: perché questa crescita non conviene •• Johan Rockström: biomateriali per stare nei limiti •• Kate Raworth: una ciambella equa e sicura

Materiali: uno spreco da 50 miliardi di tonnellate •• James Clark: la tavola delle mancanze •• Ue a marcia indietro sull’economia circolare … mentre la Cina si prepara •• Ladri di rifiuti

Fare il pieno con gli scarti del whisky

Euro 12,00 - Versione online gratuita su www.materiarinnovabile.it

•• Sostenibilità dello skateboard •• Discariche: ancora due anni e poi si chiude •• La seconda vita green dell’agricoltura

500 miliardi di euro da raccogliere in mare •• Sacchetti illegali: le responsabilità della grande distribuzione



Il Cluster Tecnologico Nazionale della Chimica Verde SPRING ha l’obiettivo di incoraggiare la crescita e lo sviluppo di una bioindustria italiana attraverso un approccio olistico all’innovazione, di rilanciare la chimica nazionale sotto il segno della sostenibilità ambientale, sociale ed economica e di stimolare la ricerca e gli investimenti in nuove tecnologie, in costante dialogo con gli attori del territorio e in linea con i più recenti indirizzi dell’UE in materia di bioeconomia.

www.clusterspring.it


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Sommario

materiarinnovabile 02|febbraio 2015 Free magazine bimestrale www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014

Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Nancy Averett, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Michael Carus, James H. Clark, Robert Costanza, Stefano Ciafani, Michael Delle Selve, Joanna Dupont Inglis, Aldo Femia, Marco Gisotti, Sara Guerrini, Giorgio Lonardi, Alessandro Marangoni, Ilaria Nardello, Michael Nettersheim, Carlo Pesso, Francesco Petrucci, Maurizio Quaranta, Kate Raworth, Roberto Rizzo, Johan Rockström, Johnson Yeh, Hendrik Waegeman

Think Tank

Direttore responsabile Antonio Cianciullo

Ringraziamenti Erik Assadourian, Astrid Auraldsson, Federica Cingolani, Lorenza Gallotti, Federica Mastroianni, Greg Swienton Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Paola Cristina Fraschini Diego Tavazzi Design & Art Direction Mauro Panzeri (GrafCo3), Milano

Traduzioni Laura Coppo, Laura Fano, Franco Lombini, Elisabetta Luchetti, Mario Tadiello Coordinamento generale Anna Re

Policy

Impaginazione Michela Lazzaroni

Antonio Cianciullo

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Per far ripartire l’Europa serve il carburante green

Robert Costanza

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Questa “crescita economica” è in realtà antieconomica: ecco perché non ci conviene

a cura di Emanuele Bompan

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Rockström: “Anche i biomateriali per fermare i combustibili fossili”

Kate Raworth

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L’economia della ciambella

Aldo Femìa

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Più di 50 miliardi di tonnellate di materia sprecati ogni anno: un patrimonio da recuperare

James Clark

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La tabella delle mancanze

Joanna Dupont-Inglis

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In diretta da Berlaymont Economia circolare: occhi puntati sulla prossima mossa della Commissione Juncker

Francesco Petrucci

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L’Europa cambia politica sull’economia circolare?

Mario Bonaccorso

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La guerra per la biomassa

Mario Bonaccorso

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La bioeconomia in Italia vale 241 miliardi di euro

Antonio Pergolizzi

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Ladri di rifiuti

Johnson Yeh

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Economia circolare: la Cina si prepara al prossimo salto

Carlo Pesso

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“Non possiamo permetterci di seguire il modello occidentale”

Hendrik Waegeman

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Fare il pieno all’auto con gli scarti del whisky

Responsabili relazioni esterne Anna Re, Matteo Reale, Federico Manca Responsabile relazioni internazionali Carlo Pesso Ufficio stampa Silverback www.silverback.it info@silverback.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti per la versione su carta (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/contatti Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright © Edizioni Ambiente 2014-2015 Tutti i diritti riservati


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Nancy Averett

Rubriche

Case Histories

Roberto Rizzo

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Dalle reti da pesca che inquinano il mare agli skateboard: il rifiuto si trasforma in merce Il campo dello sport ora diventa ecologico

Case Histories Alisea Althesys Arbos Assovetro

Sara Guerrini

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La seconda vita green dell’agricoltura

Bio Base Europe Bureo Ecopneus

Giorgio Lonardi

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L’innovazione sposa il riciclo

Maurizio Quaranta

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Ancora troppe discariche e dureranno solo due anni

Marco Gisotti

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Il riciclo del vetro è a chilometri zero

Ilaria Nardello

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Profondo blu L’economia blu vale 500 miliardi

Stefano Ciafani

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Novamont

Bioeconomia e ambiente Illegale un sacchetto su due nella grande distribuzione

Partner

Sostenitori

Networking Partner

In copertina Illustrazione di © Edward Carvalho-Monaghan / Kuvva


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Editoriale

M R Per far ripartire l’Europa serve il carburante green di Antonio Cianciullo

La partita del recupero della materia sta entrando nel vivo. Lo si percepisce dalle prime esitazioni in sede europea: sono il segno di uno scontro di interessi provocato dalla capacità dirompente della rivoluzione tecnologica, industriale e filosofica che ruota attorno al valore del riciclo. Il colpo di freno del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker – ha bloccato la direttiva sull’economia circolare che proibisce di gettare in discarica i materiali riciclabili e obbliga a riciclare il 70% dei rifiuti urbani e l’80% dei rifiuti da imballaggi entro il 2030 – fa venire in mente un film già visto in Italia. È a Roma che una classe di governo con scarsa cultura ambientale ha a lungo sottovalutato il potenziale delle rinnovabili concedendo sussidi all’energia pulita nella convinzione che si trattasse di spiccioli, che sole e vento andassero bene per le case di campagna di qualche hippy invecchiato ma non potessero scalfire gli interessi delle multinazionali che da oltre un secolo dominano con tutti i mezzi la scena del petrolio. Sappiamo come è andata. Oggi più di una lampadina su tre si accende grazie all’energia pulita e il nuovo settore ha creato decine di migliaia di posti di lavoro. Ma proprio mentre si traevano i vantaggi economici di questa scelta (sia pure non ben calibrata nella graduazione temporale degli incentivi) è scattato un colpo di freno mirato più a punire che a risparmiare. Si sono persi migliaia di posti di lavoro. Si è ceduto terreno su un settore strategico proprio mentre i paesi leader avanzavano dimostrando che la crescita delle fonti rinnovabili è irreversibile. Si continua a pagare in bolletta il prezzo dell’innovazione ma, a differenza di quanto avviene in Germania dove la cifra è analoga e il percorso programmato, si butta via parte dei benefici.

Elaborazione grafica di un particolare tratto da Atlante che sostiene il globo celeste di Guercino (1646) e immagine Courtesy NASA


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Ora sembra che la scena possa ripetersi a livello europeo coinvolgendo l’altra gamba che sostiene un’economia capace di guardare lontano, quella del recupero della materia: è Bruxelles a leggere in ritardo le potenzialità dell’economia innovativa e a spaventarsi per i contraccolpi che può generare sui settori della old economy. Eppure proprio gli esperti della Commissione avevano messo nero su bianco le potenzialità della bioeconomia, asse centrale del recupero della materia: 2.000 miliardi di euro di fatturato, 9% dei posti di lavoro, la possibilità di crearne altri 130.000 nell’arco di 10 anni, una resa di 10 euro di fatturato entro il 2025 per ogni euro investito in ricerca. Le analisi degli esperti che guardano verso il futuro saranno cancellate dal desiderio di non disturbare i potentati del secolo scorso? Molto dipenderà dalla capacità di reazione dei cittadini europei. Se crescerà la pressione per spostare l’attenzione dalle speculazioni finanziarie che si giocano sulle frazioni di secondo alle attività che producono benefici lungo i decenni, l’esitazione dell’Unione europea potrebbe essere solo temporanea. Perdere la leadership sulla bioeconomia e sulla sharing economy può infatti rivelarsi fatale per la capacità innovativa necessaria alla ripresa del Vecchio Continente. Solo per citare alcuni esempi: per le bioplastiche si prevede una crescita mondiale del 500% tra il 2011 e il 2016; l’economia condivisa ha dato prova di sé con l’exploit sul car sharing che nel 2014 è dilagato in Italia e cresce velocissimo nel mondo; nella Ue a 28 l’obiettivo del 50% di riciclo dei rifiuti urbani vale 875.000 posti di lavoro. Non basta. Le cifre che popolano questo numero di Materia Rinnovabile mostrano che il trend attuale di consumo del pianeta contiene uno squilibrio capace di minare le possibilità di recupero e stabilizzazione dell’economia: un cambio di passo

appare necessario a livello globale. Come scrive Aldo Femia, la specie umana sposta ogni anno tra i 50 e i 60 miliardi di tonnellate di roccia, pietre, sabbia e ghiaia: una quantità doppia rispetto a quella eruttata dai vulcani oceanici, tripla rispetto a quella portata al mare da tutti i fiumi, 60 volte maggiore di quella dovuta all’erosione eolica. Aver trasformato il pianeta in miniera produce un impatto sempre più pesante perché si devasta il territorio nel momento del prelievo delle materie prime e si inquinano gli ecosistemi nel momento del rilascio dei rifiuti. Un rilascio che in buona parte avviene usando l’atmosfera come discarica: i 36 miliardi di tonnellate di CO2 emessi annualmente bastano da soli a far suonare il campanello d’allarme per il disastro climatico che si sta configurando. Sono danni che potrebbero in buona misura essere evitati rimettendo in ciclo quello che si preleva, attraverso una riconversione del sistema produttivo che può dare – e sta già dando – risultati interessanti sotto il profilo economico oltre che ambientale. Nel 2011 – ricorda in queste pagine Antonio Pergolizzi – l’industria italiana ha impiegato circa 35 milioni di tonnellate di materie prime provenienti dal recupero dei rifiuti e in 10 anni ha raddoppiato il numero degli occupati nelle imprese del riciclo (da 12.000 a più di 24.000). Ma si potrebbe fare di più. Il saldo italiano nel campo della materia necessaria a sostenere il sistema produttivo è ancora negativo per 4,3 milioni di tonnellate e per un valore di 2,2 miliardi di euro: buttiamo via beni preziosi e poi li ricompriamo. Non è più tempo di sprechi. C’è la possibilità di una crescita ulteriore del settore del riciclo che faccia da volano a un’economia ad alto livello di innovazione e di coesione sociale. Basta guardare dalla parte giusta. Verso il futuro.


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Think Tank

Questa “crescita economica” è in realtà antieconomica: ecco perché non ci conviene di Robert Costanza

Robert Costanza è professore e presidente del dipartimento di Politiche pubbliche presso la Crawford School of Public Policy, Australian National University.

L’economia reale include le risorse in termini di capitale naturale, cioè tutto ciò che la natura dona e non dobbiamo produrre. Se guardiamo a questa economia scopriamo che a partire dal 1997 a livello globale sono andati persi circa 20.000 miliardi di dollari l’anno in servizi agli ecosistemi non contabilizzati, una cifra superiore al Pil degli Stati Uniti. Il Gpi (Genuine progress indicator) pro capite è fermo al 1978, anche se il Pil pro capite è più che raddoppiato. L’ultimo vertice G20 che si è da poco concluso ha puntato tutta l’attenzione sulla crescita economica. Il comunicato finale inizia così: “La nostra principale priorità è la crescita globale finalizzata a garantire standard di vita migliori e lavoro di qualità a tutti i popoli del mondo.” Nelle tre pagine del documento la parola “crescita” è ripetuta 29 volte. Del clima si parla solo al paragrafo 19. In totale ci sono 21 paragrafi. Sebbene i membri del summit promettano di “sostenere con forza ed efficienza le azioni volte ad affrontare il problema del cambiamento climatico”, appare chiaro come puntino invece a supportare la “crescita economica e la certezza per le imprese e gli investimenti”. Eppure, da decenni ormai non si registra alcuna crescita reale dell’economia globale. Le politiche promosse dal G20 contribuiranno esclusivamente ad accentuare questa sventurata tendenza. I molti che mettono in discussione questi slogan si domandano cosa abbia significato in realtà la crescita costante del prodotto interno lordo, che a partire dalla Seconda guerra mondiale ha registrato solo qualche arresto occasionale. La forte crescita del Pil è indubbia, ma a partire dal 1980 questa si è rivelata “antieconomica”. Il benessere umano pro capite, infatti, a cui

Il testo integrale del comunicato del vertice G20 tenutosi a Brisbane il 15-16 novembre 2014 è disponibile online: http:// www.businessinsider. com.au

1. Ida Kubiszewskia et al., “Beyond GDP: measuring and achieving global genuine progress”, Ecological Economics, v. 93, settembre 2013; http://www.sciencedirect. com/science/article/pii/ S0921800913001584

2. Robert Costanza et al., “Development: time to leave GDP behind”, Nature, v. 505, f. 7483, gennaio 2014; http:// www.nature.com/news/ development-time-toleave-gdp-behind-1.14499

vanno sottratti i costi dell’ineguaglianza, dei danni all’ambiente e dei tanti altri fattori che tale benessere influenzano, non è affatto aumentato.1 L’economia reale include tutto ciò che promuove il benessere dell’umanità, ed è molto più vasta dell’economia di mercato valutata con il Pil. Questo parametro non è stato concepito come misura del benessere della società nel suo complesso; il suo costante abuso in questo senso va contrastato.2 Il Pil non può essere considerato una misura della crescita economica L’economia reale include le risorse in termini di capitale naturale, ovvero tutto ciò che la natura dona e che non dobbiamo produrre, nonché i servizi agli ecosistemi che tali risorse garantiscono. Si tratta di un valore straordinariamente elevato, anche se non commercializzato. I servizi includono il controllo del clima, l’approvvigionamento idrico, la protezione dalle tempeste, l’impollinazione e gli svaghi che la natura offre. Alcune stime indicano che questo capitale naturale contribuisce molto più significativamente al benessere dell’uomo rispetto alla somma di tutti i Pil del mondo. Con superbia, siamo però riusciti a trascurare questo contributo, causando il massiccio esaurimento dei capitali naturali.3 A partire dal 1997 e a livello globale, sono andati perduti circa 20.000 miliardi di dollari l’anno in servizi agli ecosistemi non contabilizzati, una cifra superiore al Pil degli Stati Uniti. Il parametro ignora anche l’apporto del capitale sociale, cioè di tutte quelle reti, istituzioni e culture, formali e informali, su cui si fonda il benessere dell’umanità. A partire dagli anni ’80 e in particolare nei paesi

3. Si legga Robert Costanza et al., “The value of the world’s ecosystem services and natural capital”, Nature, v. 387, 15 maggio 1997; http:// www.esd.ornl.gov/ benefits_conference/ nature_paper.pdf


Robert Costanza

Think Tank

del G20 la disparità è andata aumentando,4 causando un aumento dei problemi sociali, incapacità di creare e conservare il capitale sociale e un degrado generalizzato della qualità della vita. La maggior parte degli utili che l’aumento del Pil ha registrato negli ultimi decenni è concentrata nelle mani dell’1% dei principali percettori di reddito. Il restante 99% ha registrato invece la stagnazione dei redditi reali, in un contesto di depauperamento costante del capitale naturale e sociale. L’aspetto più eclatante è forse il modo in cui descriviamo e consideriamo lo stravolgimento del clima: sebbene sia una delle principali risorse naturali, gli investimenti volti a mantenere il clima stabile vengono considerati impedimenti alla crescita economica mentre invece dovrebbero essere valutati come una modalità di protezione del capitale su cui si fondano le attività dell’intera impresa umana. Nelle valutazioni di crescita del Pil gli squilibri climatici devono essere calcolati come un costo, perché gli va attribuita la stessa importanza data alla perdita di fabbriche, strade e abitazioni. Allo stesso modo, anche l’esaurimento del capitale sociale causato dall’accentuata disparità va sottratto a qualsiasi guadagno registrato. Un nuovo indicatore che includa i costi sociali e quelli imposti sulla natura Esiste un nuovo indicatore che valuta anche i cambiamenti al capitale sociale e naturale:

è noto come Gpi, Genuine progress indicator o indice di progresso effettivo. Questo parametro tiene conto dei consumi personali in funzione della distribuzione dei redditi, aggiunge i servizi che non generano flussi monetari come le attività dei volontari e i lavori domestici, e sottrae i costi del consumo del capitale naturale, per esempio l’inquinamento idrico e atmosferico. A livello globale, il Gpi pro capite è fermo al 1978, anche se il Pil pro capite è più che raddoppiato. Ciò significa che a partire da quell’anno, la crescita che il mondo ha registrato è in realtà antieconomica. Negli Stati Uniti, il Maryland5 e il Vermont hanno adottato il Gpi come supporto alle decisioni politiche. Molti altri stati stanno pensando di farlo. È ormai tempo che anche il resto del mondo comprenda quanto sia antieconomica l’attuale politica di crescita e si prepari a creare un’economia reale che offra a tutti una prosperità sostenibile ed equa. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sono senz’altro una mossa importante in questa direzione. Al prossimo vertice dei G20, i leader mondiali potrebbero forse discutere di come migliorare i risultati economici reali – il progresso autentico – invece che il mero aumento di beni e servizi monetizzabili ma al contempo distruttivi a livello ambientale e iniquamente distribuiti.

4. Si legga Bill Kerry, Kate E. Pickett e Richard Wilkinson, “The spirit level: why greater equality makes societies stronger”, agosto 2010; http://www.unicef.org/ socialpolicy/

5. A proposito del Gpi del Maryland vedi http:// www.dnr.maryland.gov/ mdgpi/

Per gentile concessione di The Conversation, https://theconversation.com

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Johan RockstrÜm ŠM. Axelsson/Azote

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Think Tank

Think Tank

Rockström: “Anche i biomateriali per fermare i combustibili fossili” La finitudine delle risorse del pianeta, la gravità degli effetti del cambiamento climatico, i nuovi paradigmi tecnologici per non sconfinare oltre i limiti dell’equilibrio della natura. Un colloquio con l’autore dell’ultimo Rapporto al Club di Roma a cura di Emanuele Bompan

Johan Rockström è professore di Gestione delle risorse naturali presso l’Università di Stoccolma e direttore esecutivo presso lo Stockholm Resilience Centre.

Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008.

Identificare e quantificare i limiti planetari affinché le attività umane non causino mutazioni ambientali insostenibili. Questa è la missione della ricerca di Johan Rockström, professore in Environmental Science and Sustainability all’Università di Stoccolma e direttore esecutivo dell’eminente Stockholm Resilience Centre, uno dei più importanti centri di ricerca sulla resilienza del pianeta. Lo studio dei limiti è iniziato nel 2009 analizzando nove parametri oltre i quali l’umanità non dovrebbe spingersi per evitare i tipping points, trasformazioni catastrofiche dalle quali sarebbe difficile uscire. Questi limiti includono l’assottigliamento della sfera dell’ozono, la perdita della biodiversità, il cambiamento climatico, la contaminazione da inquinanti chimici, l’acidificazione degli oceani, la trasformazione dell’uso di suolo, i flussi di fosforo e azoto, l’aerosol. Un osservatorio sofisticatissimo che ha permesso a Rockström di avere una visione organica complessa sulle macro-trasformazioni del pianeta. La sua ricerca è contenuta in una pubblicazione, Natura in bancarotta (Edizioni Ambiente, 2014), e Materia Rinnovabile l’ha raggiunto in Svezia per riflettere sui limiti del pianeta. Partendo proprio dalla materia. La nostra impronta ecologica supera la capacità di assorbimento della Terra. E uno degli elementi meno noti dell’equazione planetaria è l’impatto dell’estrazione di molte materie prime. “La materia grezza, dall’alluminio alle terre rare, è strategicamente importante anche se non direttamente correlata con la stabilità del pianeta: se svuotassimo tutte le riserve di questi minerali non ci sarebbero grandi implicazioni sulla stabilità del pianeta. Con la chiara eccezione dei combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone, ndC) i quali sono direttamente correlati al cambiamento climatico e alla stabilità della nostra Terra. Dal punto di vista scientifico tuttavia è chiaro: ogni report che noi analizziamo mostra un

crescente sfruttamento delle risorse e una corsa agli accaparramenti dovuta non solo alla scarsità delle riserve di alcuni minerali ma anche alla crescente domanda mondiale di materiali grezzi. Molti di questi minerali possono essere riciclati o riutilizzati. Secondo la European Resource Efficiency Platform, piattaforma per la promozione dell’uso sostenibile delle materie prime, esiste sufficiente spazio di manovra per ripensare il reimpiego di queste materie nel sistema produttivo. È quindi fondamentale fare dell’uso efficiente delle materie prime una priorità nelle politiche di sviluppo.” Se nell’equazione però introduciamo l’esternalità negativa degli impatti del settore estrattivo – escludendo ancora per il momento i combustibili fossili – vediamo come lo sfruttamento di materie prime ha un impatto diretto sui limiti del pianeta, in termini di inquinamento delle acque, di disboscamento, di emissioni. “Indubbiamente la deforestazione, che è un problema fondamentale per l’assorbimento delle emissioni di gas climalteranti, è fortemente alimentata dalla continua ricerca di nuovi filoni di minerali, zinco, rame. Non dobbiamo dimenticare l’impatto del settore estrattivo in Amazzonia, nel Congo Basin e in Canada, se pensiamo alle sabbie bituminose: quello estrattivo rimane un settore che può avere impatti rilevanti, con una serie di effetti domino. Vorrei però dire che in alcune economie sviluppate ci sono sufficienti regolamentazioni per monitorare gli impatti del settore minerario.” Nel suo libro analizza molto in dettaglio il peso di un altro settore primario dell’economia, l’agricoltura, che insieme alle foreste contribuisce alla produzione di materia prima per la nutrizione ma anche, e in maniera crescente, per la produzione industriale: dall’energia (biocombustibili) ai materiali (bioplastiche, legname, materiali derivati da residuo). Viene da chiedersi se

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stiamo spostando eccessivamente l’uso di terreni agricoli in direzione di finalità non alimentari, con il risultato da un lato di avere una crescente espansione dei terreni coltivati a scapito di foreste, praterie ecc. e dall’altro un potenziale rischio – come abbiamo visto con la crisi dei prezzi del 2008 – per la sicurezza alimentare nei paesi meno sviluppati. “I nostri sistemi di analisi mostrano che a scala globale siamo arrivati al punto di non ritorno dell’espansione dei terreni agricoli. Non è possibile aumentare ulteriormente la superficie coltivata. Queste conclusioni, drammatiche, sono supportate da numerosi studi, incluse le ricerche di Jonathan Foley (direttore dell’Institute on the Environment, IonE, della University of Minnesota, ndC), dell’Unep, e via dicendo.1 Rimangono pochissimi terreni fertili vergini che possono essere convertiti ad aree agricole. Questo mostra chiaramente che una rapida espansione di biocarburanti non può avere luogo. Non possiamo usare mais per etanolo sottraendolo al consumo alimentare, questa è una questione superata. Tuttavia i biomateriali possono diventare una risorsa sostenibile e di grande importanza, anche per sostituire molti prodotti derivati dai combustibili fossili, come le plastiche. E l’Italia in questo senso è uno dei paesi che sta mostrando leadership, impiegando piante non food per realizzare bioplastiche. Non c’è chiaramente una situazione bianco/nero, esistono molte nuance. Oggi dobbiamo porci domande specifiche: stiamo rischiando di non produrre cibo per aree del pianeta meno sviluppate? Consideriamo seriamente la minaccia dagli effetti del cambiamento climatico che nei prossimi anni tra siccità e fenomeni meteo estremi porterà a sempre maggiori shock sulla produzione agricola? Con questo in mente dobbiamo considerare attentamente come decidiamo di adattare l’agricoltura ai biomateriali.” Rimane la questione dei carburanti fossili, che sono la principale fonte di energia e anche la più impattante delle materie prime, sia in termini ambientali sia di salute. Quale strategia andrebbe adottata per un phase-out di petrolio e carbone?

“Ogni analista oggi afferma che possiamo fare gradualmente a meno dei combustibili fossili, grazie a solare, eolico, idro e geotermico. Il solare oggi ha costi sempre più competitivi. Anche il nucleare può avere un ruolo nella transizione, non è una soluzione ma può avere un ruolo in questa transizione. Infine, per calmierare gli effetti delle emissioni dobbiamo considerare lo stoccaggio della CO2 e l’incremento della biomassa come carbon-sink. Dal punto di vista delle tecnologie si deve investire nella ricerca e sviluppo di tecnologie efficienti per lo stoccaggio dell’energia, nelle fuel cells, nei veicoli elettrici. Il 30% delle riduzioni dei consumi pro capite inoltre deve venire dall’efficienza energetica. Non c’è dubbio che questa sarà una parte rilevante della strategia generale per affidare al passato i combustibili fossili. È una strategia che include molteplici soluzioni e tecnologie, che devono essere messe al lavoro in maniera integrata. In Europa serve sempre più un grande schema energetico che sappia governare questa trasformazione a livello comunitario controllando i flussi di energia. Oggi questa collaborazione a livello di Unione non la vediamo ancora, speriamo di vederla un domani.” La variabile mancante per preservare i limiti del pianeta è proprio la politica. Manca una visione internazionale anche solo per quanto concerne la sfida del cambiamento climatico. Nel suo libro Natura in bancarotta porta avanti una critica articolata sugli ostacoli che impediscono il raggiungimento di un accordo globale per fermare le emissioni climalteranti: dalle lobby ai negazionisti. “Ci troviamo in una situazione desolante. Abbiamo 5-10 anni al massimo per fermare la curva crescente delle emissioni di gas climalteranti. Questo non può accadere senza un accordo internazionale di cui abbiamo urgente bisogno. È chiaro che a Parigi (nel dicembre 2015 quando 193 nazioni cercheranno di siglare un testo sul clima, dopo il fallimento di Copenaghen nel 2009, ndC) non avremo un accordo legalmente vincolante, ma nel 2014 abbiamo visto grandi attori come Usa e Cina mostrare di essere seriamente intenzionati a ridurre le proprie emissioni. C’è speranza che questa volta si possa raggiungere quantomeno un accordo. Attendiamo.”

1. TED Talks di Jonathan Foley, “The other inconvenient truth” http:// www.ted.com/talks/ jonathan_foley_the_ other_inconvenient_truth


Think Tank

Think Tank

L’economia della ciambella Definire uno spazio sicuro ed equo per l’umanità di Kate Raworth

L’idea di un limite, soprattutto l’idea di un limite fisico alle attività dell’uomo, rimane una specie di eresia nell’ambito del discorso economico. Ma non solo: anche il discorso politico sembra essere del tutto subordinato all’ortodossia di una crescita senza troppi aggettivi, senza troppi “distinguo”. Negli ultimi anni però lo studio

dei limiti ha acquistato nuova rilevanza, grazie ai progressi nell’analisi dei dati e alla capacità di evidenziare le relazioni tra fenomeni ambientali, economici e sociali. Questa crescente consapevolezza è un regalo delle crisi in corso? E cosa c’entrano le ciambelle con lo spazio entro cui le nostre attività devono collocarsi?

Kate Raworth

Kate Raworth, definita da The Guardian come “una delle prime dieci tweeters al mondo sulla trasformazione dell’economia”, è attualmente Senior Visiting Research Associate presso l’Environmental Change Institute dell’Università di Oxford, dove insegna al Master in Environmental Change and Management. È anche Senior Associate del Cambridge Institute for Sustainability Leadership e membro del Club di Roma.

L’articolo è un estratto dall’intervento di Kate Raworth “Definire uno spazio equo e sicuro per l’umanità”, pubblicato in State of the World 2013, a cura del Worldwatch Institute, edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna, Edizioni Ambiente, 2013.

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materiarinnovabile 02. 2015 Tra confini planetari e confini sociali Il concetto dei “confini planetari”, introdotto nel 2009 da un gruppo di eminenti scienziati riuniti da Johan Rockström dello Stockholm Resilience Centre, individua un set di nove processi interconnessi del sistema Terra (figura 1) essenziali per mantenere il pianeta in quello stato relativamente stabile che identifica il periodo geologico dell’Olocene. Uno stato dimostratosi negli ultimi 10.000 anni estremamente vantaggioso per l’umanità. Se sollecitati da pressioni eccessive originate dall’attività umana, tali processi potrebbero oltrepassare queste soglie biofisiche – alcuni su scala globale, altri su scala regionale – per produrre cambiamenti repentini, e a volte irreversibili, che metterebbero pericolosamente a repentaglio la base di risorse naturali da cui dipende il benessere dell’umanità. L’equipe di Rockström ha definito la zona circoscritta all’interno dei nove confini come “uno spazio operativo sicuro per l’umanità”. Secondo le prime stime almeno tre dei nove confini sono già stati oltrepassati – cambiamenti climatici, ciclo dell’azoto e perdita di biodiversità – e le pressioni sulle risorse si stanno rapidamente avvicinando ai limiti globali

previsti anche per altri (secondo le stime aggiornate ai primi tre si aggiungono ora l’uso del suolo, confine “di sicurezza” oltrepassato soprattutto a causa della deforestazione, e quello del fosoforo, ndR). Il concetto dei nove confini planetari comunica efficacemente complesse questioni scientifiche a un vasto pubblico, mettendo in discussione le concezioni tradizionali dell’economia e dell’ambiente. Mentre l’economia convenzionale tratta il degrado ambientale come una “esternalità” che ricade in gran parte fuori dell’economia monetizzata, gli scienziati hanno letteralmente sovvertito tale approccio proponendo un insieme di limiti quantificati dell’uso di risorse entro cui l’economia globale dovrebbe operare, se si vuole evitare di toccare i punti di non ritorno del sistema Terra. Questi confini non sono descritti in termini monetari ma con parametri naturali, fondamentali a garantire la resilienza del pianeta affinché mantenga uno stato simile a quello dell’Olocene. Eppure, anche se si stanno elaborando i dettagli per meglio definire la natura e la portata dei confini, c’è ancora un aspetto importante che manca nel quadro generale. Il benessere umano dipende infatti tanto dal mantenimento dell’uso complessivo delle risorse al di sotto di soglie critiche naturali,

Figura 1 | I confini planetari

Fonte: Rockström et al. (2009). Cambiamenti climatici

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Think Tank quanto dal bisogno degli individui delle risorse necessarie a condurre una vita dignitosa e ricca di opportunità. Tra i diritti umani di base e il tetto ambientale dei confini planetari si può quindi individuare una fascia a forma di ciambella, sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità (figura 2). Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. Da molto tempo chi si batte per il rispetto dei diritti umani ha sottolineato l’imperativo di assicurare a ogni individuo il minimo indispensabile per vivere, mentre gli economisti ecologici si sono concentrati sul bisogno di collocare l’economia globale entro limiti ambientali. Questo spazio è una combinazione dei due e definisce una zona in cui sia i diritti umani di base sia la sostenibilità ambientale sono rispettati, riconoscendo anche l’esistenza di complesse interazioni dinamiche tra i diversi confini e al loro interno. Anche per l’attività umana e i diritti sociali di base è possibile individuare i confini che oggi risultano oltrepassati. Da una prima valutazione, basata su dati internazionali, emerge che l’umanità è ben al di sotto del limite socialmente accettabile in otto dimensioni per cui sono

disponibili indicatori comparativi. Per esempio, circa il 13% della popolazione globale è denutrita, il 19% non ha accesso a elettricità e il 21% vive in condizioni di estrema povertà. Quantificare i confini sociali combinandoli a quelli planetari rende evidente la situazione fuori dalla norma dell’umanità (figura 3). Milioni di individui vivono ancora nella più abietta privazione, ben al di sotto della soglia socialmente accettabile. Oltretutto l’umanità nel suo complesso ha già superato molti dei confini planetari. Questo è un chiaro indicatore di quanto finora sia stato profondamente iniquo e insostenibile l’andamento dello sviluppo globale. Dinamiche tra confini Qual è attualmente la fonte principale di stress dei confini planetari? Sono i livelli eccessivi di consumo di circa il 10% della popolazione mondiale e i modelli produttivi che richiedono un elevato impiego di risorse utilizzate da imprese che producono beni e servizi a uso e consumo di quella piccola parte di mondo che li può acquistare. Il 10% più ricco della popolazione mondiale detiene il 57% del reddito globale. Sarà quindi cruciale fare un uso più equo ed efficiente di risorse tra i singoli paesi

Figura 2 | Uno spazio equo e sicuro per l’umanità

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Circa il 13% della popolazione globale è denutrita, il 19% non ha accesso a elettricità e il 21% vive in condizioni di estrema povertà.

Fonte: Raworth; Rockström et al. (2009).

Cambiamenti climatici

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materiarinnovabile 02. 2015 e norme che aiutino a portare l’umanità entro i confini di uno spazio equo e sicuro dove sia possibile prosperare.

e al loro interno e trasformare gli stili di vita che richiedono un intenso impiego di risorse se l’umanità vorrà intraprendere un cammino di sviluppo che operi nella zona tra i confini planetari e quelli sociali.

Una volta ridefinito il concetto di cosa sia una politica economica di successo, si devono modificare profondamente gli indicatori per orientare il percorso verso uno sviluppo equo e sostenibile. Quattro sono i cambiamenti chiave, già in corso e necessari a tal fine. Primo cambiamento: contabilizzare non solo ciò che si vende ma anche ciò che si offre gratuitamente. Secondo: prestare attenzione non solo al flusso di beni e servizi ma anche al monitoraggio delle materie prime che ne stanno alla base. Terzo: prestare attenzione non solo agli aggregati e alle medie ma anche alla distribuzione. È l’effettiva distribuzione dei redditi, della ricchezza e della produzione all’interno di una società che determina il livello di inclusività dello sviluppo. Infine, per creare un miglior quadro di strumenti di progresso socioeconomico occorre anche passare dagli indicatori monetari a quelli sociali e naturali. Non tutto ciò che conta può e deve essere monetizzato. Nelle valutazioni politiche deve essere data più visibilità e importanza

Quali sono dunque le implicazioni di questo sistema di confini planetari e sociali nell’ottica di rivedere gli indicatori necessari a governare le economie? L’obiettivo prioritario dello sviluppo economico globale deve essere la prosperità in uno spazio equo e sicuro, ponendo fine al sovrasfruttamento delle risorse naturali. Immaginate se il grafico a forma di ciambella dei confini sociali e planetari fosse riportato sulla prima pagina dei libri di testo di macroeconomia. Volete fare gli economisti? Allora prima di tutto ci sono alcuni dati di questo pianeta che dovete sapere: come ci sostiene, come reagisce alle pressioni eccessive di origine antropica, e come ciò metta a repentaglio il nostro benessere. Dovreste anche conoscere i diritti della sua popolazione e le risorse umane, sociali e naturali necessarie per realizzarli. Quando si accetteranno i concetti di confini sociali e planetari, il compito di un economista diventerà inequivocabilmente chiaro: concepire politiche

Nel mondo, il 10% dei bambini non frequenta la scuola e il tasso di analfabetismo dai 15 ai 24 anni è dell’11%.

Figura 3 | Superamento dei confini planetari operando nettamente al di sotto di quanto socialmente accettabile

Fonte: Raworth; Rockström et al. (2009).

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Spazio equo e sicuro per l’umanità – sviluppo economico inclusivo e sostenibile

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Think Tank Intervista

L’economia circolare ci aiuterà Intervista a Kate Raworth di Marco Moro

L’articolo di K. Raworth, S. Bass e S. Wykes, “Ten ways to secure social justice in the green economy” è disponibile online http://www.iied. org/ten-ways-securesocial-justice-greeneconomy

Che ruolo possono svolgere la bioeconomia e l’economia circolare nel riconnettere economia, ambiente e società? Il progresso verso un’economia basata maggiormente su un uso sostenibile di risorse rinnovabili può contribuire a portarci in quello spazio “sicuro ed equo per l’umanità”? A quali condizioni? Se vogliamo avere una chance di stare dentro lo spazio sicuro ed equo della “ciambella” dobbiamo avere l’intelligenza di mettere l’idea di economia circolare al centro delle nostre economie. L’economia circolare è uno dei modi più diretti e dinamici per riportare le attività economiche entro i confini planetari. Ma se vogliamo che questa ci aiuti anche ad agire sulle fondamenta sociali, dobbiamo ragionare su cosa può implicare l’adozione di politiche e modelli di business a essa improntate. Di cosa dovrebbe trattarsi? Cercare di soddisfare le necessità in termini di salute, energia e cibo delle fasce a più basso reddito attraverso un approccio di economia circolare, coinvolgendo le comunità locali e le minoranze nella progettazione; promuovere misure focalizzate sulla creazione di lavoro, considerando gli effetti distributivi dello spostamento verso l’economia circolare. Queste idee sono sintetizzate in una nota che ho redatto per l’International Institute for Environment and Development e pubblicata nel relativo sito web.

Meno consumi, minore produzione, minore occupazione: è un rischio reale? Oppure questi sviluppi potrebbero indurre un effetto positivo, creando una domanda aggiuntiva e stabilizzando le economie? Se vogliamo vedere una continua crescita nelle economie delle nazioni più ricche, allora come prima cosa dobbiamo ripensare a cosa intendiamo con “crescita”, dal momento che gli attuali incrementi del Pil sono in buona parte generati da un ampliamento delle ineguaglianze sociali e del degrado ambientale. Più importante di un reddito nazionale costantemente in crescita è una sua distribuzione di gran lunga migliore di quella attuale, unita alla rigenerazione del capitale umano, sociale e naturale, da cui dipendono la nostra ricchezza e il nostro benessere. Mentre la transizione verso un’economia circolare continua il suo decollo, abbiamo bisogno di sviluppare una metrica adatta a cogliere la crescita di questa vera ricchezza. Ritengo che oggi, nelle nazioni più sviluppate, abbiamo l’occasione per creare delle economie in cui la questione dell’andamento annuale verso l’alto o verso il basso del Pil non sia più considerata come il segnale fondamentale del successo, perché avremo più ricche e importanti misure di quel benessere che, in definitiva, tutti cerchiamo.

Quale può essere l’impatto di un’economia più efficiente dal punto di vista del consumo delle risorse? Lo sviluppo di un’economia circolare può condurre a una decrescita?

a “indicatori sociali” quali il numero di ore di assistenza non retribuita offerta dai cittadini e a “indicatori naturali” quali i calcoli dell’impronta pro capite di carbonio, acqua, azoto e suolo. La creazione di indicatori che vadano oltre il Pil è fondamentale, però implica nuove complessità e controversie. C’è una costante tensione tra gli indicatori dell’economia e dell’ecologia per stabilire quale lingua, quali concetti e quali misure definiranno l’emergente paradigma di sviluppo. L’economia ingloberà l’ecologia, attribuendo un valore monetario a tutte le risorse naturali, con tanto di prezzi ombra, sostituibilità e scambi di mercato? Avrà il predominio l’ecologia, prescrivendo uno spazio per l’attività economica entro limiti sicuri pensato per evitare

soglie naturali critiche, espresse e governate esclusivamente attraverso l’evoluzione di indicatori naturali del pianeta? Oppure sarà possibile creare un quadro di strumenti di riferimento che integrerà le diverse realtà e nozioni? Se sarà possibile creare tali indicatori olistici, questi dovranno essere di pubblico accesso, in modo da mettere gli individui in condizione di verificare l’azione dei decisori. Un cambiamento che offrirebbe ai governi, alla società civile e alle imprese uno strumento di navigazione di gran lunga migliore del Pil, che permetterà all’umanità di procedere in uno spazio equo e sicuro in cui tutti potremo prosperare.

L’obiettivo prioritario dello sviluppo economico globale deve essere la prosperità in uno spazio equo e sicuro, ponendo fine al sovrasfruttamento delle risorse naturali.

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materiarinnovabile 02. 2015


Policy

Policy

Più di 50 miliardi di tonnellate di materia sprecati ogni anno: un patrimonio da recuperare Per la quantità dei materiali che movimenta, la specie umana è ormai in grado di competere con le più importanti cause di cambiamento geomorfologico. La nostra sete di combustibili fossili comporta il prelievo annuo di 45 miliardi di tonnellate di materia dormiente in natura, di cui 14 miliardi sono i combustibili effettivamente usati. L’appropriazione umana di biomasse è arrivata a 27 miliardi di tonnellate di cui 5,5 miliardi non utilizzati.

Aldo Femia è primo ricercatore presso l’Istituto nazionale di statistica (Istat). Esperto di contabilità satellite, e in particolare di conti ambientali in termini fisici, in passato ha lavorato presso il Wuppertal Insitut Für Klima Umwelt Energie e presso l’Ocse.

La faccia della Terra è da sempre in lento ma continuo mutamento: scavata da corsi d’acqua e ghiacciai, erosa da venti, sconvolta dalla formazione delle montagne e dalle eruzioni vulcaniche, soggetta a cambiamenti della copertura vegetale e del clima. Dal 20° secolo però si è affermata una nuova forza della natura: l’azione della specie umana. Per la quantità dei materiali che movimenta, la specie umana è infatti ormai in grado di competere con le più importanti cause di cambiamento geomorfologico. Gli esseri umani spostano intenzionalmente ogni anno tra i 50 e i 60 miliardi di tonnellate di roccia, pietre, sabbia e ghiaia (compresi i minerali di scarto), di cui un terzo circa per il prelievo di minerali per l’industria metallifera e due terzi per altre industrie e per le costruzioni. Si tratta di una quantità pari al doppio di quella eruttata dai vulcani oceanici, al triplo di quella portata al mare da tutti i fiumi del mondo, al quadruplo di quella che sposta la formazione di montagne, a dodici volte quella trascinata dai ghiacciai e a sessanta volte quella dovuta all’erosione eolica. Persino maggiore è lo spostamento di terra

Illustrazione di ©Bazzier / Shuttersock

di Aldo Femia

involontario ma comunque dovuto all’azione umana, e in particolare all’erosione indotta dalle pratiche agricole: 80 miliardi di tonnellate. La nostra sete di combustibili fossili comporta poi il prelievo annuo di circa 45 miliardi di tonnellate di materia dormiente in natura, di cui 14 miliardi sono i combustibili effettivamente utilizzati. L’appropriazione umana di biomasse è arrivata invece a 27 miliardi di tonnellate di cui 5,5 miliardi non utilizzati. Nei processi di produzione e consumo questi materiali vengono raffinati, combinati tra loro, mescolati con l’acqua e gli elementi atmosferici. Il consumo di acqua a livello globale è stato quantificato: siamo ad almeno 4.000 km cubici. Quanto agli input dall’atmosfera, si può stimare in almeno una trentina di miliardi di tonnellate la quantità di ossigeno, azoto e altri elementi prelevati. Queste enormi quantità definiscono il perimetro materiale del nostro rapporto con la natura. La loro misura – pur se in molti casi necessariamente approssimativa – ci aiuta a intuire quanto sia imponente la quantità di materia che viene messa in circolazione ogni anno dall’attività della specie umana per produrre cibo, per alimentare l’industria, per ridisegnare il territorio secondo le proprie esigenze. L’altra faccia della medaglia del prelievo di queste ingenti quantità di materiali è il loro “consumo”, cioè la loro progressiva trasformazione in residui da restituire all’ambiente o accumulare in discariche. A seconda dei modi d’impiego e di gestione dei materiali, un dato prelievo può trasformarsi in residuo immediatamente o dopo

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materiarinnovabile 02. 2015 millenni, ma inevitabilmente prima o poi ogni risorsa utilizzata si trasformerà in residuo, con quel che ne consegue per gli equilibri naturali. Sette su nove dei planetary boundaries identificati da Rockström et al. sono facilmente collegabili all’uso di materiali. Un’immensa fame di materiali, ma cosa ne facciamo? Dalle foreste vengono prelevati 2,5 miliardi di tonnellate di legname e altri prodotti. La gran parte delle biomasse va a finire – essendo digerita o bruciata – in atmosfera.

È praticamente impossibile seguire tutti gli innumerevoli rivoli in cui il flusso dei materiali prelevati si scompone, si ricompone e – sempre più – si riavvolge su se stesso, per sfociare chissà quando, dove e in che forma nell’ormai sterminato mare dei residui di origine antropica accumulati nel suolo, nelle acque, nell’atmosfera. Altrettanto difficile è reperire dati globali affidabili, non solo sui flussi di minore entità o supposti di minore importanza, ma anche su flussi ingenti e qualitativamente importanti come quelli dei rifiuti. Tuttavia avere un’idea anche di questi numeri è estremamente importante. È importante per l’economia e per l’ambiente, perché in un caso e nell’altro ci aiutano a capire sia la dimensione dei problemi con i quali dobbiamo fare i conti sia quella delle potenziali risorse a disposizione per cominciare a dare risposta a questi problemi chiudendo i cicli. Dunque che fine fanno i materiali che estraiamo? Le “filiere” più brevi sono quelle dei materiali inutilizzati, che sono estratti solo in funzione

dei materiali utili e diventano immediatamente rifiuti: •• 5,5 miliardi di tonnellate di biomasse, di cui 0,7 in Europa (80 milioni di tonnellate in Italia): in parte vengono lasciate sul suolo, a rigenerarne la fertilità, in parte bruciate, in parte raccolte e buttate via. Suscitano sempre più l’interesse dell’industria energetica e dalla crescente industria dei prodotti biobased; •• 42 miliardi di tonnellate di minerali (cappellacci, trivellazioni, scavi, scarti di prima selezione...), di cui il 10% estratti in Europa (60 milioni di tonnellate in Italia), giudicati inidonei per l’uso, o non convenienti, per esempio per lavori di costruzione. Dei 14 miliardi di tonnellate di minerali energetici utili estratti (0,8 miliardi in Europa), la gran parte viene raffinata e poi bruciata, generando ogni anno 32 miliardi di tonnellate di CO2 e 140 milioni di tonnellate di metano, cui vanno aggiunti i prodotti della combustione delle impurità residue. Fino al 15% del petrolio diventa bitume o zolfo. Una parte degli idrocarburi fossili è usata per trarne i 265 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno nel mondo. Con il resto si fanno solventi e prodotti chimici d’ogni sorta. La gran parte dei quasi 22 miliardi di tonnellate di biomasse utili prodotte (2,7 miliardi in Europa e circa 110 milioni in Italia) è costituita da cibo per gli uomini (8 miliardi di tonnellate) o per gli

Relazione tra i confini planetari di Rockström et al. e l’uso di materiali Confini planetari

Cause e/o spinte all’uso del materiale

Cambiamenti climatici

Emissioni gas a effetto serra dovute a combustione di materiali da energia fossile

Riduzione dell’ozono stratosferico

Emissione di sostanze che riducono l’ozono (come i Cfc e gli halon)

Acidificazione degli oceani

Emissione di sostanze chimiche (come acido nitrico o solforico)

Flussi biogeochimici: interferenza con i cicli di fosforo e azoto

Afflusso di fosforo dovuto ad attività agricole; estrazione di biomassa

Tasso di perdita di biodiversità

Emissioni gas a effetto serra dovute a combustione di materiali da energia fossile; estrazione di biomassa

Inquinamento chimico

Emissioni o sostanze chimiche basate su materie prime abiotiche

Carico di aerosol atmosferico

Emissioni di aerosol dovute alla combustione di materiali da energia fossile e biomassa

Fonte: Verena Stricks // Friedrich Hinterberger // Josef Moussa (2015): Developing targets for global resource use. IntRESS Working Paper No 2.3 (in uscita su www.intress.info)


Policy

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Materiali movimentati intenzionalmente dalle attività umane nel 2011, utilizzati e non, per gruppi di paesi e per tipo di attività primaria (miliardi di tonnellate)

Fonte: www.materialflows.net 0 Utilizzati

Paesi Ocse

Inutilizzati

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animali (11 miliardi di tonnellate). Dalle foreste vengono prelevati 2,5 miliardi di tonnellate di legname e altri prodotti. La gran parte delle biomasse va a finire – essendo digerita o bruciata – in atmosfera. Parte però va nelle acque reflue, e nei rifiuti. Lo spreco alimentare è stimato (Fao) in almeno un terzo delle biomasse adatte all’alimentazione umana. Dalle acque reflue i residui organici vengono spesso recuperati come fanghi di depurazione, che a loro volta vanno in discarica, o destinati all’uso agricolo, o all’incenerimento. I minerali metalliferi utili estratti ammontano a quasi 8 miliardi di tonnellate. Di questi, solo 170 milioni di tonnellate sono estratti nella Ue a 27, area in cui viene importato mezzo miliardo di tonnellate di concentrati e di prodotti in metallo e da cui escono verso il resto del mondo 420 milioni di tonnellate di prodotti frutto di queste lavorazioni. Il saldo – 250 milioni di tonnellate – è trasformato in rifiuti (molto spesso pericolosi) e beni durevoli sul territorio europeo. L’atmosfera, pattumiera globale Diamo adesso uno sguardo ai flussi di materiali globali secondo una prospettiva di “destino finale”. Salta subito agli occhi come la più sfruttata pattumiera globale sia l’atmosfera. Considerando solo il carbonio contenuto nelle emissioni da combustione di fossili e nella

Ocse

Non-Ocse reddito alto Non-Ocse reddito medio-alto Non-Ocse reddito medio-basso Non-Ocse reddito basso

Produzione e raccolta di biomasse Estrazione di combustibili fossili Estrazione di minerali industriali e da costruzione Estrazione di minerali metalliferi

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materiarinnovabile 02. 2015 Evoluzione dell’estrazione di materiali vergini, solo materiali utilizzati, 1980-2010 80

Minerali industriali e da costruzione

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0 1980

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Fonte: grafico elaborato su dati www.materialflows.net

Bibliografia •• Global carbon budget 2014: http://www. globalcarbonproject. org/carbonbudget/14/ presentation.htm •• Combustione biomasse: https://engineering. stanford.edu/news/ stanford-engineers-studyshows-effects-biomassburning-climate-health e http://www.fao.org/ag/ againfo/programmes/ en/lead/toolbox/indust/ bioburea.htm •• Rifiuti: http:// siteresources.

1990

1995

2000

2005

produzione di cemento, nel 2013 il flusso annuo ha raggiunto quasi 10 miliardi di tonnellate, il che vuol dire 36 miliardi di tonnellate di CO2. Alle quali vanno aggiunti: un miliardo e mezzo di tonnellate di altri gas, a effetto serra e non; sostanze volatili e particolato; 3,5 miliardi di tonnellate dalla combustione di biomasse (buona parte del legname raccolto, parte dei residui agricoli); una quantità dello stesso ordine di grandezza dalla respirazione di uomini e animali (la digestione trasforma in CO2 e metano le biomasse alimentari ingerite). Un recentissimo studio del National Center for Atmospheric Research del Colorado, ha stimato che lo smaltimento di quasi un

worldbank.org/ INTURBANDEVELOPMENT/ Resources/336387-13348 52610766/What_a_ Waste2012_Final.pdf •• Plastica: http://www. unep.org/ietc/OurWork/ WasteManagement/ Projects/ wastePlasticsProject/ tabid/79203/Default.aspx •• I. Douglas, “Land use: the geomorphic and land use impacts of mining”, Sustainable mining practices – a global perspective, ed.

V. Rajaram, S. Dutta, K. Parameswaran, 60-80, Balkema, Leiden, 2005 •• H. Haberl et al., “Quantifying and mapping the human appropriation of net primary production in earth’s terrestrial ecosystems”, Proceedings of the National Academy of Sciences, v. 104, n. 31, 2007, p. 12,942-12,947 •• Roger LeB. Hooke, “On the history of Humans as geomorphic agents”, Geology, 28(9), 2000, pp. 843-846

2010

miliardo di tonnellate di rifiuti avviene mediante combustione nei siti di produzione (620 milioni di tonnellate) o di stoccaggio (350 milioni di tonnellate). Il prodotto di tale combustione va a contribuire alla saturazione della grande pattumiera aerea. La produzione di rifiuti solidi è in buona parte un fenomeno urbano. Secondo uno studio della Banca Mondiale del 2012, i rifiuti solidi urbani generati annualmente nelle città di tutto il mondo ammonterebbero a 1,3 miliardi di tonnellate, mentre la International Solid Waste Association, includendo nelle stime anche la popolazione non urbana, parla di 1,84 miliardi di tonnellate. Quella rappresentata nella figura a pagina seguente

•• M. L. Imhoff et al., “Global patterns in human consumption of net primary production”, Nature, v. 429, 2004, p. 870-873 •• J. R. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole – Storia dell’ambiente nel XX secolo, 2002, Einaudi, Torino, 2002 •• S.J. Price et al., “Humans as major geological and geomorphological agents in the Anthropocene: the significance of artificial ground in Great Britain”,

Philosophical Transactions A, v. 369, 2011, p. 1056-1084 •• J. Rockström et al., Water Resilience for Human Prosperity Cambridge University Press, 2014 •• P. M. Vitousek (1986), “Human appropriation of the products of photosynthesis”, BioScience, v. 36, p. 368-373


Policy è la composizione dei rifiuti compresi nello studio della Banca Mondiale sopra citato. Queste cifre non comprendono buona parte dei rifiuti industriali, e in particolare gli scarti dell’attività mineraria, ed escludono la parte non utilizzata delle biomasse coltivate o raccolte. Già con riferimento al 2001, l’Ocse (63% del Pil mondiale) stimava in 4 miliardi di tonnellate la produzione complessiva di rifiuti dei suoi stati membri. L’Unep, in un rapporto del 2011, parla di 11,2 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi raccolti a livello globale. Secondo alcune stime, il 20% dei rifiuti solidi sarebbe generato dal settore tessile. I rifiuti elettronici invece sono “appena” 50 milioni di tonnellate, ma presentano specifici profili di pericolosità, oltre che opportunità per il recupero. Infine, tutto ciò che non viene restituito alla natura rimane immobilizzato all’interno del sistema antropico sotto forma di infrastrutture, edifici, macchinari, beni durevoli. In questi ultimi si trovano: una parte del miliardo di tonnellate di legname da lavoro che annualmente viene estratto; derivati del petrolio come bitume e plastica; la gran parte dei 34 miliardi di tonnellate di minerali da costruzione o per usi industriali estratti annualmente; il risultato

della lavorazione degli 8 miliardi di tonnellate di minerali metalliferi. Le quantificazioni globali qui riportate sono ovviamente soggette a incertezze, margini di errore spesso ampi (per lo più incompletezze) e all’effetto delle divergenze tra le convenzioni adottate tra i diversi autori e le diverse fonti. Tuttavia, il tipo di analisi qui abbozzato (con tutti i limiti del riferimento al livello globale) è di fondamentale importanza per comprendere quale sia il contributo al superamento dei problemi che hanno a che fare con l’uso di risorse materiali che può venire dal concetto di rinnovabilità della materia. La gestione razionale dell’immensa quantità di prodotti già esistenti e di materia stoccata in infrastrutture, edifici e beni durevoli non più utili sarà sicuramente importante per ridurre l’estrazione di metalli, lo scavo di inerti, il taglio di foreste, la coltivazione di terreni sfruttati, la ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi, le produzioni inquinanti. Fino a che punto? Per quali materiali e filiere di utilizzo? A quale scala geografica? Impossibile dirlo in generale. Analisi più approfondite e puntuali saranno, speriamo, momenti utili nella ricerca delle risposte, che certamente non possono essere date solo sulla base delle quantità in gioco, ma che con esse devono fare i conti.

Composizione dei rifiuti solidi globali

Fonte: Banca Mondiale, 2012.

Altro 18%

Metalli 4%

Vetro 5%

Organico 46%

Plastica 10%

Carta 17%

21


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materiarinnovabile 02. 2015

La tabella delle mancanze

di James Clark

I designer, gli industriali e gli scienziati oggi possono scegliere praticamente qualsiasi elemento chimico per applicarlo alla funzione specifica che desiderano. La moderna tecnologia utilizza infatti come una classica cassetta degli attrezzi l’intera tabella periodica degli elementi. L’utilizzo sempre più intensivo di questa possibilità e l’assenza della fase di riciclo di alcuni degli elementi più “critici” sollevano però preoccupazioni rispetto alla loro disponibilità nel lungo termine. Timori che stimolano l’interesse tanto nella ricerca di materie sostitutive quanto in una più draconiana smaterializzazione: l’individuazione di sostituti appare un’iniziativa ragionevole se si punta a mantenere o perfino aumentare l’attuale standard di vita. Nella maggior parte dei casi il potenziale per questo passaggio non è stato adeguatamente

preso in esame ed è quindi necessario considerare altre soluzioni accettabili: nel lungo termine sarà bene rielaborare tutta la strategia di progettazione, così da avviare un approccio a circuito chiuso all’impiego dei materiali che mantenga le risorse in circolazione in modo più efficace. Del resto la crescente scarsità di molti elementi è evidenziata nell’immediatamente riconoscibile tabella periodica di Mendeleev, modificata in modo da visualizzare la cosiddetta “insostenibilità degli elementi” (figura 1). Gli elementi non si “esauriscono” né vengono distrutti ma si disperdono nella tecnosfera, rendendone problematico e spesso proibitivamente costoso il recupero. Questi ostacoli vanno affrontati tramite l’istituzione di partnership multidisciplinari che adottino approcci sostenibili e olistici, coerenti con il recupero e il riutilizzo.

Figura 1 | Insostenibilità degli elementi. Le tradizionali risorse minerarie si stanno esaurendo, come si evince dalla diminuzione delle riserve dovuta all’intensità e ai diversi modelli di utilizzo Anni restanti fino all’esaurimento delle risorse conosciute* 5-50 anni 50-100 anni 100-500 anni

Lantanidi Attinidi

*In base agli attuali livelli di estrazione

Fonte: immagine basata sulla versione aggiornata dell’articolo originale pubblicato in Green Chemical Engineering and Processing, J.R.Dodson et al., 2012, 69-78.


Policy

Figura 2 | I diversi stadi nel ciclo di vita del metallo. Il cerchio esterno rappresenta i mercati Fonte: per gentile concessione di Dott. Nedal Nasser, Yale University, basato su una versione modificata del grafico contenuto in B.K. Reck et al., Environ. Sci. Technol. 2008, 42, 3394-3400.

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Economia circolare

Impiego Stoccaggio

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Attualmente molti elementi presentano bassi livelli di riciclo a fine vita anche perché l’efficienza del processo di recupero è determinata soprattutto dalla raccolta dei metalli di scarto direttamente dopo l’uso. Per il platino e per il palladio esistono già percorsi di riciclo ben definiti: poiché sono impiegati nel settore dei catalizzatori per le auto, vengono recuperati dopo l’utilizzo e la raccolta è integrata nelle procedure per il trattamento a fine vita dei convertitori catalitici. Ma la vasta maggioranza degli altri elementi è molto più difficile da riciclare a causa delle basse concentrazioni e della dispersione in un gran numero di filiere dei rifiuti. Il problema è esacerbato dal fatto che le regioni economicamente privilegiate esportano grandi volumi di rifiuti ricchi in metalli verso i paesi più poveri aggravando il rischio perché la disponibilità limitata di tecnologie moderne e gli inesistenti standard di igiene e sicurezza si sommano al già imponente impatto ambientale dei flussi di rifiuti. Tassi più elevati di riciclo potrebbero condurci verso un’economia circolare, limitando la necessità di estrarre e purificare gli elementi, senza dover vincolare in modo eccessivo l’impiego delle risorse. Per raggiungere questo obiettivo si può pensare a quote di elementi critici utilizzabili.

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Nella figura 2 sono illustrati i diversi stadi del ciclo di vita del metallo. Troppo complesso per essere circolare? Facciamo alcuni esempi. Si stima che circa 40 tonnellate di platino vadano perse ogni anno durante le fasi di estrazione, e altre 20 durante la lavorazione a valle e l’utilizzo dell’elemento. Malgrado il livello relativamente alto di riciclo e l’elevato valore del platino, ulteriori 50 tonnellate l’anno di materiale si perdono durante il processo di gestione dei rifiuti. Un normale telefono cellulare contiene oltre 40 diversi elementi tra cui arsenico, rame, gallio, oro, indio, magnesio, palladio, platino, argento, stagno e tungsteno (tutti presenti nell’elenco degli elementi a rischio di esaurimento redatto dalla British Geological Survey). Le principali riserve di questi metalli sono ubicate al di fuori dell’Unione europea e ogni nuova generazione di telefoni sembra contenerne un numero maggiore. Inoltre si allunga ogni anno l’elenco degli elementi considerati a rischio: si scoprono costantemente nuovi giacimenti, diminuisce il numero delle scoperte, cresce il costo medio di estrazione. Secondo un’indagine di US Geological, la quantità annuale di nuovi giacimenti individuati si è dimezzata tra il 2005 e il 2010, mentre la spesa

James Clark è docente di Chimica e direttore del Green Chemistry Centre of Excellence della University of York. Da oltre 20 anni promuove la chimica verde a livello internazionale: è stato fondatore e redattore scientifico della rivista Green Chemistry ed è direttore senior della collana Royal Green Chemistry, nonché Presidente di Green Chemistry Network. Recentemente ha vinto numerosi premi, tra cui RSC Environment e Society of Chemical Industry Chemistry for Industry.

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materiarinnovabile 02. 2015 Figura 3 | Modelli nazionali di gestione e smaltimento dei rifiuti solidi nei diversi paesi Contributo % allo smaltimento dei rifiuti 0

20

40

60

100

80

Usa Giappone Germania Paesi Bassi Danimarca Francia Italia Finlandia Regno Unito Irlanda Portogallo Slovenia Ungheria Grecia Repubblica Ceca Polonia Bulgaria

Fonte: basato sui dati pubblicati da Green Chemical Engineering and Processing, J.R. Dodson et al., 2012, 69-78.

Un normale telefono cellulare contiene oltre 40 diversi elementi tra cui arsenico, rame, gallio, oro, indio, magnesio, palladio, platino, argento, stagno e tungsteno (tutti presenti nell’elenco degli elementi a rischio di esaurimento redatto dalla British Geological Survey).

% discarica

% compostaggio

% inceneritore

% riciclo

per l’esplorazione è raddoppiata rispetto a quella del 2010. Come accade con il petrolio, finora è stata utilizzata la maggior parte delle riserve di facile accesso; ciò che resta si troverà sempre più spesso in luoghi difficili da raggiungere, che potranno essere sfruttati solo a costi ambientali ed economici molto elevati.

Alla luce dei dati raccolti nell’articolo e delle informazioni sul nostro atteggiamento verso le risorse, non sorprende affatto scoprire che durante questo periodo di crescita economica e dei consumi il riciclo di molti degli elementi più preziosi sia stato completamente trascurato (figura 4).

La crescente complessità degli oggetti moderni inoltre non implica soltanto l’impiego di un numero maggiore di elementi: ne rende anche molto più complesso il recupero. Dopo aver investito tanto impegno per isolare i metalli (la concentrazione del platino nei giacimenti minerari è in genere di qualche grammo per tonnellata di roccia e deve essere separato da una serie di altri metalli tra cui rame, nickel, rodio, iridio, rutenio, stagno, piombo, arsenico e altri), non è quasi perverso dedicarne altrettanto a creare oggetti che, unendo più elementi, rendono nuovamente molto difficile il recupero di ognuno di loro?

Oggi però gli elementi critici facilmente accessibili sono in via di esaurimento e non recuperiamo ciò che utilizziamo: è evidente come non sia possibile continuare a sostenere la crescita dei consumi conseguente all’aumento della popolazione nei paesi sviluppati se persistiamo con questo modello di consumo. Possiamo sostituirlo con un modello lineare, basato su altri elementi che abbondano sul pianeta? La ricerca delle alternative si è di certo allargata. Per quel che riguarda le sostanze organiche, la ricerca è promossa dalla combinazione di scarsità (le convenzionali risorse petrolifere, in esaurimento, vengono utilizzate per produrre oltre il 90% delle merci) e legislazione che limita l’impiego di troppi composti a causa dei crescenti timori sulla tossicità e sull’impatto ambientale delle sostanze chimiche comunemente utilizzate (tra cui solventi, agrochimici, ritardanti di fiamma, rivestimenti per superfici e additivi come gli ftalati). La ricerca sui minerali è invece stimolata principalmente dalla scarsità

C’è poco da recuperare Oggi la maggior parte di ciò che produciamo si trasforma in rifiuto. Il miracolo economico del 20° secolo, che ha portato circa un miliardo di persone a vivere in modo agiato e con un elevato dispendio di risorse, è stato alimentato da risorse non rinnovabili e basato su un modello di economia lineare che risponde allo schema estrazioneprocessazione-consumo-smaltimento (figura 3).


Policy e dai timori delle regioni con poche risorse minerali vergini. In entrambi i casi, anche se per ragioni sostanzialmente differenti, l’Ue si sta muovendo. Sarà interessante vedere se riuscirà a introdurre una legislazione che limiti l’impiego degli elementi riconosciuti come critici. Le alternative Ma quali sono i tempi di creazione di un sistema di recupero dei materiali? La probabilità di successo nell’individuazione di alternative ai metalli critici va esaminata in modo critico: i metalli del gruppo del platino (platino, palladio, rodio, rutenio, iridio e osmio) ne sono un esempio. Questi metalli, chiamati anche MGP, possiedono un’incredibile gamma di proprietà chimiche e fisiche che li rende idonei per molte applicazioni: convertitori catalitici, catalizzatori destinati alla produzione chimica e farmaceutica, affinazione petrolifera, elettronica, settore medicale e dentistico, gioielleria. Il loro valore e le varietà delle applicazioni possibili hanno incoraggiato la valutazione di possibili alternative (genericamente più economiche), anche se quasi sempre si tratta di altri metalli dello stesso gruppo. Per il platino per esempio sono state proposte le seguenti alternative: •• catalizzatori per auto/ palladio; •• elettronica/leghe di palladio; •• medicina/alcune leghe di cromo per alcune applicazioni;

•• catalizzatori chimici/altri metalli del gruppo del platino; •• raffinazione petrolifera/molibdeno. Laddove siano state proposte alternative diverse dagli MGP sono stati riscontrati problemi vari: scarse prestazioni o necessità di riprogettare le attrezzature associate. In altri casi non è stato possibile individuare sostituti adatti, per esempio nel settore dei catalizzatori per le automobili. Ciò non significa che la ricerca di alternative ai metalli critici e ad altri importanti elementi in via di esaurimento sia vana. Nella catalisi per i settori chimico e farmaceutico, per esempio, si sono registrati alcuni interessanti sviluppi con l’impiego di metalli tuttora abbondanti al posto degli MGP e di altri metalli più rari. Si prospetta anche l’avvento dei cosiddetti organo-catalizzatori, completamente privi di metalli. Occorre tuttavia fare attenzione a non “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, come accade nel caso dei crescenti timori relativi ad alcune sostanze organiche come i solventi. Sarà impossibile non utilizzare determinati metalli e solventi, indispensabili in tante applicazioni importanti per le quali in molti casi non ci sono sostituti adeguati. Esistono però settori e applicazioni molto meno rilevanti nei quali utilizzare le alternative è possibile anche con poco impegno economico e nessuna riduzione del valore dell’applicazione. Il numero dei successi ottenuti lo testimonia e ancora una volta conferma che davvero la necessità aguzza l’ingegno.

Oggi la maggior parte di ciò che produciamo si trasforma in rifiuto.

Figura 4 | Livelli di riciclo degli elementi Livello attuale di riciclo

Lantanidi Attinidi

<1%

25-50%

1-10%

>50%

10-25%

Dati non disponibili

Fonte: per gentile concessione della Dott.ssa Jennie Dodson, University of York.

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materiarinnovabile 02. 2015

Rubriche In diretta da Berlaymont

Economia circolare: occhi puntati sulla prossima mossa della Commissione Juncker Joanna Dupont-Inglis si è specializzata in Scienze ambientali all’Università del Sussex e a quella di Nantes. Nel febbraio del 2009 è entrata a far parte di EuropaBio, l’associazione europea delle bioindustrie, e dall’aprile 2011 dirige il settore delle biotecnologie industriali.

L’ondata di shock creata dal ritiro da parte della Commissione europea del pacchetto di riforme sull’economia circolare e i rifiuti ha fatto attivare i sostenitori dell’iniziativa in modo trasversale e lungo tutto l’arco politico. Sia prima sia dopo l’annuncio formale da parte della Commissione dell’intenzione di rimuovere e ridisegnare la propria proposta, dal mondo dell’industria, dalle Ong, dal Parlamento europeo e dagli stati membri sono fioccate prese di posizione a suo sostegno. In una fase in cui sull’Ue pesa enormemente l’urgenza di affrontare la disoccupazione, lo stallo dell’economia nell’Eurozona, i problemi dell’immigrazione, della sicurezza energetica e del terrorismo, le pressioni per far slittare al fondo dell’agenda politica le politiche percepite come troppo soft o sostanzialmente “ambientaliste” deve essere immensa. Il messaggio però è arrivato forte e chiaro: tale questione non è affatto di secondaria importanza per il futuro dell’Europa e per la sua ripresa economica. Il concetto di economia circolare consiste nel disaccoppiare la crescita dal consumo di risorse e nella massimizzazione degli effetti positivi a livello ambientale, economico e sociale. Consiste nell’ideare prodotti in modo che siano più facili da riutilizzare e riciclare, e fare in modo che ciascun componente del prodotto sia biodegradabile o riciclabile al 100%. In breve, si tratta di un concetto che è perfettamente in linea con lo sviluppo della bioeconomia e della transizione verso prodotti biobased, invece che di prodotti derivati da combustibili fossili. Ma se vi fosse bisogno di ulteriori prove inconfutabili della necessità di una strategia di economia circolare per l’Ue i dati sono a disposizione: i primi resoconti della fondazione Ellen MacArthur, presentati per la prima volta a Davos nel 2012, hanno mostrato un potenziale economico annuale di 630 miliardi di euro per l’industria manifatturiera europea. La Fondazione riporta che i beni di consumo costituiscono circa il 60% della spesa complessiva dei consumatori, e il 35% dell’input di materiali. Forse ancora più impressionante è il fatto che questo settore assorba più del 90% della produzione agricola, cosa che in termini di potenziali implicazioni per il sistema nel suo insieme è sconcertante. Mette in luce la considerevole quantità di valore che va perso

e non viene tenuto in considerazione nel modello attuale di economia circolare, che non considera come una notevole percentuale di ciò che tratta come rifiuto potrebbe essere un sottoprodotto potenzialmente utile. L’ultimo rapporto della Fondazione sottolinea anche come progettando dall’inizio prodotti migliori, oltre a migliori processi e sistemi di raccolta orientati alla rigenerazione, è possibile implementare un modello che può funzionare nel lungo termine, e nel frattempo aprire opportunità commerciali. Un esempio di questo processo è la catena di valore biobased. Il rapporto sottolinea poi il fatto che una tonnellata di avanzi domestici di cibo, propriamente trattata, potrebbe generare elettricità per un valore di 26 dollari e fertilizzante per un valore di 6 dollari, ma non si spinge a considerare come il valore aggiunto materiale di un tale flusso di rifiuti potrebbe aumentare attraverso la produzione di altri prodotti biobased di maggior valore. Mette però in luce i benefici sia commerciali sia ambientali del modello circolare, che ha la capacità di rigenerare anziché esaurire. Lo sviluppo dell’economia circolare dovrebbe rappresentare il punto di svolta nella realizzazione del fatto che i prodotti biobased e lo sviluppo della bioeconomia giocano un ruolo centrale nella transizione verso un futuro più sostenibile. Un’economia di tipo circolare può essere raggiunta solamente spezzando il modello lineare basato sui combustibili fossili che consiste nell’estrazione, utilizzo e smaltimento/emissioni, per andare verso un utilizzo di materie prime rinnovabili, sempre più basato sui residui e sui rifiuti. La Commissione europea promette di pubblicare un pacchetto di economia circolare nuovo e migliorato nell’estate del 2015, più centrato sul design dei prodotti, sulla loro riciclabilità e fine vita. Ora è il momento di assicurarsi che le sue proposte riflettano il nostro bisogno di compiere una transizione verso fonti di approvvigionamento e processi che siano sempre più smart, sostenibili, rinnovabili ed efficienti dal punto di vista delle risorse, per poter dare vita all’economia circolare del futuro.


Policy

Sapere cosa vuole fare, quale sarà l’agenda politica della Commissione europea è una delle prime cose che cittadini e imprese europei si chiedono dopo nuove elezioni.

L’Europa cambia politica sull’economia circolare? di Francesco Petrucci

Il ritiro del “pacchetto” di modifica delle direttive sui rifiuti (cosiddetta “direttiva sull’economia circolare”)1 da parte della nuova Commissione europea il 16 dicembre 2014 ha destato sorpresa e preoccupazione. La Commissione ha annunciato che entro fine 2015 sarà varata una nuova più ambiziosa proposta legislativa sull’economia circolare, ma sarà davvero così?

Francesco Petrucci, giurista ambientale, membro della Redazione normativa di Edizioni Ambiente.

Le nuove elezioni non portano solo un cambiamento nei volti dei componenti delle assemblee elette, ma spesso anche un mutamento delle politiche e degli obiettivi, in coerenza con lo schieramento politico risultato vincitore. Le elezioni del Parlamento europeo della primavera 2014 hanno spostato un po’ più verso centro-destra l’asse politica delle istituzioni europee ed era lecito attendersi anche dei cambiamenti nella politica ambientale. Il rinnovo del Parlamento europeo ha naturalmente determinato un rinnovo della Commissione europea, l’organismo che ha il compito di proporre le leggi al Parlamento che poi le dovrà votare, spesso in tandem con il Consiglio dell’Unione europea, l’altro organo dell’Ue che negozia e adotta la normativa europea insieme al Parlamento europeo (procedimento di co-decisione).

1. Proposta di direttiva 2 luglio 2014, COM (2014), 397 final, che modifica le direttive 2008/98/Ce sui rifiuti, 94/62/Ce sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio, 1999/31/Ce sulle discariche, 2000/53/ Ce sui veicoli fuori uso, 2006/66/Ce sulle batterie e accumulatori e 2012/19/Ue sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

Il Presidente della Commissione europea viene nominato dal Consiglio europeo (l’organo che comprende tutti i capi di stato e governo della Ue e che non va confuso con il Consiglio dell’Unione europea), mentre il Consiglio d’accordo con il Presidente eletto designa gli altri Commissari. La designazione di tutti i Commissari, compreso il Presidente, è soggetta all’approvazione del Parlamento europeo. E il Parlamento europeo il 22 ottobre 2014 ha approvato la nuova Commissione targata Juncker che si è insediata il 1° novembre 2014. Questo piccolo promemoria su cosa accade quando i cittadini europei eleggono i loro nuovi rappresentanti è utile sia per capire quanto il mutato assetto politico post elezioni influenzi la composizione della Commissione europea (e le sue politiche) sia per comprendere l’importanza della Commissione come motore propulsore del diritto europeo e quindi delle nuove regole che l’Unione decide di darsi. La Commissione infatti propone atti legislativi al Parlamento e al Consiglio, gestisce il bilancio dell’Unione europea, attribuisce i finanziamenti e vigila sull’applicazione del diritto europeo. Insomma, sapere cosa vuole fare, quale sarà l’agenda politica della Commissione europea

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materiarinnovabile 02. 2015 Provvedimenti previsti dalla Commissione Barroso, ora annullati dalla Commissione Juncker

è una delle prime cose che cittadini e imprese europei si chiedono dopo nuove elezioni. Erano pertanto molto attese le priorità della nuova Commissione europea. Il 16 dicembre 2014 la Commissione ha annunciato il programma di lavoro per il 2015, nel quale ha esposto le azioni che intende adottare nell’anno “per cambiare realmente le cose in termini di occupazione, crescita e investimenti e portare vantaggi concreti ai cittadini. È un programma di cambiamento”.

dal 2025

La nuova Commissione Juncker ha sottolineato la discontinuità politica rispetto alla Commissione Barroso che l’ha preceduta e ha marcato tale discontinuità cassando 80 proposte legislative sulle 450 che attendono una decisione del Parlamento europeo e del Consiglio.

Divieto di collocare in discarica i rifiuti riciclabili

Obbligo di riciclo

Riciclo di rifiuti da imballaggio

80%

Tra queste proposte legislative, come si accennava c’è la direttiva sull’economia circolare che rinnovando le direttive su rifiuti, imballaggi, discariche, veicoli fuori uso e pile e accumulatori, disegnava obiettivi di recupero e riciclo ambiziosi (forse troppo). Secondo la precedente Commissione europea il conseguimento degli obiettivi in materia di rifiuti fissato dalla direttiva sull’economia circolare avrebbe portato 580.000 nuovi posti di lavoro, rendendo l’Europa più competitiva e riducendo la domanda di risorse scarse e costose. In particolare la direttiva prevedeva il riciclaggio del 70% dei rifiuti urbani e dell’80% dei rifiuti di imballaggio entro il 2030 e dal 2025 il divieto di collocare in discarica i rifiuti riciclabili. Il modello economico proposto dalla direttiva è un modello dove le materie prime non vengono più estratte, utilizzate una sola volta e gettate via. In un’economia circolare i rifiuti spariscono e il riutilizzo, la riparazione e il riciclaggio diventano la norma. La proposta di direttiva si inseriva nella “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse” (comunicazione della Commissione 20 settembre 2011, n. COM(2011) 0571) rientrando nell’iniziativa faro sull’impiego efficace delle risorse della Strategia Europa 2020.

entro il 2030

Perché la nuova Commissione europea presieduta da Juncker ha deciso il ritiro?

Riciclo di rifiuti urbani

70%

Secondo il comunicato stampa della Commissione le proposte di legge varate dal precedente esecutivo presieduto da Barroso sono state ritirate per tre ragioni alternative: 1. non in linea con le priorità della nuova Commissione; o 2. giacenti da troppo tempo sul tavolo delle trattative tra Parlamento e Consiglio Ue; o 3. la proposta originaria è stata talmente “annacquata” durante i negoziati da non potere più raggiungere lo scopo iniziale.


Policy

Non possiamo pensare che la proposta di direttiva sull’economia circolare del 2 luglio 2014 fosse da troppo tempo sul tavolo delle trattative, né che ci fosse stata una grande discussione politica sul testo tale da annacquarlo (la proposta non ha avuto il tempo di essere discussa da Parlamento e Consiglio). Rimane la terza ipotesi: la direttiva sull’economia circolare non è in linea con le priorità della Commissione per il 2015. La Commissione Juncker ha sottolineato che entro fine 2015 sarà presentata una nuova proposta di direttiva, ancora più ambiziosa

della precedente. Ma già il fatto che almeno per tutto il 2015 non si parlerà di economia circolare nelle aule del Parlamento europeo la dice lunga sulla reale volontà della nuova Commissione di perseguire determinati obiettivi ambientali. Insomma, quel che pare aspettarci nel 2015 è una Commissione europea che spinge sulle rinnovabili, sulla decarbonizzazione dell’economia, sulla riduzione della dipendenza energetica da paesi extra Ue, ma che sul riciclo, recupero e riutilizzo dei materiali vuole prendersi una pausa di riflessione. Speriamo non sia troppo lunga.

Unione europea: chi fa cosa Organo

Funzioni

Commissione europea/European Commission La Commissione è composta da 28 membri, uno per ogni stato Ue. La Commissione è l’organo esecutivo dell’Ue. Rappresenta gli interessi dell’Unione europea nel suo complesso (e non quelli dei singoli paesi). Il candidato alla presidenza della Commissione è proposto al Parlamento Ue dal Consiglio europeo tenendo conto del risultato elettorale. La Commissione nel suo insieme viene approvata dal Parlamento europeo.

•• Presentare proposte legislative, che vengono successivamente adottate dai co-legislatori, vale a dire il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea. •• Applicare il diritto europeo. •• Fissare gli obiettivi e le priorità dell’azione dell’Ue mediante il programma annuale di lavoro della Commissione e adoperarsi per realizzarli. •• Gestire e attuare le politiche e il bilancio dell’Ue. •• Rappresentare l’Unione al fuori dell’Europa (per esempio negoziare accordi commerciali tra l’Unione e il resto del mondo).

Parlamento europeo/European Parliament È eletto dai cittadini europei a suffragio universale ogni 5 anni. I membri del Parlamento europeo rappresentano i cittadini dell’Ue. Il Parlamento, insieme al Consiglio dell’Unione europea, è una delle principali istituzioni legislative dell’Ue. Un paese non può avere meno di 6 o più di 96 deputati e il numero complessivo dei deputati non può essere superiore a 751.

•• Discutere e approvare le normative europee insieme al Consiglio. •• Controllare le altre istituzioni dell’Ue, in particolare la Commissione, per accertarsi che agiscano democraticamente. •• Discutere e adottare il bilancio dell’Ue insieme al Consiglio.

Consiglio dell’Unione europea (o Consiglio Ue)/ The Council of the European Union È la sede in cui i ministri provenienti da ciascun paese dell’Ue si riuniscono per adottare atti legislativi e coordinare le politiche.

•• Negozia e adotta gli atti legislativi, nella maggior parte dei casi insieme al Parlamento europeo, mediante la procedura legislativa ordinaria, nota anche come procedura di co-decisione. Nei settori in cui l’Ue ha competenza esclusiva o concorrente con gli stati membri il Consiglio legifera sulla base delle proposte presentate dalla Commissione europea. •• Elabora la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione. •• Coordina le politiche degli stati membri in ambiti specifici. •• Conclude accordi internazionali. •• Adotta il bilancio dell’Ue insieme al Parlamento.

Consiglio europeo/The European Council È composto dai capi di stato e governo dei 28 paesi Ue.

•• Definisce le priorità e gli orientamenti politici generali dell’Ue. Non fa parte dei legislatori dell’Unione e pertanto non negozia né adotta atti legislativi. Stabilisce invece l’agenda politica dell’Unione.

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materiarinnovabile 02. 2015

La guerra per la biomassa di Mario Bonaccorso

Elaeis guineensis. Franz Eugen Köhler, Köhler’s Medizinal-Pflanzen, 1887

Mario Bonaccorso è giornalista esperto di finanza ed economia. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

Dopo le guerre per il carbone e per il petrolio, nei prossimi anni prepariamoci alle guerre per la biomassa. La provocazione – ma è davvero solo una provocazione? – l’ha lanciata lo scorso novembre a Düsseldorf, intervenendo alla Conferenza internazionale del cluster Clib2021, Heiner Grussenmeyer, direttore Ricerca e Sviluppo della Stora Enso, il colosso finno-svedese operante nella produzione di pasta cellulosa e carta a livello mondiale. La volatilità dei prezzi del petrolio e le risorse fossili limitate stanno spingendo i maggiori colossi dell’industria chimica, e non solo, verso l’utilizzo di materie prime alternative: colture alimentari, scarti delle produzioni agricole e rifiuti. La parola d’ordine è sostenibilità: non solo economica ma anche ambientale. E la biomassa è una risorsa rinnovabile ma scarsa, distribuita non in modo omogeneo sul nostro pianeta. Nel caso delle colture alimentari il suo impiego industriale si scontra con la domanda crescente di cibo nel mondo. Per questo motivo, l’Unione europea ha di fatto bloccato qualsiasi sviluppo della cosiddetta prima generazione di biocarburanti, quelli che derivano dall’impiego di materie prime agricole, come grano e mais. Ma ci sono scarti agricoli e rifiuti in grado di alimentare l’intera bioeconomia? La situazione che si va delineando a livello globale è molto intricata: da una parte la domanda di biomassa cresce e si indirizza non solo alle bioenergie ma anche ai cosiddetti biomateriali e biochemicals, dall’altro si proiettano verso il mercato mondiale della bioeconomia paesi che offrono ampia disponibilità di biomassa come Malesia, Canada, Brasile, ma anche i paesi dell’Europa settentrionale e la Russia, che detengono un enorme patrimonio forestale. Non è un caso che la Biochemtex, società del MossiGhisolfi Group, dopo l’inaugurazione della bioraffineria per la produzione di bioetanolo di seconda generazione a Crescentino, in provincia di Vercelli, sia impegnata oggi in nuovi progetti per replicare l’impianto italiano in Brasile, Cina e Malesia. Il governo di Kuala Lumpur ha messo la biomassa al centro del proprio piano di sviluppo economico dei prossimi anni. Nel 2011 è stata presentata una National Biomass Strategy 2020 focalizzata sull’olio di palma, che già oggi contribuisce all’8% del reddito nazionale: circa 25,5 miliardi di dollari (la Malesia è il secondo produttore ed esportatore al mondo di olio di palma). L’obiettivo è portare il contributo della bioeconomia al prodotto interno lordo (Pil) dall’attuale 2-3% all’8-10% entro il 2020.


Policy Chi al tema ha dedicato numerosi studi è Michael Carus, amministratore delegato del nova-Institut, un centro di ricerca privato con base a Hürth, vicino a Colonia, in Germania. Il nova-Institut è considerato una vera e propria autorità e preso come punto riferimento non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, che citano espressamente le sue ricerche anche nel loro programma di sostegno alla bioeconomia “Biopreferred”. Ma come si definisce esattamente la biomassa? Gli esperti la definiscono come la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani. Secondo Carus, il vero problema oggi non è tanto la sua scarsa disponibilità quanto la “allocazione impropria”. Soprattutto in Europa. Bioenergia e biocarburanti dovrebbero costituire approssimativamente circa il 60% della quota complessiva di energie rinnovabili prevista dalla direttiva europea (Red, Renewable Energy Directive) e circa il 90% della quota dei trasporti entro il 2020. Se si limitassero tali percentuali rispettivamente al 40-50% e 80%, una dose significativa di pressione verrebbe tolta dalla biomassa. Questo tipo di regolamentazione sarebbe più utile rispetto alla limitazione della quota dei biocarburanti di prima generazione, i quali spesso possono essere molto più efficienti nell’impiego del territorio rispetto a quelli di seconda generazione. La percentuale mancante – suggerisce il ricercatore tedesco – potrebbe essere ottenuta da una quantità maggiore di energia solare ed eolica e da altre fonti rinnovabili. Per quanto riguarda invece la percentuale di biocarburanti nel settore dei trasporti bisogna tenere conto che le alternative quali le auto elettriche e ad anidride carbonica non sono ancora sufficientemente disponibili sul mercato. Ma vanno adeguatamente incentivate per frenare l’impiego di biomassa. Carus è uno dei pochi in Europa a sostenere con forza che la contrapposizione tra prima e seconda generazione di biocarburanti non ha senso. In uno dei suoi studi – “Food o non-food: quali materie prime agricole sono migliori per gli usi industriali” – il fisico tedesco scrive espressamente che “tutti i tipi di biomassa dovrebbero essere accettati per usi industriali”. La scelta dovrebbe dipendere da quanto la biomassa può essere prodotta in modo sostenibile ed efficiente. Le misure politiche non dovrebbero distinguere semplicemente tra colture alimentari e non alimentari, ma utilizzare criteri come la disponibilità di terreni, di risorse e di efficienza del territorio, la valorizzazione dei sottoprodotti e delle riserve alimentari d’emergenza. Non mancano studi che hanno

dimostrato come molte colture alimentari siano più efficienti nell’impiego del territorio rispetto alle colture non alimentari. Ciò significa, per esempio, che è necessaria meno terra per la produzione di una certa quantità di zucchero fermentabile – che è particolarmente cruciale per i processi biotecnologici – di quanta sarebbe necessaria per produrre la stessa quantità di zucchero con le presunte “non problematiche” colture non alimentari lignocellulosiche di seconda generazione. Carus critica espressamente la politica bioenergetica e dei biocarburanti dell’Ue, come previsto dagli obiettivi ambiziosi fissati dalla Red, perché essa porta all’allocazione sistematica delle biomasse a scopi energetici a scapito dei materiali. La Red (che in futuro sarà associata alla Fqd – Fuel Quality Directive 9870 – nel settore dei trasporti) ha innescato lo sviluppo di piani d’azione nazionali e di sistemi di supporto per le bioenergie e i biocarburanti, e questo a sua volta ha fatto salire i prezzi della biomassa e gli affitti dei fondi agricoli, rendendo molto più difficile per gli altri settori mettere le mani sulle biomasse. C’è un’allocazione impropria della biomassa, dal momento che tutto ciò sta bloccando lo sviluppo di materiali ad “alto valore” come i prodotti

Michael Carus, managing director del nova-Institut

Carus è uno dei pochi in Europa a sostenere con forza che la contrapposizione tra prima e seconda generazione di biocarburanti non ha senso.

La Malesia è il secondo produttore mondiale di olio di palma

Olio di palma 8% del reddito nazionale

25,5 miliardi Us$

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materiarinnovabile 02. 2015 chimici e le plastiche. Pertanto, gli sviluppi sul terreno collegati alla Red avranno un notevole impatto sulla futura disponibilità di biomassa per l’industria dei materiali. Un quadro regolatorio sfavorevole combinato con prezzi elevati e offerta incerta della biomassa dissuade gli investitori dal mettere soldi nella chimica e nelle materie plastiche biobased – anche se queste potrebbero generare un valore più elevato e una maggiore efficienza delle risorse. C’è urgenza di un nuovo quadro politico per l’utilizzo più efficiente e sostenibile della biomassa.

In quest’ottica Carus chiede una riforma della Red che la trasformi in Redm, dove la “m” sta per materiali. E reclama a voce alta – sempre più seguito in questo dai principali attori della bioeconomia europea – un level playing field, ovvero pari opportunità per tutti i settori. La stessa Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – ricorda il nova-Institut nel suo ultimo rapporto dedicato al tema e pubblicato lo scorso ottobre – ha sottolineato come “in generale il sostegno politico ai biocarburanti è molto più grande di quanto non sia per la plastica a base biologica o per i prodotti chimici a base biologica. Questo rischia di rendere lo sviluppo della bioeconomia irregolare, e potrebbe sfavorire l’uso della biomassa per bioplastiche e prodotti chimici a base biologica. Ciò può anche limitare lo sviluppo e il funzionamento delle bioraffinerie integrate”. C’è urgenza di un nuovo quadro politico per l’utilizzo più efficiente e sostenibile della biomassa. Ciò significa in particolare la parità di condizioni per l’uso nel campo energetico e dei materiali. Cinque o sei anni fa questo era un problema in tutto il mondo, oggi è principalmente

Sui biocarburanti l’Ue è ancora in una fase di stallo Prima o seconda generazione di biocarburanti? Dopo anni di accesa discussione sul tema, lo scorso giugno i ministri dell’energia dei paesi dell’Ue hanno raggiunto un’intesa per limitare al 7% l’impiego della prima generazione per i trasporti nel 2020 e per incoraggiare la transizione verso i biocarburanti di seconda e terza generazione (che dovranno pesare almeno per lo 0,5% sull’obiettivo 10%). La questione però è tutt’altro che chiusa: ora, infatti, dovrà essere trovato un accordo tra Parlamento e Consiglio per arrivare a una posizione comune sulla legislazione. Il Parlamento Ue aveva fissato nel settembre del 2013 il tetto di utilizzo dei biocarburanti di prima generazione provenienti da colture alimentari al 6%, contro il 5% che aveva inizialmente proposto la Commissione Ue in precedenza.

un problema per l’Europa. In America e in Asia il quadro regolatorio per i prodotti chimici e le materie plastiche a base biologica è molto più favorevole che in Europa. Di conseguenza, la maggior parte dei nuovi investimenti si stanno indirizzando verso Stati Uniti, Canada, Brasile, Thailandia, Malesia e Cina. Per un’Europa ancora alle prese con la peggiore crisi economica del dopoguerra, questo non è certo un segnale incoraggiante.

Intervista

BASF: The Chemical Company diventa Bio-chemical Intervista a Michael Nettersheim, investment manager di BASF Venture Capital

The Chemical Company è lo slogan semplice ed efficace di BASF, la società chimica tedesca leader nel mondo. Parliamo di un colosso che nel 2013 ha portato nelle proprie casse quasi 74 miliardi di euro di fatturato, impiegando più di 112.000 persone in tutto il mondo. Non c’è comparto della chimica in cui il gruppo di Ludwigshafen non sia presente: prodotti chimici, materie plastiche, prodotti di nobilitazione, agrofarmaci e petrolio e gas. Ma per quanto tutto questo sarà ancora a base petrolchimica? I prezzi del petrolio e soprattutto le risorse fossili limitate stanno spingendo anche la società chimica per eccellenza verso l’impiego di materie prime rinnovabili come lo zucchero e gli scarti delle piante. Perché anche se la chimica rimarrà prevalentemente a base di petrolio nei prossimi decenni, anche per il costo e la limitata

disponibilità di biomassa, vi è un enorme potenziale per aumentare l’uso di materie prime biologiche. Secondo l’Ocse entro il 2030 il 30% di tutti i prodotti chimici sarà a base biologica. The Chemical Company è destinata a diventare The Bio-chemical Company? Materia Rinnovabile ne parla con Michael Nettersheim, investment manager di BASF Venture Capital, il fondo di investimento del Gruppo, colonna portante della sua strategia di innovazione, a cui è affidato il compito di scovare in tutto il mondo le migliori start-up. Perché BASF ha deciso di creare un proprio fondo di venture capital? La decisione di creare BASF Venture Capital risale al 2001. Investiamo in start-up che sviluppano tecnologie innovative e si incentrano sulle nuove


Policy sostanze chimiche come fattore strategico del proprio successo. L’obiettivo che ci poniamo è quello di agevolare l’accesso di BASF ai nuovi settori tecnologici e di conseguenza le nostre attività puntano alla realizzazione di questo aspetto strategico. Perciò promuoviamo la cooperazione tra il gruppo BASF e i partner esterni, e naturalmente investiamo nelle start-up più promettenti, preferibilmente quelle che hanno innovazioni associabili alle attività di BASF Group già esistenti, che lavorano nelle aree progettuali di BASF New Business GmbH o sono attive nei campi tecnologici o di crescita preferenziali del gruppo BASF. Anche la bioeconomia è uno dei fattori che promuove le decisioni di investimento di BASF Venture Capital? La biotecnologia industriale, la trasformazione delle materie prime e i prodotti agricoli sono settori tecnologici di estrema rilevanza per BASF, e vengono attentamente analizzati. Nel corso degli anni abbiamo investito in tante start-up attive in questi campi, che realizzano prodotti e soluzioni innovative. BASF coopera inoltre con numerosi partner esterni per sviluppare prodotti e tecnologie nuove.

per loro qualche margine di miglioramento. Gli ostacoli che incontra la maggior parte delle start-up, soprattutto nelle prime fasi di sviluppo, sono la capacità di attrarre un management esperto e competente, e la possibilità di accedere ai capitali di rischio. Rispetto agli Stati Uniti, queste sono le sfide principali per il settore high-tech europeo emergente. Secondo l’Ocse, nel 2030 il 30% di tutte le sostanze chimiche saranno a base biologica. Quanto grava questa previsione nelle decisioni di investimento strategico di un gigante della chimica come BASF? In questo ambiente di mercato così dinamico, consideriamo le risorse rinnovabili come una delle tante opzioni che, anche nel lungo termine, possono garantire una fornitura di prodotti sostenibile e che si adatteranno a nuove applicazioni in molte aree. Sempre più spesso inoltre i nostri clienti chiedono prodotti che derivano da risorse rinnovabili, pertanto il settore è estremamente importante per le attività di BASF Venture Capital, sia dal punto di vista della tecnologia sia degli investimenti.

Gli investimenti di BASF appaiono incentrati esclusivamente sul mercato Usa. Come considera le prospettive di crescita della bioeconomia in Europa? In linea di principio le prospettive di crescita sono positive. Le aziende leader come BASF e alcuni nostri concorrenti hanno posto in essere attività di grande rilevanza in Europa. Anche gli attori del mondo accademico sono concorrenziali, sebbene ci sia

© BASF

Quali sono le start-up in cui avete investito? BASF ha compiuto due importanti acquisizioni nel settore delle sostanze chimiche di origine biologica: Allylix e Renmatix. Entrambe con base negli Stati Uniti, Allylix (lo scorso novembre l’azienda è stata acquistata da Evolva Holding, leader globale negli interventi sostenibili basati sulla fermentazione, che realizza ingredienti destinati alla sanità, al benessere e alla nutrizione, ndA) dispone di una piattaforma tecnologica per la produzione di molecole complesse per l’industria degli aromi e delle fragranze, sempre tramite fermentazione. Renmatix sta sviluppando una tecnologia per l’avvio della catena di valore del settore chimico, nello specifico zuccheri prodotti a livello industriale, sostenibili ed efficienti dal punto di vista dei costi e utilizzabili come materia prima per una vasta gamma di processi di fermentazione. Si tratta di tecnologie che, combinate con le tecniche di fermentazione di nuova generazione per la produzione di sostanze chimiche di base, monomeri, molecole complesse e così via, offriranno idee convenienti e sostenibili per l’industria chimica, sia in soluzioni drop-in sia come nuove alternative basate sulle sostanze biologiche. Questa tecnologia potrebbe anche fornire la materia prima per l’intero settore (bio)chimico. Va evidenziato che la tecnologia di Renmatix si basa sull’impiego di materie prime non alimentari né competitive degli alimenti, per esempio il legname.

Steam cracker di BASF a Ludwigshafen, Germania

33


materiarinnovabile 02. 2015

La bioeconomia in Italia vale 241 miliardi di euro La banca Intesa Sanpaolo presenta il primo studio privato sulla bioeconomia. Nei cinque maggiori paesi dell’Ue il valore supera 1.200 miliardi di euro. Quasi 7,5 milioni gli occupati complessivi.

di Mario Bonaccorso

Adesso sappiamo quanto vale la bioeconomia in Italia: 241 miliardi di euro e circa 1,6 milioni di occupati. A renderlo noto il Centro Studi di Intesa Sanpaolo, che ha condotto un’analisi approfondita su Italia, Spagna, Francia, Regno

58

82 461

53

470 4.560

45.730

135

5

139 870

83

11

53 409

758

112

31

407

32

Spagna

265.644

132.107

67 51

105.051

89.372

18

Tot. 186.671

27.162

7.401 13.603 13.696 1.574 1.574

344

Tot. 154.986 109.846

48

Germania

Regno Unito

3.520

Valore della produzione in Europa (milioni di euro, 2011)

2.756 504

643.143

390

Ue5

621

7.108 13.608 14.682 45.747

Italia

65.327

56.154

148

171.370

26,8

Tot. 330.484

123.165

Tot. 241.311

49.618

869

39.550

22.740

691 2.110

17.369 19.796 24.207

Bioeconomia: valore della produzione (milioni di euro, 2011) e occupazione (migliaia, 2011) in Europa

Tot. 1.208.765

34

277

Bioeconomia: l’occupazione in Europa (migliaia, 2011) Agricoltura

Legno

Silvicoltura

Carta e cellulosa

Pesca

Biochimica

Alimentare


Policy

2.121 5.475

705

154.185

Tot. 330.484

78.813

10.709 17.803 28.854

Unito e Germania (i paesi della cosiddetta Ue5), dando per la prima volta anche i numeri dell’export mondiale (2.100 miliardi di dollari nel 2012). Ebbene, nella speciale classifica della

30

71

27

65 610

79

Francia

Occupazione bioeconomia in Ue27 (migliaia, 2011) Tot. 18.720

10.955,8

503,8 261,5

4.820

bioeconomia europea, l’Italia si piazza terza, preceduta da Germania, con un valore della produzione di 330 miliardi di euro, e Francia con un valore di 295 miliardi. E seguita da Spagna, 186 miliardi, e Regno Unito (155 miliardi). Per un totale di 1.200 miliardi di euro e 7,5 milioni di occupati (18 milioni gli occupati totali nei 27 paesi dell’Unione). Ma come è giunto a questi numeri il Centro Studi di Intesa Sanpaolo? “La quantificazione del valore della bioeconomia – rispondono le due autrici del Rapporto, Stefania Trenti e Serena Fumagalli – è stata condotta utilizzando le statistiche ufficiali a disposizione sia sul valore della produzione e dell’occupazione sia per quanto riguarda i dati di commercio con l’estero. Per quanto concerne agricoltura, silvicoltura, pesca, alimentare e industria del legno e della carta le statistiche ufficiali mettono già a disposizione i principali dati. Più complesso, invece, è stato stimare il contributo fornito dal settore chimico”. La complessità deriva dall’esigenza di capire quali prodotti chimici sono ricavati già oggi da fonti rinnovabili. A questo fine “l’analisi si è avvalsa del contributo fondamentale di un chimico esperto in biotecnologie che lavora per il nova-Institut in Germania, a cui abbiamo chiesto di individuare dei prodotti di matrice chimica che possono potenzialmente essere realizzati attraverso l’utilizzo di risorse rinnovabili, sulla base delle tecnologie attualmente esistenti. Tale classificazione, basata sul massimo livello di disaggregazione disponibile, ha consentito di isolare non tanto quanto è attualmente prodotto con materie prime rinnovabili quanto piuttosto il potenziale producibile, in modo economicamente sostenibile, con la tecnologia attualmente disponibile”. Il quadro che emerge è che la bioeconomia è già una realtà importante in Italia come in Europa. Certo viene presa in considerazione la totalità dell’agroalimentare e della silvicoltura. E non è che tutti prodotti agricoli o il legno vengano utilizzati come biomassa per l’industria. Ma questo è ciò che ha preso in considerazione l’Unione europea, quando nel 2012 ha lanciato la propria strategia sulla bioeconomia, presentando i primi dati che davano il fatturato globale di questo metasettore nell’Ue27 a 2.000 miliardi di euro, con 22 milioni di occupati.

1.090 654 436

Fonte: Stime Intesa Sanpaolo su dati Eurostat.

La classifica della bioeconomia europea: 1. Germania 2. Francia 3. Italia 4. Spagna 5. Regno Unito

35


36

materiarinnovabile 02. 2015 Peso della bioeconomia sul totale della produzione (%, 2011) Italia

Germania

Francia

Regno Unito

Spagna

Ue5

7,6

6,6

8,1

4,8

9,8

7,1

0,6

0,4

0,2

0,0

0,8

0,6

0,4

0,2

0,0

0,4

0,2

0,0

0,8

0,6

0,4

0,2

0,0

0,6

0,4

0,2

0,0

0,6

0,4

0,2

0,0

Fonte: Stime Intesa Sanpaolo su dati Eurostat.

Bilancia commerciale con l’estero (miliardi di euro, 2011) Italia

20

Germania

Francia

Tot. 646.970

Regno Unito

Spagna

90.080 3.670 6.237

10 00

- 16,7

- 4,0

+ 9,0

- 33,2

+ 2,9

-10 -20 305.169

-30 Tot. 316.576

Esportazioni europee nella bioeconomia (milioni di euro, 2011)

10.894 168 538

Tot. 113.004

34.312 8.884 385

Tot. 44.409

Tot. 80.835

258 5.453 51.716

109 241 24.371 1.444

% bieconomia su totale economia 11,8%

6.048 6.742

Italia

Totale economia 375.904

Tot. 33.704 14.633

10.894

441

441

168

518

518

538

19.221

21.419

388

1.164

2.966

4.277

40.633

26.194

6.635 15.800

Germania

1.851

18,9%

Totale economia 1.058.897

Francia

Totale economia 428.501

Agricoltura

Alimentare

Silvicoltura

Legno

Pesca

Carta e cellulosa

86.863

14.993

6.163 19.405

10,7%

157.360

Tot. 44.625

9,3%

7.854

Regno Unito

Totale economia 363.915

Biochimica

20,3%

Spagna

6.164

Totale economia 220.223

10.974 39.332 120.639 62.754 12,9%

14,8%

Ue5

Totale economia 2.447.440

Fonte: Stime Intesa Sanpaolo su dati Eurostat.

Ue27

Totale economia 4.367.039


Policy Commercio mondiale di prodotti biobased (miliardi Us$ e %)

Fonte: Stime Intesa Sanpaolo su Unctad Comtrade.

% sul totale

11,4%

11,5%

2.200 miliardi Us$

2.000

11,3%

10%

1.800

11,6%

1.600

9,8%

1.400 1.200 1.000

2008

2009

2010

2011

2012

Usa

Germania

Paesi Bassi

Francia

Cina

Brasile

Canada

Belgio

Spagna

Italia

Indonesia

Thailandia

India*

0,0

Argentina

Esportatori di biobased chemicals (% su miliardi Us$ ) Regno Unito

Fonte: Stime Intesa Sanpaolo su Unctad Comtrade.

2007

2,0 4,0 6,0 8,0 10,0

2008 2012

12,0

“La nostra analisi – entrano nel merito le due autrici – fa emergere la rilevanza della bioeconomia in Spagna, dove raggiunge il 9,8% del valore della produzione nazionale, pari a circa 1,3 milioni di occupati. Tale peso significativo è frutto soprattutto del settore agricolo e alimentare, ma anche la produzione di biochemicals risulta più elevata che nella media della Ue5. Rilevante è anche il ruolo della bioeconomia in Francia, con un peso sulla produzione totale dell’8,1%, legato in particolar modo, anche in questo caso, alla filiera agroalimentare, mentre il ruolo delle altre produzioni (legno, carta e biochemicals) appare meno intenso che nella media. Spagna e Francia risultano così gli unici paesi a evidenziare un saldo positivo di commercio con l’estero per il complesso dei prodotti della bioeconomia”. È sempre l’agroalimentare dunque a trainare tutto. E l’Italia? Come è messo il paese che dovrebbe fondare una parte significativa della propria economia sulle sue eccellenze alimentari? Qui risulta un saldo commerciale negativo nel

*2009 invece di 2008.

settore agroalimentare. Stessa cosa per il Regno Unito. Mentre la Germania almeno sul fronte alimentare è in attivo. A livello globale le esportazioni mondiali di prodotti della bioeconomia, così come classificati dal Centro Studi di Intesa Sanpaolo, ammontavano nel 2012 – “Ultimo anno con statistiche di commercio mondiale sufficientemente popolate”, sottolineano le autrici – a 2.100 miliardi di dollari, ovvero l’11,4% del commercio mondiale, una quota in netta espansione rispetto all’8,9% del 2007. I prodotti alimentari, con quasi 1.850 miliardi, pesano per il 45% circa sul totale delle esportazioni. E la filiera agroalimentare nel suo complesso raggiunge i due terzi del totale, seguita dai biochemicals, che pesano per il 16% delle esportazioni. Un dato che conferma l’importanza che l’impiego delle fonti rinnovabili da parte dell’industria può avere sempre più in prospettiva. Tra i principali esportatori figurano gli Stati Uniti, la Germania, l’Olanda, la Francia a cui si aggiungono Cina e Brasile, con quote superiori al 4% del totale delle esportazioni mondiali.

E l’Italia? Come è messo il paese che dovrebbe fondare una parte significativa della propria economia sulle sue eccellenze alimentari?

37


38

materiarinnovabile 02. 2015 “Al pari di quanto emerge in molti altri settori – sostengono Trenti e Fumagalli – anche nella bioeconomia il ruolo dei paesi maturi appare in diminuzione a favore della conquista di quote sull’export mondiale da parte di paesi emergenti, come Cina, Brasile, India, Indonesia e Thailandia”. Il quadro appare differente dal lato delle importazioni: nel 2012 il principale importatore mondiale è stata la Cina, con una quota vicina al 10% delle importazioni complessive, in netta crescita rispetto al dato del 2008. Seguono i paesi del G7 e Olanda e Belgio. Sul fronte del mercato mondiale dei biochemicals, Usa e Germania si piazzano ai primi due posti, con elevate quote sulle esportazioni mondiali. Il che, nonostante un ruolo rilevante anche dal lato delle importazioni, consente loro di godere di un saldo commerciale elevato. Segue la Cina, che, invece, registra un deficit commerciale per questi prodotti, di cui è il principale importatore mondiale con una quota del 13,7% nel 2012.

Tra gli esportatori da sottolineare il buon posizionamento di Belgio, Olanda e Francia, mentre l’Italia risulta solamente tredicesima, con una quota di mercato del 2,6% e un deficit pari a 4,7 miliardi di dollari nel 2012. Le statistiche europee hanno infine consentito al Centro Studi del gruppo bancario italiano di stimare il valore della produzione nel 2013 dei biocarburanti nell’Ue a 28 paesi. Un totale di 8,5 milioni di tonnellate, pari a un valore di quasi 7 miliardi di euro. Le esportazioni nello stesso anno ammontavano a 351 milioni di euro, mentre le importazioni sfioravano il miliardo di euro, con un saldo negativo pari a poco meno di 600 milioni di euro (865.000 tonnellate). “Si tratta – secondo le due ricercatrici italiane – di un settore relativamente chiuso al commercio con i paesi al di fuori dell’Ue28, con la quasi totalità della produzione destinata allo spazio europeo e una ridotta penetrazione delle importazioni”.

Export biochemicals (miliardi di Us$)

Saldo

Import biochemicals (miliardi di Us$)

Quota percentuale

Export biocarburanti (milioni di Us$)

Fonte: Stime Intesa Sanpaolo su Unctad Comtrade.

Ranking

Import biocarburanti (milioni di Us$)

+17,3

+4,9

-0,5

-1,4

-1,1

8,3

8,9

44,0

26,7

12,1

8,6

21,7

16,8

10,8

12,1

2,4%

2,4%

12,7%

7,3%

2,5%

2,7%

6,3%

4,3%

3,1%

3,3%

15

12

1

3

14

10

5

5

11

8

Canada

Usa

Perù

Argentina

+1.774,5 +401,0

-477,7

Spagna

Francia

Regno Unito

-1.024,9 -190,6

-477,5

-305,0

93

570

540

139

0

305

1.774

0

656

1.681

50

527

19

210

1,0%

5,8%

5,8%

1,4%

0,0%

3,1%

18,9%

0,0%

7,0%

17,1%

0,5%

5,4%

0,2%

2,1%

14

6

7

13

50

8

1

73

5

2

16

7

22

11


Policy

39

Maggiori player* nel commercio mondiale di biochemicals e di biocarburanti (2012)

-38,7 +11,5

+8,7

-4,5

+7,2

+3,5

14,1

2,6

5,4

9,8

11,3

50,0

15,9

7,2

15,4

8,2

12,1

8,6

4,1%

0,7%

1,6%

2,7%

3,3%

13,7%

4,6%

2,0%

4,5%

2,3%

3,5%

2,4%

8

30

19

9

10

1

6

15

7

14

9

13

Arabia Saudita

India

Cina

Singapore

Korea

Giappone

Indonesia

+1.376,6

1.382

4

14,7%

0,0%

4

36

* Classificati secondo import totale piĂš export.

+7,2 +4,8

+9,5

-4,7

22,1

17,4

24,7

15,2

9,1

13,9

36,8

29,7

6,4%

4,8%

7,1%

4,2%

2,6%

3,8%

10,7%

8,2%

4

4

3

6

13

7

2

2

Belgio

Paesi Bassi

Italia

Germania

Austria

Norvegia

Polonia

-145,8 -587,3 -1.328,4

-33,2

-109,0 571

604

1.676

1.822

134

1.462

1.571

6,1%

6,2%

17,9% 18,6%

1,4%

14,9%

16,8% 10,0%

6

5

10

3

2

1

3

984

4

-75,4

-29,2

152

261

94

123

138

214

1,6%

2,7%

1,0%

1,3%

1,5%

2,2%

8

9

13

15

9

10


40

materiarinnovabile 02. 2015

Ladri di rifiuti

di Antonio Pergolizzi

Siamo sicuri che ecomafia sia solo seppellire clandestinamente rifiuti pericolosi? O non è anche sottrarre al circuito legale materiali preziosi? Stiamo parlando solo di trafficanti di rifiuti o anche di ladri di materie prime strategiche? Per cercare di rispondere a queste domande partiamo dai numeri. Nel 2011 l’industria italiana ha impiegato nei suoi cicli produttivi, dati Istat, circa 35 milioni di tonnellate di materie prime seconde, cioè materie provenienti dal recupero dei rifiuti. Il settore del riciclo negli ultimi dieci anni è aumentato a ritmo vertiginoso: il numero delle aziende è lievitato da 2.183 a 3.034 (+39%), raddoppiando il numero degli occupati, da 12.000 a più di 24.000.

Antonio Pergolizzi è giornalista e ricercatore, dal 2006 è coordinatore dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente.

Dunque una crescita complessiva consistente alimentata da molti settori. Nei cantieri edili nel 2010 sono stati riciclati e impiegati 51 milioni di tonnellate di rifiuti inerti e 22 milioni di rottami ferrosi (pari al 77% dell’intera produzione siderurgica nazionale). E l’intera metallurgia italiana dipende dai rottami metallici. Nel 2011 l’Italia è diventato il primo paese Ue per quantità di alluminio prodotto da materie prime seconde, riciclandone ben 927.000 tonnellate. Anche l’industria del piombo dipende dai rottami (il 92% derivante dalle batterie esauste): nel 2010 ne sono state recuperate 165.000 tonnellate. Dopo la metallurgia, l’industria cartaria è quella che dipende di più dagli scarti: nello stesso anno, più di 5 milioni di tonnellate di carta da macero sono state reimmesse nel ciclo produttivo, costituendo quasi il 59% dell’intera produzione nazionale. L’Italia è anche il secondo paese Ue per quantità di rifiuti plastici recuperati, circa 1,7 milioni di tonnellate grazie a 200 aziende riciclatrici di polimeri che trattano più di 400.000 tonnellate di polietilene a bassa densità e 300.000 a bassa

e media densità, oltre 350.000 di polipropilene, 200.000 di Pet, 100.000 di Pvc. Anche l’industria del vetro dipende dal recupero: su 5,2 milioni di tonnellate prodotte nel 2011, più di 2 milioni provenivano dal riciclo. Tuttavia continuiamo a essere un paese importatore netto di materie seconde: a fronte di un import di 7,1 milioni di tonnellate, ne abbiamo esportato 2,8 milioni: un saldo negativo di 4,3 milioni di tonnellate di materie, per un valore di 2,2 miliardi di euro. Dunque nonostante l’alto livello di recupero c’è ancora margine per una crescita ulteriore. Un trend confermato dai dati globali. Negli ultimi dieci anni il commercio internazionale è praticamente raddoppiato per rottami ferrosi e scarti di alluminio, carta, plastica e legno. Per i rifiuti ferrosi è passato dai 61 milioni di tonnellate del 2000 ai quasi 108 del 2011 (un incremento del 75%), mentre per la plastica l’impennata è stata del 260% (dai 4,5 milioni di tonnellate del 2000 ai 14,84 milioni del 2011). In termini di valore, il commercio complessivo di queste cinque materie vale più o meno 90 miliardi di dollari all’anno. Secondo l’Agenzia delle dogane, solo nel 2013 l’Ue ha esportato verso paesi terzi quasi 17 milioni di tonnellate di cascami e avanzi di metalli, quasi 10 milioni di carta e cartone, quasi 3 milioni di materie plastiche e 329.000 tonnellate di gomma. Rimanendo nei confini Ue, la Germania è la regina dell’export di materiali plastici, circa un milione di tonnellate (33% sul totale commercio Ue), mentre il Regno Unito ha il record nell’export di scarti metallici, più di 4 milioni e 700.000 tonnellate (28% sul totale Ue), e di carta e cartone da riciclo, circa 3 milioni e 700.000 (37%). La Francia esporta più di tutti avanzi e cascami di gomma, quasi 82.000 tonnellate all’anno (25%). Proprio perché si tratta di risorse strategiche per l’economia manifatturiera europea, il Comitato


Policy Trend del settore del riciclo negli ultimi dieci anni 2004

2014 Numero delle aziende

+39%

economico e sociale europeo dell’Ue nel 2011 ha emesso un parere nel quale ipotizza addirittura “dazi alle esportazioni per proteggere l’Ue dal rischio di perdere materiali di grande utilità”. Sostenendo, in particolare, che “l’Ue dovrebbe forse negoziare soluzioni di emergenza in sede di Omc, che stabiliscano condizioni chiare e trasparenti per le limitazioni o i dazi sui rifiuti di importanza strategica”.

2.183

Numero degli occupati

3.034

Waste grabbing I rifiuti di oggi sono le nuove miniere urbane da saccheggiare. Per ciascuno di questi materiali esiste una Borsa dove si quotano i prezzi. Nel caso dei materiali riciclati a base di polietilene, il Pet azzurro in scaglie vale anche 1.000 euro a tonnellata. L’allumino riciclato dalle lattine e gli scarti in rame 1.500 euro, gli pneumatici fuori uso 500, i rifiuti tessili 280, i rottami ferrosi 168 (se acciaio 400), gli olii vegetali 250, i Raee 300, i rifiuti medici 470 euro e così via. Altro che seppellirli in un uliveto. Il “trafficante nuovo”, quindi, tratta materiali dal valore economico e strategico enorme. Soprattutto in Italia, che vantando una lunga tradizione di riciclo è tra i paesi maggiormente colpiti dall’emorragia illegale di questi materiali verso l’estero. Nel 2010, ricorda Duccio Bianchi,1 a fronte di un avvio a recupero industriale di 163 milioni di tonnellate di rifiuti riciclabili (la voce recyclables include metalli, carta, plastica, vetro, legno, tessili, gomma) su scala europea, in Italia ne sono state recuperate 24,1 milioni di tonnellate, il valore assoluto più elevato tra tutti i paesi europei (in Germania ne sono state recuperate 22,4 milioni di tonnellate). In particolare, l’Italia è il leader europeo per il riciclo di metalli ferrosi, plastica, tessili. Dopo Stati Uniti e Giappone, siamo il terzo paese al mondo per il riciclo dell’alluminio.

+100%

12.000

Bloccare i traffici illeciti di rifiuti vuol dire dunque difendere un pezzo di green economy. E, senza smettere di dare la caccia ai vecchi trafficanti su scala locale, è con questa nuova genia che occorre fare i conti. Veri uomini d’affari, broker sul mercato internazionale delle materie prime, attenti alle quotazioni in Borsa, al valore delle cose e alla fame di materie prime dei singoli paesi. Trafficanti che sono a capo di vere organizzazioni criminali, anche di tipo mafioso. Reti criminali informali, flessibili, aterritoriali e situazionali, che proprio per questo si distinguono dai gruppi criminali veri e propri, non avendo necessariamente forme strutturate di coordinamento, patrimoni valoriali da condividere, confini stabili e gerarchici entro i quali muoversi. Sfuggenti ombre cinesi anche per gli investigatori più esperti. Queste reti criminali sanno bene che quei materiali sono fondamentali soprattutto nei paesi con una consolidata industria manifatturiera e scarse risorse cui attingere e, non a caso, con avanzati sistemi di riciclo, come l’Italia o la Germania. O con tassi di crescita a due cifre,

24.000+

1. Duccio Bianchi, Riciclo ecoefficiente. L’industria italiana del riciclo tra globalizzazione e sfide della crisi, Edizioni Ambiente 2012.

Bloccare i traffici illeciti di rifiuti vuol dire difendere un pezzo di green economy.

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materiarinnovabile 02. 2015 Percentuale dei rifiuti sequestrati dalle dogane - per tipologia, 2013 62,8%

14,1%

Metalli

Plastica

6,7%

Gomma e pneumatici

2,3%

Altri rifiuti

0,5% Raee (rifiuti elettrici ed elettronici)

5,5%

Tessili (ritagli e indumenti usati)

Che i rifiuti abbiano già conquistato il mercato delle materie prime, seguendo la scia della delocalizzazione produttiva e della globalizzazione dei commerci sono ancora i dati Eurostat a ribadirlo. Dal 2001 al 2009 le esportazioni legali di rifiuti dai paesi Ue verso paesi non Ue sono cresciute del 131%. La crescita delle esportazioni di plastica tra i paesi Ue, dal 1999 al 2011, è aumentata di ben cinque volte: da circa un milione di tonnellate a più di cinque. Lo stesso vale per gli scarti di metalli, più che triplicati nello stesso arco di tempo. Contemporaneamente sono cresciute le rotte illegali, come dimostrano i dati dei sequestri effettuati negli ultimi due anni dall’Agenzia delle dogane nei nostri porti: quasi 20.000 tonnellate di scarti (per l’esattezza 18.800) destinati illegalmente all’estero, soprattutto plastica, carta e cartone, rottami ferrosi, pneumatici fuori uso (Pfu) e rifiuti elettrici ed elettronici (Raee). Con un incremento di circa il 35% rispetto al biennio 2008-2009, quando i sequestri doganali erano stati poco più di 12.000 tonnellate. Solo nel 2012, il 59% delle esportazioni di Pfu, il 16,5% di rottami metallici e più del 14% di scarti plastici si sono rivelati fuori legge, quindi sequestrati, ai controlli delle dogane italiane.3

8,0%

Veicoli, motori e loro parti

Fonte: Agenzia delle dogane in Ecomafia 2014, a cura di Legambiente, Edizioni Ambiente.

Raee e Terre rare 0,0% Vetro

2. Ecomafia 2014, a cura di Legambiente, Edizioni Ambiente 2014. 3. Mercati illegali, a cura di Legambiente e Polieco, febbraio 2012. 4. Dossier Terre Rare a cura di Enea, Ministero Sviluppo Economico pubblicato sul sito http://unmig. sviluppoeconomico.gov.it/ unmig/miniere/terrerare/ dossier_terrerare.pdf.

costituito da metalli, più del 14% da plastiche, poi ci sono gomme e pneumatici, tessili, veicoli rottamati, Raee.2 Desert waste è il nome di una delle più recenti indagini su questo fronte, e risale allo scorso mese di maggio: gli inquirenti hanno sequestrato quattro semirimorchi destinati in Iran e Libia carichi di rifiuti ferrosi, pezzi di camion rottamati, batterie esauste, pneumatici e Raee, per un peso complessivo di circa 70 tonnellate.

0,0%

Cuoio e pelli

0,0%

Carta e cartoni

come sta accadendo ai Bric, Brasile, Russia, India e Cina. Scatta così il waste grabbing per soddisfare la fame di nuove materie prime da parte di vecchi e nuovi soggetti economici, una domanda ulteriormente incentivata dalle nuove politiche sostenibili di incentivo alla raccolta e al riciclo, in particolare in ambito Unione europea. La domanda che si fanno i riciclatori in difficoltà per la carenza di approvvigionamento è infatti: che fine hanno fatto questi materiali? Una risposta la sta dando l’Agenzia delle dogane con i sequestri alle frontiere. Nei container bloccati nel 2013 nei porti italiani, tra le 4.359 tonnellate di rifiuti controllate quasi il 69% era

Tra i rifiuti più gettonati dai trafficanti ci sono i Raee, uno scrigno di materiali e terre rare (Ree – Rare Earth Elements), 17 elementi chimici della tavola periodica usati nei prodotti hi-tech (Pc, monitor, telefonini ecc.). Per capirne il valore, basta analizzare la curva dei prezzi delle Ree. Secondo l’Enea,4 questi prezzi hanno visto una crescita stabile e continua dal 2003 a oggi (nonostante una battuta d’arresto nel 2013) seguendo la forte domanda di alta tecnologia. Oggi la richiesta di neodimio, praseodimio e disprosio, per la produzione di magneti, continua a spingere il mercato. In futuro il consumo di europio, terbio e ittrio nella produzione di fosfori potrà ulteriormente far salire il valore delle loro quotazioni. La produzione mineraria mondiale di queste terre rare per il 2012 – con una domanda


Policy Le terre rare nella tavola periodica

Metalli alcalini

Altri metalli

Gas nobili

Metalli alcalini terrosi

Altri non metalli

Attinidi

Metalli di transizione

Alogeni

Terre rare (Lantanidi)

Scandio

Ittrio

Cerio Lantanio

Neodimio

Praseodimio

Samario

Promezio

che a breve potrà superare l’offerta – è stata stimata in 110.000 tonnellate dall’Usgs (U.S. Geological Survey). La Cina è il produttore dominante, rappresentando il 97% della domanda e il 55% delle riserve. Un monopolio di fatto. In Italia non esistono ancora impianti in grado di estrarre le terre rare dai Raee. Perdiamo così una incredibile risorsa che i trafficanti e i canali informali sono – manco a dirlo – prontissimi a intercettare: i mercanti di rifiuti solo in Italia governano circa 900.000 tonnellate all’anno di Raee. È contro le loro ruberie che si è scagliato recentemente uno dei principali consorzi italiani del settore, Ecodom sostenendo che più del 65% di questi scarti finisce nel circuito illegale, diretto soprattutto verso la Cina e alcuni paesi africani, con un andamento dei traffici che rispecchia, secondo l’analisi del direttore generale Giorgio Arienti, le quotazioni delle materie prime seconde: quando crescono anche i traffici illeciti aumentano, e viceversa. Il discorso non cambia in Europa, dove non si producono Ree e il riciclo è limitato a una

Gadolinio Europio

Disprosio Terbio

Erbio Olmio

Itterbio Tulio

quota simbolica (1%), mentre si producono apparecchiature elettriche ed elettroniche che poi diventano Raee. Non sorprende allora se l’Ue negli ultimi cinque anni sia stato un importatore netto di composti di Ree, metalli e leghe, per circa 12.000 tonnellate anno. Bloccare i flussi illegali di questi scarti diventa quindi sempre più urgente per evitare danni incalcolabili all’economia legale e all’ambiente. Con una risposta che non può appiattirsi alla sola dimensione repressiva, che serve a poco senza l’innovazione dei processi e dei prodotti: la migliore lotta alle ecomafie e alla criminalità ambientale è il passaggio verso modelli economici completamente diversi, che abbandonino la classica impostazione lineare a favore di quella circolare, partecipata e sostenibile. Come ci insegnano anni di indagini sulle rotte dei trafficanti di monnezza, il miglior argine contro il loro strapotere è cambiare il mercato, sottraendo loro campo d’azione, ossigeno, alibi. Mettendoli fuori dalla storia.

Luterzio

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materiarinnovabile 02. 2015

Focus Cina

Economia circolare: la Cina si prepara al prossimo salto di Johnson Yeh

L’economia cinese è cresciuta in modo davvero rapido, generando una straordinaria ricchezza. Tra il 2000 e il 2013, il Pil nominale è aumentato di 7,5 volte. Tra il 2005 e il 2012, il reddito totale delle famiglie è quasi raddoppiato e si stima che triplicherà tra il 2012 e il 2030. Per quella data, oltre la metà delle famiglie urbane apparterrà alla classe medio-alta. Questa crescita repentina impone naturalmente una pressione elevata sulle risorse: per alimentarla, la Cina ha esigenze consistenti in termini di materie prime, acqua, energia e cibo, tra le altre cose.

Johnson Yeh, Direttore associato del team per l’ambiente del World Economic Forum, da gennaio 2014 alla guida dell’iniziativa Circular Economy.

Per rimediare alle conseguenze dovute all’approvvigionamento di tali risorse, ovvero prezzi elevati e volatilità, una possibilità è costituita dall’economia circolare, la cui adozione e pratica può disaccoppiare la crescita dalle esigenze in termini di risorse. Per esempio, rigenerare i prodotti, reinserire componenti funzionali e materiali riciclati nelle catene di valore appropriate, utilizzare efficientemente i cicli biologici, sono alcune delle azioni che potrebbero far diminuire in modo netto la fame di risorse non sfruttate, sostenendo al contempo la

crescita economica, non solo in Cina ma in tutto il mondo. Il governo cinese ha accolto alcuni di questi concetti formalizzando già nel 2009 la prima legge per la promozione dell’economia circolare. Tra le prime nazioni al mondo ad agire in questo senso, la Cina ha abbracciato l’economia circolare e ha conseguito una serie di grandi successi su molti fronti. Tra i vari esempi le eco-città, gli eco-parchi e i cluster di fabbriche che praticano la simbiosi industriale avanzata. L’economia circolare però impone una collaborazione a livello globale tra i diversi componenti della catena di fornitura. La Cina deve comprendere qual è il suo ruolo in questa catena e capire come collaborare con gli altri attori della scena internazionale per far sì che i cambiamenti portino a una circolarità effettiva. Per la Cina, il modello innovativo della crescita circolare può rappresentare un ottimo percorso di transizione per passare da un’economia basata sulla produttività a un’economia più incentrata sui servizi. Sebbene l’economia cinese sia nota principalmente per la produzione manifatturiera intensiva e non come solido motore economico fondato sui servizi, i servizi e le esigenze dell’economia circolare giocano a favore

Andamento del reddito totale delle famiglie in Cina dal 2005 al 2012 e previsioni per il 2030

¥ ¥ ¥ 2005

2012

2030


Policy

Tra le prime nazioni al mondo ad agire in questo senso, la Cina ha abbracciato l’economia circolare e ha conseguito una serie di grandi successi su molti fronti.

di alcuni dei punti di forza della Cina. Le aziende cinesi possono per esempio sfruttare la grande abilità manifatturiera e l’efficace ecosistema di fornitura locale per conquistare una posizione di leadership nel settore della rigenerazione e rimessa a nuovo. Ciò potrebbe a sua volta innescare cicli di pianificazione legati alla manutenzione e generare una domanda di servizi di logistica inversa efficaci. In secondo luogo, i prodotti concepiti per la circolarità implicano un’interazione più frequente con i clienti, maggiori possibilità di upselling e più opportunità di far sì che la manutenzione divenga il principale flusso di reddito derivante dai prodotti. Considerata la posizione produttiva predominante a livello globale e la ricchezza di risorse naturali del paese, le aziende cinesi potrebbero stabilire gli standard di riciclo e impostare le future catene di fornitura globali con materiali riciclati e ricambi rigenerati. Con un successivo scatto di maturità, l’economia cinese potrebbe infine prendere le distanze da un sistema basato sulla produzione manifatturiera e sviluppare in modo ancora più solido l’economia dei servizi, trasformandola in uno dei principali promotori della crescita. L’economia circolare può agire come testa di ponte verso il mondo dei servizi. Poiché in realtà la richiesta di maggiori competenze da parte di questi servizi rispetto alla produzione manifatturiera tradizionale è solo marginale, la Cina potrebbe effettuare questo grande salto senza neanche impegnarsi massicciamente nella formazione: potrebbe essere sufficiente adattare in modo efficace l’infrastruttura e la forza lavoro esistenti ai nuovi obiettivi. Non sarebbe solo la Cina in quanto “fabbrica del mondo” a passare all’economia circolare, ma anche la Cina che dobbiamo considerare come “il più grande mercato del futuro”. Per esempio, i consumi in costante crescita (si stima che la quota di consumi privati del Pil passi da meno di un terzo del 2012 a oltre la metà nel 2030) potrebbero essere soddisfatti condividendo i beni o migliorando le prestazioni dei modelli di proprietà. Esistono alcuni esempi riusciti in questo senso, a livello globale, tra cui l’iniziativa Zipcar, con la quale i proprietari prestano le proprie vetture nei periodi di non utilizzo; il progetto prevede che gli utenti con richieste a breve termine possano pagare una piccola quota per il tempo di utilizzo necessario invece di dover gestire la proprietà del bene nel lungo periodo. Mentre le richieste dei consumatori crescono e si trasformano, c’è spazio per formare le preferenze

e i tassi di adozione dei nuovi modelli di business, che possono essere molto più elevati che in altre economie. La molteplicità e variabilità dei livelli di reddito in tutta la Cina può agevolare la vendita di livelli diversi di prodotto, anche su mercati secondari. In questo senso, i prodotti rigenerati possono essere venduti parallelamente ai nuovi senza che la cannibalizzazione sia evidente, e potrebbero perfino contrastare l’estendersi del mercato della contraffazione nel paese. Il contesto perfetto per una rapida transizione a un’economia circolare è dato anche dalla forte tendenza all’urbanizzazione e alla proliferazione delle città. Se adeguatamente progettate, queste città di nuova concezione potranno essere indicate come testimonianze concrete dei concetti chiave dell’economia circolare, perché offrono grandi vantaggi economici e sociali. La lunga storia che la Cina ha alle spalle ne dimostra l’indiscussa capacità di applicare decisioni politiche e infrastrutturali. Ecco perché questa nazione può essere il luogo ideale per quella rivoluzione delle risorse che ha inizio dall’economia circolare.

Non sarebbe solo la Cina in quanto “fabbrica del mondo” a passare all’economia circolare, ma anche la Cina che dobbiamo considerare come “il più grande mercato del futuro”.

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materiarinnovabile 02. 2015

Focus Cina

“Non possiamo permetterci di seguire il modello occidentale” di Carlo Pesso

Il nuovo millennio ha decisamente segnato un punto di svolta. Nel 2004 Pan Yue, viceministro per la Protezione ambientale e tra i leader cinesi più autenticamente “verdi”, ha dichiarato che: “La Cina non può più permettersi di seguire il modello di sviluppo occidentale, così affamato di risorse, e dovrebbe incoraggiare i propri cittadini a evitare di adottare le abitudini consumistiche del mondo sviluppato... È importante fare in modo che il popolo cinese non imiti palesemente le abitudini consumistiche degli occidentali per non ripetere gli errori che il modello di sviluppo occidentale ha compiuto negli ultimi 300 anni”.1

Carlo Pesso, Centro Studi Edizioni Ambiente.

A distanza di oltre dieci anni il suo messaggio ha lentamente preso piede e presto potrebbe diventare il punto di vista predominante. Si tratta di un’impresa alquanto complessa, se si considera la pressante necessità di offrire standard di vita migliori a una popolazione di un miliardo e trecento milioni di abitanti, mentre la disparità dei redditi è ai livelli più alti degli ultimi 30 anni.2 Le risorse potrebbero semplicemente non bastare mentre appare evidente che in alcune zone del paese la capacità di assorbimento dell’ambiente è stata ampiamente sorpassata (inquinamento dell’aria e dell’acqua). Perciò non sorprende che il concetto di economia circolare, fortemente radicato nelle pratiche agricole della Cina rurale, appaia oggi come lo strumento essenziale per giungere, in futuro, a uno sviluppo di qualità. Oggi però questo nuovo impegno è guidato più dal desiderio di assicurarsi risorse che non da quello di tutelare l’ambiente.

1. Cit. in Environmental Solutions, Elsevier Academic Press, 2005 dal New York Times 2004. 2. In Cina il 20% al vertice guadagna dieci volte di più del resto della popolazione a basso reddito, China Daily Europe, 24 dicembre 2014, (http://europe.chinadaily. com.cn/china/2014-12/24/ content_19153991.htm).

Il riciclo dei materiali era un’attività economica perlopiù spontanea, che contribuiva in

modo drammatico all’aumento del tasso di inquinamento, fino a quando, nel maggio del 2010, il ministro delle Finanze e la Commissione nazionale cinese per lo sviluppo e le riforme hanno varato un piano quinquennale per dare vita a strutture pilota di urban mining (miniere urbane) in 30 città. Il piano mira, infatti, a modernizzare il “metabolismo industriale” per eguagliare, e possibilmente superare, le migliori pratiche disponibili a livello internazionale. In particolare, il piano considera che sarà più semplice raggiungere questo obiettivo se alcune aziende “campione” faranno da apripista, come sta appunto accadendo. Il governo nazionale e quelli regionali hanno pertanto unito le forze e lavorato in squadra per trasformare le aree deboli sul piano del riciclo in parchi eco/industriali/di economia circolare gestiti in modo professionale. Inizialmente gli sforzi sono stati dedicati ai sette principali siti già esistenti con l’obiettivo di riciclare, entro il 2015, 1,9 milioni di tonnellate di rame, 800.000 tonnellate di alluminio, 350.000 tonnellate di piombo e 1,8 milioni di tonnellate di plastica. Tra questi merita attenzione il Tianying Recycling Economic Park situato nella periferia di Jieshou. Descritta da alcune fonti come una delle dieci città più inquinate al mondo (la Banca Mondiale ha indicato che 20 delle 30 città più inquinate si trovano in Cina), ospita adesso più di 40 società di trasformazione che stanno progressivamente sostituendo le più primitive tecnologie di riciclo di batterie e di fusione del piombo esistenti fino ad allora. Secondo un rapporto della Xinhua News Agency del 2006, 160.000 tonnellate di piombo venivano trattate in impianti non a norma. Nell’insieme questo impegno viene molto apprezzato dai media e dalle autorità, anche se tra le ong ambientaliste serpeggia qualche


Policy Gli obiettivi del riciclo entro il 2015

Rame 1,9 milioni di ton

Alluminio 800.000 ton

Piombo 350.000 ton

dubbio sulla serietà, accuratezza ed efficacia di questi tentativi di bonifica. In molti casi il principale ostacolo si annida nei maggiori costi di trattamento che incentivano il circuito illegale di recupero delle batterie esauste. Un recente rapporto di Chinadialogue.net ha riportato un’intervista in cui Wan Xuejie, vicepresidente di Jitainly, ha spiegato che la sua società ha speso, importandole dall’Italia, 200 milioni di yuan per installare le migliori attrezzature per l’estrazione di acidi e metalli dalle batterie. Per rimanere in attivo la sua società deve poter acquistare le batterie a meno di 4.000 yuan alla tonnellata, mentre aziende più piccole, ma più inquinanti, possono spendere fino a 7.000 yuan/tonnellata traendone ancora un profitto.3 Gli altri sei parchi industriali, ossia lo Ziya Circular Economy Industrial Park a Tianjin, lo Jintian Industrial Park a Ningbo nello Zhejiang, il Miluo Industrial Park nello Hunan e il Huaqing Circular Economy Park a Qingyan nel Guangdong, il Jinmai Industrial Park a Qingdao e il Southwest Resource Recycling Industrial Park nello Sichuan si trovano ad affrontare problemi simili. Tutto ciò mentre altri 15 siti sono stati scelti per la seconda fase dell’iniziativa “miniere urbane”.4 Nell’insieme questi sforzi offrono ampie opportunità di cooperazione internazionale,

Plastica 1,8 milioni di ton

3. “Advancing sustainable business in China”, Chinadialogue, 8 giugno 2014 (https:// s3.amazonaws.com/ cd.live/uploads/content/ file_en/7127/business_ journal_final-web0709. pdf#page=34&zoom=au to,-164,601).

4. “Recycling and Economic Growth in China’s Interior”, Someno Kenji, The Tokyo Foundation, 31 luglio 2014 (http:// www.tokyofoundation. org/en/articles/2014/ recycling-in-chinainterior).

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materiarinnovabile 02. 2015 favorendo anche il trasferimento di tecnologia come è già avvenuto con Merloni Progetti. L’azienda italiana ha realizzato un impianto per il riciclo delle batterie e sette impianti, per Haier, il gigante cinese degli elettrodomestici, per il riciclo dei frigoriferi, ciascuno in grado di trattare un milione di frigoriferi l’anno.5 La cooperazione riguarda anche la progettazione e la gestione di eco-parchi, come nel caso della collaborazione fra la “Eco-town” giapponese Kitakyushu e le sue controparti cinesi a Tianjin e Qingdao, e si estende alla messa in opera di sistemi di riciclo dei rifiuti, come quelli pilotati dalla società inglese Valpak per la raccolta degli imballaggi.6 Un protagonista emergente: la China Recycling Development Co.

7. Cit. in “China’s plastic recycling rate falls to 22 percent”, Recycling Today, 7 luglio 2014 (http://www. recyclingtoday.com/ china-plastic-recyclingrate-decline.aspx).

Nel rapporto “The Renewable Resources Industry Development Report of China”, che riporta gli eventi del 2013, la National Resources Recycling Association cinese dichiara che: “Nell’industria del riciclo sono presenti più di 100.000 istituzioni con 18 milioni di impiegati […] che trattano 160 milioni tonnellate di materiali per un valore pari a 481 miliardi di yuan (77,6 miliardi di dollari)”.7 Oggi, il mercato del riciclo cinese pullula ancora di piccole e medie imprese, anche se stanno via via emergendo alcuni attori di grandi dimensioni. Tra questi si distingue la China Recycling Development Co. (Crdc), che sta assumendo ruolo di leader. Creata nel maggio del 1989 con il sostegno del Consiglio di Stato e del China Co-ops Group, la società opera in tutto il paese attraverso più di 50 filiali o aziende sussidiarie

e controlla circa 3.000 stazioni di riciclo. I suoi più diretti concorrenti operano al massimo in una o alcune province. Nel 2010 la Crdc ha venduto più di 4.800.000 tonnellate di materiali riciclabili e le sue entrate hanno raggiunto 15,8 miliardi di yuan. Inoltre la Crdc gestisce cinque parchi per il riciclo industriale, ossia: •• il Huaqing Circular Economy Park, che nel 2005 fu la prima azienda cinese per le risorse rinnovabili ad avere un impianto per il trattamento delle acque reflue; •• lo Changzhou Resource Recycling Industry Demonstration Base, che ha una superficie di più di 4 chilometri quadrati; •• lo Shandong Linyi Resource Recycling Industry Base, che rivendica di essere il più grande impianto per lo smontaggio e il riciclo di elettrodomestici in Cina; •• lo Luoyang Resource Recycling Industry Demonstration Base al momento il più piccolo fra i parchi del Crdc; •• il gigantesco Southwest Resource Recycling Industrial Park, che si estende già su una superficie di più di 5 chilometri quadrati, e sta letteralmente “esplodendo” per arrivare in futuro a includere magazzini e terreni per lo stoccaggio per più di 53 chilometri quadrati e un’area operativa di poco inferiore ai 27 chilometri quadrati. Quest’ultimo ha stupito più di un visitatore. Recentemente Kenji Someno, ricercatore presso il Global Environment Bureau del Ministero dell’Ambiente giapponese, ha visitato

Industria cinese del riciclo, 2013 Fonte: dati tratti da “The Renewable Resources Industry Development Report of China”.

Istituzioni 100.000

Impiegati 18.000.000

Materiali/ton 160.000.000

Valore in Yuan 481 miliardi


Policy 5. “Sprint cinese per Merloni Progetti”, Jacopo Giliberto, Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2011 (http://www.ilsole24ore.com/art/ economia/2011-04-15/sprintcinese-merloni-progetti-064137. shtml). 6. Recycling Industry in China, Shuoya Shu, Valpak, 21 marzo 2012 (http://www. grontpunkt.no/files/dmfile/ RecyclingIndustryinChina.pdf).

Il governo nazionale e quelli regionali hanno pertanto unito le forze e lavorato in squadra per trasformare le aree deboli sul piano del riciclo in parchi eco/industriali/di economia circolare gestiti in modo professionale.

il Southwest Resource Recycling Industrial Park riportando una testimonianza molto vivida della sua esperienza. Come spesso accade quando si ha a che fare con la Cina, i numeri e le tempistiche sono impressionanti: “[...] I lavori di costruzione allo Sichuan Recycling Park sono iniziati il 18 ottobre del 2009. Tang Limin, allora a capo della sezione di Neijiang del Partito Comunista aveva annunciato che con questo progetto: ‘Daremo l’addio alla nostra storia di sviluppo indisciplinato, caratterizzato da alti tassi di inquinamento e scarsissimo valore aggiunto, per giungere a una fase di gestione industriale altamente specializzata e concentrata’. Per avviare la seconda fase del progetto, il 9 marzo del 2011 a Beijing, il governo di Neijiang e il Crdc hanno firmato un accordo sugli investimenti. La prima fase della costruzione è terminata il 5 giugno di quell’anno e il parco è stato inaugurato ufficialmente quando 120 aziende hanno iniziato a operarvi. Allora è iniziata la seconda fase dei lavori [...]. I progetti per il parco di riciclo di Niupengzi prevedono il riciclo di 1,85 milioni

di tonnellate di materiale all’anno, ricavati da due milioni di apparecchiature elettriche ed elettroniche e da 50.000 automobili rottamate. Si spera che ciò porterà a vendite per 10 miliardi di yuan e profitti per 200 milioni, creando 1,9 miliardi di yuan di entrate fiscali e lavoro per 20.000 persone”. La descrizione prosegue elencando i benefici derivanti dal nuovo complesso, quali la limitazione dell’inquinamento ambientale, le opportunità di occupazione e il miglioramento complessivo delle attività dell’area circostante. Il racconto del ricercatore si conclude descrivendo brevemente come, anche in Cina, il meccanismo economico che presiede al riciclo dei materiali non abbia ancora raggiunto il grado di chiarezza che politici, imprenditori e cittadini desidererebbero. Se, da diversi punti di vista, è indubbia la necessità di mettere in opera un’economia di tipo circolare, la questione di chi pagherà o guadagnerà dalla miniera di risorse che si annida nei rifiuti deve essere ancora accuratamente analizzata.

Come spesso accade quando si ha a che fare con la Cina, i numeri e le tempistiche sono impressionanti.

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materiarinnovabile 02. 2015

Fare il pieno all’auto con gli scarti del whisky È uno dei progetti dell’impianto pilota di Bio Base Europe, il primo centro di open innovation ed educazione alla bioeconomia di Hendrik Waegeman

Hendrik Waegeman, PhD, è Business Development Manager presso l’impianto pilota di Bio Base Europe.

Creare biocarburanti dagli scarti del whisky. È solo uno dei progetti (vedi box) che vede protagonista l’impianto pilota di Bio Base Europe, il primo centro di open innovation e di educazione alla bioeconomia sorto in Europa, frutto della collaborazione tra i governi del Belgio e dei Paesi Bassi. L’obiettivo di questo impianto, unico nel suo genere nel Vecchio Continente, è ambizioso: diventare un centro di riferimento a servizio delle imprese per testare i bioprodotti made in EU. Operativo dal 2011 all’interno del Porto di Ghent, oggi il Bio Base Europe Pilot Plant è considerato un punto di avanguardia per le biotecnologie industriali, anche grazie a un riconoscimento ufficiale ricevuto dalla Commissione europea. Nel 2009, nel pieno della crisi economica e finanziaria, l’Europa si è resa conto di aver perso parte della propria capacità di traino industriale rispetto alle economie emergenti. Per reagire a questa situazione, la Commissione europea ha deciso di promuovere le Ket (Key Enabling Technologies), innovative tecnologie chiave in grado di stimolare una nuova industrializzazione del Vecchio Continente, stimolare la competitività e generare occupazione, crescita e ricchezza dell’economia. Sei le tecnologie selezionate e, tra quelle emergenti come la nanotecnologia e la micro-elettronica, la biotecnologia è stata riconosciuta come promotrice della bioindustria.


Case Histories

Figura 1 | Differenze nelle strategie di finanziamento per la ricerca, lo sviluppo e la dimostrazione tra Cina, Usa e Ue 11%

Fonte: http://ec.europa. eu/enterprise/sectors/ ict/files/kets/hlg_report_ final_en.pdf 58% 24%

32%

La valle della morte Gli studi di valutazione delle Ket, condotti da un gruppo di esperti di alto livello per conto della Commissione europea, miravano a individuare i motivi di intralcio all’implementazione della biotecnologia industriale in settori quali quello energetico, chimico e alimentare. Tra i principali aspetti che il rapporto ha preso in considerazione, emergono la “valle della morte”, ovvero quella fase in cui finiscono molti processi o prodotti prototipo nel passaggio dalla ricerca all’entrata sul mercato, e la mancanza di finanziamenti pubblici per trasferire le attività dimostrative su una scala più ampia, impedendo quindi che finiscano affossate. A confronto con le due altre superpotenze economiche del mondo, Usa e Cina, l’Europa supportava a malapena questo tipo di attività dimostrative (figura 1). Consapevole dei risultati della valutazione, la Commissione europea è passata all’azione. Ha creato molteplici strumenti di finanziamento, tra cui: •• Horizon2020, che rispetto al predecessore FP7 si focalizza di più sulla collaborazione tra mondo accademico e industria; •• nell’ambito di Horizon, ha istituito i fondi speciali Bbi (Bio-Based Industry) per partnership pubblico-privato e Spire (Sustainable Process Industry through Resource and Energy Efficiency), che concedono supporto finanziario per attività pilota e dimostrative; •• sempre in ambito Horizon, ha creato lo strumento per le Pmi, un programma che supporta le piccole e medie imprese affinché accelerino l’entrata sul mercato delle proprie innovazioni. Finora, questo tipo di supporto finanziario alle attività pilota ha sempre dimostrato la sua validità e disponibilità. Cos’è allora che ancora impedisce alla biotecnologia industriale e più in generale alla bioeconomia di prendere il volo? Sebbene per le Pmi e le grandi imprese sia ora più facile ottenere supporto finanziario per far avanzare i propri progetti, molte di queste, soprattutto tra le piccole e medie imprese, non considerano le attività pilota un elemento strategico. È raro che dispongano

6%

48% 2% 28%

Dimostrazione 92%

Ricerca applicata Ricerca di base/FP7

Nel 2009, nel pieno della crisi economica e finanziaria, l’Europa si è resa conto di aver perso parte della propria capacità di traino industriale rispetto alle economie emergenti.

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materiarinnovabile 02. 2015 Celtic Renewables testerà i processi di trasformazione degli scarti di produzione del whisky in biocombustibile presso BBEPP Celtic Renewables, una spin-out del Biofuel Research Centre dell’Università di Edimburgo ha sottoscritto lo scorso giugno un accordo con Bio Base Europe per passare alla fase successiva di test di un processo che consentirà di trasformare i residui della produzione di whisky in biocarburante per vetture. La partnership, che consentirà all’azienda di sviluppare questa nuova tecnologia presso l’impianto BBEPP, è stata consolidata grazie a finanziamenti complessivi pari a 1,5 milioni di euro, di cui oltre un milione concesso dal governo britannico, che punta a un nuovo settore di mercato nel Regno Unito con un fatturato stimato in 125 milioni di euro l’anno. L’azienda scozzese, che per prima ha collaudato una tecnologia al biobutanolo presso la struttura dimostrativa pilota in Belgio, ha già tentato di produrre biobutanolo dallo zucchero ottenuto dai semi di orzo, imbevuti di acqua per facilitare il processo di fermentazione necessario alla produzione del whisky e dalla borlanda, il liquido di lievitazione che viene scaldato durante la distillazione. I prossimi mesi vedranno l’azienda impegnata a replicare su scala industriale il lavoro svolto nel laboratorio scozzese.

Figura 2 | Settore 2 con attrezzature per la fermentazione (capacità massima di 15.000 litri)

di infrastrutture nelle quali implementare le linee pilota, né di personale competente per effettuare i test di collaudo. Per ottenere curve di apprendimento più rapide ed entrare in tempi brevi sul mercato, queste attività devono essere esternalizzate, ma a tal fine sono necessarie infrastrutture pilota sempre disponibili, alle quali le aziende possono accedere senza conflitti di interesse con l’organizzazione o l’azienda che gestisce gli impianti. Inoltre, l’infrastruttura deve essere diversificata e completa per adeguarsi a una vasta gamma di processi; infine, l’organizzazione dell’impianto pilota deve disporre di persone capaci di occuparsi dei molti aspetti dell’economia basata su fonti biologiche. L’impianto BBEPP È esattamente questa la filosofia che avevano in mente i fondatori dell’impianto pilota di Bio Base Europe (BBEPP) quando nel 2008 lanciarono la loro iniziativa in Belgio, a Ghent. La scelta dell’ubicazione non deve sorprendere: proprio in questa città i biotecnologi e pionieri del settore Marc Van Montagu e Jeff Schell scoprirono il meccanismo di trasferimento dei geni tra l’agrobatterio e le piante, spianando la strada per l’ingegneria vegetale. Da allora, Ghent è diventato un importante polo per la biotecnologia verde e successivamente per quella rossa e bianca (rispettivamente biotecnologie agroalimentari, farmaceutiche e industriali, ndr). Nel corso degli anni, grazie al supporto finanziario del Porto di Ghent, della Provincia delle Fiandre orientali, delle Fiandre, dei Paesi Bassi e dell’Europa, nell’impianto pilota di Bio Base Europe sono stati investiti oltre 20 milioni di euro. La funzione generale della struttura è quella di colmare il divario tra la fattibilità scientifica e l’applicazione industriale dei nuovi processi biotecnologici e/o basati su sostanze biologiche. L’impianto consente alle aziende di valutare gli effettivi costi operativi, gli specifici punti di forza o debolezza dei nuovi processi e tutto questo prima che vengano effettuati investimenti costosi e su larga scala. Il BBEPP è situato nel porto di Ghent, e per la sua realizzazione è stato ristrutturato un edificio già esistente. Si tratta di una piattaforma pilota aperta,


Case Histories Info http://www.bbeu.org/

capace di accogliere sotto lo stesso tetto l’intera catena di valore, dalle risorse verdi al prodotto. Dotata di attrezzature per pretrattamento delle biomasse, fermentazione, biocatalisi, chimica verde e processazione a valle, è in grado di offrire una vasta gamma di servizi. La struttura è composta da tre grandi aree, laboratori e uno spazio per la manutenzione. La prima area pilota è dedicata al pretrattamento e alla biocatalisi; vi si trovano più reattori con dimensioni fino a 8 metri cubi; il secondo settore è dedicato alla biotecnologia industriale, con fermentatori fino a 15 metri cubi (figura 2) e la terza area, a prova di esplosione e conforme alle normative Atex, contiene reattori chimici e attrezzature di estrazione con dimensioni fino a 5 metri cubi (figura 3). Dotati di estrema flessibilità, i diversi moduli possono essere collegati per realizzare in modo diretto diverse linee di produzione. Il BBEPP è coinvolto in progetti che prevedono fondi pubblici (per esempio quelli di Horizon2020 o finanziamenti nazionali) e in partnership con istituti di ricerca e aziende inclusi in consorzi di maggiori dimensioni, o in progetti con finanziamenti privati che collaborano bilateralmente con partner industriali. Nel 2013 e poi nel 2014, il BBEPP ha portato a termine rispettivamente 44 e 38 progetti pilota bilaterali per l’industria, offrendo un importante incentivo alle aziende per superare la “valle della morte”. Premi e riconoscimenti La crescita e il successo dell’impianto di Bio Base Europe sono stati notati dalla Commissione europea. La struttura è stata riconosciuta come importante linea pilota dimostrativa per le Ket in ambito di biotecnologia. È un esempio di come il carattere aperto all’innovazione e il concetto di struttura condivisa che lo caratterizzano vadano considerate come un modello di funzionamento per qualsiasi altro impianto pilota. Credo fermamente nella bioeconomia, e spero davvero che questo riconoscimento comprovi l’essenza dell’infrastruttura pilota così che, grazie a questo supporto, ci sia possibile promuovere ulteriormente lo sviluppo dei prodotti e dei processi biologici, incentivando il settore della bioeconomia nel suo complesso.

Figura 3 | Settore 3 con reattori chimici ATEX (capacità massima di 5.000 litri)

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Dalle reti da pesca che inquinano il mare agli skateboard: il rifiuto si trasforma in merce di Nancy Averett

Questa storia è stata prodotta in partnership con FUTUREPERFECT http://www.goethe.de/ ges/umw/prj/kuk/the/kul/ en9189284.htm

Tre imprenditori americani lottano contro l’inquinamento da plastica degli oceani trasformando in skateboard le reti da pesca dismesse Ben Kneppers partecipava a un festival musicale a Santiago, in Cile, quando si fermò a osservare alcuni ragazzi del posto che in una piccola bottega riparavano skateboard danneggiati, rendendoli di nuovo funzionali invece di gettarli via. Kneppers, un consulente per l’ambiente originario del Massachusetts, restò molto colpito da quell’iniziativa. Anche lui amante entusiasta dello skate, ammirava quei giovani che facevano avanti e indietro scivolando sull’asfalto. L’idea nacque in quel momento. Già da tempo, insieme ad altri due amici, era alla ricerca di un sistema per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica degli oceani, e stavano studiando un business per produrre oggetti con quei rifiuti. “Pensai che gli skateboard

potevano proprio essere l’oggetto adatto”, racconta. “Uno strumento perfetto per educare le generazioni più giovani”. Diciotto mesi dopo Kneppers e i suoi partner, Dave Stover e Kevin Ahearn, hanno fondato Bureo, un’azienda che produce skateboard. Il nome significa “onde” in Mapudungun, la lingua dei Mapuche, il popolo indigeno del Cile. Il primo lotto di skate realizzati, il modello Bureo Minnow Cruiser, è stato da poco messo in vendita in California, a Chicago e New York. Ciò che rende diverso lo skateboard Minnow dalle decine di altri skate in circolazione è il fatto che sia ottenuto riciclando rifiuti. La tavola da 25 pollici (63,5 centimetri, ndr) è realizzata con vecchie reti da pesca in plastica dismesse.


Case Histories Ciò che invece rende Bureo diversa dalla maggior parte delle altre aziende è che si concentra tanto sulla propria missione di riciclo quanto su quella di vendita: Kneppers, Stover e Ahearn, tutti cresciuti in località costiere degli Stati Uniti, hanno fondato la loro società anche per questo. “Come surfisti abbiamo passato la nostra vita nell’oceano e sentiamo un legame profondo con questo elemento”, racconta Stover. “Siamo riusciti a fare in modo che uno skateboard simboleggiasse la nostra volontà di risolvere in un modo positivo il problema crescente della plastica nei mari”. Il gruppo ha scelto di concentrarsi sul riciclo delle reti da pesca, che rappresentano il 10% dei rifiuti in plastica che si trovano negli oceani e possono danneggiare gravemente la vita marina: delfini, testuggini e gabbiani vi rimangono intrappolati e finiscono spesso per morire. Succede perché i pescatori cileni gettano in mare le reti usurate visto che dismetterle costa troppo: le discariche del paese sono tutte private e inoltre per gettarvi i rifiuti occorre pagare un mezzo per il trasporto. Kneppers ricorda che il problema delle reti abbandonate in mare non si limita solo al Cile. “Nel corso della nostra ricerca”, racconta, “abbiamo contattato pescatori della California e della costa orientale, e tutti hanno ammesso di agire spesso nello stesso modo, per semplice comodità”. Insieme ai colleghi ha dato vita a un programma chiamato “Net Positiva”, il primo sistema cileno per la raccolta e il riciclo delle reti da pesca. Hanno distribuito sacche per la raccolta delle

reti in tre villaggi di pescatori e si sono offerti di ricompensare le cooperative di pesca locali per ogni chilo di rete riciclata. “Nei primi sei mesi abbiamo raccolto tre tonnellate di reti”, racconta Kneppers. “Speriamo di estendere presto il programma ad altre località, visto che abbiamo progettato l’intero modello per essere modulabile”. L’idea di un programma di riciclo era già nell’aria prima che Kneppers avesse il suo momento di ispirazione durante quel festival musicale a Santiago. Nel 2011, lui e Stover erano compagni di stanza e colleghi in Australia. Entrambi appassionati surfisti, rimanevano svegli fino a tardi a discutere di come risolvere il problema dell’inquinamento della plastica negli oceani,

Nancy Averett è una giornalista scientifica freelance, di stanza a Cincinnati, Ohio. Scrive per diverse riviste statunitensi.

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Info http://www.bureoskateboards.com/ info@bureoskateboards.com

dell’obiettivo iniziale (25.000 dollari), riuscendo così ad avviare la produzione su larga scala.

Bureo è una start-up atipica: ha inventato un programma di riciclo incredibile spingendo il settore della pesca in Cile a trasformare i rifiuti di plastica dell’oceano in un prodotto straordinario.

un aspetto per loro evidente ogni volta che cavalcavano un’onda. (Ahearn, anche lui surfista, si è unito a loro più tardi, quando hanno capito di aver bisogno di un designer.) Una volta individuato il prodotto più adatto, è arrivata la parte difficile: trasformare quel sogno in realtà. La prima tappa è stata la visita alla Northeastern University, dove Kneppers aveva studiato. L’università aveva un programma a disposizione per potenziali imprenditori e offrì loro un tutor e parte dei finanziamenti iniziali utilizzati per verificare se le reti da pesca erano adatte alla creazione degli skateboard. In seguito i tre hanno chiesto e ottenuto un prestito dal governo cileno, grazie al programma Start-Up Chile, che li ha aiutati a definire il sistema di recupero e riciclo delle reti. Infine, nell’aprile del 2014, si sono rivolti a Kickstarter, lanciando una campagna che ha consentito di raccogliere rapidamente 64.000 dollari, ben oltre il doppio

Le reti riciclate vengono fuse e iniettate in uno stampo che crea le tavole dello skate, la cui superficie è lavorata a squame di pesce per garantire una migliore aderenza. La sostenibilità delle tavole non si ferma qui: il nucleo delle ruote è realizzato con il 100% di plastica riciclata, mentre la parte esterna è ottenuta con un 30% di olio vegetale. Per l’imballaggio vengono utilizzati carta e cartone riciclati al 100%; il trasporto delle reti dai villaggi alla fabbrica di Santiago avviene su camion che già hanno trasportato merci al villaggio e che tornerebbero vuoti in città. Una nota azienda di abbigliamento sportivo, Patagonia, ha recentemente annunciato di aver intenzione di investire nella piccola impresa. “Bureo è una start-up atipica: ha inventato un programma di riciclo incredibile spingendo il settore della pesca in Cile a trasformare i rifiuti di plastica dell’oceano in un prodotto straordinario”, ha dichiarato in un comunicato stampa l’amministratore delegato di Patagonia, Rose Marcario. “Puntiamo a investire su Bureo per ampliare il loro business a livello globale e diminuire in modo netto la quantità di plastica che viene gettata nei nostri oceani”.


Case Histories Una rete positiva “Net Positiva”, il programma di Bureo per la raccolta e il riciclo delle reti da pesca, è attivo sin dal 2013 grazie anche al sostegno del governo cileno. Da allora, sono state raccolte oltre 10 tonnellate di reti da pesca dismesse, altrimenti destinate a essere gettate nell’oceano, incenerite sulla spiaggia o inviate in discarica. Il materiale con cui sono realizzate le reti, un tessuto multifilo in Nylon 6 estremamente durevole e riciclabile, è eccellente per essere trasformato in nuovi prodotti. Bureo opera insieme alle comunità di pescatori della costa cilena, offrendo loro un sistema rispettoso dell’ambiente per smaltire le reti non più utilizzate, che vengono raccolte presso i porti dei pescatori. Per ogni chilo di reti ricevute, Bureo versa alle comunità un prezzo concordato, che va a finanziare attività educative e programmi di riciclo. Alcune persone vengono inoltre impiegate nella pulizia e nella preparazione delle reti per il successivo riciclo. Le reti, per mezzo di camion che viaggiano verso Santiago dopo aver consegnato merci (e che quindi tornerebbero a vuoto), sono recapitate all’impianto di riciclo e produzione della capitale cilena, dove vengono tagliate, filate, ripellettizzate e quindi trasformate in nuovi prodotti, primo tra tutti lo skateboard Minnow. Le tavole degli skate vengono fuse e iniettate in un stampo nello

L’impegno di Kneppers, Stover e Ahearn verso la sostenibilità va oltre l’upcycling degli skateboard. Di recente, il team ha partecipato alla pulizia delle spiagge in California, nell’ambito dell’iniziativa 5 Gyres Plastic Beach Project, e in ogni località visitata ha messo in palio una delle tavole Minnow tra i volontari che hanno aderito. Assieme a Save the Waves Coalition e a Surfrider Foundation, ha collaborato per pulire e preservare le zone costiere di tutto il mondo. Inoltre progettano una linea di magliette in cotone biologico che aiuterà a finanziare Unidos Por Aguas Limpias, un’organizzazione no profit del Cile che opera per conservare le aree naturali nei pressi dei surf spot e che ogni anno a marzo organizza un’iniziativa per la pulizia delle spiagge. “Le tavole non sono che l’inizio”, dice Ahearn. “Vogliamo continuare con l’innovazione e trovare altre soluzioni all’inquinamento degli oceani”. I pescatori locali all’inizio erano un po’ perplessi, ma poi, quando hanno visto il prodotto finito, hanno cambiato idea. “Sono molto orgogliosi”, afferma Kneppers. “Sono rimasti colpiti e contenti di poter toccare con mano il risultato”. Dopo averla ben esaminata, hanno passato la tavola ai figli, che sapevano perfettamente cosa farne.

stesso impianto di Santiago e poi spedite via mare nelle sedi di Bureo in California del Sud, dove vengono infine assemblate e distribuite. Capita che i pescatori abbiano difficoltà a organizzare lo smaltimento delle vecchie reti, ed è questa una delle ragioni perché esse finiscono per inquinare gli oceani in proporzioni così significative. Durante le nostre ricerche, abbiamo individuato anche in altri paesi programmi che offrono ai pescatori punti di smaltimento delle reti usate, così da eliminare il rifiuto pericoloso prima che finisca nell’ambiente marino. Noi abbiano deciso di avviare “Net Positiva”, un programma che garantisce ai pescatori un’entrata aggiuntiva e l’incentivo giusto per far sì che le reti non finiscano negli oceani. Le comunità di surfisti e skater sono rimaste positivamente colpite dal nostro programma e dalle nostre tavole. Così abbiamo contribuito ad aprire gli occhi a molti, e ideato un modo totalmente nuovo per creare materiali sostenibili per questo settore. È nostra intenzione continuare a contribuire sperando in una sempre maggiore diffusione del movimento per la sostenibilità e continueremo a promuovere l’innovazione con i nostri design e le nostre idee. Il Team Bureo

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Il campo dello sport ora diventa ecologico di Roberto Rizzo

C’è chi gioca a pallone per sfogare in campo lo stress accumulato nelle dure giornate di lavoro, altri invece vogliono emulare le gesta dei campioni che vedono in tv e poi c’è chi trova nella partitella tra amici l’unico modo per fare un po’ di attività fisica. Ma adesso anche gli ambientalisti possono mettersi le scarpe con i tacchetti e scendere in campo, a 7 o a 11, senza avere il senso di colpa di stare calpestando (e in parte distruggendo) uno splendido strato di erba. Lo possono fare grazie ai campi da calcio realizzati con gomma riciclata ed erba sintetica, impianti che garantiscono delle performance di gioco equivalenti ai campi tradizionali e che, come vedremo fra qualche riga, hanno numerosi vantaggi di carattere ambientale ed economico. A promuovere informazione su questi impianti sportivi amici dell’ambiente ci pensa anche Ecopneus, società consortile senza scopo di lucro i cui soci sono i produttori e gli importatori di pneumatici e che opera per garantire il tracciamento, la raccolta, il trattamento e il recupero degli pneumatici fuori uso (Pfu). Ecopneus gestisce ogni anno circa i tre quarti del mercato italiano stimato dei Pfu, cioè circa 240.000 tonnellate anno, equivalenti grosso modo a 27 milioni di pneumatici per autovetture. Il target fissato per legge è il recupero di una quantità di Pfu pari alla totalità degli pneumatici nuovi immessi nel mercato dai soci l’anno precedente. Inoltre, Ecopneus si è occupata anche del prelievo di alcuni stock storici, generatisi prima del settembre 2011, come previsto dal Dm 82/2011 che regolamenta il settore.


Case Histories Le fasi della filiera di recupero dei Pfu •• Raccolta e stoccaggio. Dopo essere stati staccati dagli autoveicoli, i Pfu vengono prelevati e portati presso i centri di smistamento. Qui vengono pesati e quindi stoccati per essere poi avviati al processo di trattamento. •• Stallonatura. Rimozione del cerchietto, l’anello in acciaio che fa aderire lo pneumatico al cerchione (tallone). •• Prima frantumazione. Il Pfu è ridotto in frammenti di dimensioni tra 5 e 40 cm detti “ciabatte” che possono essere avviati al recupero energetico o sottoposti a un ulteriore trattamento. •• Seconda frantumazione. Il materiale è ridotto in frammenti più piccoli e suddiviso in gomma, acciaio e fibre tessili. La gomma viene ancora triturata per ottenere materiali di dimensioni inferiori: cippato di gomma (20-50 mm), granulato (0,8-20 mm), polverino (< 0,8 mm). Si ottengono anche acciaio e tessile.

Un materiale dalle molte vite La gomma è un materiale termoindurente e una volta vulcanizzata, cioè dopo che ha subìto un particolare processo termo-chimico che la rende elastica e meccanicamente resistente, non riesce a essere industrialmente de-vulcanizzata. Per il recupero dei Pfu si attuano quindi la frantumazione e macinazione meccanica, raggiungendo le richieste dimensioni idonee al successivo utilizzo dei materiali così ottenuti. In Italia sono attivi una quindicina di impianti che frantumano i Pfu e separano le frazioni tessile, polimerica e metallica. “Oltre a occuparci della corretta gestione del fine vita degli pneumatici, operiamo per stimolare il mercato, in altre parole per sviluppare applicazioni che rappresentino concreti e positivi esempi di come si può

recuperare la gomma” spiega Daniele Fornai, Responsabile dello sviluppo impieghi e normative di Ecopneus. La classe granulometrica che va per la maggiore nel nostro paese ha dimensioni da 0,8 a 2,5 mm ed è usata soprattutto nell’impiantistica sportiva. I granuli di gomma più fini sono chiamati polverini e sono usati per fare nuove mescole di gomma o per additivare i bitumi per uso stradale, mentre i granuli con dimensioni oltre 2,5 mm trovano applicazione come superfici antitrauma dei parchi giochi per bambini, in elementi per arredo urbano, in cordoli, negli isolanti acustici, nei tappetini per aziende di allevamento zootecnico. Oltre la metà dei Pfu diventa però combustibile in impianti industriali altamente energivori, nella forma di cippato da 20 mm o triturato di maggiori dimensioni. Questo avviene in particolare nei cementifici. Il combustibile

Roberto Rizzo è un giornalista scientifico esperto di tematiche energetiche e ambientali e dal 2010 insegna al Master di Giornalismo Scientifico della Sissa di Trieste.

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materiarinnovabile 02. 2015 Info www.ecopneus.it

In Italia sono stati realizzati fra i 700 e gli 800 campi a 11, oltre a una superficie equivalente di campi minori, e ogni anno si usano da 10.000 a 12.000 tonnellate di gomma riciclata.

derivato da Pfu ha un potere calorifico confrontabile con quello del pet coke e di un carbone di ottima qualità e le emissioni di CO2 sono inferiori rispetto ai combustibili tradizionali perché il 27% circa degli pneumatici è di origine biogenica (gomma naturale e fibre derivate da cellulosa) e il contenuto di metalli pesanti e zolfo è basso. I campi da calcio Come si spiegava all’inizio, tra gli utilizzi più rilevanti della gomma riciclata vi è la realizzazione di campi da calcio: ogni anno nel mondo 500.000

tonnellate di Pfu trovano questa destinazione finale. Il primo passo nella realizzazione dell’impianto sportivo è la stabilizzazione della base naturale per ottenere un drenaggio ottimale delle acque. In seguito si installa sul ghiaione un sandwich costituito, partendo dal basso, dai seguenti strati: •• un sotto-tappeto elastico che può essere realizzato in gomma riciclata coestrusa con polimeri di EVA (Etil Vinil Acetato) o legata con collanti poliuretanici. L’elasticità della gomma e l’impermeabilità di questi strati permette sia di avere un effetto resiliente/elastico, sia di drenare orizzontalmente l’acqua piovana; •• una moquette con densità di fili di erba sintetica (in polipropilene) che varia in base agli scopi finali. In genere l’erba sintetica rimane scoperta per circa 1 cm e ha una lunghezza totale intorno agli 8 cm; •• uno strato di sabbia silicea con la funzione di simulare il terreno. Appesantisce il sistema, stabilizza i pesi e va a intasare l’erba sintetica; •• sopra la sabbia si posa l’intaso prestazionale in gomma riciclata tra i fili d’erba che serve a dare un effetto resiliente ed elastico. L’intaso mantiene dritta l’erba e la aiuta a tornare nella posizione originale quando calpestata. Realizzare un campo da calcio di tipo professionale a 11 richiede una ventina di giorni di lavoro e 100-120 tonnellate di gomma riciclata per l’intaso, con un costo di 400.000/450.000 euro, ipotizzando di realizzare anche porte e rigature. In Italia sono stati realizzati fra i 700 e gli 800 campi a 11, oltre a una superficie equivalente di campi minori, e ogni anno si usano da 10.000 a 12.000 tonnellate di gomma riciclata. La vita utile di un campo realizzato a regola d’arte è di almeno una decina di anni ed esso può essere completamente riciclato. L’intaso e la sabbia vengono rimossi in maniera automatizzata e possono essere riutilizzati così come sono, mentre la moquette viene arrotolata per possibili riutilizzi. Tipicamente solo l’ultimo centimetro di erba sintetica risulta danneggiato dai tacchetti dei giocatori: dall’erba di un campo a 11, con l’eliminazione della parte superiore, si può ottenere facilmente uno strato erboso per un campo a 7, oppure erba sintetica per il bordo di strade e rotatorie.

Che cosa si può fare con i Pfu derivanti da 1.000 autovetture? •• 6.000 m2 di membrana per isolamento acustico •• 2 campi da calcetto regolamentari •• circa 1 km di strada con asfalto “gommato” •• 3,6 km di antivibrante ferrotramviario •• 6,5 ton di acciaio


Case Histories

Strato nero: intaso prestazionale in granulo di gomma nobilitato Strato ocra: intaso in sabbia silicea Tra lo strato nero e il successivo in ocra: strato di tessuto non tessuto in cui sono installati i fili di erba artificiale Strato nero: tappetino in gomma riciclata con drenaggio orizzontale e verticale Primi due strati grigi: sottofondo drenante

I vantaggi ambientali ed economici Se la gomma è stata tra i primi materiali utilizzati come intaso prestazionale, le regole di mercato hanno portato negli anni alla nascita di altri prodotti concorrenti. Tra i più noti è sicuramente il cosiddetto “intaso organico”. Questo materiale trova largo consenso tra gli utilizzatori finali perché, essendo una miscela di materiali di origine vegetale (sughero, fibre di cocco ecc.), conferisce al prato sintetico un apparente appeal più naturale. Tuttavia, pur richiamando un terreno da sottobosco, l’intaso organico può dare luogo ad alcuni problemi. Per prima cosa in caso di pioggia, essendo un materiale organico leggero, galleggia sull’acqua e tende a essere trascinato verso il bordocampo; la gomma, leggermente più pesante, è stabile e rimane tra i fili d’erba. In secondo luogo, i materiali organici devono essere mantenuti innaffiati per garantirne la morbidezza e questo, oltre al consumo d’acqua, in climi rigidi può favorire la formazione di ghiaccio. La gomma, invece, non ne ha bisogno

e non richiede antiparassitari e antivegetativi. Tra i vantaggi dei campi realizzati in erba sintetica è certamente da considerare la maggiore “giocabilità” degli impianti artificiali. Infatti, l’erba naturale si danneggia molto facilmente per usura: su un campo sintetico è possibile giocare anche 20 ore al giorno per sette giorni la settimana, perché i materiali di cui è costituito sono resistenti all’intenso calpestio. “Diversi gestori di impianti di calcio si riconvertono al sintetico perché è sempre in ottimo stato e garantisce dei costi di esercizio e manutenzione assai più contenuti” spiega Daniele Fornai. “Convertire un campo da gioco dall’erba naturale all’erba sintetica ha un tempo di ammortamento tipicamente di quattro/cinque anni. Un segnale interessante viene oggi dall’Atalanta, prestigioso club di Serie A ben conosciuto per l’attenzione verso le giovani generazioni di calciatori, che ha scelto di realizzare negli scorsi mesi un campo con gomma da riciclo. Su questo campo gioca la sua squadra della primavera”.

Su un campo sintetico è possibile giocare anche 20 ore al giorno per sette giorni la settimana, perché i materiali di cui è costituito sono resistenti all’intenso calpestio.

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La seconda vita green dell’agricoltura di Sara Guerrini

Sara Guerrini, agronomo, da oltre 10 anni si occupa di sviluppo di materiali biodegradabili per l’agricoltura e di sostenibilità di sistemi agricoli.

Le materie plastiche sono ampiamente usate in agricoltura, tanto da essere diventate un elemento distintivo e caratteristico di alcuni paesaggi. Teli per coperture delle serre, pacciamature, reti, manichette per irrigazione, vasetti per florovivaistica, teli per copertura di insilati sono solo alcuni degli esempi della grande versatilità che rende le materie plastiche da più di 50 anni preziosi alleati dell’agricoltore. Le plastiche consentono di ottenere produzioni più elevate e di migliore qualità, di ridurre l’utilizzo di mezzi chimici e acqua per irrigazione e di modificare il ciclo delle colture per rispondere alle maggiori richieste di produzione di cibo della popolazione. Tuttavia, esiste un “rovescio della medaglia”, sia per gli operatori sia per l’ambiente: le plastiche devono essere, a fine del loro uso, raccolte e smaltite correttamente. Per alcune tipologie di manufatti questi passaggi possono essere poco convenienti e difficoltosi, tanto che ancora oggi non tutta la plastica che entra nel sistema agricoltura viene recuperata alla fine dell’uso, dando vita a frequenti fenomeni di dispersione incontrollata nell’ambiente. Per tutte quelle

applicazioni di plastiche in agricoltura “a rapida rotazione” in campo (pacciamature) o “a perdere” (supporti per feromoni, pacciamature per colture pluriennali) i materiali biodegradabili costituiscono un’alternativa efficace, rispettosa per l’ambiente e soprattutto a produzione zero di rifiuto a fine uso. I teli plastici in agricoltura: luci e ombre La domanda del settore dei teli plastici per agricoltura a livello globale è stata, nel 2013, di circa 4 milioni di tonnellate, prevalentemente allocate in Asia (70% circa) e, a seguire, in Europa (16%).1 Delle 510.000 tonnellate di film agricoli utilizzati in Europa, il 40% è concentrato nei paesi del sud (Spagna e Italia) per impieghi in orticoltura (copertura serre e pacciamatura).2 La pacciamatura è una tecnica colturale estremamente diffusa, in prevalenza per ortaggi, poiché presenta indubbi vantaggi quali il contenimento delle erbe infestanti, la riduzione dell’uso di erbicidi, l’incremento della produzione e il miglioramento della qualità del prodotto, la riduzione della quantità d’acqua di irrigazione ecc.


Case Histories

Le pacciamature plastiche sono prevalentemente realizzate in polietilene a bassa densità (LDPE) e in Europa si stima che se ne utilizzino 80.000 ton.2 La loro vita utile media in campo varia in funzione del ciclo delle colture: da pochi mesi (es. lattughe) a un paio di anni (fragola). I teli, al termine del periodo di coltivazione, devono essere rimossi dal campo e adeguatamente smaltiti secondo le indicazioni generali fornite dalle direttive europee che hanno come oggetto la gestione dei rifiuti (direttive 99/31 EC, 2000/76 EC, direttiva 2008/98/EC). Alcuni paesi quali Francia, Germania, Regno Unito e Norvegia hanno organizzato schemi volontari di raccolta e smaltimento di questa specifica tipologia di rifiuto; altri, come Austria, Belgio, Germania e Danimarca hanno bandito il conferimento dei teli in discarica.1 Tuttavia i flussi della plastica in entrata e in uscita dal sistema agricoltura in Europa continuano a non coincidere. Secondo quanto riportato nei risultati del progetto europeo LabelAgriWaste, in Italia e Spagna si recupera al massimo il 50% dei film plastici usati; di questo 50%, circa la metà viene conferita in discarica.3 Le pratiche illegali di smaltimento più diffuse delle plastiche in

agricoltura comprendono: bruciature in campo, abbandono ai margini dei campi coltivati, in discariche abusive, o lungo corsi d’acqua e l’interramento. Le ragioni vanno ricercate nei tempi e costi elevati per la rimozione di questi rifiuti, legati alla “rapida rotazione” del loro utilizzo e al loro essere molto sporchi (si stima che le impurità dei teli a fine vita – suolo o residui di coltura – arrivino all’80% del peso iniziale del manufatto). E purtroppo di questo gap ne fa le spese ancora una volta l’ambiente. Il più grande utilizzatore di pacciamature, la Cina (20 milioni di ettari) oggi ha non pochi problemi dovuti proprio all’impropria gestione del fine vita di questi teli. I frammenti di plastica non raccolta hanno contaminato ampie superfici agricole ed è stato stimato che tra le conseguenze della presenza di questi

1. AMI, Agricultural Film 2014 – International industry conference on silage, mulch greenhouse and tunnel films used in agriculture, Barcellona, settembre 2014. 2. APE Europe, European non packaging agriplastics market survey, 2013; http://www.apeeurope.eu/ statistiques.php. 3. LabelAgriWaste, Progetto Europeo; https://labelagriwaste. aua.gr:8443/law/info.do? method=projectSummary.

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materiarinnovabile 02. 2015 Definizioni

4. From China Plastic & Rubber, Fully biodegradable agricultural mulch films offer special advantages over conventional plastic films, maggio 2014, Plastic Engineering, p. 24-27. 5. Y. J. Jiang et al., 2001, “Effects of remnant plastic film in soil on growth and yield of cotton”, Agro-environmental protection.

Biodegradazione: processo degradativo causato dall’attività biologica, specialmente all’azione enzimatica, che porta a un cambiamento significativo nella struttura chimica di un materiale. Biodegradabile: sostanza organica in grado di venire decomposta dall’attività di organismi viventi. Se detta biodegradazione è completa, porta alla totale conversione della sostanza organica in molecole inorganiche, quali anidride carbonica, acqua, metano (in funzione dell’ambiente). Nella definizione di biodegradabile devono essere inclusi fattori quali l’ambiente di biodegradazione e orizzonte temporale. In altre parole, occorre definire in quali condizioni e in quale tempo il processo biodegradativo ci si aspetta possa avvenire. Senza la definizione di questi elementi il termine biodegradabile diventa vago e poco utile, dal momento che virtualmente ogni sostanza organica è biodegradabile se non viene definito un tempo stabilito.

Tabella 1 | Alcune case histories di pacciamature biodegradabili Area

Cosa è stato fatto

Italia: Piemonte

Progressiva sostituzione di pacciamature plastiche con biodegradabili nei campi dell’OP Ortofruit Italia: 100% di sostituzione su lattuga; impiego di teli biodegradabili anche per colture tradizionalmente non pacciamate: lampone e mirtillo

Italia: Campania

Su fragola sotto tunnel, ampie prove commerciali. Ottime rese quantitative (anche superiori a teli plastici tradizionali) e qualitative (incremento del grado zuccherino e del contenuto di vitamina C nei frutti)

Grecia: Peloponneso

Su pomodoro da industria: con Pummarò (Unilever), progressiva introduzione di teli biodegradabili su ampio comparto, per annullare la possibilità di impatti ambientali sul suolo da parte di plastiche; buone rese e qualità; consente la raccolta meccanica dei frutti

Spagna: Navarra

Su pomodoro da industria: sostituisce i teli per pacciamatura in plastica; consente raccolta meccanica del pomodoro, non fattibile con teli in plastica; mantiene i terreni puliti a termine del ciclo (importante per terreni in affitto); produttività analoga a teli in plastica tradizionale

frammenti negli strati superficiali del suolo si hanno riduzioni di produzioni dell’ordine del 20%. Si può proprio dire che “la tecnologia della plastica definita ‘white revolution’ in alcune aree del mondo si sia trasformata completamente nella ‘white pollution’”.4,5 I materiali biodegradabili in agricoltura: un nuovo modello al servizio di operatori e ambiente In questo scenario risulta evidente quale possa essere la rilevanza di utilizzare in agricoltura materiali biodegradabili, ovvero materiali che possano rimanere nell’ambiente poiché qui si trovano nelle condizioni ottimali per concludere il loro ciclo senza provocare effetti nocivi. I teli per pacciamatura biodegradabili consentono, in particolare, di rispondere efficacemente a una serie di problematiche: non devono essere rimossi dal suolo, dove in seguito al loro utilizzo sono biodegradati a opera dei microrganismi del suolo, consentendo di risparmiare costi e tempi di rimozione e conferimento e di rendere i flussi di raccolta differenziata della plastica in agricoltura più puliti, eliminando virtualmente una classe di materiali molto sporchi ed economicamente non redditizi in fase di riciclaggio. Uno studio italiano del 2009 ha valutato nel dettaglio le implicazioni ambientali del passaggio da pacciamature plastiche a biodegradabili analizzando il ciclo dei manufatti con un approccio di Lca (life cycle assessment).


Case Histories

Per quanto riguarda l’emissione di gas serra nell’ambiente, l’utilizzo di pacciamature biodegradabili consente un risparmio di 500 kg di CO2 equivalente per ettaro pacciamato (considerando una copertura dell’ettaro con teli del 60%).6 Negli ultimi anni l’utilizzo di pacciamature biodegradabili è diventato gradualmente sempre più diffuso. Questi materiali infatti presentano analoghe caratteristiche prestazionali, di gestione, agronomiche e di produzione dei teli in plastica. Le colture che più si possono avvantaggiare dei teli biodegradabili sono quelle a ciclo colturale medio breve: orticole come zucchino, lattuga, pomodoro, peperone, melone e anguria. Come mostrato dalla tabella 1, molti sono i soggetti, come Unilever, e i territori, in Italia come in altri paesi, che hanno beneficiato di questo passaggio. Se le pacciamature biodegradabili di colture orticole sono una realtà crescente, ci sono ancora nuovi orizzonti percorribili per questi materiali in agricoltura: pacciamatura di colture poliennali a elevato reddito come la vite, coperture per insilati, reti, coperture per rotoballe, imballaggi per ortofrutta sono solo

alcune delle molte applicazioni che si potranno sviluppare in un prossimo futuro, grazie anche alla realizzazione di manufatti tecnicamente sempre più complessi e con caratteristiche prestazionali crescenti. Se tanto è stato fatto in ricerca e sviluppo, alcuni passi importanti sono stati fatti anche a livello legislativo, come riconoscimento dei prodotti biodegradabili quali strumenti della sostenibilità ambientale in agricoltura. Nella Pac 2007-2013 i teli per pacciamatura biodegradabili sono stati inseriti tra le misure ambientali dell’Organizzazione comune di mercato – Ocm ortofrutta nei più importanti paesi europei produttori di orticole (Italia, Francia e Spagna). La nuova Pac per 20142020, con il suo orientamento fortemente ambientale e di promozione dell’innovazione, potrà sicuramente fornire strumenti di supporto importanti per le plastiche biodegradabili. Sarebbe auspicabile pensare che in pochi anni il paesaggio agricolo possa essere meno popolato di quegli elementi di turbamento non solo visivo, ma anche e soprattutto di degrado e inquinamento, che poco hanno a che fare con il ruolo di produzione di cibo e presidio del territorio che dovrebbe caratterizzare l’attività agricola.

Info http://www.novamont.com

6. Razza F., Farachi F., Tosin M., Degli Innocenti F., Guerrini S. (2010) “Assessing the environmental performance and eco-toxicity effects of biodegradable mulch films”, VII International Conference on Life Cycle Assessment in the Agri-food Sector Bari, 2010, p.22-24. Il dato è stato ottenuto utilizzando uno scenario di fine vita considerato tipico della realtà italiana: 10% di riciclaggio, 14% incenerimento con recupero energetico e 78% conferimento in discarica.

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L’innovazione sposa il riciclo di Giorgio Lonardi Giorgio Lonardi, giornalista di economia e finanza.

Immagini tratte da: www.perpetua.it www.arbos.it www.alisea.it

Si fa presto a riciclare la carta per produrre altra carta. Oppure la plastica per ottenere un altro tipo di plastica. Tuttavia la partita risulta più interessante se il riuso dei materiali si accompagna alla ricerca di nuovi mercati di sbocco e di nuovi prodotti capaci di suscitare l’interesse dei consumatori. Insomma, si tratta di fare i conti con il marketing e con l’innovazione, quella vera. Una tendenza che comincia a diffondersi nel nostro paese coinvolgendo una serie di realtà di dimensioni medie e piccole che stanno sperimentando nuove formule e nuovi prodotti. Ma anche un fenomeno destinato ad allargare il mercato del riuso nel suo complesso. Prendiamo il caso dei quaderni, dei blocchi o delle agende in carta riciclata. Si tratta di un mercato di nicchia ormai consolidato. Ma anche di un settore che nel corso degli anni da una parte ha giocato la carta del design e dall’altra è entrato nel comparto dei gadget aziendali offrendo le proprie competenze a marchi dei settori più vari giocando quindi il ruolo del terzista specializzato. Nascono così la linea di cartoleria personalizzata di Viviverde Coop o le collezioni ecosostenibili per conto di Emporio Armani. Un passo in più è quello compiuto dal fornitore di Feltrinelli con i quaderni che oltre alla carta vantano anche la copertina in cuoio riciclato. Sempre nel settore della carta è emblematica la scelta compiuta dalla Arbos di Solagna, in provincia di Vicenza. Nata come azienda produttrice di articoli riciclati per l’ufficio, Arbos si è “inventata” un settore completamente nuovo, quello dei giocattoli di carta e cartone riciclati destinati ai bambini. Si tratta di una mossa abile che cavalca due tendenze convergenti. Da una parte, infatti, c’è l’attenzione crescente dei genitori per i prodotti naturali che


Case Histories non danneggiano l’ambiente. Mentre dall’altra una parte di quegli stessi genitori sono sempre più critici nei confronti dei gadget elettronici distribuiti a piene mani anche ai più piccoli e cercano un’alternativa. Ecco spiegata, dunque, la scelta della stessa Arbos di lanciare un prodotto come “Gli abitanti del villaggio” che fa perno su 18 personaggi e 9 parallelepipedi diversamente componibili e tutti in cartone riciclato. Il passo successivo è ancora più ambizioso. E delinea una tendenza ancora agli albori ma destinata a svilupparsi nel prossimo futuro. Si tratta, infatti, di mettere in contatto quelle aziende che hanno materiali di scarto e che non sanno come utilizzarli con coloro che invece hanno le idee e la capacità di realizzarle grazie a una filiera di fornitori specializzati. È il caso di una penna prodotta come gadget per una casa automobilistica tedesca riciclando i catarifrangenti di auto rottamate. Oppure dell’utilizzazione degli sfridi di Gibus, azienda produttrice di tende da sole, da parte di Buffetti come rivestimenti di quaderni, agende o portaoggetti. Se invece concentriamo la nostra attenzione sulla ricerca, la situazione appare più problematica riflettendo la situazione generale del paese. Eppure qualcosa si sta muovendo anche in questo campo. Lo conferma l’esperienza di Alisea Arte & Object Design, la stessa impresa che ha gestito l’operazione Gibus-Buffetti e il riciclaggio dei catarifrangenti delle auto. In questo caso il compito da risolvere era il riciclaggio della grafite proveniente dagli scarti di Tecno Edm, società produttrice di elettrodi. Che fare? L’opzione più semplice era quella di puntare sulla produzione di matite. Peccato che oggi tutte le matite siano prodotte in Cina con il fusto in legno a un costo talmente basso da mettere automaticamente fuori mercato ogni azienda operante in Occidente. La soluzione adottata ha visto il coinvolgimento di un gruppo di ricercatori e della designer Marta Giardini. Nasce così Perpetua, matita con il fusto in Zantech, un nuovo materiale chimico atossico coperto da brevetto e composto all’80% di grafite riciclata. Quello che conta, più del successo del prodotto (200.000 pezzi venduti in pochi mesi) è la scelta di trasformare il riciclo in un’occasione di innovazione.

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Ancora troppe discariche e dureranno solo due anni I confini della gestione dei rifiuti in Italia, un settore in una fase di profondo cambiamento, tra i diktat comunitari in arrivo e le prospettive di sviluppo di Maurizio Quaranta

Maurizio Quaranta è giornalista e giurista esperto in tematiche ambientali.

Il WAS – Waste Strategy, il think tank sui rifiuti e il riciclo di Althesys in collaborazione con Ama, Amiu, HeraAmbiente, Basf, Cial, Conai, Corepla, Comieco, Ancitel Energia&Ambiente, FiseAssoambiente, Ecopneus, Nestlé, FederAmbiente, Ricrea, Montello, Rilegno – ha presentato il suo WAS Annual Report 2014. Lo scopo, attraverso un’analisi attenta della gestione dei rifiuti urbani in Italia, dell’assetto infrastrutturale e dell’evoluzione normativa nazionale e comunitaria, è fornire una visione unitaria, un quadro d’insieme dell’industria italiana del waste management e del riciclo e nel contempo proporre strategie d’impresa e politiche di sistema che integrino gli aspetti

ambientali, sociali, industriali, economici, normativi e tecnologici. Nel corso degli ultimi anni la situazione in Italia è migliorata con il calo della produzione di rifiuti e l’aumento della raccolta differenziata. Tuttavia, l’obiettivo del decoupling – il disaccoppiamento della produzione di rifiuti dalla crescita del Pil – non è ancora stato raggiunto, malgrado qualche segnale positivo tra il 2010 e il 2011. Nel triennio analizzato (2011-2013) si è però modificato il mix di gestione dei rifiuti, con un aumento della raccolta differenziata (+4,6%), con incrementi nelle quantità avviate a recupero di materia (riciclo +1,3%, compostaggio +1,9%) e di energia (+1,3%), mentre è diminuito lo smaltimento in discarica (-5,2%).

Andamento Pil e Ru 2009-2013

Fonte: elaborazione Althesis su dati Ispra e Istat.

23,6

540

23,5 530

23,4 23,3 23,2 23,1

510

23,0 22,9

500

22,8 22,7

490

22,6 480

22,5 2009

2010

Produzione pro capite di Ru (kg/ab)

2011

2012

2013 Pil pro capite (k euro/ab)

k euro/ab

kg/ab

520


Case Histories Mix di gestione Ru in alcuni paesi Ue nel 2012

Fonte: elaborazione Althesys su dati Ispra ed Eurostat.

100% 90% 80% 70% 60%

Recupero di materia

50% 40%

Compostaggio e digestione anaerobica

30%

Termovalorizzazione

20%

Incenerimento senza recupero energetico

10%

Discarica

0% Germania

Belgio

Olanda Danimarca Francia

Ue28

Regno Unito

Italia

Spagna

Romania

Investimenti relativi per cluster 14% 12% 10% 8% 6% 4%

2011

2%

2012

0%

2013 Grandi multiutility

Operatori metropolitani

Piccole medie monoutility

Tuttavia il nostro paese dipende ancora troppo dalle discariche, che in alcune aree sono la destinazione finale di oltre il 70% dei Ru prodotti, e non riesce a colmare il deficit di impianti di termovalorizzazione. Il quadro italiano non si discosta troppo da quelli di paesi paragonabili per popolazione e contesto economico – come Francia e Regno Unito – ma resta molto distante dai paesi del Nord Europa che sono riusciti a ridurre drasticamente, se non addirittura ad azzerare, l’utilizzo della discarica, con un maggior ricorso all’incenerimento con e senza recupero di energia. In questi paesi la termovalorizzazione non rappresenta un’alternativa al riciclo, ma uno strumento complementare nel raggiungimento dell’obiettivo “discarica zero”, un’opzione resa economicamente vantaggiosa anche dalla possibilità di sfruttare il calore recuperato nelle reti di teleriscaldamento. In Italia l’industria del waste management e del riciclo riunisce una molteplicità di operatori molto

Piccole medie multiutility

Privati

eterogenei per dimensioni, bacini di competenza, aree di business e risultati. L’analisi dei 70 maggiori player, rappresentativi di oltre metà del settore, evidenzia come le performance migliori siano delle imprese di grandi dimensioni e più integrate, come le grandi mulitutility, le uniche in grado di presidiare l’intera filiera. Nel 2013 questi operatori hanno realizzato circa il 50% degli investimenti e ottenuto un rapporto medio Ebitda/Ricavi più che doppio (32,2%) rispetto a quello degli altri. Gli investimenti dei top 70 hanno sfiorato il miliardo di euro nel triennio. Tuttavia, nel quadro di una strategia di rafforzamento della dotazione infrastrutturale, questi investimenti hanno riguardato soprattutto la manutenzione straordinaria e l’ammodernamento degli impianti, rispettivamente con una quota del 44 e 42% del totale. Mentre la voce “nuovi impianti” registra solo il 6%, in calo rispetto al biennio 2011-2012. L’andamento degli investimenti nel settore del waste management risente di una molteplicità

Il nostro paese dipende ancora troppo dalle discariche, che in alcune aree sono la destinazione finale di oltre il 70% dei Ru prodotti.

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Ad aggravare la situazione contribuisce il progressivo esaurimento delle capacità residue delle discariche: a livello nazionale, con conferimenti allineati a quelli dell’ultimo anno, si stima una vita residua inferiore ai due anni.

di fattori: le incertezze circa i sistemi di finanziamento dei servizi ambientali da parte degli enti locali, i ritardi e le incoerenze della pianificazione regionale, la mancanza di chiarezza nella normativa nazionale e le opposizioni locali alla costruzione degli impianti, soprattutto termovalorizzatori. In questo quadro, segnato da non facili situazioni emergenziali, il settore ha compiuto sforzi non piccoli di efficientamento e di investimento: molte aziende, anche a fronte di una diminuzione costante della produzione di Ru, stanno rivalutando i propri assetti impiantistici e i futuri piani di investimento, evidenziando un interesse crescente verso le fasi di selezione e trattamento finalizzate al riciclo e al recupero di rifiuti provenienti dalla Rd. Una delle principali criticità, più volte rimarcata dalla “fotografia” del WAS, resta comunque la carenza di infrastrutture. Anche in questo caso il rafforzamento della dotazione infrastrutturale è stato frenato dai medesimi fattori che hanno determinato il rallentamento degli investimenti. Con in più, a farla da padrone, un’opposizione alla costruzione degli impianti intransigente e spesso strumentalizzata. Così si registra ancora una forte dipendenza dalle discariche, che in alcune regioni sono l’unica soluzione. Ad aggravare la situazione contribuisce il progressivo esaurimento delle capacità residue delle discariche: a livello nazionale, con conferimenti allineati a quelli dell’ultimo anno, si stima una vita residua inferiore ai due anni. Lo studio individua “per rendere più sostenibile la situazione” due soluzioni simultanee: da un lato l’aumento delle percentuali di raccolta differenziata (Rd) e il recupero di materia per ridurre i flussi destinati a smaltimento; dall’altro il poter disporre di adeguate capacità di termovalorizzazione per trattare le quantità residue di rifiuti indifferenziati.

Info www.althesys.com

Tipologia di investimenti

Manutenzione impianti 42% Nuovi impianti 6% Ampliamento discarica 6% Nuova discarica 2% Attrezzatura e mezzi 44%

Lo studio WAS guarda perciò con interesse alla norma prevista nel decreto “Sblocca Italia” per semplificare l’iter per la realizzazione di una rete nazionale di impianti di recupero e smaltimento. Questa norma semplifica le procedure per l’individuazione dei siti e la realizzazione dei nuovi impianti, permettendo alle strutture esistenti di trattare anche rifiuti extra bacino fino alla saturazione della propria capacità tecnica. Tutto ciò mentre l’intero quadro normativo in materia di rifiuti urbani sta attraversando una fase evolutiva, sia a livello comunitario sia nazionale. In particolare, sono in corso le revisioni delle principali direttive europee che disciplinano il settore, ovvero la direttiva quadro sui rifiuti (2008/98/CE), la direttiva imballaggi (1994/62/CE) e la direttiva discariche (1999/31/CE). Queste revisioni dovrebbero fissare nuovi e ancor più stringenti obiettivi al 2030: l’aumento del riciclo al 70%, l’eliminazione delle discariche, l’introduzione di nuove modalità di calcolo o l’innalzamento del target di riciclo per gli imballaggi. Per raggiungere obiettivi così impegnativi occorrerà incentivare il processo di industrializzazione e di consolidamento dell’intero settore, che a oggi continua a essere molto frammentato. Lo studio del WAS è certo tuttavia che ne valga la pena: è stata infatti condotta un’analisi costibenefici sugli effetti delle diverse politiche di gestione dei rifiuti (riciclo, compostaggio e termovalorizzazione), ciascuna delle quali implica differenti ricadute per il paese in termini ambientali, economici e sociali, rispetto allo smaltimento in discarica. Elaborati due scenari di sviluppo relativi al mix di gestione dei rifiuti urbani secondo gli orientamenti previsti dalle direttive europee al 2025 e al 2030 e stimata la quantità di rifiuti prodotti nei due scenari in base alle previsioni di crescita della popolazione (fonte Istat), si è giunti a calcolare benefici netti per il paese compresi tra 3,5 e 6,6 miliardi di euro al 2025 e tra 8,2 e 14,9 miliardi al 2030. E tutto ciò considerando soltanto i flussi di Ru; si presume che benefici ancora maggiori sarebbero ottenibili valutando anche quei rifiuti che, pur non rientrando nel computo degli urbani, hanno ancora un ampio potenziale di sviluppo (penumatici fuori uso, batterie e pile, oli esausti). Alla luce di questa fotografia del paese, del quadro strategico e delle possibili ricadute, dallo studio emergono alcuni possibili indirizzi di policy e la necessità di una vera e propria strategia nazionale per i rifiuti, chiara e di lungo periodo, che sappia valorizzare le competenze e le risorse industriali italiane. Innanzitutto, il settore ha bisogno di chiarezza e stabilità normativa, ma anche di un’armonizzazione legislativa che eviti la frammentazione delle competenze e superi le attuali incongruenze e difficoltà delle pianificazioni regionali.


Case Histories Scenari di sviluppo del mix di gestione dei Ru al 2015 e al 2030 Italia 2013

Direttiva Ue 2025

Direttiva Ue 2030

2% 38%

5% 25%

24%

30%

25%

42%

16% 25%

20%

Esportazioni e altro Recupero di materia

Compostaggio e digestione anaerobica

Bisogna definire nuovi sistemi di finanziamento per i servizi ambientali ma anche una revisione delle politiche fiscali che incentivi le “soluzioni in cima alla gerarchia di gestione dei rifiuti”. Occorrono altresì politiche per le infrastrutture e gli impianti: gli obiettivi Ue, sia a breve sia a medio-lungo termine, richiedono di pianificare adeguatamente gli investimenti e di ottimizzare la gestione delle capacità di trattamento e smaltimento esistenti.

20%

28%

Termovalorizzazione Discarica

Fonte: elaborazione Althesys su dati Ispra.

Sarebbero anche auspicabili maggiori sinergie tra le varie fasi della filiera, in modo da promuovere una più stretta collaborazione con il settore industriale e commerciale e il raggiungimento di un’adeguata massa critica per la realizzazione di investimenti comuni. Si potrebbe prevedere l’introduzione di un soggetto unico nazionale di regolazione del settore che permetterebbe di superare l’attuale frammentazione di competenze e responsabilità.

Intervista

Intervista ad Alessandro Marangoni Alessandro Marangoni, economista aziendale, specializzato in strategia e corporate finance è Chief Executive Officer di Althesys, società di consulenza strategica e ricerca.

Professor Marangoni, la “chiave di volta” è solo in mano alla politica? Sì e no; sarò più chiaro, nel nostro paese spesso si viene a creare un preoccupante scollamento tra il livello centrale e quello locale della politica a tutto svantaggio dell’applicazione della norma sul territorio. La “chiave di volta” come dice lei è quindi da immaginare più in mano all’amministrazione pubblica, intesa come struttura composta di enti locali, di apparati pubblici ma anche di istituzioni private, del tessuto sociale e industriale locale. Nel vostro studio, le opposizioni dell’opinione pubblica locale sono spesso tra gli ostacoli allo sviluppo infrastrutturale. Quanto è necessaria una corretta informazione? Nonostante l’attenzione e la sensibilità degli italiani alle problematiche ambientali sia migliorata notevolmente rispetto al passato, è opportuno sensibilizzare l’opinione pubblica anche e soprattutto attraverso riviste come la vostra. Trovo anche molto intelligenti le iniziative spesso portate avanti dalle multiutiliy di aprire le porte dei loro impianti di

trattamento e termovalorizzazione alla cittadinanza. Si dovrebbero organizzare anche visite alle discariche per comprendere meglio la differenza rispetto agli impianti più avanzati. Al ministero della pubblica istruzione si sta discutendo della possibilità di introdurre nelle scuole le ore di educazione ambientale? È favorevole? Certamente, purché ciò non vada a discapito di altre fondamentali materie e sia un qualcosa di attraente per i ragazzi ma con fondamento scientifico. Che compiti possiamo darci lei e io come cittadini? Tutti i cittadini possono lavorare a livello “micro”, tra le mura domestiche soprattutto, effettuando con metodo la Rd e insegnando ai propri figli a realizzarla con rigore. Gli addetti ai lavori, giornalisti e studiosi, possono aiutare molto, spiegando loro il perché, i vantaggi e le enormi risorse che potrebbero essere messe disposizione da atteggiamenti corretti e largamente diffusi.

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5

17 32

4

2 24

3

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1

3

27

6 16

1

Numero di stabilimenti per paese Fonte: Feve.

Il riciclo del vetro è a chilometri zero di Marco Gisotti

Marco Gisotti è giornalista professionista e divulgatore, dirige l’agenzia di studi e comunicazione ambientale Green Factor.

Immaginate di bere in un bicchiere nel quale abbiano già bevuto, prima di voi, Domenico Modugno o Salvador Dalì. Immaginate che prima di loro quel recipiente sia servito per dissetare Paolina Borghese, Giordano Bruno o Dante Alighieri. E prima ancora sia appartenuto alla famiglia Giulia: a Tiberio, a Ottaviano, a Giulio Cesare stesso, donatogli, magari, da Cleopatra che lo aveva ricevuto in eredità da tempi ancora più remoti. Il vetro ha natali antichissimi. Sembra che i primi a lavorarlo siano stati gli abitanti della

Mesopotamia anche se i frammenti più vecchi che sono arrivati fino a noi sono dei vetri colorati dell’antico Egitto risalenti al 1500 a.C. Anche se è improbabile che un bicchiere possa davvero percorrere un viaggio così lungo, rimanendo intatto per tanto tempo, il materiale di cui è fatto potrebbe passare, di ciclo in riciclo, attraverso i secoli e tornare a essere un bicchiere, una bottiglia, o un barattolo esattamente come il primo giorno in cui fu prodotto. Se cercassimo il perfetto elemento che rappresenti il concetto di economia circolare, non ne troveremmo uno migliore del vetro.


Case Histories L’industria degli imballaggi in vetro nella Ue, ovvero come rendere reale l’economia circolare

1. PROGETTAZIONE

4. CONSUMO: USO E RIUSO

Il vetro è stato progettato per l’ambiente: le bottiglie di vetro oggi sono più leggere di venti anni fa di almeno il 30% pur mantenendo tutte le loro qualità.

L’87% degli europei preferisce il vetro. Gli imballaggi in vetro contribuiscono indirettamente a un saldo positivo del commercio di € 21 miliardi all’anno (2012). Il vetro può essere riciclato, ricaricato o riutilizzato; una bottiglia di vetro può essere riutilizzata fino a 40 volte.

5. RACCOLTA Oltre il 70% di tutte le bottiglie di vetro vengono raccolte per essere riciclate ogni anno. 2. PRODUZIONE Negli ultimi 25 anni la produzione è aumentata del 39,5% e il settore dà lavoro, in forma diretta e indiretta, a 125.000 persone in tutta Europa. Contribuisce, inoltre, per circa € 1 miliardo all’anno alla finanza pubblica e per € 9,5 miliardi al Pil annuale dell’Ue. In media gli investimenti arrivano a € 610 milioni all’anno, il 10% dei quali per i costi di operatività e manutenzione.

6. RICICLO Il vetro è riciclabile al 100% e all’infinito senza perdita di qualità. Il vetro riciclato è una preziosa materia prima sempre disponibile per il riciclo multiplo.

3. DISTRIBUZIONE

7. MATERIA PRIMA

Più del 50% delle bottiglie e dei vasetti in vetro vengono consegnati a clienti entro una distanza di 300 km.

L’uso di una tonnellata di vetro riciclato permette di risparmiare 1,2 tonnellate di materie prime vergini e di tagliare del 60% la produzione di CO2. In questo modo più del 70% delle materie prime percorre meno di 300 km.

Basti citare i dati più recenti per avere immediata percezione di quanto sia riciclabile. Nel 2012 il tasso di riciclo in Italia ha raggiunto il 71%, superiore anche alla media europea che è stata del 70%. Tant’è che in Europa il nostro paese si posiziona al terzo posto dopo Germania e Francia. Raccogliamo, ogni anno, 1.673.000 tonnellate di vetro da avviare al riciclo e superiamo la media europea anche per quel che riguarda il rottame utilizzato in bottiglie e vasetti, con una media del 59% rispetto al 52% di quella europea.

Numeri che sono stati messi in evidenza da un recentissimo studio – “Contributo dell’industria dei contenitori in vetro in Italia in termini sociali, economici ed ambientali” – realizzato da Ernst& Young sui maggiori mercati europei per conto di Feve, la Federazione europea dei produttori dei contenitori in vetro, e presentato da Assovetro, l’Associazione nazionale degli industriali del vetro aderente a Confindustria. Complessivamente le aziende che in Italia producono contenitori in vetro sono 12, con 27 stabilimenti produttivi distribuiti lungo tutta

Se cercassimo il perfetto elemento che rappresenti il concetto di economia circolare, non ne troveremmo uno migliore del vetro.

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Secondo i genitori italiani la sicurezza viene prima di tutto e il vetro la garantisce meglio di qualunque altro contenitore.

la penisola sebbene sia il Nord a registrare la maggiore concentrazione: la regione con più unità produttive è la Lombardia che ne conta cinque. Nel 2012 la produzione dei contenitori in vetro è ammontata a 3.400.000 tonnellate, vale a dire una produzione giornaliera di 9.600 tonnellate di bottiglie e vasi. Il consumo complessivo è stato di 3.562.000 tonnellate e l’immesso al consumo sul territorio nazionale è stato di 2.212.000 tonnellate: questi due dati evidenziano l’importanza delle esportazioni indirette del settore. In termini economici come si traduce tutto ciò? “La filiera dei contenitori in vetro nel suo complesso” risponde lo studio “contribuisce con 1,4 miliardi di euro al prodotto interno lordo italiano. L’industria, da parte sua, crea più di 700 milioni di euro di valore aggiunto, cui si deve sommare quasi la stessa cifra (705 milioni) derivante dall’intera filiera (supply chain). Per quanto riguarda le esportazioni, i contenitori in vetro seguono il flusso e i volumi dei prodotti che contengono, soprattutto cibi e bevande. Nel 2012 la bilancia commerciale dei prodotti imballati in vetro è stata positiva, raggiungendo la cifra di oltre 5 miliardi di euro. Sul fronte degli investimenti, l’industria ha impiegato negli ultimi 10 anni una media di 89 milioni di euro l’anno, il 70% di questi investimenti è servito a migliorare gli impianti in un’ottica green, soprattutto per installare dispositivi in grado di ridurre in maniera sensibile le emissioni e per favorire l’efficienza energetica”.

Info www.assovetro.it

“Questa ricerca” spiega Franco Grisan, presidente della sezione contenitori in vetro di Assovetro, “dimostra il peso dell’industria italiana dei contenitori in vetro non solo all’interno dell’economia nazionale, ma anche nella ricerca di sempre migliori e più efficienti standard ambientali. È importante che gli stabilimenti di produzione siano presenti su tutto il territorio italiano, creando così valore da nord a sud in termini di occupazione, in termini di maggiore prossimità all’industria alimentare di riferimento e in termini di riciclo del vetro dei contenitori usati”. C’è da aggiungere che in termini di sostenibilità l’industria del vetro è praticamente anche a chilometri zero, o quasi: grazie a una distribuzione omogenea sul territorio degli stabilimenti produttivi, spiega lo studio presentato da Feve e Assovetro, unita a una produzione destinata quasi totalmente (88%) al mercato nazionale e alla vicinanza degli stabilimenti ai loro clienti (il 47% è nel raggio di 300 chilometri). Persino per le materie prime la strada da percorrere è breve, visto che per l’81% sono prodotte localmente.

L’industria del vetro offre anche un contributo importante ai green jobs: l’intera filiera del vetro, infatti, dà da lavorare a 20.200 persone. E la fotografia del settore, allargata all’orizzonte europeo, rappresenta ancora meglio le opportunità offerte dall’economia circolare del vetro. Parliamo 160 impianti in 23 paesi che danno lavoro a 124.300 persone, di cui 46.000 in forma diretta. Per un totale di 40 miliardi di bottiglie e barattoli prodotti, vale a dire 20 Mt, il 70% delle quali da materiali di riciclo. In termini finanziari parliamo di un comparto che, nell’Unione europea a 27, investe ogni anno fra i 500 e i 600 milioni di euro, di cui solo un 10% è per costi di operatività e manutenzione. Gli investimenti effettuati nel corso del periodo 2003-2012, inoltre, sono stati rivolti principalmente a interventi di riqualificazione, come la sostituzione nei forni dei combustibili tradizionali con il gas. Oppure spesi per sistemi di filtraggio dell’aria, il che ha significato una maggiore efficienza energetica e minori emissioni di CO2. Il settore dei contenitori in vetro ha prodotto un contributo indiretto molto importante nell’economia generale dell’Unione, basti pensare che nel 2012 i prodotti che usano imballaggi in vetro hanno registrato un saldo commerciale positivo di oltre 21 miliardi di euro. Ma ormai non si tratta solo di un fattore economico. Vuoi perché il vetro sintetizza in maniera concreta il concetto di “trasparenza”, vuoi perché ormai l’informazione circola fra tutti i cittadini, il vetro piace. In un recente sondaggio, condotto in 11 paesi europei fra i quali il nostro dall’agenzia InSites Consulting per conto di Feve, secondo i genitori italiani la sicurezza viene prima di tutto e il vetro la garantisce meglio di qualunque altro contenitore. Nell’indagine, infatti, “il 79% afferma di preferire i cibi per bambini conservati in vetro e di evitare, per il 62%, l’acquisto di alimenti per bambini in plastica o in altri materiali diversi dal vetro”. “Il vetro” spiega lo studio “è percepito dagli europei come il materiale da imballaggio a ‘prova di migrazioni pericolose’; otto consumatori su dieci – oltre 9 per l’Italia – ritengono che le interazioni di sostanze chimiche costituiscano un pericolo per la salute. Secondo il sondaggio gli italiani preferiscono il vetro a tutti gli altri materiali, sia per contenere gli alimenti (consenso del 53% degli intervistati), sia per contenere bevande (76%)”.


Case Histories La triplice impronta del vetro nell’Unione europea Fonte: Feve, 2015.

Lavoratori (equivalenti a tempo pieno) 43.600 63.000 17.700

Impronta sociale

125.000 posti di lavori

Occupati diretti Occupati indiretti Occupati indotti

140.000

120.000

100.000

80.000

60.000

40.000

20.000

0

Valore aggiunto lordo (M €) 4.000 4.400 1.000

Oltre € 9,4 miliardi di Valore aggiunto lordo (VAL) generati

Impronta economica

VAL diretti VAL indiretti VAL indotti

10.000

500 - 610 M€ / anno media degli investimenti industriali

Contenitori in vetro realizzati con materie prime provenienti da meno di 300 km

300 km

Impronta ecologica

9.000

8.000

7.000

6.000

5.000

Rottami incorporati 2012

4.000

3.000

2.000

1.000

0

€ 0,75 – 1 miliardo / anno di finanziamento pubblico

Contenitori in vetro destinati a clienti entro 300 km di distanza

300 km Oltre 12,5 milioni di tonnellate di rottame di vetro incorporati nei forni

52%

circa 74%

circa 56%

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materiarinnovabile 02. 2015

Rubriche Profondo blu

L’economia blu vale 500 miliardi Ilaria Nardello è specialista della ricerca industriale presso la National University of Ireland, Galway. Oceanografa con tredici anni di esperienza tra Usa and Ue, oggi sostiene l’interazione tra industria e università per creare innovazione e sostenibilità, con un interesse particolare per le applicazioni provenienti dall’uso delle risorse marine.

Con la Strategia per la Crescita Blu (2012), la Commissione europea ha identificato il grande potenziale dei mari e degli oceani per contribuire al piano di lungo termine per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Secondo la Direzione generale degli affari marittimi e della pesca (DG Mare), l’economia blu rappresenta circa 5,4 milioni di posti di lavoro e genera un valore aggiunto lordo di circa 500 miliardi di euro l’anno. La Commissione europea, con il uso studio “Crescita Blu” ha valutato che l’industria del mare genera tra il 3-5% del Pil europeo (27 paesi), con variazioni dall’1,2% dell’Irlanda (2007), al 4,2% della Gran Bretagna. L’obiettivo è di raggiungere valori vicini al doppio di queste cifre, entro il 2020. Tuttavia, stime più precise sono necessarie, ma purtroppo mancanti, se vogliamo identificare il volume d’affari che questo settore genera. I dati economici sono indispensabili per la gestione dei nostri sforzi di sviluppo, e per distribuire adeguatamente i fondi per la ricerca e l’innovazione. Qualsiasi investimento si giustifica quantificando il probabile ritorno, sia in beni materiali sia immateriali. Tuttavia, solo una piccola parte del vasto dominio trans-settoriale dell’economia blu è attualmente inventariata, controllata e descritta. La punta dell’iceberg dell’economia blu è rappresentata dalle attività più tradizionali come la pesca, l’acquacoltura e il trasporto marittimo. Le attività più innovative, con il loro grande potenziale di crescita, sono invece solitamente escluse dai resoconti. La mancanza di dati sull’economia generata dalla biotecnologia marina è dovuta a una reale difficoltà di catturare le tendenze di queste attività produttive. Come riportato dal progetto Interreg Ue Atlantic Blue Tech (ABT), questo settore si basa principalmente su micro e piccole imprese, che spesso non hanno obbligo di rendiconto. Inoltre, quanto più sia innovativa la loro attività, maggiormente veloce appare la loro evoluzione, con aziende che nascono e vengono passate di mano o dismesse, nel breve periodo. Diversi paesi europei hanno interiorizzato le direttive della Commissione adottando una specifica strategia marina. In Europa, questi includono Irlanda e Portogallo. La Norvegia ha, anche, da tempo, stabilito una strategia di ricerca di biotecnologia marina. Addirittura,

la visione europea per il ruolo dei nostri oceani ha oltrepassato i confini europei e ispirato la politica di paesi anche molto lontani, e con diverse velocità di sviluppo, a livello globale. Dal Canada, che ha chiamato “i nostri oceani: il nostro futuro”, e promosso una conferenza per l’innovazione marina nel 2013; ai piani più recenti del governo del Bangladesh, per una politica strutturata di utilizzo del loro ecosistema marino e dei suoi servizi. Un documento orientativo sull’economia marina, predisposto dal Ministero degli affari esteri del Bangladesh, riporta una zona economica esclusiva di 100.000 chilometri quadrati; e il Golfo del Bengala come il più esteso tra i 64 Grandi econo-sistemi marini (LMEs), classificati nel mondo dalla Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco. Data la crescente attenzione che i mari stanno attirando, è di vitale importanza che la raccolta dei dati sia ottimizzata per il monitoraggio del loro stato ecologico e il loro valore socieconomico. È anche importante che la diversità del dominio dell’economia blu, che esiste al di là dei tradizionali settori della pesca e dell’acquacoltura, guadagni rappresentanza nell’Osservatorio sulla Bioeconomia della Commissione europea. Tuttavia, le due principali strategie Ue, Crescita Blu da un lato e Bioeconomia dall’altro, sembrano mancare un riferimento incrociato o una comunione di dati. Sarà necessario un ulteriore sforzo per scoprire e comunicare la complessità delle attività produttive derivanti dall’utilizzo delle risorse biologiche marine. A questo proposito, ci sono grandi aspettative che la prima Valutazione mondiale degli oceani, curata dalle Nazioni Unite, fornisca un modello di lavoro adeguato per descrivere lo stato di tutti i mari del mondo, valutandone al contempo gli aspetti sia ambientali sia economici e sociali; ovvero, inquadrando senza ombre il problema della sostenibilità della crescita blu.


Rubriche

Bieconomia e ambiente

Illegale un sacchetto su due nella grande distribuzione Stefano Ciafani, ingegnere ambientale, è Vicepresidente nazionale di Legambiente. È stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della XIV legislatura e membro del Comitato di indirizzo sulla gestione dei Raee.

Il dossier completo è consultabile al seguente link: http:// www.legambiente. it/contenuti/dossier/ sacchetti-illegali

Su 37 sacchetti per la spesa prelevati in diversi punti vendita della grande distribuzione organizzata in 7 regioni, ben 20, pari al 54% del totale, sono risultati non conformi alla legge che ha messo al bando gli shopper non compostabili. È questo il risultato della campagna di monitoraggio organizzata da Legambiente, grazie al lavoro dei suoi circoli locali e comitati regionali, tra la fine di novembre 2014 e le vacanze natalizie. L’obiettivo era valutare il rispetto della legge, ormai in vigore da anni, che ha permesso all’Italia di mettere al bando i sacchetti di plastica che purtroppo continuano a essere ancora molto diffusi. Sono cinque le regioni dove sono stati prelevati i sacchetti non conformi alla legge: Campania (7 sacchetti), Basilicata (6), Puglia (3), Calabria (3) e Lazio (1). I sacchetti prelevati in Lombardia e Veneto invece sono risultati regolari. A livello provinciale la situazione è la seguente: Potenza (6 sacchetti fuori legge), Avellino, Bari e Napoli (3), Vibo Valentia (2), Benevento, Catanzaro e Roma (1). Suddividendo i 20 casi di sacchetti fuori legge per punti vendita delle aziende della grande distribuzione, si ottiene questa classifica: Sigma (5 sacchetti non conformi), A&O (3), Crai, Eurospin e Sisa (2), Conad, Despar/Eurospar, Eurocisette, Imagross, M.A. Supermercati/Gros, Maxisidis/Intersidis (1). I dati del nostro monitoraggio dimostrano una diffusa situazione di illegalità nel settore degli shopper. E questo è evidente nonostante abbiamo evitato di fare verifiche sui tanti piccoli negozi commerciali e sui mercati rionali, dove la situazione è visibilmente ancor più grave anche a causa di un’azione capillare da parte di alcuni distributori che vendono, anche online, sacchetti palesemente fuori legge. Il bando sui sacchetti di plastica è in vigore da anni, la norma è molto chiara e le multe previste dall’agosto 2014 sono salate. La legge che ha messo al bando la commercializzazione dei sacchetti non biodegradabili e non compostabili venne approvata nel dicembre del 2006 a seguito di un emendamento dell’allora senatore Francesco Ferrante alla legge Finanziaria 2007 (n. 296/2006). Alla legge Finanziaria 2007 sono seguite diverse norme, la principale delle quali (decreto legge n. 2 del 25/1/2012, convertito nella legge n. 28 del 24/3/2012) ha ulteriormente definito i dettagli del bando. La proposta di

direttiva Ue definita nella primavera del 2014, alla fine della scorsa legislatura europea, ha fatto proprio l’impianto della normativa italiana basato sul bando dei sacchi non compostabili. Gli unici sacchetti commercializzabili secondo l’art. 2 della legge n. 28 del 2012 sono: i sacchi compostabili monouso per l’asporto merci realizzati con polimeri conformi alla norma armonizzata Uni En 13432:2002, secondo le certificazioni rilasciate dagli organismi accreditati; i sacchi riutilizzabili realizzati in plastica tradizionale che abbiano la maniglia esterna alla dimensione utile del sacco e superiore a 200 micron se destinati all’uso alimentare e 100 micron se destinati ad altri usi; i sacchi riutilizzabili realizzati in plastica tradizionale che abbiano la maniglia interna alla dimensione utile del sacco e spessore superiore ai 100 micron se destinati all’uso alimentare e 60 micron se destinati agli altri usi. Inoltre, per favorire il riutilizzo del materiale plastico proveniente dalle raccolte differenziate i sacchi riutilizzabili realizzati in polimeri tradizionali devono contenere una percentuale di plastica riciclata di almeno il 30% per quelli a uso alimentare e di almeno il 10% per gli altri usi (art. 2, comma 3 della legge n. 28/2012). Per chi commercializza sacchetti non conformi o false “buste-bio”, grazie al decreto competitività del governo Renzi, a partire dal 21 agosto 2014 sono previste sanzioni amministrative pecuniarie che vanno dai 2.500 ai 25.000 euro. La multa può essere aumentata fino al quadruplo del massimo (quindi 100.000 euro) se la violazione del divieto riguarda quantità ingenti di sacchi per l’asporto oppure un valore della merce superiore al 20% del fatturato del trasgressore. È arrivato il momento di far rispettare una legge che permette di ridurre l’inquinamento da plastica, di migliorare la raccolta differenziata della frazione organica dei rifiuti e la produzione di compost di qualità, promuovendo la riconversione industriale verso innovativi processi di chimica verde da fonti rinnovabili, come già avvenuto, per esempio, nel polo industriale di Porto Torres. Per fare questo occorre che le forze dell’ordine e la magistratura si attivino una volta per tutte per fermare questa diffusa situazione di illegalità.

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materiarinnovabile 02. 2015

LE NOVITÀ DI EDIZIONI AMBIENTE 2 °C

Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l'economia di Gianni Silvestrini

bioeconomia

La chimica verde e la rinascita di un’eccellenza italiana di Beppe Croce, Stefano Ciafani, Luca Lazzeri

www.edizioniambiente.it


Rubriche

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IN COLLABORAZIONE CON L A NAZIONALE ITALIANA DI PALLANUOTO

SE GETTI VIA L’OLIO USATO DELLA TUA AUTO INQUINI SEI PISCINE OLIMPICHE. A volte basta poco per inquinare tanto: un cambio d’olio dell’auto gettato in un tombino o in un prato. Un gesto insensato che rischia di inquinare una superfice enorme di 5000 metri quadri. Invece se raccolto correttamente l’olio usato è una preziosa risorsa perché con il riciclo diventa nuovo lubrificante. Così si risparmia sull’importazione del petrolio e anche l’ambiente ci guadagna. Aiutaci a raccoglierlo, non mandare a fondo il nostro futuro: numero verde 800.863.048 - www.coou.it

RACCOGLIAMO L’OLIO USATO. DIFENDIAMO L’AMBIENTE.


GRAZIE AL SISTEMA CONAI, I RIFIUTI NON FINISCONO PIÙ IN DISCARICA. FINISCONO IN VETRINA. Acciaio, alluminio, carta, legno, plastica, vetro. Da oltre 15 anni, il Conai coordina e promuove gli sforzi di imprese, comuni e cittadini per riciclare i rifiuti di imballaggio e restituirli a nuova vita. È un circolo virtuoso che genera bellezza e buona economia: nel 2013, in Italia è stato recuperato il 77,5% degli imballaggi immessi al consumo,

con una percentuale di riciclo del 67,6%. Con 3 imballaggi su 4 avviati a riciclo e valorizzazione, recuperati su tutto il territorio nazionale, il sistema Conai ha generato in 15 anni un beneficio economico e ambientale di 15,2 miliardi di Euro, evitando emissioni di CO2 per complessivi 125 milioni di tonnellate.

www.conai.org


r2_SlowFood_220x287_05_2012_HR.pdf

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14/05/12

09:31

Dal 1989 i ricercatori Novamont lavorano ad un ambizioso progetto che unisce industria, chimica, agricoltura e ambiente: “Chimica vivente per la qualità della vita”. Obiettivo: la creazione di prodotti a basso impatto ambientale. Dalla ricerca Novamont la nuova bioplastica Mater-Bi ®. Mater-Bi® è una famiglia di materiali completamente biodegradabili e compostabili, contenenti materie prime di origine rinnovabile come l’amido e sostanze derivate da oli vegetali. Mater-Bi® ha le stesse prestazioni delle plastiche tradizionali, ma richiede meno energia, contribuisce alla riduzione dell’effetto serra e alla fine del suo ciclo vitale si trasforma in fertile humus. Il sogno di tutti diventa realtà.

Living Chemistry for Quality of Life. www.novamont.com

Inventor of the year 2007

Mater-Bi® è biodegradabile e compostabile, conforme alla norma EN 13432.

05_2012


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