Materia Rinnovabile #4

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 04 | giugno 2015 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Lester Brown: la Great Transition è in atto •• Pavan Sukhdev: le corporation guideranno l’economia circolare? •• Natural Recall: alla ricerca delle affinità elettive con la natura

Liberiamoci dai dinosauri industriali •• 80 mila miliardi di dollari: il valore della nuova chimica •• 10% di biocarburanti senza rimetterci neanche un panino •• Cresce il debito ecologico del Mediterraneo

655 milioni di dollari per un cibo equo e solidale

Euro 12,00 - Versione online gratuita su www.materiarinnovabile.it

•• Il packaging del futuro è 100% biobased •• La carta di Möbius •• Made in Food Waste: la nuova vita del rifiuto alimentare

Alghe: meno raccolta più produzione •• La top ten dei rifiuti in spiaggia


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14/05/12

09:31

Dal 1989 i ricercatori Novamont lavorano ad un ambizioso progetto che unisce industria, chimica, agricoltura e ambiente: “Chimica vivente per la qualità della vita”. Obiettivo: la creazione di prodotti a basso impatto ambientale. Dalla ricerca Novamont la nuova bioplastica Mater-Bi ®. Mater-Bi® è una famiglia di materiali completamente biodegradabili e compostabili, contenenti materie prime di origine rinnovabile come l’amido e sostanze derivate da oli vegetali. Mater-Bi® ha le stesse prestazioni delle plastiche tradizionali, ma richiede meno energia, contribuisce alla riduzione dell’effetto serra e alla fine del suo ciclo vitale si trasforma in fertile humus. Il sogno di tutti diventa realtà.

Living Chemistry for Quality of Life. www.novamont.com

Inventor of the year 2007

Mater-Bi® è biodegradabile e compostabile, conforme alla norma EN 13432.

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Ecopneus, per una Green economy fatta di persone

247 mila tonnellate di Pneumatici Fuori Uso recuperate da Ecopneus nel 2013, consentendo un risparmio di 110 milioni di Euro ed evitando l’emissione di 347 milioni di tonnellate di CO 2 equivalenti grazie all’uso di gomma riciclata. Merito dell’attenta gestione di

una rete di 94 aziende con 689 addetti che formano la filiera Ecopneus: un sistema virtuoso, in linea con le strategie Europee verso una recycling society.

Ecopneus, contributo concreto alla Green economy.


Nel 2015, torna al Centro Congressi SQUARE (Bruxelles)

l’evento europeo leader nel campo della bioeconomia partecipazione al Forum europeo sul biotech industriale e la bioeconomia “La (EFIB) e programmi di partenariato stimolano la collaborazione attraverso tutta la catena del valore e sono quindi indispensabili per permetterci di mantenere la promessa sulla bioeconomia.

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su Materia Rinnovabile Codice CD15RENM EFIB è l’evento leader a livello europeo per il biotech industriale e la bioeconomia. Promuove il dialogo tra i decisori politici e una vasta gamma di stakeholder impegnati nell’attuale catena del valore della biotecnologia e nuovi interlocutori. Partecipa a ottobre per:  Approfondire la tua conoscenza di questo settore entusiasmante e in continua

evoluzione  Partecipare alla creazione di una bioeconomia più solida e sostenibile  Esplorare le sfide da affrontate per sviluppare una bioeconomia europea

competitiva e leader a livello globale  Generare nuove opportunità di affari poiché saranno presenti tutti gli

stakeholder dell’intera catena del valore della bioeconomia  Aiutare a sviluppare mercati per i prodotti e procedimenti biologici e per

diffondere il biotech.

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8^ edizione annual

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Forum Europeo sul biotech e la bioeconomia

27-29 ottobre 2015, SQUARE, Bruxelles

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Il Cluster Tecnologico Nazionale della Chimica Verde SPRING ha l’obiettivo di incoraggiare la crescita e lo sviluppo di una bioindustria italiana attraverso un approccio olistico all’innovazione, di rilanciare la chimica nazionale sotto il segno della sostenibilità ambientale, sociale ed economica e di stimolare la ricerca e gli investimenti in nuove tecnologie, in costante dialogo con gli attori del territorio e in linea con i più recenti indirizzi dell’UE in materia di bioeconomia.

www.clusterspring.it


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Sommario

materiarinnovabile 04|giugno 2015 Free magazine bimestrale www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Antonio Cianciullo

Hanno collaborato a questo numero Mario Abreu, Filippo Bernocchi, Gianfranco Bologna, Emanuele Bompan, Lester R. Brown, Mario Bonaccorso, Marco Capellini, Rafael Cayuela, Stefano Ciafani, Marco Codognola, Giovanni Corbetta, Beppe Croce, Joanna Dupont Inglis, Alessandro Farruggia, Sergio Ferraris, Roberto Giovannini, Giuseppe Guzzetti, Giorgio Lonardi, Carlo Mango, Massimo Medugno, Carlo Montalbetti, Ilaria Nardello, Mauro Panzeri, Federico Pedrocchi, Carlo Pesso, Chiara Piccini, Sirpa Pietikäinen, Roberto Rizzo, Pavan Sukhdev, Massimo Zonca

Think Tank

Direttore editoriale Marco Moro

Ringraziamenti Silvia Brunozzi, Ilaria Catastini, Dario Bolis, Aldo Femìa, Stefania Maggi, Aino Valtanen Caporedattore Maria Pia Terrosi

Antonio Cianciullo

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La cultura dello scarto

a cura di Emanuele Bompan

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Il pianeta che vedremo Intervista a Lester Brown

a cura di Marco Moro

14

Il futuro è in mano alle corporation Intervista a Pavan Sukhdev

Gianfranco Bologna

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Il capitale è naturale

Roberto Giovannini

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“Possiamo arrivare al 70% di recupero. Sembra poco? Io ci metterei la firma”

Mauro Panzeri

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Quando la natura chiama

a cura di Joanna Dupont-Inglis

28

In diretta da Berlaymont “Stacchiamo la spina ai dinosauri industriali” Intervista a Sirpa Pietikäinen

a cura di Mario Bonaccorso

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La nuova chimica vale 80 mila miliardi di dollari Intervista a Rafael Cayuela

Beppe Croce

34

Il valore nascosto delle piante

Chiara Piccini

38

10% di biocarburanti senza rimetterci neanche un panino

Carlo Pesso

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Il new business ha fame di circolarità

Alessandro Farruggia

46

La guerra nascosta del debito ecologico fa crescere le tensioni nel Mediterraneo

Giorgio Lonardi

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655 milioni di dollari per un cibo equo e solidale

Mario Bonaccorso

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La bioeconomia arriva nel frigo: il packaging è 100% biobased

Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi Design & Art Direction Mauro Panzeri (GrafCo3), Milano Impaginazione Michela Lazzaroni

Coordinamento generale Anna Re Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabili relazioni internazionali Federico Manca, Carlo Pesso Ufficio stampa Silverback www.silverback.it info@silverback.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333

Policy

Traduzioni Erminio Cella, Laura Coppo, Laura Fano, Franco Lombini, Elisabetta Luchetti, Mario Tadiello

Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti per la versione su carta (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/modulo-abbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright © Edizioni Ambiente 2015 Tutti i diritti riservati


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Sergio Ferraris

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La carta di Möbius

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La carta green che dà nuova vita agli scarti agroindustriali

Roberto Rizzo

66

L’economia circolare a portata dei Comuni. E a costo zero

Marco Capellini

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Made in food waste

a cura della redazione

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Acqua, energia, materia e occupazione dagli pneumatici fuori uso

Ilaria Nardello

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Profondo blu Alghe: meno raccolta, più produzione

Stefano Ciafani

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Bioeconomia e ambiente Ombrelloni circondati da rifiuti

Federico Pedrocchi

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Rubriche

Case Histories

Roberto Rizzo

Partner

Networking Partner

Media Partner

Pillole di innovazione Pellicole commestibili? Le hanno inventate le zucchine!

Sostenitori

Stampato da Geca Industrie Grafiche con inchiostri a base vegetale privi di oli minerali. Il sistema produttivo di Geca non produce scarichi e ogni sfrido delle nostre lavorazioni è immesso in un processo di raccolta e riciclo. www.gecaonline.it

Stampato su Crush, carte ecologiche di Favini realizzate con sottoprodotti di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero: copertina Crush Mais 250 g/m2, interno Crush Mais 120 g/m2. www.favini.com

In copertina Maria Grønlund, Cosmos, particolare. Da Natural Recall - The Book (si veda articolo pag. 24)


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materiarinnovabile 04. 2015

Editoriale

M R La cultura dello scarto di Antonio Cianciullo

La “cultura dello scarto”. È potente la sintesi di papa Francesco: con due sostantivi dice tutto. È già stato scritto molto sulla critica alla degenerazione tecnocratico-finanziaria dell’economia contenuta nell’enciclica Laudato si’. E sono stati sottolineati i passaggi con i quali questo pontificato sta imprimendo un salto nel dibattito sul nostro rapporto con gli ecosistemi e con le altre specie con cui condividiamo il pianeta. Ognuno di questi temi meriterebbe un’attenzione particolare. A cominciare dal coraggio con cui il papa ha affrontato la questione del cambiamento climatico: è stato tra i pochi a sottolineare il nesso con l’aumento drammatico dei flussi di profughi che rischiano di destabilizzare l’Europa denunciando “l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale”. E le sue parole sulla necessità di uscire dalla dipendenza da petrolio e carbone sono inequivocabili: “la tecnologia basata sui combustibili fossili, molto inquinanti – specie il carbone, ma anche il petrolio e, in misura minore, il gas –, deve essere sostituita progressivamente e senza indugio”. Su Materia Rinnovabile è opportuno però sottolineare un aspetto a cui è stata dedicata poca attenzione nelle interpretazioni ma non nel testo. Parlando di “cultura dello scarto” e di “logica usa e getta” papa Francesco allude a una serie di temi che affiorano più volte nelle pagine dell’enciclica. La lotta contro la pigrizia mentale di chi risolve i problemi di approvvigionamento produttivo con il sacco della natura è più volte condannata. Per un fatto di dignità (“riutilizzare qualcosa invece di disfarsene rapidamente, partendo da motivazioni profonde, può essere un atto di amore che esprime la nostra dignità”). Per la difesa delle radici della nostra esistenza (“la terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia”). Per le tensioni legate al saccheggio di materie prime che si fanno sempre più scarse

(“è prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni”). Ma soprattutto per la critica a un modello industriale che ha tradito le sue premesse rinnegando proprio il concetto di efficienza a cui sembrava disposto a sacrificare tutto: “Il funzionamento degli ecosistemi naturali è esemplare: le piante sintetizzano sostanze nutritive che alimentano gli erbivori; questi a loro volta alimentano i carnivori, che forniscono importanti quantità di rifiuti organici, i quali danno luogo a una nuova generazione di vegetali. Al contrario, il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare. Affrontare tale questione sarebbe un modo di contrastare la cultura dello scarto che finisce per danneggiare il pianeta intero, ma osserviamo che i progressi in questa direzione sono ancora molto scarsi”. “Cultura dello scarto” potrebbe dunque essere considerato un ossimoro. Di fatto è una mancanza di cultura, un limite nella comprensione dei criteri di efficienza e dunque di convenienza. Ma questo limite non corrisponde al limite attuale della conoscenza. Non è un errore inevitabile. Mantenere il livello attuale di spreco (decine di miliardi di tonnellate di materia sottratte ogni anno alla custodia stabile degli ecosistemi per trasformarle in decine di miliardi di tonnellate di rifiuti che alterano l’equilibrio dell’atmosfera e della terra) è una scelta funzionale agli interessi di una generazione industriale che cerca di ritardare l’evoluzione verso un approccio più maturo alla produzione.


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E, anche da questo punto di vista, il messaggio dell’enciclica è efficace. Il nuovo approccio all’economia circolare è fatto di tecnologia (quella che va verso l’economia circolare, l’economia di condivisione, l’economia basata sull’utilizzo accorto delle risorse rinnovabili). Ma anche di consonanza con la natura (“dimentichiamo che noi stessi siamo terra. Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora”). E di nuovi stili di vita (“la sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario”). Laudato si’ è un testo che parla chiaro e forte. Ai cattolici e ai non cattolici. E segna dunque un momento importante nel percorso di riflessione

sulla questione ambientale. Resta da rilevare il deficit di attenzione e di autorevolezza su questi temi da parte del mondo della politica. Anche di fronte alle sollecitazioni che vengono dal mondo laico. Per esempio Achim Steiner, il direttore dell’Unep, il Programma ambiente dell’Onu, negli ultimi tempi ha sottolineato più volte la necessità di accelerare il passaggio a un’economia circolare facendo notare che lo scorso secolo ha visto una rapida trasformazione delle nostre relazioni con il mondo naturale, con un’escalation nell’utilizzo delle risorse: “Ora stiamo operando al 40% al di sopra delle disponibilità della Terra. Se la popolazione mondiale e i livelli di consumo continueranno così, il consumo annuale globale delle risorse potrebbe arrivare a 140 miliardi di tonnellate nel 2050, il triplo rispetto al 2000”.

Giuseppe Picone (Roma, 1926-2008), piatto in ceramica Pretini


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materiarinnovabile 04. 2015

Lester Brown a 81 anni ha ancora una chiara visione sul futuro del nostro sviluppo. Ne ha parlato con noi ad aprile nel suo studio all’Earth Policy Institute, che il primo luglio 2015 chiuderà perché, come annuncia sorridendo, “è ora di andare in pensione”.


Think Tank

a cura di Emanuele Bompan

Il PIANETA che vedremo

Intervista a Lester Brown Nei prossimi 10 anni assisteremo a cambiamenti di un’intensità senza precedenti: la Great Transition è in atto. Rinnovabili: oggi gli investimenti arrivano anche dalle grandi banche. All’Expo bisognerebbe parlare di acqua che rappresenta il limite principale all’aumento della produzione di cibo. Ed è questa la vera priorità visto che 3 miliardi di persone vogliono salire nella catena alimentare e mangiare più proteine. Lester R. Brown è stato definito dal Washington Post come “uno dei pensatori più influenti del mondo”. Nel 1974 ha fondato e presieduto il Worldwatch Institute, considerato il più autorevole osservatorio sui trend ambientali del nostro pianeta, e successivamente, nel 2001, l’Earth Policy Institute. Autore di moltissime pubblicazioni di grande importanza (in buona parte pubblicate in Italia da Edizioni Ambiente) Lester Brown ha dato un contributo fondamentale alla stessa definizione del concetto di sviluppo sostenibile. La sua autobiografia (Breaking New Ground) e il suo ultimo libro (The Great Transition) sono ancora in attesa di essere tradotti nella nostra lingua.

Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008.

Cibo, acqua, energia. C’è un solo uomo capace di fare previsioni su questo complesso scenario: Lester Brown. Lungo oltre mezzo secolo di attività ha costantemente analizzato il rapporto tra attività umane, popolazione, risorse ed equilibri ambientali del pianeta. A 81 anni ha ancora una chiara visione sul futuro del nostro sviluppo. L’abbiamo incontrato in aprile, nel suo studio all’Earth Policy Institute che il primo luglio 2015 chiuderà perché, come annuncia sorridendo, “è ora di andare in pensione”. Nel suo ultimo libro, The Great Transition, ha analizzato la transizione verso l’abbandono dei combustibili fossili. Quale tecnologia definirebbe di tendenza in questo momento? E quale ha la maggiore speranza di successo? “Beh, forse la cosa più eccitante in questo momento è il crescente uso di energia solare: aumenta nel mondo del 30% ogni anno. La ragione principale per cui ciò sta accadendo è che il costo dei pannelli solari è sceso e ora da un pannello solare posizionato sul tetto si può avere energia più economica. La situazione è interessante perché man mano che più persone installano questi pannelli, il mercato per le utility si restringe, anche se le utility devono comunque mantenere le stesse infrastrutture. Quindi sono costrette ad alzare i prezzi: più li alzano, più la gente mette i pannelli sui tetti. Così per le utility è una specie di spirale mortale. Questa storia si sta replicando in vari luoghi nel mondo. Intendo dire: l’idea che la Cina

potrebbe produrre più energia dalle sue centrali eoliche che da quelle nucleari è entusiasmante. Se guardassimo un grafico, vedremmo che la curva di crescita dell’energia nucleare in Cina è molto graduale e stabile, mentre quella dell’energia eolica è esplosiva: sale costantemente e velocemente. Non molti se lo aspettavano. D’altronde la Cina è molto ventosa, specie nella parte settentrionale e occidentale. E grazie alle tecnologie di trasmissione ad alto voltaggio si possono collegare le centrali eoliche alle principali città: sicuramente Pechino, ma anche le città sulla costa meridionale come Shanghai.” Vista questa crescita costante dell’eolico e del solare, quali sfide si presentano in termini di materiali e di infrastrutture tecnologiche? “Una delle sfide legate all’uso dell’energia solare riguarda cosa fare durante le ore notturne. L’impiego di batterie rappresenta una possibile soluzione. Un’altra può essere il pompaggio dell’acqua: utilizzare di notte – quando non c’è richiesta – l’elettricità eccedente per accumulare energia cinetica.” La sua opinione sui biocarburanti di prima generazione è decisamente critica, ma molti agricoltori li vedono ancora come un’interessante opportunità. “Il limite più rilevante all’uso di biocarburanti è la fotosintesi. I ritorni legati alla fotosintesi non sono alti, nemmeno nella Corn Belt degli Stati Uniti, territorio immensamente produttivo. Mettiamola così. Se un agricoltore del Midwest degli Stati Uniti

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materiarinnovabile 04. 2015 coltiva granoturco e ogni cento metri mette turbine eoliche nel suo terreno, guadagnerà molto più dalle turbine che dal granoturco.” Inoltre basta una superficie limitata di suolo. “Esatto. Nella maggior parte dei casi un impianto eolico occupa il 30% del terreno, sia per collocare le turbine sia per realizzare le strade sterrate che le colleghino per poter svolgere la manutenzione. Per questo molti agricoltori sono stimolati a considerare l’eolico come fonte di guadagno. Lo stesso per gli allevatori che spesso guadagnano più dalle royalty dell’eolico che dalla vendita del bestiame (di solito gli acquirenti comprano le turbine e poi pagano le royalty agli allevatori). Così l’aspetto economico sta aumentando la competizione tra le comunità delle aree rurali dei paesi ad alta densità di allevamenti per vedere chi riesce a ottenere le turbine eoliche nella propria area, nella propria comunità, perché così avrà le royalty.”

Foto di Steve Gottlieb

Lester Brown nel 1988, con le prime edizioni del rapporto State of the World

Per produrre le turbine, le batterie e i pannelli solari abbiamo bisogno di quantità sempre maggiori di materiali che in alcuni casi – per esempio il litio – sono piuttosto rari. Vediamo che qualcosa sta cambiando in termini di sostenibilità e alcuni pensano a come riciclare questi materiali. “Abbiamo tecnologie molto intelligenti in termini di materiali. Mi lasci fare un esempio un po’ diverso per illustrare quello che sta succedendo. Sette biciclette in un programma di bike sharing riducono di una unità il numero di auto

in circolazione. E la generazione più giovane non è interessata alle auto. Se analizziamo il materiale necessario in un sistema di trasporto ecologico vediamo che per una bicicletta servono circa 13 chilogrammi di acciaio, gomma e poco più, mentre per un’auto ci vogliono circa 900 chilogrammi di acciaio, gomma e così via. Quindi, nel caso di un’economia basata sull’uso della bicicletta, la quantità di materiale utilizzato è infinitamente inferiore rispetto al consumo di materiale tipico di un’economia incentrata sulle automobili.” Ma ci sono altre tecnologie pulite più complesse che ancora richiedono grandi quantità di materiali rari. “Esatto, alcuni materiali rari sono impiegati nei pannelli fotovoltaici e in altre applicazioni. Ma la cosa entusiasmante a questo proposito è che – indipendentemente da questo – la quantità di energia solare o eolica che utilizziamo oggi non influisce sulla quantità di energia disponibile in futuro. E questo non succede con i combustibili fossili: più se ne usano e meno ce ne sono. Inoltre più la quantità residua si riduce e più sale il prezzo. Inoltre questi materiali possono essere riutilizzati o riciclati. Il petrolio no. Le cose stanno cambiando rapidamente e questo è appassionante per me che da mezzo secolo mi occupo di questi problemi e che ho vissuto il periodo in cui le emissioni di carbonio sono aumentate e poi la temperatura ha cominciato a salire rendendo concretamente visibili i primi segni del cambiamento climatico globale. Ma ora improvvisamente abbiamo la possibilità di fermarlo trovando sistemi per ridurre le emissioni di carbonio. Ecco perché questo è un periodo eccitante, ed ecco perché ho intitolato il mio ultimo libro The Great Transition: la transizione è in corso.” Più rinnovabili, più economia circolare. Il mondo ha cominciato ad agire seguendo un piano B molto simile al piano B che lei aveva delineato nel suo omonimo libro. “I segnali più interessanti arrivano da Wall Street. La finanza sta iniziando a sostenere le iniziative ecosostenibili in modo consistente. Oggi le grandi compagnie investitrici e le grandi banche stanno investendo massicciamente sulle rinnovabili. Ci sono anche diversi miliardari, come Warren Buffett – probabilmente l’uomo più ricco del mondo – che finanziano queste tecnologie: ha già sovvenzionato con 15 miliardi di dollari le energie rinnovabili nel sud ovest degli Stati Uniti e ha affermato “Aggiungerò altri 15 miliardi”. Parliamo di miliardi, non di milioni. Poi ci sono altre persone come Ted Turner che investono nelle centrali fotovoltaiche. O Phil Anschutz, di Denver, diventato miliardario grazie al carbone e al petrolio e che ora sta costruendo in Wyoming centrali eoliche per migliaia di megawatt di potenza e linee per la trasmissione dell’energia prodotta. Come sottolineo all’inizio del libro, nel prossimo decennio vedremo mezzo secolo di cambiamenti.”


Think Tank

1965, nella stanza ovale della Casa Bianca: Lester Brown premiato per il suo lavoro nell’amministrazione federale, riceve le congratulazioni del Presidente Lyndon B. Johnson

Ritiene che a Parigi (alla Cop21) si arriverà a un patto solido riguardo ai cambiamenti climatici? “Non penso che la conferenza di Parigi farà molta differenza. Quello che sta succedendo oggi è così forte e così fortemente guidato dal mercato che i negoziati di Parigi sono diventati quasi irrilevanti. È difficile trovare situazioni in cui un gran numero di paesi si riuniscono e negoziano qualcosa: questo è molto significativo. Ma più persone ci sono intorno a un tavolo, meno flessibile risulta il gruppo, quindi nel migliore dei casi si ottengono piccolissimi cambiamenti. Sempre che il negoziato non vada a monte, come a volte succede.” Pensa che il calo del prezzo del petrolio rallenterà in qualche modo la transizione? “Non molto, perché la gente sa che le scorte di petrolio sono limitate. E sa anche che il prezzo è destinato a salire. Uno degli esempi che illustro nel libro riguarda il giacimento petrolifero Kashagan nel Mar Caspio. L’aspettativa originale era di avviare l’estrazione di gas naturale con un investimento di 10 miliardi di dollari. Che poi sono diventati 20, poi 30 e poi 40 miliardi e ancora non si è entrati in produzione. Se fosse stato chiaro dall’inizio quanto sarebbe costato, nemmeno quella coalizione di tutte le principali compagnie petrolifere del mondo avrebbe affrontato l’impresa.

Le compagnie petrolifere e del carbone iniziano a vedere che il loro mercato si restringe. Guardiamo a uno degli esempi più drammatici: la Peabody Coal, che è stata una delle più grandi compagnie del carbone degli Stati Uniti. Il valore delle sue azioni è crollato del 70-90%. Si è creato questo strano fenomeno, detto dei ‘beni arenati’. In passato le compagnie petrolifere calcolavano il loro valore societario basandosi non solo sugli impianti che possedevano, sulla capacità estrattiva e di stoccaggio, ma anche su quanto petrolio ci fosse nell’area di cui avevano comprato le riserve. E se ora, improvvisamente, quel petrolio non si può più estrarre quegli asset non valgono più così tanto. È stato interessante vedere come il valore di queste cose sia cambiato. Il termine ‘beni arenati’ fino a tre anni fa non esisteva nemmeno nel nostro vocabolario lavorativo, ora ha una posizione di rilievo. Include le miniere di carbone che sono state chiuse e non verranno mai riaperte. Comprende le stazioni di servizio per le auto. Quella vicino a casa mia, a circa un chilometro e mezzo da qui, è appena stata chiusa – sull’area stanno costruendo una piccola abitazione – perché hanno calcolato che non ci sarebbe stata una sufficiente domanda di benzina per tenerla aperta. Intorno al 1960 negli Stati Uniti il numero di distributori di benzina era di circa 150.000: ora è sceso a 100.000. E continuerà a diminuire visto che useremo

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materiarinnovabile 04. 2015 sempre più auto elettriche che si potranno ricaricare con l’energia prodotta dai pannelli fotovoltaici collocati sul tetto di casa. L’idea di avere il carburante dell’auto sul tetto, a 3 metri da noi, è ‘geograficamente’ interessante, perché fino a non molto tempo fa l’energia per la nostra auto arrivava da mezzo mondo.”

Qual è l’anello più debole nella nostra catena alimentare? La scarsità d’acqua.

Quindi possiamo essere fiduciosi riguardo all’energia. Ma cosa ci dice del cibo? Molti stati hanno raggiunto il tetto massimo della loro produttività. “Nei paesi in cui l’agricoltura è più avanzata gli agricoltori hanno capito di cosa hanno bisogno per far aumentare la loro produttività: concimare i campi, irrigare se necessario e così via. Ora queste cose vengono fatte. Una volta che si sono eliminati i problemi legati alle sostanze nutritive e all’idratazione, il limite viene posto dalla fotosintesi. Se guardiamo i raccolti di riso in Giappone, vediamo che hanno cominciato ad aumentare più di un secolo fa. Poi circa 17 anni fa si è raggiunto il tetto e la crescita si è arrestata. Da allora gli agricoltori giapponesi hanno provato – e sono tra i migliori al mondo – ma non sono riusciti a superare quel limite. Il motivo è che quella è la quantità di fotosintesi possibile. L’abbiamo visto prima in Giappone, e ora lo stiamo vedendo per il riso in Cina, dove i raccolti sono solo del 4% inferiori a quelli del Giappone. A meno che gli agricoltori cinesi non trovino un modo per far aumentare i loro raccolti oltre la soglia di quelli giapponesi, cosa di cui dubito seriamente, allora anche la Cina – il maggior produttore di riso al mondo – ha raggiunto il suo tetto. Lo stesso accade in Europa per quanto riguarda il grano e negli Stati Uniti per il granturco. Dunque stiamo vedendo emergere questi limiti che renderanno le cose più difficili per tutto

il mondo. Ma qual è l’anello più debole nella nostra catena alimentare? La scarsità d’acqua. In India ci sono in questo momento 26 milioni di pozzi per l’irrigazione che pompano acqua a una velocità che supera quella di ricarica. In tutti gli stati dell’India i grafici riguardanti l’acqua hanno un andamento negativo: in alcuni casi le falde acquifere sono state più o meno prosciugate e i pozzi si stanno svuotando.” Come succede in California o in Medio Oriente. “Esatto. E lo stesso sta succedendo in molti altri paesi. Negli anni ’50 gli agricoltori hanno iniziato a estrarre l’acqua dal terreno e a usarla per irrigare i loro raccolti. Ora, e questo vale anche per tutta l’India e gran parte della pianura settentrionale della Cina, stiamo assistendo a un sovrasfruttamento delle falde acquifere e all’andamento negativo dei grafici. I pozzi si stanno prosciugando. L’acqua si sta dimostrando come uno dei limiti principali agli sforzi per far aumentare la produzione di cibo nel mondo. Abbiamo molte aree che produrrebbero cibo se avessero acqua. Il terreno non è un limite. L’acqua lo è. Alcuni anni fa la Banca Mondiale ha esaminato la situazione dell’India e ha calcolato che 175 milioni di persone si stavano sostentando con i cereali prodotti grazie al sovrasfruttamento delle falde, il che – per definizione – non è sostenibile a lungo termine. Così la scarsità di acqua aumenta in India, ma anche in parte della Cina e nel Medio Oriente arabo. In tutti i paesi del Medio Oriente arabo – ho creato grafici ricavati dai dati di picco dell’acqua e a breve lo farò con i dati della produzione di cereali – si sta registrando una ripida curva negativa relativamente all’acqua. I sauditi hanno dichiarato che entro il 2016,

Lester Brown a fianco di Gro Harlem Brundtland durante il Summit della Terra a Rio de Janeiro, nel 1992

Foto di Mark Edwards/Still Pictures

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Think Tank non praticheranno più l’agricoltura perché si saranno prosciugate tutte le falde acquifere. Così il declino nell’irrigazione e nella produzione di cibo li costringerà a rivolgersi al mercato mondiale. Certo, dato che si tratta di un paese con una popolazione scarsa, questo non sovraccaricherà il mercato mondiale. Ma nella stessa situazione si trovano paesi più grandi, come Cina o India: quindi vedremo le scorte di cereali sotto pressione a causa delle limitazioni derivanti dalle carenze d’acqua.” Allora se dobbiamo discutere di un argomento all’Expo di Milano, riguardo al nutrire il pianeta, questo tema è l’acqua. “Direi proprio di sì. A Stanford hanno selezionato 600 contee agricole degli Stati Uniti: per ognuna sono stati raccolti i dati sulla produzione dei cereali e quelli relativi alle temperature. Poi per ognuna di queste contee è stata analizzata anno per anno la produzione di cereali in relazione alle temperature: ne è emerso che l’aumento di 1°C della temperatura comporta una riduzione della produzione di cereali del 17%. Ora sappiamo che le previsioni dei meteorologi per il pianeta dicono che ci sarà un aumento della temperatura di 6°C se continuiamo con il business as usual. Se l’aumento di 1°C riduce i raccolti del 17%, immaginiamo se si arrivasse a 2 o 3 o 6°C. Ci troviamo di fronte sfide mai affrontate. Finora singoli paesi hanno avuto problemi nel settore agricolo a causa di siccità o malattie delle colture o inondazioni o altro, ma ora si tratta di tutto il mondo. Un’altra cosa va considerata: ci sono circa tre miliardi di persone che vogliono salire nella catena alimentare, vogliono consumare più carne, latte e uova e per produrli servono cereali. Negli Stati Uniti consumiamo circa 720 chilogrammi di cereali all’anno pro capite e la maggior parte serve a produrre carne, latte e uova. In India il consumo è di 180 chilogrammi annui a persona. Solo un quarto. Quando hai solo 180 chilogrammi di cereali all’anno per persona, che significa 450 grammi al giorno, non puoi permetterti di trasformarne molti in proteine animali. Quella quantità ti basta solo a tenere insieme anima e corpo. Questo dà il senso di cosa succederà quando i salari in India cominceranno a salire e si comincerà a consumare più latte e uova. Per motivi religiosi gli indiani non possono consumare enormi quantità di carne in più, come succede in Cina, ma mangeranno più latte e latticini e uova e tutto questo richiede cereali. In linea di massima per convertire i cereali in carne di buoi allevati occorrono circa 320 chilogrammi di cereali per ogni mezzo chilo di peso in più del bue. Per i maiali è di circa 1,5-2 chilogrammi di cereali per mezzo chilo di ingrasso dell’animale. Per il pollame è inferiore a un chilogrammo di cereali per mezzo chilo di ingrasso. Per i pesci gatto il rapporto scende a quasi 1 a 1 perché alcune specie di pesci gatto sono bottom feeders, altri sono vegetariani. Questo è il motivo per cui si sta verificando un’enorme crescita dell’itticoltura in Cina.”

Come stiamo sfruttando il territorio? “Una delle questioni centrali è l’enorme crescita della domanda di soia. La miscela standard dei mangimi per il bestiame e il pollame è di 1 parte di cereali e 4 parti di farina di soia perché le proteine di alta qualità contenute nella farina di soia permettono al bestiame e al pollame di convertire i cereali e le proteine animali in modo più efficiente di quanto accadrebbe se gli animali si nutrissero solo di cereali. Allora la questione è: come produrre la soia? Nell’emisfero occidentale oggi, in Argentina, Brasile e su fino agli Stati Uniti e al Canada, ci sono più terreni dedicati alla coltivazione della soia rispetto a quelli per grano e granoturco. Nonostante la soia abbia avuto origine in Cina, oggi Pechino ne produce forse 13 milioni di tonnellate all’anno. Gli Stati Uniti sono a 85 milioni di tonnellate; il Brasile sta tra gli 85 e i 90 milioni di tonnellate. Questo richiede territorio.” Se volesse portare un messaggio all’Expo quale sarebbe? “Dobbiamo riesaminare il problema della popolazione: non può continuare a crescere indefinitamente. Dobbiamo cominciare a coordinare le politiche sulla popolazione con quelle sull’acqua, per esempio.” Quindi dobbiamo ricominciare a parlare del problema della popolazione. “Senza dubbio. Questa è una prima cosa. Un’altra è la risalita nella catena alimentare. Molti americani non solo consumano quantità eccessive di carne, latte e uova, ma stanno anche danneggiando la loro salute perché ci sono troppi grassi animali nella loro dieta. Per un paese come gli Stati Uniti scendere nella catena alimentare migliorerebbe lo stato di salute delle persone e insieme quello del pianeta. Terzo punto: occorre concentrarsi sul problema dell’acqua, su come stabilizzare la situazione idrica. Questo riguarda in particolare l’irrigazione, perché l’80% dell’acqua prelevata è utilizzata per l’irrigazione. Quindi l’efficienza dell’irrigazione diventa la chiave. Il che non riguarda solo il sistema di irrigazione in sé, ma il fabbisogno di acqua delle varie colture. Questo è nutrire il pianeta.”

Lester Brown in India, nel 1956

Per un paese come gli Stati Uniti scendere nella catena alimentare migliorerebbe lo stato di salute delle persone e insieme quello del pianeta.

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Pavan Sukhdev è fondatore/Ad di Gist Advisory, una società di consulenza ambientale che aiuta i governi e le imprese a gestire il loro impatto sul capitale naturale e umano. Ha lavorato presso la Deutsche Bank, per conto della quale ha fondato e presieduto il Global Markets Centre di Mumbai. È stato consigliere speciale e capo della Green Economy Initiative dell’Unep e ha coordinato il progetto The Economics of Ecosystems and Biodiversity (Teeb) commissionato alle Nazioni Unite dalla Commissione europea e dal governo tedesco.

Pavan Sukhdev - Foto di Beatrice Törnros

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Il FUTURO è in mano alle corporation Intervista a Pavan Sukhdev L’economista indiano spiega perché le grandi multinazionali avranno un ruolo fondamentale nella transizione all’economia circolare. Marco Moro, Direttore editoriale di Edizioni Ambiente.

Quanto valgono in termini monetari i servizi offerti dagli ecosistemi? Quanto valgono la pioggia, l’ossigeno, il clima, la biodiversità, “prestazioni” che le nostre economie utilizzano senza pagare alcun prezzo? E una volta stabilito il prezzo, chi deve farsene carico? Per Pavan Sukhdev sono le grandi aziende multinazionali a doversi porre il problema, per diventare i fondamentali driver di uno sviluppo che non depreda il pianeta e promuove una prosperità durevole e inclusiva.

a cura di Marco Moro

“Banchiere buono” e “Banchiere della natura” sono due degli appellativi con cui viene presentata la figura di Pavan Sukhdev, l’economista che ha coordinato per conto dei paesi G8+5 e dell’Unep la ricerca conclusasi nel 2008 con la pubblicazione dello storico rapporto The Economics of Ecosystems and Biodiversity, altrimenti noto come “Rapporto Teeb”. La rilevanza del progetto Teeb viene efficacemente documentata nell’articolo di Gianfranco Bologna proposto nella pagine successive.


Think Tank Dopo la presentazione del rapporto, Sukhdev è stato visiting fellow a Yale, nel 2011-12, ed è in questo periodo che, a partire dalle evidenze emerse durante la ricerca per l’Unep, ha iniziato a elaborare dei principi di comportamento e modelli di azione per le aziende, soprattutto per le grandi aziende, le multinazionali, le corporation. Un lavoro sfociato nella pubblicazione del libro Corporation 2020, oggi tradotto in diverse lingue. Ed è su questi temi che lo abbiamo intervistato durante la sua più recente visita in Italia, in occasione della conferenza della Global Alliance for the Future of Food e del lancio dell’edizione italiana di Corporation 2020.

“Le società del settore privato forniscono circa il 60% del valore aggiunto globale e il 70% dei posti di lavoro. In paesi come gli Stati Uniti, le corporation rappresentano quasi il 75% del Pil e dell’occupazione.”

Una prima domanda di carattere generale: perché le corporation? Perché proprio questi soggetti possono svolgere un ruolo centrale nel promuovere il progresso verso la sostenibilità ambientale e sociale? “Oggi, le società del settore privato forniscono circa il 60% del valore aggiunto globale e il 70% dei posti di lavoro. In paesi come gli Stati Uniti, le corporation rappresentano quasi il 75% del Pil e dell’occupazione. Il primo punto è: se potessimo risolvere la questione dal basso verso l’alto, dal micro al macro, se tutte le imprese si comportassero come aziende verdi, allora avremmo una green economy, una economia che ci porterebbe direttamente a uno sviluppo corretto. Insomma, avremmo la soluzione. Ma le corporation di oggi sono la causa del problema, non ci guidano verso la soluzione. E i problemi sono le esternalità, l’insieme delle esternalità: stiamo parlando di questioni come le emissioni

Pavan Sukhdev, Corporation 2020. Trasformare le imprese per il mondo di domani, Edizioni Ambiente 2015; tinyurl.com/p7be88l

di gas serra, l’approvvigionamento di acqua potabile, gli inquinanti dell’acqua, gli inquinanti chimici, l’avvelenamento del territorio e il suo utilizzo per trarne vantaggi privati, i cambiamenti climatici… Se si mettono insieme tutte queste esternalità, è facile capire che i costi sono enormi, che le esternalità stanno guidando il sistema Terra verso i limiti planetari, proprio perché la loro dimensione è così grande. È per questo che – sia in termini di gestione delle esternalità negative, sia in termini di cambiamento del modello verso la green economy – le corporation sono così importanti. Credo che, per le sue dimensioni, il settore economico privato sia l’istituzione singola più importante del nostro tempo.” In che modo una maggiore attenzione al capitale naturale potrebbe guidare l’economia verso nuove forme e relazioni più positive nei confronti delle risorse, come nel caso dell’economia circolare o della bioeconomia? “La necessità di una economia circolare è chiara, perché l’economia di oggi è basata su un modello lineare: take, make, waste (prendi, produci, usa e getta). Come ogni modello lineare, questo non può funzionare a lungo, in quanto si basa su due assunti: che le risorse siano infinite e la capacità della Terra di assorbire rifiuti sia infinita. Sono entrambi assunti falsi, perché le risorse sono limitate, e la capacità della Terra di assorbire i rifiuti è limitata. Il modello odierno non può diventare circolare, quindi non può essere la risposta. Le corporation devono individuare modi di generare profitto e avere successo pur mantenendo circolarità, progettando i propri prodotti al fine di non avere rifiuti. Ci sono aziende che già lo fanno, impegnandosi nei cambiamenti di norme e regolamenti: per modificare i sistemi di tassazione e i metodi contabili. O per cambiare le modalità di finanziamento, o il modo di fare pubblicità. E per riuscire in questo processo, le aziende hanno bisogno di lavorare con diversi regolatori: con i legislatori, con le Ragionerie generali, con i ministeri delle Finanze e dello Sviluppo, con le associazioni delle agenzie pubblicitarie. Le corporation hanno bisogno di entrare in questo percorso, hanno bisogno di guidare l’urgenza del cambiamento e la direzione di questo cambiamento. Oggi, le uniche persone che i politici ascoltano sono gli amministratori delegati, perché i politici sono supportati dalle corporation. Le imprese pagano la maggior parte delle tasse, forniscono la maggior parte dei posti di lavoro e il 70% del Pil, e pagano anche la maggior parte dei contributi alle campagne elettorali. Tutte cose di cui i politici hanno bisogno, tanto che la prima ragione di ogni loro scelta risiede in quello che pensa il mondo delle corporation. La politica sta ad ascoltare.”

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materiarinnovabile 04. 2015 Pensa che le corporation dovrebbero essere le first mover? “Certamente devono essere le promotrici, qualsiasi ne sia la motivazione: potrebbe essere in nome della loro visione o della loro leadership, potrebbe essere perché i clienti lo chiedono, o a causa di rischi o di opportunità. Qualunque sia la ragione, il first mover deve essere il mondo delle corporation.”

“Lavorando così, una corporation fornirebbe un servizio, non un prodotto. È un comportamento diverso: io personalmente, non ho bisogno di possedere un computer, ho solo bisogno di usarlo.”

In che modo le aziende reagiscono ad alcune tendenze in atto – come la sharing economy – che socialmente possono costituire un vero aiuto, ma che nei fatti possono ridurre lo spazio per le transazioni monetarie nell’economia? “Le corporation possono reagire riposizionandosi. Hanno capacità enormi, enormi capitali finanziari e umani; hanno i rapporti, le connessioni, l’organizzazione. Tutti elementi molto utili per ogni tipo di impresa. Facciamo un esempio valido per l’economia circolare e per l’economia condivisa. Pensiamo a come viene prodotto e venduto un laptop: il produttore ne sta già progettando un altro, e in sei mesi sfornerà il nuovo prodotto da vendere a Mr. Sukhdev, e poi uno nuovo, e ancora e ancora... No, no, non va bene. Quello che una corporation deve fare è creare un computer portatile con le migliori tecnologie disponibili, quindi offrire a Mr. Sukhdev una licenza per il suo uso, mantenendone la proprietà. Così Mr. Sukhdev non ha bisogno di impazzire per far funzionare e tenere in ordine il suo portatile e quando non vuole più usarlo, il produttore lo riprende e lo offre a qualcun altro per un altro periodo, e così via. In questo modo il produttore è in grado di mantenere la proprietà del prodotto e lo dà in locazione a Pavan, poi a un altro Pavan e così via. Magari io voglio avere un laptop di seconda mano, perché preferisco che sia qualcun altro a configurarlo prima di me. Lavorando così, una corporation fornirebbe un servizio, non un prodotto. È un comportamento diverso: io personalmente, non ho bisogno di possedere un computer, ho solo bisogno di usarlo. Ci sono già molte aziende che offrono il leasing invece della vendita, soprattutto per le attrezzature e gli impianti più grandi: gli aerei per esempio vengono noleggiati, non venduti. Il discorso si può allargare poi all’economia sociale, dove la gente non dipende dal produttore, perché tutti hanno fiducia gli uni negli altri, hanno sufficiente ‘capitale sociale’. Così posso darti il mio laptop, tu lo usi e te ne prendi cura e se qualcosa va storto sarai tu a risolvere la cosa. Ma questo potrebbe non funzionare, perché se il computer ha un problema e tu ti rivolgi alla casa produttrice, questa ti risponderà ‘no, abbiamo venduto a Pavan Sukhdev, tu chi sei? Chi è Marco Moro?’. Perché in una economia condivisa ci si coinvolge: anche se entrambi desideriamo condividere lo stesso prodotto, se qualcosa non va chi risolverà il problema? Il prodotto ha bisogno del suo produttore per questo.”

Come possono le corporation svolgere un ruolo positivo nel promuovere l’inclusione sociale e la partecipazione? “Si tratta di capire che corporation non significa solo operare in uno spazio di capitali fisici, fabbriche e uffici, prodotti e lavorazioni. Non dobbiamo pensare che l’unica cosa che conta è ciò che una impresa possiede, perché l’impresa opera sul capitale umano. Essa non possiede il capitale umano, i dipendenti, ma lo ‘noleggia’ pagando uno stipendio per esso. In un certo senso, ha un contratto di leasing del capitale sociale. Allo stesso modo la corporation può investire nel tessuto sociale in cui opera, rendendo le persone contente, fornendo uffici e servizi, negoziando bene con i fornitori e gli acquirenti, mantenendo buoni rapporti tra loro. Ciò impedirà che all’improvviso si scopra che… oops, non si può più andare avanti perché i fornitori hanno deciso di mollare. Così rapporti e relazioni devono contare, dal momento che essi sono il capitale umano, il vero capitale sociale da accudire. Ma, cosa succede se la corporation impatta gravemente il capitale sociale, umano o naturale, di cui essa stessa ha necessità perché in fondo ha bisogno di avere un’atmosfera non inquinata in cui lavorare, ha bisogno di acqua pulita e così via? La corporation non misura le ricadute che ha su tali elementi, e questo è il problema. Deve invece iniziare a valutare l’impatto che ha su questi capitali, non solo sul capitale finanziario: e questo genererà un nuovo tipo di corporation, la corporation 2020.” Una domanda finale, che contiene un riferimento all’Italia. Un’economia basata principalmente sulle piccole e medie imprese – e non sulle big corporation – può applicare gli stessi principi e usarli utilmente? “Direi che ha più potenziale di un’economia basata su grandi strutture. Perché l’economia basata rigorosamente sul modello take, make, waste, che investe ingenti capitali al fine di realizzare economie di scala, per poi vendere enormi quantità di prodotti... fa storicamente investimenti che vanno tutti nella direzione sbagliata, è appunto la brown economy. Invece, se c’è un terreno di piccole imprese, con poco capitale fisico, ma possibilmente con un buon capitale sociale e umano, ci saranno più possibilità di cambiare, maggiore capacità di transizione dalla corporation 1920 alla corporation 2020. Per questo io nutro maggiori speranze per un paese in cui predominano le piccole e medie imprese che per un paese con una maggioranza di grandi aziende, perché è maggiore la possibilità di cambiamento senza che tutti i capitali vengano distrutti.”


Think Tank

di Gianfranco Bologna

IL CAPITALE è naturale Elaborazione di Karl Marx (incisione), di Robert Diedrichs, 1970

Non solo estraiamo risorse dal pianeta a ritmi forsennati – 70 miliardi di tonnellate di materiali nel 2008 – ma ne stiamo distruggendo i sistemi naturali. Biodiversità ed ecosistemi hanno un enorme valore anche in termini economici. Secondo alcuni studi i benefici offerti dagli ecosistemi all’uomo valgono tra i 125.000 e i 145.000 miliardi di dollari l’anno. Gianfranco Bologna è direttore scientifico e Senior Advisor di Wwf Italia. Segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia. È stato anche membro del Club di Roma per un mandato sotto la presidenza di Alexander King. Autore e curatore di numerose pubblicazioni, nel 2013 ha scritto Sostenibilità in pillole (Edizioni Ambiente) e Natura Spa. La Terra al posto del PIL (Bruno Mondadori editore).

Monika Dittrich, Stefan Giljum, Stephan Lutter, Christine Polzin, Green Economies Around the World? Implications of Resource Use for Development and the Environment, Vienna 2012; tinyurl.com/qxwbf82

Capitale: è tuttora un termine che si pensa destinato ad abitare solamente negli universi discorsivi dell’economia e della finanza. Ma esiste anche un capitale naturale senza il quale non può esistere nessun tipo di sviluppo e di benessere delle società umane. Da alcuni anni sono le scienze della sostenibilità – e non le discipline economiche – a orientare la ricerca più innovativa su questo concetto. Forse cambiandone radicalmente l’identità e la percezione. Per la prima volta – nel 2012 – è stato realizzato un atlante mondiale dell’uso delle risorse e dei livelli di efficienza con cui sono state utilizzate in tutti i paesi del mondo negli ultimi 30 anni. Al centro del rapporto Green Economies Around the World? Implications of Resource Use for Development and the Environment curato in prevalenza dagli studiosi del Seri (Sustainable Europe Research Institute; seri.at/en) non solo le risorse abiotiche, come i combustibili fossili, i minerali e i metalli, ma anche diverse risorse biotiche, come quelle provenienti dall’agricoltura, dalle attività forestali e dalle attività di pesca, fondamentali per l’analisi dell’utilizzo del capitale naturale. Ferro, oro, sabbia, carbone, petrolio, legno, riso e molte altre risorse costituiscono, come ben sappiamo, la base

del benessere economico delle moderne società consumiste. Il risultato di questo studio indica che attualmente gli esseri umani stanno estraendo risorse dai sistemi naturali del pianeta al livello più elevato che si sia mai verificato e che il sistema economico odierno dipende in maniera sempre più significativa dall’input delle risorse naturali. Lo dimostra il fatto che il consumo mondiale dei materiali è quasi raddoppiato dal 1980 al 2008, sfiorando 70 miliardi di tonnellate (quasi l’80% in più). Per l’esattezza si è passati dai 38 miliardi di tonnellate del 1980 ai 68 miliardi del 2008. Il Seri ormai da diversi anni sta lavorando, insieme ad altri centri e istituti di ricerca, sull’analisi dei flussi di materie prime che attraversano l’economia mondiale nel suo complesso, contribuendo anche alla realizzazione di un sito internet dedicato www.materialflows.net. Le differenze degli incrementi nei consumi pro capite delle risorse naturali dimostrano che al costante alto livello di consumo delle nazioni ricche e industrializzate si affiancano inevitabilmente i crescenti consumi materiali nelle economie emergenti, come quelle di Cina e Brasile. Globalmente il livello di uso di risorse è aumentato in maniera superiore alla crescita della popolazione. A livello mondiale una persona

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materiarinnovabile 04. 2015 Il Teeb giunge dopo una serie di studi, ricerche, analisi di grande importanza che hanno caratterizzato questi ultimi decenni e che hanno anche prodotto la nascita nel 1988 dell’International Society for Ecological Economics, Isee (www.ecoeco.org), un’organizzazione interdisciplinare che ha svolto un ruolo molto importante per far progredire le riflessioni, la ricerca, le analisi, la cultura e la conoscenza di una nuova economia fortemente basata sull’ecologia. Se oggi andiamo a rileggere le pagine del numero speciale della rivista Ecological Modelling del 1987, un anno prima della nascita dell’Isee, dedicato completamente proprio all’Ecological Economics e coordinato da due studiosi che hanno particolarmente spinto per la promozione di questa disciplina, Robert Costanza ed Herman Daly, troviamo in nuce molti degli importantissimi argomenti che sono stati sviluppati successivamente. Il Teeb documenta chiaramente come il capitale naturale costituisce la base delle nostre economie.

utilizza in media (dati 2008) circa 10 tonnellate di risorse annue: in Europa la media si aggira intorno alle 15 tonnellate e nei paesi ricchi esportatori di petrolio si possono raggiungere le 100 tonnellate. In contrasto con queste cifre, per esempio, nel Bangladesh la media pro capite tocca appena le 2 tonnellate annue. Negli ultimi anni sono stati avviati significativi programmi internazionali che hanno fatto il punto sul valore della natura e sull’importanza del capitale naturale che riveste un ruolo significativo anche nei flussi di materia. Il Teeb (The Economics of Ecosystems and Biodiversity; www.teebweb.org) può essere definito lo sforzo internazionale più imponente e autorevole di messa a sistema di tutti dati e conoscenze sino a ora acquisiti sul valore della biodiversità e degli ecosistemi per l’economia umana. Obiettivo del Teeb è proprio quello di contribuire a fornire un quadro chiaro e operativo per il mondo delle istituzioni, della politica e dell’economia, per le imprese e per tutti gli attori della società civile, di come considerare, valutare e integrare il valore complessivo dei sistemi naturali nell’economia umana. Dopo il Millennium Ecosystem Assessment (www.millenniumassessment.org/en/index.html), il più grande assessment planetario sullo stato di salute degli ecosistemi e dei servizi che essi offrono alla nostra economia e al nostro benessere – patrocinato dalle Nazioni Unite e reso pubblico nel 2005 – che ha dettagliatamente documentato la vulnerabilità e lo stato di degrado nel quale abbiamo ridotto i sistemi naturali della Terra, il Teeb ha costituito un ulteriore importantissimo passo in avanti nella consapevolezza dell’importanza e del valore della biodiversità e degli ecosistemi nella vita e nella sopravvivenza dell’intero genere umano.

Il gruppo di studiosi che si sono impegnati nel Teeb è consapevole della difficoltà di fornire valutazioni monetarie ai servizi che gli ecosistemi offrono al benessere e alle economie delle società umane. Hanno comunque cercato di fare ordine nella massa di studi e analisi che sono stati realizzati, proponendo, infine, una serie di indicazioni che si possono trovare in forma

Cos’è il Teeb Nato dall’originale proposta del governo tedesco in occasione del G8 ambiente di Potsdam nel 2007, il Teeb è stato poi patrocinato dalle Nazioni Unite sotto il Programma Ambiente Onu (Unep) con il supporto economico della Commissione europea e di diversi governi (Germania, Regno Unito, Olanda, Norvegia, Belgio, Svezia e Giappone). Il programma è stato diretto dall’economista indiano Pavan Sukhdev, (si veda l’intervista a cura di Marco Moro su questo numero di Materia Rinnovabile) che è stato anche coordinatore del programma della Green Economy dell’Unep. Il Teeb documenta chiaramente come il capitale naturale costituisce la base delle nostre economie. L’invisibilità del valore della biodiversità nella considerazione economica ha purtroppo, sino a oggi, incoraggiato l’uso inefficiente e distruttivo dei sistemi naturali che non sono stati debitamente “tenuti in conto”. La biodiversità in tutte le sue dimensioni, la qualità, quantità e diversità degli ecosistemi, delle specie e dei patrimoni genetici, necessita di essere preservata non solo per ragioni sociali, etiche o religiose ma anche per i benefici economici che essa provvede a fornire alle attuali e future generazioni.


Think Tank Prima e dopo Teeb: quanto vale il capitale naturale? Nel 1997 la prestigiosa rivista scientifica Nature pubblicò un lavoro che ha fatto epoca “The value of the world’s ecosystem services and natural capital”. Tredici studiosi dei sistemi naturali e della loro valutazione economica guidati da Robert Costanza, resero nota la loro indagine che stimava il valore di 17 servizi degli ecosistemi (dalla regolazione del clima ai cicli idrici, dall’impollinazione alla formazione del suolo ecc.). Il valore era basato sulla raccolta di tutti gli studi sino ad allora pubblicati e su alcuni calcoli originali e fu quantificato in un range compreso tra i 16.000 e i 54.000 miliardi di dollari l’anno, con una media annuale di 33.000 miliardi di dollari. Successivamente nel 2002 in un altro lavoro pubblicato su Ecological Economics, la rivista specializzata dell’International Society for Ecological Economics, Bob Costanza e altri studiosi resero noti i risultati dell’applicazione di un modello unificato

che simula la biosfera del nostro meraviglioso pianeta, definito Gumbo (Global Unified Metamodel of the Biosphere). Nell’analisi del valore di sette servizi ecosistemici (dalla formazione del suolo al riciclo dei nutrienti) considerati per l’anno 2000 risultava una valutazione di circa 180.000 miliardi di dollari. Nel 2014 sempre Bob Costanza e altri economisti ecologici tra i quali un altro leader del Teeb, Rudolf de Groot, hanno pubblicato sulla rivista Global Environmental Change, un nuovo lavoro “Changes in the global value of ecosystem services” che ha aggiornato i dati del paper del 1997 dal quale risulta che la stima per i servizi ecosistemici a livello globale nel 2011 è valutato tra i 125.000 e i 145.000 miliardi di dollari l’anno. Questo studio stima anche il valore economico della perdita dei servizi ecosistemici dal 1997 al 2011 dovuta ai cambiamenti nell’utilizzo del suolo fornendo un dato tra i 4.300 e i 20.200 miliardi di dollari.

estesa sul sito www.teebweb.org ma che in sintesi possiamo riassumere come di seguito.

A livello mondiale una persona utilizza in media circa 10 tonnellate di risorse annue: in Europa la media si aggira intorno alle 15 tonnellate e nei paesi ricchi esportatori di petrolio si possono raggiungere le 100 tonnellate […] nel Bangladesh la media pro capite tocca appena le 2 tonnellate annue.

1. Rendere visibile il valore della natura: è necessario che i decision makers a tutti i livelli siano consapevoli del ruolo della biodiversità e dei servizi degli ecosistemi e che quindi siano in grado stimarne il valore e di comunicarlo. 2. Dare un prezzo a ciò che oggi non ha prezzo: è necessario comunque che i decision makers includano i benefici e i costi della conservazione e del ripristino dei sistemi naturali nelle loro valutazioni. 3. Mettere in conto i rischi e le incertezze: il valore “assicurativo” degli ecosistemi in buone condizioni di salute deve essere parte integrante di un’analisi di valore economico totale. 4. Valutare il futuro: è necessario utilizzare tassi di sconto anche pari a zero o negativi relativamente al valore dei sistemi naturali che vengono valutati, tenendo conto dei livelli di incertezza e dello scopo dei progetti o delle politiche oggetto di valutazione. 5. Misurare al meglio, per gestire al meglio: è necessario che gli attuali sistemi di contabilità nazionale includano al più presto il valore dei cambiamenti negli stock di capitale naturale e nei flussi dei servizi degli ecosistemi. I governi devono elaborare e applicare rapidamente dei set di indicatori utili a monitorare i cambiamenti del capitale fisico, naturale, umano e sociale. 6. Capitale naturale e riduzione della povertà: la dipendenza dai servizi degli ecosistemi è particolarmente significativa per molti poveri sulla Terra e necessita quindi un’urgente integrazione nelle politiche per la riduzione della povertà. 7. Andare oltre i livelli minimi: gli attuali meccanismi e gli standard di procedure e di reporting non destinano la necessaria attenzione alle esternalità ambientali e sociali. È fondamentale integrare e incorporare la biodiversità e i servizi

degli ecosistemi nelle catene produttive del mondo delle imprese. 8. Modificare gli incentivi: è necessaria una riforma del sistema degli incentivi e della fiscalità che punti all’eliminazione dei sussidi perversi – che distruggono la biodiversità – e a una fiscalità che penalizzi l’utilizzo eccessivo delle risorse e la loro distruzione. 9. Le aree protette costituiscono anche un valore economico: è necessario stabilire un sistema di aree protette nazionali e regionali comprensivo, rappresentativo ed efficace con l’obiettivo di proteggere la biodiversità e mantenere un ampio spettro dei servizi degli ecosistemi. 10. Le infrastrutture ecologiche e i cambiamenti climatici: è necessario investire in “infrastrutture ecologiche”, agendo cioè per tutelare il ruolo insostituibile dei servizi offerti dagli ecosistemi nonché le azioni di rispristino e restauro ecologico dovute all’azione umana. La conservazione e il ripristino degli ecosistemi costituisce un’importante opzione di investimento anche per l’adattamento ai cambiamenti climatici in atto. Le raccomandazioni del Teeb costituiscono un’ottima base operativa per far sì che i sistemi economici riescano finalmente a dare valore al capitale naturale. L’inclusione di questi principi nelle politiche e nelle strategie di governi e aziende è la chiave per il successo dei processi di innovazione come quelli che vengono descritti in questa rivista. Per questo sarà importante continuare a documentare e divulgare i costanti sviluppi che avvengono in questa cruciale area di ricerca. Dal prossimo numero di Materia Rinnovabile prenderà quindi avvio una rubrica interamente dedicata a queste complesse, ma affascinanti, tematiche.

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“Possiamo arrivare al 70% di recupero. Sembra poco?

Io ci metterei la firma” Parla Daniele Fortini, amministratore delegato dell’Ama e coautore di un libro appena uscito con tesi che fanno discutere: “I rifiuti zero sono un traguardo irraggiungibile, di qualche inceneritore non si può fare a meno. Ma occorre concentrarsi sulla creazione di un serio sistema industriale del riciclo e del riuso”.


Think Tank

di Roberto Giovannini

Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.

Chiacchierare di raccolta differenziata passeggiando di mattina presto per le stradine di Trastevere con Daniele Fortini – da Orbetello, classe 1955, da un anno e mezzo presidente e amministratore delegato dell’Ama Spa – è un’esperienza curiosa. La movida della notte precedente ha generato montagne di immondizia, cartacce, ma soprattutto bottigliette di vetro abbandonate un po’ dappertutto. I cestini portarifiuti di ghisa massiccia appaiono stracolmi; non sarebbe meglio fare come in altre città, mettendo delle ampie e pratiche buste trasparenti? “Magari! Noi ci abbiamo provato – commenta Fortini – ma la Sovrintendenza non ne ha voluto

sapere”. E i commercianti si comportano bene? “Non me ne parli!”, alza gli occhi al cielo. Gli spazzini riconoscono il capoazienda, e si vede che cercano di far bella figura. Ma intanto i quotidiani del giorno rilanciano sempre nuove nefandezze che emergono dall’indagine Mafia Capitale: si parla di rifiuti, a volte di Ama, la Spa controllata dal Comune di Roma (7.800 i dipendenti) che non ha una tradizione di efficienza e di risparmio. Daniele Fortini si è occupato di rifiuti da sempre, in Toscana, a Napoli, alla presidenza di FederAmbiente. Insieme con Nadia Ramazzini (per dieci anni in A2A, oggi con la Fondazione Rubes Triva) ha scritto di recente un interessante libro sull’argomento (La raccolta differenziata, Edizioni Ediesse). Un volume divertente e completo, adatto anche ai non addetti ai lavori, che contiene alcune tesi che possono sorprendere. Ovvero: la raccolta differenziata è fondamentale e decisiva, ma è illusorio (in quanto antieconomico e materialmente impossibile) pensare di riuscire a giungere al recupero del 100% dei rifiuti. Si può arrivare, con uno sforzo consistente, a recuperare e riciclare il 60, il 70% dell’immondizia – e dunque continueremo in futuro ad aver bisogno di un certo numero di inceneritori e discariche – ma senza costruire una vera e propria filiera industriale dei rifiuti si rischia di vanificare tutto. “Siamo stati bombardati da un’idea della raccolta differenziata tutta fondata sui comportamenti virtuosi del cittadino, da perseguire con le buone o con le cattive – spiega Fortini – ma ci siamo interessati poco o nulla della parte industrialefinanziaria-tecnologica che sostiene la raccolta differenziata. Ci si dimentica che le vetrerie, le cartiere, le fonderie hanno bisogno di materiale riciclabile ‘pulito’, senza contaminanti, per poterlo lavorare nei loro impianti con facilità e non distruggere i forni”. Per esempio, per rovinare completamente una partita di vetro da riciclare basta che assieme al vetro finisca del materiale di cristallo. Insomma, afferma il manager, “convincere i cittadini a fare una differenziata di qualità eccezionale serve a poco se il sistema industriale a valle non è pronto”. E perché sia pronto, servono investimenti. Il che ci porta a un altro tema scottante. Chi deve pagare per il buon funzionamento del sistema del riciclo? Sulla base della legge e degli accordi Anci-Conai, il consorzio incassa da ogni produttore di imballaggi una sorta di tassa: il “contributo ambientale” o “Cac”. Ma in pratica, sostiene Fortini, non solo le aziende riversano normalmente il contributo pagato sul consumatore finale, ma indirettamente riescono a tenersene una parte: “Il Conai gira ai Comuni – che materialmente raccolgono i rifiuti che alimentano il sistema del recupero, sostenendo i relativi costi – soltanto il 35%

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del valore totale del contributo. Il resto dei soldi incassati rimane all’interno del sistema Conai e del sistema delle industrie dell’imballaggio. Noi ‘monnezzari’ vorremmo che quella tassa, che vale in tutto 800 milioni di euro, ed è stabilita dalla legge, fosse incassata da un soggetto pubblico, terzo, indipendente, costituito dal ministero dell’Ambiente”. Tesi totalmente contestata dal Conai e dalle imprese del settore che ricordano i successi ottenuti dal sistema di recupero degli imballaggi (ha superato gli obiettivi di legge) e temono un ritorno a un sistema basato su un ruolo dominante del settore pubblico che non ha dimostrato grande efficienza in passato.

“La ricetta è semplificare al massimo la raccolta della differenziata per farla costare il meno possibile e investire in impianti industriali per far fare alle macchine le cose che non possiamo chiedere alla massaia.”

Ma, tornando al momento della raccolta differenziata, quale sarebbe il metodo migliore per favorire insieme la raccolta da parte dei cittadini e la corretta lavorazione dei rifiuti? “A me convince molto il modello adottato da San Francisco, quello delle frazioni merceologiche differenziate”, è la risposta. Nella città della California ci sono soltanto tre contenitori: quello dei “rifiuti asciutti”, come carta, vetro, plastica e metalli; quello per i “rifiuti umidi” (l’organico); un terzo contenitore per l’indifferenziato. I “rifiuti asciutti” vengono così portati in un impianto industriale dove ci sono i macchinari e le tecniche necessari a trattarli e suddividerli in modo che non vengano contaminati. Gli “umidi” finiscono negli impianti di compostaggio. “La ricetta è semplificare al massimo la raccolta della differenziata per farla costare il meno possibile

– spiega il numero uno dell’Ama – e investire in impianti industriali per far fare alle macchine le cose che non possiamo chiedere alla massaia”. Benissimo, tutto chiaro. Ma nel libro Fortini e Ramazzini chiariscono un altro punto: non tutti i rifiuti sono riciclabili. Quindi l’obiettivo “rifiuti zero” non può che restare (appunto) un obiettivo, una lontana utopia cui puntare idealmente. “Bisogna essere realistici – conferma Fortini – anche nei piccoli paesi dove ci sono esperienze avanzatissime e molto condivise dai cittadini di raccolta differenziata e di recupero, giungere a un riciclo del 70% dei rifiuti è un successo da considerare assolutamente strepitoso. Il 30% del materiale non può essere riciclato”. Inoltre un conto è un piccolo paese – come la famosa Capannori del maestro Rossano Ercolini,


Think Tank dove c’è un ampio controllo sociale – e un conto una grande metropoli come Roma. “Dall’inizio dell’anno abbiamo elevato 5.000 contravvenzioni per comportamento scorretto nella gestione dei rifiuti – ricorda il presidente Ama – di cui 3.500 ad automobili lasciate in sosta davanti ai cassonetti, impedendo ai camion del turno notturno di poterli svuotare. A Roma ogni giorno dobbiamo svuotare 70.000 cassonetti. A volte non riusciamo a coprire l’1% del totale: 700 cassonetti vengono lasciati pieni, molti per le auto in sosta; e rappresentano un problema serio per il decoro della città, un problema che fa passare in secondo piano il fatto che comunque ne abbiamo svuotati 69.300”.

“Un normale giocattolo per bambini contiene a volte 30 tipi differenti di plastica; in alcuni casi sono riciclabili, ma hanno costi elevati, usi limitati, qualità merceologica e durata scarsa, e risultano quasi invendibili sul mercato.”

Resta il problema del 30% dei rifiuti che – sostiene Fortini – non si possono riciclare. Parliamo di laterizi, pietre, mozziconi di sigarette, leghe di metalli, pannolini, e tutti i tipi di plastica eterogenea, come i cosiddetti “poliaccoppiati”. Le famiglie della plastica sono 400, ma in realtà sono soltanto tre le tipologie realmente riciclabili: il Pet (cioè le bottiglie), l’Hdpe (ovvero il polietilene ad alta densità, la plastica più dura usata per esempio per i contenitori dei detersivi), e alcuni polimeri più leggeri del tipo degli “shopper”, le buste di plastica per la spesa. Tutto il resto è un problema: un normale giocattolo per bambini contiene a volte 30 tipi differenti di plastica; in alcuni casi sono riciclabili, ma hanno costi elevati, usi limitati, qualità merceologica e durata scarsa, e risultano quasi invendibili sul mercato (anche se – va aggiunto al ragionamento di Fortini – esperienze come quella della Revet mostrano che questi limiti si possono spostare e che le quote di riciclo del cosiddetto plasmix possono crescere). “Per trasformarli serve molta energia – è la conclusione – l’unica cosa è bruciarli, e recuperare l’energia che incorporano. Altre cose invece non possono che finire in discarica”. Ancora discariche? Ma quanta parte dei rifiuti sarà inevitabile mandare in discarica? “In Germania ci finisce meno del 3% dei rifiuti. In Svezia meno, in Svizzera solo l’1%. A regime, il 70% dei rifiuti può essere riciclato. Il 20-25% è combustibile, e se ne può ricavare energia e calore. Quel che avanza, comprese le ceneri che restano dopo il processo di incenerimento, non può che andare in discarica.”

Ci siamo arrivati: inceneritori (o termovalorizzatori che dir si voglia) e discariche. Robe molto poco simpatiche, impopolari. “È chiaro che gli inceneritori non sono macchine perfette, e in quanto macchine producono emissioni e inquinano”, continua Fortini. “Questo lo sappiamo, così come sappiamo che l’ostilità della popolazione non è frutto di paranoia, ma viene da lontano. Purtroppo siamo un paese dove la devastazione ambientale c’è stata, dove sono state fatte porcherie. Dove si è mentito, dove chi doveva controllare è stato corrotto o bloccato. Abbiamo avuto una Farmoplant, una Seveso, una Ilva di Taranto... la diffidenza dei cittadini nei confronti dei comportamenti dell’industria è giustificata.” Una volta il rimedio era semplice, perché la difesa dell’ambiente e della salute era di là da venire: o immense discariche, magari in riva ai fiumi, o bruciare i rifiuti generando immensi volumi di scorie e fumi. Ma adesso, si possono riproporre gli inceneritori? “Guardate, i sistemi di filtraggio sono molto evoluti; magari ce ne avessero di simili cementifici e raffinerie. Tanto è vero che la dispersione di particelle inquinanti non ha conseguenze particolarmente significative e dannose per la salute umana o per l’ambiente. Detto questo, oggi queste macchine sono ancora indispensabili e sufficientemente sicure. Sarebbe meglio inquinamento zero, ma quel che fanno al momento è sostenibile. Le discariche, in confronto, sono molto più inquinanti. A cominciare dal rilascio del metano, che è un potente gas a effetto serra.” In teoria dopo 30 anni una discarica diventa inerte, può essere ricoperta di alberi e giardini; ma dopo trent’anni ancora si deve prelevare il percolato prodotto dall’acqua piovana. Meglio gli inceneritori delle discariche, dunque. In Italia ce ne sono 53, piuttosto anziani e di scarsa capacità, contro i 100 della Germania, più potenti. Fortini propone di rinnovare il nostro parco, chiudendo quelli più vecchi e di piccole dimensioni. Idee che non piacciono a tutti: ma sono soluzioni che il numero uno dell’azienda pubblica per la gestione dei rifiuti della Capitale intende adottare per far uscire Roma dall’emergenza.

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Quando la NATURA chiama “The man who has planted a garden feels that he has done something for the good of the world.” “L’uomo che coltiva un giardino sente di aver fatto qualcosa per il bene del mondo.” - Vita Sackville-West

di Mauro Panzeri

Mauro Panzeri è art director e grafico editoriale (anche di questa rivista). Insegna al Politecnico di Milano e all’Istituto Europeo di Design. Nel 2013 ha pubblicato La grafica è un’opinione, Ledizioni.

Info www.naturalrecall.org

Il progetto Natural Recall ha una vocazione internazionale e no profit. Ufficialmente inaugurato nel maggio 2014 nella cornice del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto al Superortopiù di Milano è oggi al suo secondo step. Chiamati a raccolta decine di illustratori, grafici, giornalisti e scrittori, in molti hanno risposto al tema delle “loro affinità elettive con la natura” attraverso la realizzazione di testi e soprattutto di poster in grande formato. Ne sono nati a oggi un libro (Natural Recall – The Book), un calendario e una mostra itinerante, ospitata lo scorso dicembre alla Serra dei Giardini a Venezia, ad aprile all’Atelier de gravure Zec di Parigi, con una spiccata vocazione a girare il mondo e trasformarsi in corso d’opera. Nel bellissimo volume, tattile e colorato, e con la mostra dei poster d’autore provenienti da ogni angolo del pianeta, selezionati ed esposti con leggerezza, si intuisce il percorso del progetto: una buona occasione per ammirare e riflettere, attraverso l’illustrazione, il disegno grafico e la lettura d’autore, sulle molteplici possibilità di rappresentazione della natura, oltre lo stile e il gusto, nell’intimità di opere delicate quasi zen. Il tema è all’ordine del giorno. Infatti la rappresentazione dell’idea di natura, dei conflitti e della sensibilità a questa connessi, dell’idea

di cambiamento, trasformazione e sostenibilità, ha una storia complessa, come se non avesse ancora trovato un modo proprio (o più modi, diversi) di esprimersi appieno, oltre gli stereotipi che ancora la vincolano. Basti pensare solo al “bio”, agli alimenti biologici e all’immagine del loro packaging; oppure ai marchi aziendali, alle immagini in brochures e osservare come si esprimono (per immagini) le culture di settore. Dal vecchio sole sorridente alle sfere-mondi, passando per animali, foglie, alberi, spighe di grano, pale eoliche; mentre il colore verde, anche se ormai esaurito, vive nel background e tinteggia ancora ogni cosa. Il progressivo passaggio da cultura di minoranza a una istituzionale, imprenditoriale e associazionistica, più consapevole anche se guidata da un marketing aggressivo, non ha modificato i termini del problema. Come se l’aggiornamento della cultura d’immagine non fosse ancora al passo con le trasformazioni in atto. È evidente un retaggio di semplici metafore visive che alludono a felicità, spazi aperti, cielo, salute. Di contro, ciò che domina è l’immagine del disastro: montagne di rifiuti, fumi all’orizzonte, nero. Questo vale per molta iconografia, dai disegni alle fotografie. Basta guardare in rete. Si può iniziare a cambiare, però: questa rivista che avete tra le mani (o che leggete a monitor, su tablet o smartphone) è di fatto un tentativo variopinto di inaugurare un percorso d’immagine per chi immagine ancora non ha, o la sta cercando. Per accumulo, attingendo alle migliori rappresentazioni che la cultura contemporanea ci offre e rimescolando le carte; per passare da settoriale a magazine tout court, ampliando la schiera di potenziali lettori desiderosi di nuovi contenuti. La selezione dei poster contenuti nel volume Natural Recall offre un contributo al tema, aperto e disponibile all’ispirazione.


Think Tank

Il progetto Natural Recall nasce per volontà di Gtower e co.me, due studi creativi e di comunicazione italiani che hanno unito le forze per l’occasione in partnership con Smack e Qwerty Studio. Natural Recall – The Book è edito da Qupé editions e stampato su carta Crush; finalista agli European Design Awards 2015 di Istanbul ha ricevuto una nomination al Luxe Pack in Green Awards 2015 di Shangai.

Maria Grønlund, Cosmos, Danimarca “L’anno scorso avevo una passiflora in giardino. Rimasi affascinata dalla forma complessa dei suoi fiori.”

A sinistra: Diana Scherer, Nurture Studies, Germania-Paesi Bassi

A sinistra, nel mezzo: Juan Hernaz, L’uomo che piantava gli alberi, Spagna

In alto: Jean Jullien, Humility, Francia, Inghilterra

Nurture Studies è un archivio di fiori che l’autrice ha cresciuto in vaso, poi rimosso. Le sue foto ricordano le enciclopedie botaniche; sono ritratti floreali, tra documento ed emozione.

“L’illustrazione è una sintesi de L’Uomo che piantava gli alberi di Jean Giono, la consacrazione di un’esistenza dedicata a creare la vita attraverso gli alberi.”

“Osservare la natura per disegnarla ispira un senso di umiltà.”

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Think Tank Jerry Takigawa, Plant a Kiss. Kiss a Plant, Usa “C’è un detto: ‘Pianta un bacio’, che significa semplicemente dare un bacio. Ma girando l’ordine delle parole diventa ‘Bacia una pianta’, il significato sottointeso si espande e riesce a esprimere l’amore per una pianta.”

Pagina a sinistra: Dian Jin, Life, Shanghai, Cina “Ogni vita è unica e ha la sua forma.”

In alto: Peta Hedemann, Midnight Secret Garden, Australia “I giardini, grazie agli organismi viventi che li affollano, offrono le atmosfere di pace, tranquillità ed energia più magiche.”

A destra: Marijke Buurlage, Bliss, Paesi Bassi “Questo incredibile paesaggio raffigura un uomo che vive in perfetta armonia con le sue piante grasse. Le braccia e le gambe allungate lo fanno quasi assomigliare a una pianta.”

Nazario Graziano, Aria/Air, Italia “La natura è una macchina perfetta, come una fabbrica di aria fresca dove tutto funziona alla perfezione.”

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In diretta da Berlaymont

“Stacchiamo la spina ai dinosauri industriali” Intervista a Sirpa Pietikäinen a cura di Joanna Dupont-Inglis

Joanna Dupont-Inglis si è specializzata in Scienze ambientali all’Università del Sussex e a quella di Nantes. Nel febbraio del 2009 è entrata a far parte di EuropaBio, l’associazione europea delle bioindustrie, e dall’aprile 2011 dirige il settore delle biotecnologie industriali.

Sirpa Pietikäinen è tra i principali sostenitori della bioeconomia dell’Unione europea e relatrice sull’Own Initiative Report on the Circular Economy del Parlamento europeo: “Anche molti industriali hanno capito che un utilizzo inefficiente o insostenibile delle risorse genera rifiuti e costi dove potrebbero esserci efficienza e profitto. Dobbiamo assicurare benefici crescenti per i consumatori e competitività usando solo un decimo dei materiali che utilizziamo attualmente”. C’è stato un fortissimo interesse per l’economia circolare, dall’industria alle Ong e ai funzionari degli stati europei. Qual è secondo lei il motivo? “Penso sia dovuto al fatto che molte persone, provenienti da un’ampia gamma di settori, hanno capito che lo sviluppo di un’economia circolare presuppone un vero cambio di paradigma. Se siete in viaggio e vi avviate nella direzione sbagliata, non potete correggere l’errore semplicemente accelerando un po’. Il business as usual, solo un po’ più veloce, non funzionerà. Quello che serve è una completa ristrutturazione del nostro modello economico. In questo

caso, come sappiamo, significa un abbandono del modello lineare – produzione, consumo e smaltimento – per andare verso la progettazione di un futuro circolare. Nello stesso tempo, anche se aumentiamo la nostra sostenibilità, dobbiamo assicurare benefici crescenti per i consumatori e competitività usando solo un decimo dei materiali che utilizziamo attualmente.” Pensa che questo cambio di paradigma sia una prospettiva scoraggiante per l’industria? “È dettato dal buon senso degli affari. Un utilizzo inefficiente o insostenibile delle risorse genera una cattiva strategia commerciale. Implica


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rifiuti e costi dove invece potrebbero esserci efficienza e profitto. Molti industriali, dal campo delle costruzioni a quello del cibo, dell’energia, del packaging, dei medicinali e dei materiali si rendono conto che non possiamo continuare a comportarci come se avessimo quattro pianeti a disposizione quando invece ne abbiamo solo uno. Per la mia esperienza, in realtà è l’industria che sta rivolgendosi ai politici per aiutarli a sviluppare e implementare le misure necessarie.”

Sirpa Pietikäinen

Sirpa Pietikäinen, politica finlandese del Partito di coalizione nazionale. Membro del Parlamento europeo dal 2008 e rieletta nel 2009. È stata membro del Parlamento finlandese e ministro per l’ambiente dal 1991 al 1995.

Lei è stata una paladina delle produzioni industriali basate su risorse di origine biologica e la Finlandia è all’avanguardia nello sviluppo della bioeconomia. Come vede il collegamento tra l’economia circolare e la bioeconomia? “Il collegamento è stretto, perché dobbiamo partire con un’interpretazione concreta dei criteri di sostenibilità. Un aspetto riguarda il fatto che tutti questi materiali non rinnovabili devono essere preservati in cicli totalmente chiusi. Oltre a ciò, quelli rinnovabili devono essere usati solo nei limiti della loro rinnovabilità. Se prendiamo un materiale non rinnovabile come l’alluminio o il nickel, sappiamo che una volta estratto non sarà mai rimpiazzato. D’altra parte, se ricaviamo il legno da una foresta possiamo calcolare il tempo necessario affinché venga sostituito e rimboschire di conseguenza. Se usiamo residui di foraggio o di cibo, il ciclo vitale e il tempo di ricostituzione della risorsa è ancora più breve. Quindi abbiamo gli strumenti per controllare cosa è sostenibile e cosa non lo è, e rimanere entro limiti di sicurezza. Molte delle risposte e delle soluzioni sulla sostenibilità e l’uso efficiente delle risorse sono già presenti in natura: dipende da noi riconoscerle e trarne insegnamento.” Secondo lei, l’Unione europea ha buone possibilità di guidare lo sviluppo di un’economia circolare? “Sì, e prima lo facciamo più possiamo trarre beneficio dalla transizione. La realtà è che dipendiamo dalle risorse e questo ci rende vulnerabili quando queste risorse scarseggiano. In aggiunta, l’Europa è un continente costoso, in termini di nostri standard di benessere, ambiente e lavoro. Questo significa che non saremo mai i più convenienti e non potremo competere solo sui costi. Quindi dobbiamo innovare per produrre beni sostenibili di maggior valore che la gente desideri acquistare.”

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Torino, anni ‘30

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La nostra economia e le nostre infrastrutture si sono sviluppate nell’arco di 150 anni o più basandosi sui combustibili fossili. Mentre siamo sempre più consapevoli della necessità di agire per contrastare il cambiamento climatico e diventare più efficienti nell’uso delle risorse, il sistema basato sui fossili è ben consolidato e sostenuto da sussidi. Dobbiamo rassegnarci a un confronto impari o si può fare qualcosa per “livellare il piano di gioco”? “Il problema per le industrie emergenti è che di solito hanno a disposizione meno risorse. Sono così impegnate a combattere per emergere che non hanno il tempo, i contatti o il network per cercare supporto. Sull’altro lato, ci sono dinosauri industriali insostenibili molto ben piazzati – quelli che io chiamo i morti che camminano – che hanno come priorità assoluta la conservazione della fetta di mercato conquistata. Come politici, siamo spesso sfidati da questi gruppi che invocano cambiamenti nelle normative per poter continuare a esistere. Se preserviamo e prolunghiamo nel tempo la cattiva pratica dell’inquinamento e delle industrie insostenibili, per esempio mediante sussidi, stiamo in realtà rendendo a loro, e alla popolazione, un cattivo servizio. È una specie di ‘macchinario salvavita’ per qualcuno che è già morto.” Ma quando industrie nuove e alimentate con fonti rinnovabili cercano di emergere sono spesso penalizzate per non essere “abbastanza sostenibili”. Come possiamo contrastare la malattia dell’Unione europea di “fare del perfetto il nemico del bene”? “Non abbiamo preso sul serio l’Iluc (il cambiamento ‘indiretto’ di destinazione d’uso dei terreni; indirect land use change). Quello che serviva era un onesto criterio di sostenibilità dell’uso del suolo e non ce l’abbiamo. È stato

estremamente stupido riservare un sostegno preferenziale per i biocarburanti di prima generazione (1G) solo per cambiare idea e cercare di sopprimerli un paio di anni più tardi. Quello di cui abbiamo bisogno è una struttura normativa stabile, progressiva e coerente per dare all’industria le certezze di cui ha bisogno per investire. Il supporto, il suo livello e la sua durata devono essere chiari dall’inizio e non possiamo permetterci di cambiare ancora gli obiettivi. Ma dobbiamo anche essere pragmatici. Naturalmente non possiamo creare un nuovo mondo in sette giorni e poi sederci e riposare. Creare un’economia circolare richiederà tempo. Abbiamo bisogno di più incentivi finanziari per i prodotti di seconda e terza generazione e di una serie di sostegni periodici per intraprendere i passi successivi. Per esempio, devono essere concretizzati gli strumenti di supporto per favorire il passaggio dalla prima generazione alla seconda (2G) e alla terza (3G). Non possiamo fingere di essere sorpresi se un’industria che è stata bistrattata come produttrice di prodotti 1G non vorrà investire in 2 o 3G in Europa.” Che tipo di sostegno si dovrebbe immaginare per le industrie emergenti nell’economia circolare? “Introdurre nel mercato prodotti nuovi e più sostenibili significa investire in nuove infrastrutture. Per esempio, le bioraffinerie dimostrative e quelle più innovative richiedono grandi investimenti di capitali e lunghi tempi di ammortamento. Alcune di queste bioraffinerie utilizzano già materiali rinnovabili, come il legno, per produrre nuovi fantastici prodotti a base biologica, come indumenti, medicinali, cibo, mangime, prodotti chimici e plastica. Ma queste bioraffinerie richiedono finanziamenti a lungo termine e abbiamo bisogno di nuovi modelli. In aggiunta, all’industria serve una certezza normativa a più lungo termine e un’economia circolare dovrebbe tenerne conto. È il momento di realizzare tutto questo.” Quando arriveremo al 2020 e guarderemo agli ultimi cinque anni dove pensa che saremo arrivati? “Potremmo avere avuto un avanzamento del 5 o del 10% nella creazione di una bioeconomia circolare, ma non di più. La nostra popolazione, i suoi bisogni e il nostro livello di consumi stanno crescendo a una velocità tale che ci vorrà un enorme sforzo collettivo semplicemente per mantenere le stesse posizioni. Comunque, sappiamo per certo che, entro 30 anni, dovremo produrre il 30% dei nostri prodotti partendo da materiali a base biologica e dovremo avere inserito tutti i materiali non rinnovabili in cicli chiusi, avendo drasticamente ridotto il nostro impatto sulla biodiversità e le nostre emissioni di gas serra e sostanze chimiche pericolose. Trent’anni passeranno in fretta quindi non sono solo le risorse che non possiamo permetterci di sprecare. È anche il tempo.”


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a cura di Mario Bonaccorso

La NUOVA CHIMICA vale 80 mila miliardi di dollari Intervista a Rafael Cayuela

Rafael Cayuela è autore di The Future of the Chemical Industry by 2050 pubblicato da Wiley nel 2013.

Mario Bonaccorso è giornalista esperto di finanza ed economia. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

È un cambio di epoca per l’industria chimica. La strada della sostenibilità è senza ritorno, spinta dalla necessità di rispondere alla sfida del cambiamento climatico e dell’efficienza energetica, più che dalla volatilità del prezzo del greggio. Tutto ciò si tradurrà in un’opportunità di business senza precedenti: 80.000 miliardi di dollari entro il 2050. Cambierà la materia prima (più shale gas e risorse biologiche), il tipo di prodotti (più sostenibili), i mercati e gli attori, con Europa e Stati Uniti che manterranno un ruolo di leadership ma con Brasile, Russia, India e Cina destinati ad avere un peso sempre maggiore. A parlare di questi temi con “Materia Rinnovabile” è Rafael Cayuela, autore nel 2013 di un libro che entra nel merito di quello che sarà il futuro dell’industria chimica mondiale, The Future of the Chemical Industry by 2050 pubblicato da Wiley.

Partiamo dal suo libro, che è considerato una vera e propria Bibbia dagli addetti ai lavori. Ci aiuta a comprendere dove sta andando l’industria chimica mondiale? “L’industria chimica negli ultimi dieci anni ha iniziato gradualmente a spostare la propria attenzione dall’efficienza operativa e dalle commodities all’innovazione reale e alla convergenza tecnologica. La chimica sostenibile è destinata a diventare poco alla volta la norma nelle economie avanzate, mentre le economie emergenti saranno costrette a seguire, tanto più inizieranno ad applicare i regolamenti sempre più globali e stringenti. La necessità di rendere più efficiente il consumo di energia e ridurre le emissioni globali di CO2 presenterà un costo rilevante per l’industria, ma soprattutto una opportunità di business enorme. In un mondo pronto a vivere con appena 4.000 grammi di CO2 pro capite al giorno entro il 2050, dai 28.000 grammi nel 2010, l’industria chimica, la tecnologia e l’innovazione sono destinati ad avere un ruolo formidabile. In tal senso

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la necessità di ridurre le emissioni e l’uso di energia rappresenterà la singola più grande opportunità di business nella storia umana, fino a 80.000 miliardi di dollari entro il 2050. L’industria chimica come un fattore chiave di soluzioni sostenibili sarà in prima linea.” In questa logica la caduta vertiginosa del prezzo del greggio negli ultimi mesi non dovrebbe avere un impatto negativo sulla scelta di investire in risorse rinnovabili. È così? “Ritengo proprio che sia così, perché l’impiego delle risorse biologiche da parte dell’industria chimica non è semplicemente trainato da ragioni economiche, ma dalla necessità di affrontare il cambiamento climatico e sviluppare una economia ecosostenibile. A fondamento di tutte le innovazioni nella storia c’è il bisogno di risolvere un problema. Ma non deve essere l’industria a dire qual è il problema, devono essere i governi. All’industria spetta il compito di trovare la soluzione. Mi consenta di farle un esempio storico: quando la fornitura di gomma naturale dal Sudest asiatico fu interrotta, all’inizio della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti chiesero all’industria chimica di impegnarsi nella ricerca e nella produzione di un’alternativa. Nacque così la gomma sintetica, denominata GR-S (Government Rubber-Styrene), che fu poi commercializzata in tempi record per soddisfare le esigenze degli Stati Uniti e dei suoi alleati durante la Seconda guerra mondiale.” Restando sul lato della domanda, quanto ritiene sia importante la richiesta di prodotti biobased da parte dei consumatori, che sono disponibili – secondo alcune analisi di mercato – anche a pagare un premium price pur di acquistare prodotti sostenibili? “Credo non sia un fenomeno rilevante, se guardiamo la questione in termini macroeconomici. Mettiamo anche che un 5-10% dei consumatori sia disposto a pagare un sovrapprezzo per un prodotto green. Parliamo solo dei paesi più ricchi: quindi 10 milioni in Europa, altri 10 negli Stati Uniti. Non è questo che può trainare il mercato della chimica.” Crede allora che programmi come il Biopreferred degli Stati Uniti, che interviene per sostenere la domanda, obbligando le autorità pubbliche ad acquisti green e inserendo un sistema di standard ed etichettature per i prodotti biobased, possano essere utili per favorire la bioeconomia? “Io sono fermamente convinto che i governi abbiano un ruolo essenziale nel guidare il cambiamento. In quest’ottica il programma

Biopreferred favorendo la domanda di prodotti biobased è positivo. Bisogna fare attenzione, però, che non sia il governo a spiegare la soluzione all’industria. Il suo compito è di porre il problema, come avvenuto nel caso della gomma che le ho citato prima. Sennò, si rischia di creare delle distorsioni nel mercato. L’impiego di risorse biologiche è solo una delle risposte a disposizione dell’industria chimica per affrontare la sfida del cambiamento climatico e dell’approvvigionamento di energia.” Un’altra possibile risposta è lo shale gas? “Senz’altro. Oggi l’industria, non solo quella chimica, deve sempre più adottare una visione d’insieme e guardare non solo al prezzo delle materie prime, ma anche al prezzo della CO2, al prezzo dell’acqua e a quello dei rifiuti. Con l’impiego dello shale gas abbiamo una riduzione del 30% del prezzo della CO2. Quindi è due volte utile in quanto mantiene basso il prezzo della CO2 e il prezzo del petrolio. Con un effetto ulteriore sull’industria chimica, perché ne rafforza la tendenza a concentrarsi sulle specialità e non sulle commodities. L’uso di shale gas per ottenere metano a basso prezzo ha estremamente rivoluzionato l’industria chimica americana e sta per avere un forte impatto anche in Cina. Detto questo, diciamo anche che dobbiamo essere consapevoli che il prezzo del petrolio tra il 2008 e il 2010 ha raggiunto picchi così alti che difficilmente

Lo scenario economico ed energetico è in rapida evoluzione ed è difficile fare previsioni. Quello che è certo è che per anni è come se ci fossimo trovati nel deserto, costretti a pagare l’acqua come champagne. Ma oggi non siamo più in quelle condizioni.


Policy

potranno verificarsi di nuovo. Alla base di questa impennata si trova l’ingresso della Cina nell’Omc a inizio anni 2000, la sua forte richiesta di energia e la sua scarsa efficienza energetica. Oggi la Cina si sta avvicinando all’efficienza energetica di Europa e Stati Uniti e ciò significa milioni di galloni di petrolio in meno ogni anno. Lo scenario economico ed energetico è in rapida evoluzione ed è difficile fare previsioni. Quello che è certo è che per anni è come se ci fossimo trovati nel deserto, costretti a pagare l’acqua come champagne. Ma oggi non siamo più in quelle condizioni.” L’attenzione verso l’emissione di CO2 ci dovrebbe portare a dire che non è sostenibile una bioraffineria alimentata da biomassa che non proviene dal territorio circostante. In Italia è molto discussa la riconversione della raffineria di Eni in Sicilia in una bioraffineria che impiegherà olio di palma importato dalla Malesia. Cosa ne pensa? “È evidente che se importo la biomassa da paesi lontani non riduco le emissioni di CO2. La biomassa deve essere locale, fondamento delle bioraffinerie integrate nel territorio. Certo non sempre è possibile trovare la soluzione migliore. Nel caso di Eni in Sicilia credo sia prevalsa la necessità di salvaguardare i posti di lavoro sulle valutazioni di sostenibilità ambientale.”

In definitiva, la strada della sostenibilità dell’industria chimica può essere considerata senza ritorno? “Penso proprio di sì. L’industria chimica sarà chiamata a stare dietro a regolamentazioni sempre più globali, stringenti, mirate ed efficienti. Dovrà perciò imparare a essere sempre più proattiva. Le imprese e le industrie in grado di anticipare le prossime norme e di condurre la partita diventeranno i vincitori del futuro. Convergenza tecnica e collaborazione tecnologica saranno al centro di quella che nel mio libro chiamo “terza rivoluzione industriale”. L’innovazione sarà il nucleo del settore chimico. La capacità di lavorare in tutta la catena del valore e di innovare attraverso una grande varietà di tecnologie e industrie diventerà la base dell’innovazione e dello sviluppo. A tal fine dovranno essere creati nuovi paradigmi di business e quadri normativi. Dovranno essere prese nuove competenze e metriche di performance. Le imprese, i settori industriali, ma anche i paesi che non saranno in grado di pensare strategicamente, di innovare e di adattarsi alle nuove sfide del cambiamento climatico sono destinati a non sopravvivere.”

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materiarinnovabile 04. 2015 Bordo miniato di Jean Bourdichon tratto da Les Grandes Heures d’Anne de Bretagne, c. 1503-1508

di Beppe Croce

Il valore nascosto delle piante

Camaldolesi e Francescani facevano un uso del bosco che coinvolgeva la sfera dell’utile e al tempo stesso della spiritualità, della poesia e della bellezza. Quella relazione è stata frettolosamente sostituita da un approccio solo produttivistico che, ignorando la complessità, sbaglia anche i conti economici.

Beppe Croce è responsabile nazionale per l’agricoltura di Legambiente e direttore dell’associazione Chimica Verde-Bionet. Ha scritto La terra che vogliamo, con Sandro Angiolini (Edizioni Ambiente, 2013) e Bioeconomia, con Stefano Ciafani e Luca Lazzeri (Edizioni Ambiente, 2015).

“Pianterò, Egli dice, nel deserto, il cedro e il biancospino, il mirto, l’olivo, l’abete, l’olmo e il bosso.” Se dunque desideri di possedere di questi alberi in abbondanza o se brami di essere tra loro annoverato, tu chiunque sii, studiati di entrare nella quiete della solitudine... Tu dunque sarai un Cedro per la nobiltà della tua sincerità e della tua dignità; Biancospino per lo stimolo alla correzione a alla conversione; Mirto per la discreta sobrietà e temperanza; Olivo per la fecondità di opere di letizia, di pace e di misericordia; Abete per elevata meditazione e sapienza; Olmo per le opere di sostegno e pazienza; Bosso perché informato di umiltà e perseveranza. Tratto dal Liber eremiticae regulae aditae a Rodulpho eximio doctore. Biblioteca della città di Arezzo, cod. 333, sec XI Traduzione di Padre Salvatore Frigerio – SLM – Sopra il Livello del Mare, n. 11, 2003

La Regola dei Camaldolesi, a cui dobbiamo il primo codice forestale della storia, ci rimanda alla straordinaria molteplicità di sensi e di funzioni della materia fondamentale di cui si occupa la bioeconomia: il mondo vegetale. Oggi le società occidentali ne riscoprono a modo loro l’importanza. “Nel lungo periodo i combustibili fossili non saranno più disponibili a un prezzo vantaggioso e la biomassa sarà la fonte primaria di carbonio per l’economia globale.” Così si annunciava l’era della biobased economy nelle parole di una dirigente della Commissione europea.1 Il mondo vegetale qui si riduce a un’astratta e informe risorsa, la biomassa, ampiamente disponibile sul pianeta, da sfruttare come fonte di energia e materie prime. Certo, anche Camaldolesi e Francescani facevano


Policy 1. Maria Angeles Benitez Salas DG Agricoltura – “The Knowledge Based Bio-Economy towards 2020 Turning Challenges into Opportunities” – The KBBE Conference – Bruxelles, settembre 2010. 2. Vedi in particolare “L’innovazione per una crescita sostenibile: una bioeconomia per l’Europa” – Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni – Bruxelles, 13 febbraio 2012; ec.europa.eu/research/ bioeconomy/. Vedi anche “The European Bioeconomy in 2030 – Delivering Sustainable Growth by addressing the Grand Societal Challenges” libro bianco delle piattaforme tecnologiche europee; www.epsoweb.org/file/560. 3. Rudolf Brenneisen, “Chemistry and Analysis of Phytocannabinoids and Other Cannabis Constituents” in Mahmoud A. ElSohly, Marijuana and the Cannabinoids, 2007. 4. Era la domanda fondamentale che ci ponevamo a proposito del cibo in un altro libro: Beppe Croce, Sandro Angiolini, La terra che vogliamo. Il futuro delle campagne italiane, Edizioni Ambiente, 2013. 5. Johan Rockström et al., “A safe operating space for humanity” in Nature 461, 472-475 (24 settembre 2009), aggiornato a inizio 2015, Will Steffen et al., “Planetary boundaries: Guiding human development on a changing planet” (DOI: 10.1126/ science.1259855). Questi temi sono sviluppati in Natura in bancarotta, di Johan Rockström e Anders Wijkman, Edizioni Ambiente, 2014.

un uso economico del bosco, ma in un rapporto assai più complesso che coinvolgeva la sfera dell’utile e al tempo stesso della spiritualità, della poesia e della bellezza. Il bosco era il cosmo o l’intermediario del cosmo. Nel linguaggio spesso riduttivo della politica e dell’impresa, che è poi il nostro linguaggio quotidiano, si prefigura invece un potenziale di opportunità, ma anche di rischi. Per quanto più laici di San Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, per entrare con successo nella bioeconomy non potremo trascurare la molteplicità di funzioni che il mondo vegetale assolve per la nostra vita. Non potremo fare a meno neppure della sorpresa, della poesia e del rispetto per un albero in fiore. Non potremo fare a meno di economie più solidali e di un rapporto con le risorse diverso dall’usa e getta. Se ridurremo tutto a biomassa la scommessa è già persa. Una straordinaria sfida economica ed ecologica In estrema sintesi bioeconomia significa che il motore dell’economia dei prossimi decenni saranno le risorse rinnovabili di origine biologica, in progressiva sostituzione del petrolio e delle altre sostanze fossili.2 Risorse che vengono dalle piante, dagli animali, dalle alghe e dagli organismi che vivono nel mare; ma anche da funghi, batteri, lieviti nonché dalla parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani. Assumendo materie prime biologiche e rifiuti come base dei prodotti di domani, si apre una straordinaria sfida economica ed ecologica. Tre i vantaggi offerti dalle materie prime biologiche: sono potenzialmente non esauribili; in genere meno inquinanti e meno tossiche dei loro omologhi fossili; producibili sul territorio e in grado di garantire maggiore autonomia energetica e politica. Il motore principale di questo sviluppo è la chimica verde, ossia il complesso di conoscenze e tecniche che ci consentono di estrarre dalla biomassa sostanze ad alto valore aggiunto. Il mondo biologico offre una ricchezza di molecole e composti notevolmente più ampia di quella offerta dagli idrocarburi derivati dal petrolio. A partire dai cosiddetti metaboliti, ossia le molecole prodotte dal metabolismo delle piante, attraverso sofisticati sistemi di demolizione e costruzione. Alcuni sono comuni a tutti gli esseri viventi: proteine, carboidrati, lipidi e acidi nucleici. Sono i metaboliti primari, ottenuti dalla demolizione del glucosio che rappresenta il motore energetico principale della cellula e che la pianta costruisce da sé con la fotosintesi. Ma le piante producono anche una straordinaria varietà di altre molecole specializzate – i metaboliti secondari, noti anche come princìpi attivi – connesse alla vita di interrelazione con l’ambiente. Molecole come i terpeni, gli alcaloidi, i polifenoli, i glucosidi e così via, che servono alle piante per attrarre, respingere, neutralizzare, risanarsi o per altre funzioni.

I metaboliti secondari sono migliaia di molecole diverse e in continua evoluzione. Di parecchie ancora oggi si conoscono solo le principali proprietà. Nella pianta di canapa per esempio sono stati identificati finora oltre 480 composti chimici diversi.3 Da questo straordinario complesso di molecole e materiali offerti dal mondo vegetale la chimica verde può ottenere un’enorme varietà di prodotti. E naturalmente materie prime energetiche: biocarburanti e biocombustibili solidi, liquidi e gassosi. Diventare più efficienti non basta Le prospettive aperte dalla bioeconomia sembrano dunque molto promettenti. Senza dimenticare che l’agricoltura in questa sfida dovrebbe recuperare il suo ruolo di attore primario dello sviluppo, in quanto fonte principale di queste risorse biologiche. Ma quando si guarda alla fonte ci si scontra con il fatto che il suolo è una risorsa limitata. Come si concilia il ritorno all’agricoltura come fonte di beni primari con la previsione di una popolazione di 9 miliardi di individui e di consumi di proteine in continua ascesa?4 Gli ecosistemi terrestri sono in grado di soddisfare questa crescita di aspettative senza subire alterazioni irreversibili? La pressione della nostra specie sugli ecosistemi è infatti arrivata al limite di tolleranza. Anzi in molti casi ha superato quel limite, come ci ha avvisato – tra gli altri – Johan Rockström.5 Una sfida simile implica un salto di efficienza nei flussi di materia e di energia, in modo da ridurre al minimo il consumo di risorse naturali e la produzione di scarti. Guercino, San Romualdo, 1640-41, Pinacoteca Comunale, Ravenna

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materiarinnovabile 04. 2015 Figura 1 | Il potenziale energetico della biomassa a livello mondiale (valori espressi in exajoule: 1018 J) 2.500

2.000

Carbonio netto assorbito ogni anno dalle piante tramite fotosintesi Carbonio oggi prelevato

1.500

1.000

Carbonio prelevabile in modo sostenibile (50% biomamassa epigea) Consumo mondiale di energia Consumo attuale di energia da biomassa

500

0 Fonte: elaborazione dell’Autore su dati Leopoldina Nationale Akademie der Wissenschaften.

Ma non basta diventare più efficienti. Questa sfida non si risolve solo con la tecnologia e non si vince solo dal lato della produzione, ma anche e soprattutto dal lato dei consumi, ossia degli stili di vita delle persone e delle comunità urbane. Fare i conti con l’entropia

6. Queste stime, come le successive, sono desunte da R.K. Thauer et alii, “Availability of biomass as energy source” in Statement Bioenergy: Chances and Limits, Leopoldina Nationale Akademie der Wissenschaften, 2012 pp.10-12.

L’ingresso nella bioeconomia esige di ripensare anche i fondamenti teorici dell’economia e del suo rapporto col mondo fisico. Le basi fondamentali di un pensiero in grado di conciliare economia ed ecologia vanno ricercate negli scritti dell’economista che per primo ha coniato il termine bioeconomia: Nicholas GeorgescuRoegen. Statistico e matematico prima ancora che economista, fu definito da Paul Samuelson “The Economist of the Economists”, anche se a differenza di Samuelson non ebbe mai il Nobel. Forse perché rappresentava un’anomalia rispetto alle scuole di pensiero dominanti. GeorgescuRoegen denunciò il fallimento della teoria economica neoclassica concentrata sulle utilità immediate: l’utilitarismo ha sempre considerato le risorse naturali come gratuite. Il fatto elementare che la maggior parte degli economisti del ’900 ha trascurato è che l’economia ha a che fare innanzitutto con flussi di energia e di materia. Secondo Georgescu-Roegen gli economisti, sono rimasti indietro di due secoli nella conoscenza scientifica, aggrappati al confortante meccanicismo di Laplace dove ogni processo, compreso il ciclo economico, è perfettamente riproducibile. Ma nel mondo fisico vige il secondo principio della termodinamica: i processi di conversione

energetica non sono reversibili. Ovvero nulla può tornare come prima. Non può farlo una storia d’amore, ma neanche un pezzo di carbone. La legge dell’entropia regola non solo l’evoluzione dell’universo, ma anche tutta la nostra produzione energetica e industriale. Se sul piano esistenziale l’entropia evoca l’ineluttabilità del degrado, sul piano economico il concetto di entropia ha a che fare col concetto di utilizzabilità. Questo è il problema che si addensa sul nostro futuro: non è importante “quanta” energia abbiamo sul nostro pianeta, ma quanto di essa è “utilizzabile”. All’orizzonte le nuove generazioni di biocarburanti Il problema della produzione energetica è centrale anche nella bioeconomia. Oggi a livello mondiale uno dei principali vettori di sviluppo delle bioraffinerie sono i carburanti di origine vegetale – etanolo e biodiesel in particolare – proprio come la benzina con la petrolchimica. È vero che ci si aspetta grandi cose dalla terza generazione dei biocarburanti – quella delle microalghe – e che all’orizzonte si profila la quarta generazione, quella della fotosintesi artificiale, sperimentata la prima volta negli anni ’90 al Lawrence Berkeley National Laboratory in California, sotto la direzione di SteveN Chu, premio Nobel per la fisica. Combinando luce solare, acqua non potabile, CO2 di scarto industriale e cianobatteri geneticamente modificati, si potrebbe produrre diesel ed etanolo solari. Il tutto con un minimo utilizzo di suolo e risorse idriche. Ma al momento di biocarburante solare o 4G non è stato venduto neppure un litro. In attesa delle promesse della quarta generazione, questa dipendenza della produzione di energia può diventare un limite e creare confusione tra i fabbisogni dell’industria energetica e quelli della chimica. Se ragioniamo in termini di consumi energetici, è illusorio pensare che utilizzando l’enorme giacimento di residui agricoli e forestali, anziché colture dedicate di mais e canna da zucchero, si risolva il problema dell’approvvigionamento. L’Accademia delle Scienze tedesca, Leopoldina, ha fatto un po’ di conti. A osservare la figura 1, la biomassa prelevabile in modo sostenibile, cioè senza ridurre o compromettere la copertura vegetale terrestre, sembra in grado di coprire più dell’intero fabbisogno energetico mondiale (dati 2010).6 Così potrebbe essere se per assurdo si rinunciasse a tutti gli altri impieghi. Attualmente di questo potenziale se ne preleva poco più di un terzo, in gran parte destinato a usi non energetici: cibo e foraggi (oltre 90%), materiali da costruzione, chimica verde. Quand’anche arrivassimo a prelevare tutto il potenziale indicato in figura, i consumi alimentari saranno notevolmente cresciuti visto l’aumento della popolazione mondiale e i cambiamenti nei modelli alimentari


Policy globali. Anche nei prossimi decenni, quindi, la biomassa potrà fornire un contributo ai consumi mondiali di energia (in forte crescita) non molto superiore al 10% attuale, se pure con i biocarburanti di seconda generazione e non con la legna da ardere. Il caso (diverso) delle materie plastiche Ben diverso è il consumo di materie plastiche o di lubrificanti, per citare due settori dell’industria chimica coi maggiori volumi di produzione globale. È stato stimato che il 96% di tutti i beni fabbricati negli Usa contiene almeno un prodotto chimico.7 Ma per quanto abbia invaso tutti gli spazi della nostra vita, la produzione di plastiche, a livello mondiale, è responsabile di meno del 4% del consumo annuo complessivo di petrolio. Stiamo quindi parlando di due ordini di grandezza in meno. In breve, se l’obiettivo principale è produrre carburanti, i volumi di produzione implicati sono molto grandi e le scale di impianto difficilmente compatibili con le risorse di territori come la gran parte di quelli europei. Per questo tipo di impianti le materie prime sono in genere importate da diversi continenti in base alle quotazioni del mercato. Ma in molti casi la produzione di energia può diventare una variabile dipendente di altre produzioni. Per esempio la nuova bioraffineria Matrìca di Porto Torres, è dimensionata per produrre innanzitutto biopolimeri, basi per biolubrificanti, oli estensori per le gomme, bioerbicidi.8 È prevista anche in questo caso una produzione energetica, ma basata sulla biomassa residua che non può trovare ulteriori utilizzazioni ad alto valore aggiunto, quindi in finale di processo e tendenzialmente dimensionata sui residui della biomassa lavorata. Questo rovesciamento delle priorità tra usi energetici e altri usi (cibo, mangimi, materiali, intermedi chimici) è un punto cruciale per lo sviluppo di una bioeconomia basata su modelli di bioraffinerie territoriali integrate, sistemi tecnologici flessibili che utilizzano una varietà di risorse specifiche, prodotte o disponibili a livello locale, per ottenere un’ampia gamma di prodotti biobased. Questo approccio è fondamentale soprattutto per paesi poveri di terra come l’Italia e come, in generale, l’Europa. Una bioraffineria territoriale integrata presenta diversi vantaggi potenziali: •• opera in genere su impianti di piccola e media scala, mai sovradimensionati rispetto alla disponibilità di risorse locali, e in tal modo offre maggiori garanzie di tracciabilità e sostenibilità delle materie prime che utilizza; •• può garantire più ampie ricadute di ricchezza sul territorio in cui opera e il coinvolgimento attivo del mondo agricolo locale, cosa pressoché impossibile con un grande impianto delocalizzato per produrre biocarburanti. In tal modo ottiene maggiore consenso sociale;

•• essendo la sua produzione legata a specificità territoriali, non è facilmente esportabile laddove manodopera e consenso si possono acquistare a miglior prezzo dalle popolazioni locali. Questo modello di bioraffineria, a differenza di quella basata esclusivamente sulla produzione di energia, può essere addirittura di nicchia, ma comunque in grado di generare un alto valore aggiunto grazie alle qualità ambientali dei bioprodotti che ne possono derivare. La bioraffineria inizia in campo Ma la bioraffineria non è solo l’impianto industriale. Finché la biomassa vegetale sarà la fonte prioritaria della bioeconomia, la sostenibilità della fase agricola gioca un ruolo fondamentale nell’intera filiera. Un’eccessiva pressione sugli ecosistemi o un eccessivo impiego di lavorazioni meccaniche e input chimici per la fase di coltivazione è la premessa per filiere a bassa sostenibilità o peggio ancora per la perdita di fertilità dei suoli. La bioraffineria inizia in campo e non può che iniziare in campo se vuole assicurare materie prime di qualità e sostenibilità della filiera, non solo sul piano energetico e ambientale, ma anche sociale. Non è pensabile che la bioeconomia prosegua la tradizionale separazione tra un agricoltore fornitore di materie prime indifferenziate a basso prezzo e un trasformatore industriale che compra il seme o la fibra laddove il prezzo è più basso. La bioraffineria inizia anzi dalla pianta stessa. Qui si apre un enorme campo di ricerca e innovazione. Siamo abituati a consumare nel mondo centinaia di milioni di ettari di suolo fertile per una monocoltura e per utilizzare una minima parte di questa monocoltura (per esempio la cariosside del grano). Non sappiamo ancora utilizzare l’enorme ricchezza di sostanze e molecole che una pianta può offrire. Anche quelle che chiamiamo colture dedicate e che oggi trattiamo con un certo disprezzo perché evocano enormi distese di mais per produrre unicamente carburanti, in realtà potrebbero avere molteplici impieghi sia food sia non food. Perché un agricoltore dovrebbe coltivare canapa solo per vendere paglia all’industria senza valorizzare il seme per usi nutrizionali? Perché considerare il cardo una coltura solo non food (che secondo alcuni ruba spazio alla produzione di cibo), quando il suo panello residuo potrebbe fornire un ottimo integratore alimentare alla zootecnia locale, sostituendo l’importazione di soia Ogm? Un pensiero economico che assuma il problema della scarsità come orizzonte di lungo periodo non può fare a meno dell’ecologia. Questo è il compito fondamentale della bioeconomia. E si potrà allora scoprire il senso reale dell’attività economica, come ci suggerisce Georgescu-Roegen: “il vero output del processo economico non è un flusso materiale di scarti, ma un fluire immateriale: il godimento della vita”.9

7. Unleashing the Power of the Bioeconomy, Financial Innovations Lab, Milken Institute, febbraio 2013.

8. Per il caso Matrìca vedi cap. 5 “La rinascita: le bioraffinerie italiane” in B. Croce, S. Ciafani e L. Lazzeri, Bioeconomia, Edizioni Ambiente, 2015.

9. Nicholas GeorgescuRoegen, “La legge di entropia e il problema economico” in Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, a cura di M. Bonaiuti, Bollati Boringhieri, 2003.

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materiarinnovabile 04. 2015

di Chiara Piccini

10% di biocarburanti senza rimetterci neanche un panino

Cave e miniere esaurite, discariche, aree industriali dismesse: lo sfruttamento delle aree marginali per le coltivazioni bioenergetiche è una soluzione concreta allo studio in Europa e in Italia. Per abbattere l’impatto ambientale essenziale il ruolo della chimica verde. Chiara Piccini, geologa, ricercatrice a progetto presso il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria.

Oggi nel mondo le biomasse contribuiscono per il 10-12% al bilancio energetico: sono al primo posto tra le rinnovabili e possiedono un significativo potenziale di espansione sia per quel che riguarda la produzione di elettricità e calore, sia nel settore dei trasporti. Ma non basta. La sfida è produrre biomasse in maniera sostenibile (evitando il conflitto con le necessità alimentari) e passare a un loro uso più efficiente e tecnologicamente avanzato (attualmente viene impiegato solo il 40% della materia prima utilizzabile con le conoscenze e le tecnologie al momento disponibili). È una sfida ineludibile perché, nonostante le difficoltà accennate, l’interesse verso il settore bioenergetico continua ad aumentare per due fattori: la crescita del prezzo dei combustibili fossili e le preoccupazioni riguardanti la sicurezza degli approvvigionamenti energetici. Questa spinta

suggerisce dunque un’analisi attenta del settore e delle sue potenzialità. Ecco i punti essenziali. La chimica verde L’utilizzo della biomassa come fonte rinnovabile può essere realizzato recuperando la materia prima vegetale residuale derivante dalla manutenzione forestale, dai residui agricoli, dagli scarti dell’industria del legno e di quella agroalimentare. Oppure producendola in apposite coltivazioni energetiche. Ancora oggi gran parte della biomassa viene utilizzata direttamente per il riscaldamento, specie nei paesi in via di sviluppo. Ma è sugli usi tecnologicamente avanzati che ovviamente si concentrano i maggiori interessi. Parliamo di chimica verde: le biomasse, grazie a processi chimici avanzati, si possono trasformare in sostanze utilizzabili per produrre un’ampia


Policy gamma di composti intermedi dai quali si ricavano altri prodotti (biobased products, cioè prodotti ottenuti da materiali di origine biologica) ed energia.

Distribuzione dell’uso del suolo a livello globale Fonte: dati Fao.

Terreni agricoli 11%

Il consumo di suolo Purtroppo a oggi più della metà della materia vegetale residuale disponibile viene sprecata e si utilizza soprattutto la biomassa prodotta nelle coltivazioni energetiche. Così è ricavata la stragrande maggioranza di biocarburanti liquidi prodotti e distribuiti su larga scala: da canna da zucchero, mais e altri cereali, barbabietole e alcune colture oleaginose. Basterebbe solo questo per comprendere il potenziale conflitto esistente tra colture energetiche e il fabbisogno alimentare da soddisfare nel prossimo futuro con una popolazione mondiale ancora in forte crescita. Il suolo – necessario sia per coltivare prodotti per l’alimentazione sia per le colture energetiche – è una risorsa preziosa, oltre che scarsa. A livello globale la maggior parte del terreno disponibile per la produzione di biomassa è già utilizzata; senza contare che oltre un quinto della superficie complessiva (13 miliardi di ettari) non può ospitare né colture, pascoli o foreste anche solo per ragioni climatiche. È semplicemente impossibile pensare quindi di soddisfare il fabbisogno energetico impiegando solo la biomassa ricavata da colture dedicate, visto che sarebbero necessarie enormi estensioni di terreno. In alcuni paesi dove è stata valutata questa possibilità – uno studio del genere è stato portato avanti negli Usa relativamente alla produzione di biocarburanti – si è giunti alla conclusione che il territorio utilizzabile non sarebbe comunque sufficiente a rifornire i veicoli esistenti. Senza dimenticare che la potenziale competizione tra le colture bioenergetiche e quelle per il consumo alimentare non riguarda solo il consumo del suolo, ma ha anche risvolti in termini di consumi idrici, uso di fertilizzanti e impiego di lavoro. Gli impatti Non solo. Oltre a sottrarre terre utilizzabili per la produzione alimentare, le colture intensive necessarie a produrre biocarburanti impattano sulla biodiversità locale e determinano l’espansione della monocoltura a scopo energetico anche in aree non agricole, spingendo alla deforestazione. Inoltre va considerato il rapporto non sempre positivo tra l’energia necessaria per produrre biocarburanti e quella che si rende disponibile dal loro impiego. Un solo esempio. Dal punto di vista idrico per produrre un litro di biodiesel servono complessivamente 4.000 litri di acqua, considerando sia quella necessaria per

Inadatti per colture, pascoli e foreste 21%

Aree urbane 9%

Pascoli 27%

Foreste 32%

l’irrigazione delle colture sia quella utilizzata durante il processo chimico di trasformazione. Tutto ciò per dire che rischi e benefici legati alla produzione di bioenergia devono essere attentamente valutati alla luce di elementi caratteristici di ciascun paese e di ciascuna regione. Proprio per valutare i pro e i contro degli investimenti nel settore, la Fao ha messo a punto una nuova metodologia: “Bioenergy and Food Security Analytical Framework”. Il metodo permette di valutare il potenziale di produzione di bioenergia in uno specifico contesto e al tempo stesso di stimarne i possibili impatti, considerando la fattibilità del progetto di sviluppo, le ricadute sulla disponibilità e sulla sicurezza degli alimenti, gli aspetti sociali e ambientali. Valorizzare le aree marginali Per ridurre l’entità del consumo del suolo e gli impatti a esso collegati e non sottrarre terreno alle coltivazioni per usi alimentari, una possibilità concreta per le colture bioenergetiche è quella di utilizzare i terreni marginali. Parliamo delle aree che per le loro caratteristiche climatiche, pedologiche o colturali sono inadatte all’uso agricolo tradizionale. Esempi di aree marginali sono le cave e miniere a cielo aperto esaurite o dismesse, le discariche chiuse o abbandonate. E ancora: aree degradate e inquinate, aree industriali dismesse, terreni coltivabili mai seminati e privi di vegetazione, ex siti militari e terreni comunque inadatti alla coltivazione, all’uso forestale o a pascolo, ricadenti nelle ultime classi di capacità d’uso dei suoli (land capability). Si tratta di aree che, al contrario di quanto potrebbe apparire, possono essere utilizzate

Ancora oggi gran parte della biomassa viene utilizzata direttamente per il riscaldamento, specie nei paesi in via di sviluppo. Ma è sugli usi tecnologicamente avanzati che ovviamente si concentrano i maggiori interessi.

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materiarinnovabile 04. 2015 Andamento nel consumo di biocarburanti nella Ue-28 16

Fonte: dati Eurostat.

14 12

Mtep

10 8 6 4

+1.225% in 11 anni

2 0 2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

con grande vantaggio e diventare produttive. Ci sono, per esempio, alcune piante in grado di crescere bene anche in terreni inquinati da metalli pesanti. Un’altra possibilità poi è quella di irrigare le colture energetiche in tali aree con le acque reflue, ottenendo notevoli benefici in termini di consumo idrico e non sottraendo acqua agli usi potabili e agricoli. L’obiettivo europeo: arrivare al 10% di biocarburanti Purtroppo il potenziale della nostra industria è largamente sottoutilizzato […] Per invertire questo fenomeno e sfruttare meglio il potenziale produttivo dell’Italia è necessario stimolare la produzione di biomasse in maniera più efficiente e nello stesso tempo aumentare la raccolta delle biomasse residuali.

Dal 2002 al 2012 il consumo di biocarburanti nei trasporti nei paesi Ue-28 è sempre stato in crescita e si è attestato nel 2013 intorno a 13,6 Mtep. E l’obiettivo dell’Ue è di arrivare – nel 2020 – a utilizzare nel mix di carburanti una quota di biocarburanti pari al 10%. Questo incremento nei consumi ha prodotto due conseguenze. Da una parte ha fatto crescere l’importazione di materia prima e/o di prodotto finito – soprattutto etanolo – da paesi terzi. Dall’altra, sulla spinta degli incentivi concessi dall’Ue ai biocarburanti, ha incoraggiato la conversione indiscriminata di molti terreni agricoli, sottraendoli alle produzioni destinate all’alimentazione. In Germania, Olanda e Francia, dove per la produzione di biocarburanti viene usato principalmente l’olio di colza, oltre il 60% delle coltivazioni di questa pianta viene destinato a tale uso. In realtà con la nuova Pac e il disaccoppiamento tra aiuto e destinazione d’uso dei suoli, gli agricoltori europei hanno varie possibilità per aumentare la loro produzione di biomassa, senza consumare suolo in più. Per esempio, inserire colture energetiche nella rotazione delle coltivazioni oppure utilizzare a tal fine i terreni non adatti alla coltivazione di prodotti alimentari, ma che in questa ottica potrebbero essere riabilitati.

2011

2012

2013

La situazione italiana Negli ultimi anni in Italia la produzione di biomasse per usi energetici e industriali è cresciuta costantemente. Secondo il Piano di azione nazionale sulle rinnovabili le biomasse dovrebbero coprire – rispetto al totale delle fonti energetiche rinnovabili – il 19% del totale dei consumi elettrici, il 54% del fabbisogno di energia per riscaldamento e raffreddamento e l’87% nel settore dei trasporti. Per la produzione di energia termica e/o elettrica le biomasse più utilizzate sono costituite essenzialmente da legna (circa 23 milioni di t/anno, di cui più o meno l’83% impiegati per il riscaldamento domestico) e residui forestali, agricoli e agroindustriali. Nella produzione di biodiesel l’Italia è al quarto posto in Europa, dopo Germania, Francia e Spagna, con una capacità produttiva di oltre 2 milioni di t/anno (dato relativo al 2011). Purtroppo il potenziale della nostra industria è largamente sottoutilizzato: l’esistenza di agevolazioni all’esportazione in alcuni paesi extraeuropei rende più conveniente approvvigionarsi di biodiesel da produttori stranieri. Con il risultato che, a fronte di una produzione sostanzialmente stabile, la crescente richiesta da parte del mercato viene soddisfatta in misura sempre più rilevante dalle importazioni. Per invertire questo fenomeno e sfruttare meglio il potenziale produttivo dell’Italia è necessario stimolare la produzione di biomasse in maniera più efficiente e nello stesso tempo aumentare la raccolta delle biomasse residuali. Ovvero, recuperare quegli scarti diffusi, significativi in termini quantitativi, disponibili nel settore agricolo (potature), forestale (residui forestali) e dell’agroindustria (gusci, sanse) che spesso


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settembre 2011; www.qualenergia.it/ articoli/biocarburantibiofuel-la-secondagenerazione-2020Pignatelli-Enea-etanololigno-celulosico •• Khwaja Y., Maltsoglou I., “Agriculture, bioenergy and food security: using BEFS to guide agricultural change”, Bioenergy and Food Security – The BEFS

analysis for Tanzania, Fao, Environment and natural resources management working paper n. 35, 2010, pp. 13-22 •• “M2RES - Transforming marginalities into RES opportunities: experiences and lessons learnt”, Programma South East Europe, 2014; www.m2res.eu •• Maddalena L.,

rimangono inutilizzati o distrutti impropriamente. Al momento in Italia si coltivano ai fini energetici soprattutto colza (80%) e girasole (20%). Ma di fatto non esistono dati precisi sulle colture energetiche che appaiono quasi ignorate dalle statistiche ufficiali. Se si esclude la filiera del pioppo per produrre cippato, le altre colture utilizzabili per produrre biocarburanti (colza, girasole, soia) o generare biogas (mais, sorgo, triticale) sono indistinguibili dalle analoghe colture alimentari, dalle quali le differenzia solo l’uso finale. In Italia non si sono mai diffuse ampiamente: non perché non sia esistito un reale interesse da parte degli agricoltori o per mancanza di terreni, ma perché il mercato non ha mostrato di ripagare adeguatamente i costi sostenuti dagli agricoltori, rispetto al più tradizionale mercato delle colture alimentari. Nell’ottica della valorizzazione delle colture energetiche l’agricoltura conservativa può senz’altro svolgere un ruolo positivo. Per esempio, utilizzare per le coltivazioni le aree collinari i cui suoli privi di copertura vegetale dopo la raccolta di cereali e orticole nel periodo autunnaleinvernale sono più facilmente soggetti a fenomeni di erosione idrica.

Superficie agricola utilizzata e non utilizzata in Italia rispetto al totale Fonte: dati Istat.

24% Non utilizzata

76% Utilizzata

Superficie agricola totale in Italia 17 mln ha

Lo sviluppo delle energie alternative: il caso Puglia, Franco Angeli, Milano, 2012 •• “Solid Biomass Barometer”, Eurobserv’er, 2015; www.eurobserv-er.org •• Tavolo di filiera per le bioenergie. DM 9800 del 27 aprile 2012, Gruppo di lavoro n. 1 Biomasse – Biocarburanti e bioliquidi

– Biogas e biometano – Chimica verde, Stato dell’arte della bioenergia in Italia, giugno 2014; www.itabia.it/doc/pdf/ Rapporto_Stato_filiere_ bioenergetiche_GR1.pdf

Particolarmente utile poi potrebbe essere anche l’adozione di pratiche di short rotation forestry (Srf), che consistono nell’impianto di colture legnose-arboree o arbustive a turno breve e rapido accrescimento. Così come potrebbe essere significativo il contributo delle aree marginali. In Italia la superficie totale disponibile per le colture bioenergetiche è pari a 1-2 milioni di ettari; di questi circa 200.000 sono aree pubbliche incolte di cui spesso le amministrazioni non sanno cosa fare e che – in questa logica – rappresentano una risorsa preziosa. La possibilità più ampia viene proprio dalle cave e miniere a cielo aperto esaurite, che potrebbero contribuire per oltre il 3% del fabbisogno energetico nazionale. A seguire le discariche, le aree contaminate e le ex aree militari. In Sardegna e in Sicilia sono già partiti alcuni progetti di riutilizzo di vecchi siti industriali dismessi: aree compromesse e inquinate nelle quali viene coltivata la canna comune (Arundo donax). Il recupero delle aree degradate per la coltivazione di biomassa è alla base anche del progetto “From marginal to renewable energy sources sites” (M2RES). Il sistema proposto riesce a ridurre i costi di produzione dei biocarburanti, diminuire la quantità di acqua e fertilizzanti e a non incidere sulle risorse alimentari a disposizione dei consumatori. Il progetto prevede di utilizzare piante a semina autunnale capaci di svilupparsi anche in condizioni di scarso apporto idrico; terreni normalmente non adatti per la produzione di specie alimentari (zone premontane, zone marginali); la valorizzazione completa dei co-prodotti per aumentare l’efficienza energetica a parità di acqua, diserbanti, concimi e forza lavoro; la rotazione con particolari leguminose, anch’esse adatte a vivere in condizioni di arido-coltura, per evitare l’impoverimento di sostanze organiche nel terreno. Sono esclusi i terreni coltivati negli ultimi tre anni a scopi di alimentazione umana e animale e quelli che rientrano in I e II classe di capacità d’uso, così come i terreni destinati a colture di pregio, a coltivazioni biologiche o a marchi di tutela riconosciuti dall’Ue.

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Il NEW BUSINESS ha fame di circolarità Quando crearono il Product-Life Institute a Ginevra nel 1982, Orio Giarini e Walter Stahel erano come due cowboy solitari che esploravano la nuova frontiera dell’economia circolare. In realtà, durante gli anni ’60 e ’70 le fiorenti economie occidentali avevano spazzato via e gettato nell’oblio la pratica pre-industriale del riuso dei prodotti e del riciclo dei materiali. Da allora i modelli di business, l’innovazione dei prodotti, i consumi privati e l’economia in generale hanno puntato alla crescita infinita e al benessere universale. Giganteschi escavatori Caterpillar svettano come simboli dei confini sempre in movimento dell’economia lineare che chiede incessantemente nuove terre per l’agricoltura, più risorse minerarie per l’industria, nuove strade per accelerare la crescita, discariche per accogliere sempre più rifiuti... Non c’è bisogno di essere esperti per immaginare che un giorno o l’altro, prima o poi, il bengodi dell’economia possa finire. Ecco perché i due cowboy solitari hanno unito le loro corde in un lazo e sono partiti a caccia di una soluzione più praticabile: l’economia circolare (figura 1).1 Per amore di coerenza, il Product-Life Institute avviò nuovi modelli di business e li verificò. Tra questi, un’avventura intrapresa nei primi anni ’90 con la Winterthur, che consisteva nel riciclare pezzi di ricambio dal parco auto danneggiate degli assicurati creando al contempo nuove opportunità di lavoro. Più avanti quel modello si replicò spontaneamente e si adattò in molti paesi. Un altro caso, ora noto, riguardava le macchine

1. Diagramma pubblicato in Jobs for Tomorrow, the Potential for Substituting Manpower for Energy, versione online: Stahel, Walter R., 1. ed. New York, Vantage Press, ©1981 basato sul rapporto del 1977 alla Commissione europea, The Potential

for Substituting Manpower for Energy. Walter Stahel e Genevieve Reday hanno delineato la visione di un’economia in cicli ed esaminato il suo impatto sulla creazione di posti di lavoro, competitività economica, risparmio di risorse e prevenzione della creazione di rifiuti.

di Carlo Pesso

Già nel 1982 il mito della crescita economica infinita cominciava a scricchiolare e l’economia circolare era la nuova frontiera tutta da esplorare. Poi quel sogno è stato dimenticato. Oggi, a distanza di oltre 30 anni, le aziende si confrontano a Londra sui diversi modelli di business circolari. Con l’obiettivo di vincere le sfide poste dalle tendenze globali ma soprattutto coglierne le opportunità.


Policy Figura 1 | Cicli di vita di un prodotto industriale prodotti

fornitura vergine

materiali primari di base

ciclo di ricondizionamento

materiali secondari

I due cowboy solitari hanno unito le loro corde in un lazo e sono partiti a caccia di una soluzione più praticabile: l’economia circolare.

Carlo Pesso, Centro Studi Edizioni Ambiente.

2. Vedi Le Moigne Rémy, “Économie circulaire: les nouveaux ‘business models’”, in Note de veille, 5 settembre 2014, Futuribles.

Product-Life Institute: www.product-life.org

Il rapporto di Accenture Circular Advantage: Innovative Business Models and Technologies to Create Value in a World without Limits to Growth è disponibile online: tinyurl.com/lcr99xs

Circular Advantage Business Forum: innovation-forum.co.uk/ circular-economy.php

da lavanderia: dimostrò i vantaggi del “vendere beni come servizi” sotto forma di utilizzo intensivo condiviso. Mentre la maggior parte delle lavatrici sono progettate per durare circa 15 anni ed eseguire 3.000 cicli di lavaggio, le lavatrici semi-commerciali comunemente usate nelle lavanderie a gettoni lo sono per compierne 30.000 nello stesso periodo di tempo. I clienti pagano una cifra fissa per ciclo di lavaggio che include i costi operativi (acqua, energia, spazio), come pure quelli di manutenzione e riparazione. Ma la cosa più importante sostenuta da Stahel è che, mantenendo la proprietà dei beni che producevano, le aziende avrebbero potuto incrementare i loro guadagni. E ci sarebbero riuscite vendendo servizi anziché beni: in questo modo avrebbero stabilito un “rapporto” continuativo con i consumatori in grado di assicurare introiti a lungo termine. Adottando questo modello di business, affermava, le aziende alla fine avrebbero fatto di tutto per conservare e massimizzare il valore intrinseco dei loro prodotti. Anche se, fino a poco tempo fa, solo i progettisti di prodotti industriali e il mondo accademico supportavano il cosiddetto approccio cradle-to-cradle. Ci sarebbero voluti ancora diversi anni e l’avvento di un’economia basata sulla conoscenza, assieme all’esplosione dell’economia circolare, perché un tale cambiamento immaginato si realizzasse. Tanto che solo poche settimane fa – tra il 7 e il 9 giugno 2015 – si è svolto a Londra il primo Circular Advantage Business Forum, dedicato ai modelli di business applicati che perseguono l’economia circolare.

uso

smaltimento

fase di riciclo

Importanti società come AkzoNobel, Dell, Philips, Veolia, Hp, Carlsberg, Interface, Marks & Spencer e molte altre si sono riunite per discutere e condividere le loro esperienze su come implementare nuovi modelli circolari. I consulenti della Accenture Strategy hanno fornito un’analisi essenziale e delineato i modelli emergenti sulla base di una ricerca pubblicata nel 2014. Le società hanno mostrato come individuare nuovi flussi di introiti, ridurre costi e rischi, rafforzare i rapporti con i consumatori e puntare con grande determinazione al concetto di “crescita sostenibile”. Quindi non sorprende che specialisti nei trend emergenti, come Futuribles di Parigi, abbiano riconosciuto e individuato il grande cambiamento in corso.2 La ricerca di Accenture, oltre a comprendere le interviste a più di 50 manager, ha preso in esame 150 casi di economia circolare. Per arrivare a stabilire che, oggi, si può guardare l’economia circolare secondo cinque modelli ben distinti. 1. Il primo tra i nuovi modelli di business abbraccia la circular supply chain (catena di approvvigionamento circolare); include le aziende che forniscono materiali rinnovabili, riciclabili o biodegradabili al posto dei prodotti lineari. Queste imprese vedono un’opportunità di business nella scoperta di nuovi materiali che possano sostituire quelli a ciclo di vita singolo. Lo sviluppo di sostanze chimiche a base biologica della AkzoNobel è un esempio di questo approccio, come lo è quello delle pellicole a base biologica per l’impacchettamento del cibo. La AkzoNobel si è posta obiettivi di sostenibilità ambiziosi. Misura il progresso verso il raggiungimento di questi obiettivi lungo l’intera catena e non solo attraverso le proprie attività, per esempio dall’estrazione del petrolio e del gas allo smaltimento dei prodotti. In pratica, questo significa che l’azienda coinvolge i suoi fornitori e clienti e i loro fornitori e clienti. Le confezioni a base biologica per il packaging dei cibi sono un esempio. Nel 2014, l’AkzoNobel ha introdotto una tecnologia che permette di rendere completamente riciclabili i bicchieri di carta per le bevande fredde. Nonostante l’azienda fornisca un componente minimo del prodotto finale (il bicchiere di carta), il nuovo materiale ha fatto la differenza per i suoi clienti.

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Si tratta di guardare ai rifiuti come a una risorsa, di riottenere prodotti a base biologica dal processo di lavorazione o dal classico riciclo o riuso dei materiali.

2. Il secondo modello di business – che, per dirla tutta, è in giro da decenni – è basato sul recupero delle risorse: sul riciclo del materiale e sulla simbiosi industriale. È attivato dalle aziende che recuperano valore dai prodotti generati sia dalle loro attività sia da altri anelli dalla catena di valore. In altre parole, si tratta di guardare ai rifiuti come a una risorsa, di riottenere prodotti a base biologica dal processo di lavorazione o dal classico riciclo o riuso dei materiali. Per esempio, una fabbrica GM ricicla circa il 90% dei suoi scarti di lavorazione e, così facendo, sviluppa un processo di lavorazione che non impegna le discariche. Oggi la vendita dei sottoprodotti del processo di lavorazione genera ogni anno oltre un miliardo di introiti. Anche un altro progetto AkzoNobel guarda ai rifiuti come risorsa. Poiché gran parte dei rifiuti dell’azienda sono smaltiti in discariche o inceneriti, è stata presa la decisione di convertire i materiali di scarto in utili materiali grezzi. Per questo sono in via di sviluppo una tecnologia di gassificazione dei rifiuti e una per l’estrazione di sostanze chimiche elementari dai gas prodotti. Il risultato di questo processo diventerà il materiale grezzo nella produzione di sostanze chimiche e prodotti per il confezionamento. Sviluppare una soluzione così innovativa implica una grande collaborazione tra diverse aziende lungo l’intero processo, in termini di competenza, conoscenza e capitali. Mentre un’azienda sviluppa la tecnologia di gassificazione, un’altra fornisce e gestisce gli scarti (di solito un’azienda che tratta rifiuti) e una terza produce le sostanze chimiche estraendole dai gas. È un modello di business decisamente complesso da sviluppare, ma è necessario per far sì che la AkzoNobel sia la prima in questo settore dell’economia circolare.

Progetto Ara di Google, www.projectara.com

Webinar “Circular business model strategy, how to create one and is it worth the effort?”, youtu.be/93bMKbh4rHE

3. Il terzo modello dimostra come l’intuizione e la comprensione del signor Walter Stahel delle nuove frontiere dell’economia circolare fossero corrette: si tratta del prolungamento della vita del prodotto, cioè allungare il ciclo di vita operativa dei prodotti e dei componenti riparando, aggiornando e rivendendo i prodotti. Significa spostare l’enfasi del business dagli obiettivi di volume di vendite verso le prestazioni e la durevolezza dei prodotti. Il progetto Ara di Google fornisce un buon esempio. Ara sta sviluppando un telefono cellulare modulare che permette a ogni consumatore di sostituire parti e aspetti del telefono per estenderne la vita e la durevolezza. 4. Il quarto modello di business nasce dalla sharing economy basata su piattaforme di condivisione. Risultato diretto della rivoluzione IT, che raccoglie una serie prima d’ora inimmaginabile di economie di scala, parte dall’idea di usare piattaforme digitali per affittare, condividere, scambiare, prestare, regalare e barattare prodotti e servizi. Effettivamente permette di aumentare la velocità e l’utilità di un’enorme gamma di beni. Sinceramente, oggi,

gran parte dei beni sono sottoutilizzati: quasi l’80% degli oggetti presenti in una normale casa sono usati meno di una volta al mese e, come la maggior parte di noi avrà notato, per il 97% del tempo le auto restano parcheggiate e inutilizzate mentre occupano spazio comune. L’impatto di AirB&B nell’accrescere l’utilità delle case fornisce un buon esempio di come un tale modello sia pervasivo. Nel frattempo continuano a fiorire nuovi modelli di piattaforme di condivisione. 5. Lo spostamento dai prodotti ai servizi, in cui i consumatori possono affittare un bene o utilizzarlo con la formula pay-per-use, sorregge il quinto e ultimo modello denominato economia funzionale. Ancora una volta i cowboy solitari che abbiamo incontrato all’inizio del nostro viaggio tra questi nuovi modelli di business basati sull’economia circolare hanno dimostrato che stavano seguendo il giusto cammino verso il futuro. L’economia funzionale apre un mercato a tutte quelle aziende e individui che vogliono o necessitano di maggiore flessibilità nell’utilizzo di un bene, piuttosto che essere interessati alla sua proprietà. Quello che veniva spesso strettamente limitato alle relazioni e all’economia di vicinato è ora accessibile e commerciabile. In aggiunta, c’è già un altro modo per ottenere una maggiore utilità dalle risorse impiegate. A livello di business, stanno seguendo questa strada la Philips con il servizio di illuminazione e la Michelin, che offre pneumatici come servizio, basato su un modello altamente innovativo in cui il consumatore paga in base ai chilometri percorsi. A questo punto, vale la pena di guardare più da vicino il modello rivoluzionario sviluppato dalla Philips per fornire illuminazione ai suoi clienti. Marcel Jacobs, direttore del settore sostenibilità dei fornitori, ha partecipato al webinar che ha portato al London Forum Innovation. In questa occasione, ha descritto abbastanza dettagliatamente come la sua azienda si stia muovendo verso un modello circolare. Per la Philips il percorso dal lineare al circolare non rappresenta un’estensione del modello usuale di business. In realtà, data la grande varietà di prodotti che l’azienda mette sul mercato, il cambiamento implica lo sviluppo di aree di competenza completamente nuove. Queste nuove aree devono essere in grado di soddisfare le tendenze globali in termini di sfide e, più significativamente, in termini di opportunità. Le sfide più grandi sono rappresentate dalla ridotta disponibilità di risorse, dal loro aumento di prezzo e dall’espansione del ceto medio a livello planetario. Quindi la prossima – ovvia – domanda diventa: come può la Philips trarre beneficio dall’affrontare queste sfide? Per rispondere a queste domande correlate, sono stati inclusi un gran numero di altri trend significativi. Tra questi l’avvento dei big data,


Policy Spostare l’enfasi del business dagli obiettivi di volume di vendite verso le prestazioni e la durevolezza dei prodotti.

Non c’è uno standard “taglia unica” ma si impara sul campo mentre si affrontano le numerose sfide che continuano ad apparire sul cammino verso l’economia circolare.

cioè la capacità di sapere di più riguardo ai clienti dell’azienda per identificare i più importanti pattern comportamentali dei consumatori. Inoltre, la Philips stessa può diventare fornitrice di big data con positivi effetti di ricaduta su altri business. Un’altra tendenza affascinante sta nel cambiamento in corso nei modelli di consumo e nel loro metodo di gestione. Le implicazioni sono numerose e ad ampio raggio. Per esempio, il cambiamento dal “possedere” un prodotto all’“averne accesso” ne influenza sia lo sviluppo sia la manutenzione. Inoltre, implica il passaggio dal concetto di transazione a quello di relazione. Tutto questo ha portato a una considerevole sperimentazione delle possibili innovazioni e di diversi modi di fare business. Come conseguenza, come sarà descritto più avanti, è sorto un fortissimo bisogno di promuovere la collaborazione e le partnership. Peraltro, questo è solo un punto di partenza. Il passaggio dal concetto di “prodotto” a quello di “prodotto come servizio” rappresenta un cambiamento fondamentale nella direzione della riduzione dell’impiego di risorse. Perciò la Philips ha identificato quattro fattori abilitanti essenziali per concretizzarlo. 1. Cambiare il modello di business. Come già evidenziato, il passaggio da un modello basato sulla vendita del prodotto a un modello basato sull’utilizzo del prodotto come servizio ha implicazioni ad ampio raggio. Il cambiamento principale è nel pensare in termini di contratti della durata di cinque, dieci o forse persino quindici anni. È un terreno assolutamente nuovo per un’azienda produttrice. Per esempio, è importante capire cosa succede in termini di garanzie. E anche monitorare che tipo di impatto ha nel tempo il nuovo prodotto-servizio, verificare che il servizio fornito soddisfi le richieste dei clienti, richiede che vengano sviluppati adeguati key performance indicators (Kpi, indicatori chiave della performance). A loro volta i nuovi Kpi devono essere integrati nel nuovo modello di business. 2. Rafforzare la progettazione. Il secondo fattore chiave riguarda la progettazione. Se si inizia a vendere un prodotto come servizio, bisogna poter verificare se si sta vendendo il prodotto giusto. Da quando la Philips detiene il possesso del prodotto per tutto il suo ciclo di vita, deve sapere se ha abbastanza dettagli sulle sue prestazioni e sul suo utilizzo nel tempo, se sa come svolgere un’adeguata manutenzione, se può trovare una nuova tecnologia o soluzione. Ancora una volta, tutti questi problemi devono essere risolti in fase di progettazione del prodotto. 3. Promuovere le partnership e la collaborazione. Un esempio pratico descriverà meglio questo fattore abilitante. Prendiamo

il caso dell’illuminazione per un parcheggio o per un ufficio. Generalmente, i prodotti Philips sono venduti a un installatore che li monta, poi il proprietario dell’edificio ha un qualche contratto di gestione degli impianti dell’edificio con una società, che a sua volta ha un qualche contratto con un’azienda di manutenzione che si occupa del prodotto e delle sue prestazioni. Offrendo un servizio di illuminazione, la Philips entra in questo mercato e istantaneamente ne diventa protagonista, in grado di influenzare le altre aziende. Da qui il bisogno di sviluppare una partnership reciprocamente vantaggiosa attraverso la collaborazione. Il problema diventa: quali sono i partner giusti? Per questo è essenziale sviluppare criteri che stabiliscano chi è il giusto partner, cos’è un giusto partner, e come intrattenere relazioni sul lungo periodo. Almeno questo suona familiare! Quindi non sorprende che, per arrivare a questo traguardo, sia un imperativo essere aperti e trasparenti con i propri partner. Compresi i clienti che devono apprezzare appieno i benefici a breve e lungo termine derivanti dalla miglior qualità di illuminazione sulla loro proprietà. 4. Sviluppare la logistica delle scorte. Il quarto fattore abilitante sta nel parlare subito di un nuovissimo problema, quello della logistica delle scorte. Un prodotto che dura da 10 a 15 anni pone una serie di questioni completamente nuove: cosa succede alla fine del ciclo di vita del prodotto? Può essere riportato indietro per essere aggiornato? Può essere poi reinstallato? Infine, può essere installato in un altro posto? Cosa si può fare con i suoi componenti, e come si inserisce questo nel ciclo di innovazione? In quale misura possono essere recuperati i componenti critici, li si può usare in un prodotto nuovo o saranno rimandati alla fase di riciclo? Questi sono alcuni dei problemi con cui la Philips sta avendo a che fare. A rendere ancora più difficile la sfida c’è il fatto che non tutti i clienti possono essere soddisfatti dalla stessa soluzione. Non c’è uno standard “taglia unica” ma si impara sul campo mentre si affrontano le numerose sfide che continuano ad apparire sul cammino verso l’economia circolare. A più di trent’anni dalla creazione del Product-Life Institute, i nuovi modelli di business che Giarini e Stahel hanno tracciato sulle lavagne si stanno affinando e sono implementati e diffusi da tutte le aziende lungimiranti. Insieme alla rivoluzione digitale e basati sulla partnership, questi modelli stanno aprendo la strada all’avvento di una combinazione di sharing economy e green economy che si prenda carico della responsabilità per i suoi impatti, sia sociali sia ambientali. Questi sono i modelli di business adottati dalle aziende che non hanno intenzione di essere spazzate via dall’eredità dell’economia lineare.

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La guerra nascosta del debito ecologico fa crescere le tensioni nel MEDITERRANEO di Alessandro Farruggia

Dal 1961 al 2010 si è registrato un aumento dell’impronta ecologica dell’intera regione di oltre il 211%. La biocapacità della regione fornisce al massimo la metà delle risorse naturali e dei servizi che vengono consumati. E questo significa che è necessario importare il resto. C’è un altro debito pubblico che ci portiamo sulle spalle. Non meno insidioso e non meno pesante di quello delle finanze. Ed è un debito che oltretutto è assolutamente fuori controllo. Cresce di anno in anno, in buona parte perché non ne abbiamo la consapevolezza o ne sottovalutiamo largamente la portata, e quindi perseveriamo

in comportamenti che determinano e aggravano la sua permanenza. Questo debito pubblico nascosto ai più è il debito ecologico, la cui stima è resa possibile dall’introduzione, fatta all’inizio degli anni ’90 da Mathis Wackernagel e William Rees, dell’Ecological Footprint Accounting (Efa): uno strumento per misurare il bilancio ecologico delle nostre nazioni e dell’intero pianeta. Impronta ecologica e biocapacità sono le due componenti di un bilancio ecologico. Il meccanismo è semplice. L’impronta ecologica di un paese è determinata dal livello medio dei consumi, da quanto questi consumi pesano in termini di risorse naturali e servizi e dalla popolazione. In altre parole, l’impronta ecologica è un indicatore di pressione antropica. Di contro, la biocapacità di un paese è il risultato di due fattori: la superficie di terre e acque


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William Faden, Composite Mediterranean, 1785

Policy

Alessandro Farruggia è giornalista presso la redazione romana del Quotidiano Nazionale, si occupa prevalentemente di ambiente ed esteri. Dalla fine degli anni ’80 segue le principali conferenze internazionali sulle tematiche ambientali. Per i suoi reportage dall’Antartide ha il vinto il premio Saint Vincent di giornalismo.

biologicamente produttive e il loro livello di produttività biologica. Non basta infatti disporre di un vasto territorio o di molte coste per avere garanzia di alta biocapacità. Devono essere in buone condizioni e biologicamente produttivi: è evidente che un ettaro di foresta o di terreno agricolo a medie latitudini pesa più di un ettaro di savana o di steppa. E che una grande area desertica ha una bassissima biocapacità. In ogni caso, il combinato disposto di impronta ecologica e biocapacità è inesorabile. Se il consumo di risorse naturali di un paese è più grande della capacità dei suoi sistemi di fornirle, si crea una situazione di deficit ecologico, non diversamente da quanto accade per un deficit finanziario di bilancio quando le spese sono superiori alle entrate.

Alessandro Galli, Martin Halle e Nicole Grunewald, “Physical limits to resource access and utilisation and their economic implications in Mediterranean economies”, Environmental Science & Policy, v. 51, agosto 2015; doi:10.1016/j. envsci.2015.04.002

Gli studi di Wackernagel e Rees ci dicono che un paese può cadere in deficit ecologico per tre ragioni: uso eccessivo delle sue risorse, importazione di risorse rinnovabili che non produce in maniera sufficiente, sbilanciamento dell’impronta di carbonio. Solo se l’impronta ecologica è più bassa della capacità dei suoi ecosistemi di rigenerare le risorse e i servizi naturali il paese non va in “riserva”. Altrimenti va in rosso. Ed è questo il caso di buona parte del nostro pianeta. In particolare delle aree più popolate, quelle che si trovano in ecosistemi sensibili o che hanno una società ad alta intensità energetica.

È il caso del Mediterraneo che – come rivela uno studio di Alessandro Galli, Martin Halle e Nicole Grunewald del Global Footprint Network di Ginevra – mostra una preoccupante tendenza a uno strutturale deficit ecologico. “Le nostre conclusioni – osservano gli autori – sono che la regione mediterranea usa attualmente due volte e mezzo più risorse naturali e servizi ecologici di quanto i suoi ecosistemi possano produrre. Quando il consumo eccede la disponibilità dei sistemi naturali locali, la sola risposta possibile laddove non si intenda ridurre i consumi è rivolgersi all’estero per soddisfare la domanda. Ed è precisamente quello che da tempo avviene nell’area mediterranea”. La pressione antropica è molto alta. Nei paesi che si affacciano sul Mare Nostrum dal 1961 al 2010 la domanda pro capite di risorse e servizi è cresciuta del 24%. Nello stesso periodo l’impronta ecologica delle attività produttive è cresciuta del 54% e la popolazione è salita del 102%: un vero boom, soprattutto nei paesi della “sponda sud”. Questo ha prodotto un aumento dell’impronta ecologica dell’intera regione di oltre il 211%. Certo, non tutti gli indicatori sono negativi. Grazie a miglioramenti nelle pratiche agricole anche la biocapacità netta è cresciuta, ma solo del 59%. La crescita della popolazione ha però vanificato questo progresso, perché la biocapacità pro capite


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materiarinnovabile 04. 2015 è scesa del 21% dal 1961 al 2010. Produciamo di più dai nostri sistemi naturali, ma ancora non abbastanza per sostenerci solo su di essi. Molti potrebbero obiettare che un aumento della biocapacità non sempre è stato un buon affare nel lungo periodo, perché spesso per ottenerla sono stati portati in produzione terreni non adatti o marginali o sono state attuate pratiche agricole che hanno stressato i terreni. E questo significa che quel (poco) che sembra buono nel breve termine non è detto che lo sia nel lungo, e non porti poi a un declino della produttività. Ma anche a prescindere da questo e prendendo per positivo l’aumento di biocapacità, il piatto mediterraneo piange assai. “La regione mediterranea – scrivono gli autori – era già in una situazione di deficit nel 1961 e adesso il deficit è molto cresciuto. La biocapacità della regione oggi fornisce al massimo la metà delle risorse naturali e dei servizi che vengono consumati. E questo significa che è necessario importare il resto, innanzitutto da Usa, Cina e paesi europei non mediterranei”. Dei 24 paesi contenuti nel lavoro di Galli, Halle e Grunewald i cinque paesi che contribuiscono di più al deficit ecologico regionale sono la Francia, l’Italia, la Spagna, la Turchia e l’Egitto: assieme totalizzano il 73% della domanda. Nonostante un marcato effetto della crisi economica, ben visibile nel confronto tra il 2007 e il 2009, la pressione resta sostenuta, e peraltro la crisi e il crollo del Pil che ne è derivato non sono certo una soluzione strutturale al problema. Quando il ciclo economico si invertirà, la pressione

Impronta ecologica delle attività produttive nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo (1961-2010)

1961

2010

+54% in 49 anni

tornerà a crescere se non si attueranno politiche diverse. Nel 2010 tutti e 24 i paesi della regione mediterranea erano in una situazione di deficit ecologico. Quelli con la più alta impronta ecologica sono la Francia (4,7) seguita da Slovenia (4,6), Italia e Portogallo (4,5), Grecia e Malta (4,4) e Cipro (4,2). Sull’altro lato della scala, quella dei virtuosi, ci sono Palestina, Marocco, Siria, Algeria e Montenegro: come si vede, sono tutti paesi meno sviluppati, che consumano meno non perché hanno scelto cosi ma perché non possono permettersi troppo consumismo. L’altra matrice è la biocapacità. I paesi meglio posizionati sotto questo profilo sono Francia, Croazia, Montenegro, Slovenia e Bosnia Erzegovina, mentre quelli con una bassa biocapacità sono Palestina, Israele, Giordania, Cipro e Libano: qui, assieme ad altri fattori, a pesare a sfavore dei meno produttivi è la carenza di acqua delle sponde sud ed est del Mediterraneo. Anche i virtuosi hanno però poco da festeggiare. Occorre infatti notare che dal 1961 al 2010 la capacità degli ecosistemi di soddisfare la domanda è scesa su base pro capite in tutti e 24 i paesi e copre la domanda in percentuali che vanno dall’84% in Croazia, al 64% in Francia, al 58% in Turchia, al 35% in Spagna, al 32% in Grecia, al 22% in Italia fino a meno del 10% a Cipro, Israele e Libano. La dipendenza dalle importazione di risorse è passata così dal 21% del 1961 a circa il 50% attuale. Se in Turchia è del 29%, in Marocco è del 32%, in Albania del 33%, in Croazia del 35%, in Francia del 39%, in Spagna del 53%, in Grecia del 60%, in Italia del 72% e balza all’85% in Libano, all’88% in Israele e al 90% a Malta. E non è solo un problema strettamente ecologico. Questa situazione espone i paesi mediterranei, e specialmente quelli che devono ricorrere a massicce importazioni, alla volatilità dei mercati e alla dinamica dei prezzi, specie delle materie prime, che è passata negli ultimi dieci anni da un trend in declino a un marcato aumento. Dal 2000 al 2008 l’indice World Bank delle commodity è triplicato in termini reali per cibo, prodotti agricoli, metalli e minerali. Chi ha un deficit ecologico maggiore, è più esposto. La necessità di ridurre l’impronta ecologica è quindi al tempo stesso una necessità ambientale ed economica. La salute dell’ambiente e il corretto bilanciamento nell’uso delle risorse evitano la perdita di un patrimonio che dovremmo consegnare alle generazioni future, ma al tempo stesso sono una garanzia per evitare shock sui prezzi e per non essere esposti a crisi geopolitiche determinate dalla troppa dipendenza dall’estero per beni che sono concentrati – si pensi a quelli energetici ma anche a certi minerali – in alcuni paesi. Il prezzo per un uso disinvolto delle risorse è quindi duplice. È ambientalmente sbagliato ma anche economicamente avventato e nel lungo termine insostenibile. Gli economisti dovrebbero considerarlo: anche per quanto riguarda le risorse naturali, non ci sono pasti gratis.


Case Histories

Case Histories

di Giorgio Lonardi

655 milioni di dollari per un cibo equo e solidale È la quota di investimenti che la Global Alliance for the Future of Food, l’associazione che raccoglie 20 fra le più importanti fondazioni filantropiche del globo, destina alla sostenibilità alimentare. “La filantropia oggi fa la differenza non tanto per le risorse economiche quanto per l’innovazione che porta”, spiega Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo. Giorgio Lonardi, giornalista di economia e finanza.

Le grandi fondazioni filantropiche mondiali sono impegnate a sostenere con convinzione la ricerca a favore della sostenibilità del sistema agroalimentare del futuro. Lo rivela uno studio commissionato dalla Global Alliance for the Future of Food (Gaff), l’associazione che raccoglie 20 fra le più importanti fondazioni filantropiche del globo. Ebbene, le fondazioni che aderiscono allo

stesso Gaff (ne fanno parte fra le altre la Bill and Melinda Gates Foundation, la W.K. Kellogg Foundation, la francese Agropolis Fondation e per l’Italia Fondazione Cariplo) impegnano annualmente 5,13 miliardi di dollari per le loro attività di cui il 12,8% – pari a 655 milioni di dollari – è destinato alle iniziative sul cibo e sull’agricoltura sostenibile. Un ventaglio di progetti che, in una pura logica di economia

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Carlo Mango

Il 70% delle popolazioni povere del globo vive nelle aree rurali […]. Il tema della sostenibilità del sistema alimentare del futuro è rilevante per una fetta importante della popolazione mondiale.

circolare, non si limita ad affrontare temi pur importanti come lo spreco alimentare, la raccolta differenziata o il riutilizzo degli scarti. Ma alza il tiro ponendosi obiettivi ancora più ambiziosi: dalla sostenibilità economica e ambientale dell’agricoltura del futuro all’educazione della popolazione a una cultura che leghi cibo e salute. Presentata il 18 e il 19 maggio a Milano, nell’ambito del “Dialogo Internazionale Global Alliance for the Future of Food” ospitato da Fondazione Cariplo, la ricerca del Gaff evidenzia che il 70% delle popolazioni povere del globo vive nelle aree rurali. Così come appare impressionante la presenza a livello mondiale di ben 500 milioni di piccole aziende agricole da cui dipendono 2 miliardi di persone. Se aggiungiamo il fatto che sono 564 milioni le donne impegnate nelle attività agricole, abbiamo un’idea di quanto il tema della sostenibilità del sistema alimentare del futuro sia rilevante per una fetta importante della popolazione mondiale. Ma non basta. Due giorni dopo, infatti, sempre a Milano e ancora grazie a Fondazione Cariplo, si è svolta la conferenza dell’European Foundation Centre coinvolgendo i suoi 270 membri a livello europeo e i 700 delegati per discutere di crescita sostenibile. E allora? In effetti i due meeting milanesi hanno messo a fuoco il ruolo di quello che a livello internazionale viene chiamato il “modello Milano” costruito mattone dopo mattone da Fondazione Cariplo. Un sistema che fa perno tanto sulla ricerca scientifica per un agroalimentare sostenibile quanto sulla capacità di divulgare i risultati della ricerca stessa “in modo da cambiare in meglio”, spiega Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, “i comportamenti delle persone e degli operatori”. Poi precisa: “La filantropia oggi fa la differenza non tanto per le risorse economiche quanto per l’innovazione che porta. Nel momento in cui l’attenzione mondiale è rivolta a Milano per Expo 2015 il dialogo Gaff è anche un’occasione per rendere visibile il contributo che le fondazioni possono dare al processo di trasformazione dei sistemi agroalimentari verso una maggiore sostenibilità, sicurezza ed equità”. “Lo scopo di Ager è supportare la ricerca in settori che rappresentano l’eccellenza agroalimentare nazionale: dai cereali all’ortofrutta, dal comparto vitivinicolo a quello zootecnico.”

Le parole di Guzzetti si basano su una serie di esperienze che hanno contribuito ad arricchire il bagaglio di conoscenze della Fondazione. L’ultimo esempio, racconta Carlo Mango, direttore dell’Area ricerca scientifica di Fondazione Cariplo, è costituito dalla partnership con il Comune per la definizione della food policy della città di Milano. A cominciare dalla mappatura dei diversi servizi e settori della città legati al cibo e all’alimentazione. Un’analisi che ha coinvolto i ricercatori della Fondazione assieme ad altri soggetti come l’associazione Economia e Sostenibilità (EStà). Si tratta di un lavoro certosino che da una parte ha contribuito a individuare tutti i principali stakeholder cittadini presenti nella produzione agroalimentare e nella distribuzione del cibo, e dall’altra si è focalizzato sulla modalità di fruizione del cibo da parte dei cittadini. Emerge così un panorama complesso dove il 78% dei milanesi preferisce fare la spesa al supermercato, una scelta che convive con l’esperienza degli oltre 80 gruppi di acquisto solidale censiti nella ricerca. Sempre a Milano 100.000 nuclei famigliari vivono in condizioni di povertà relativa mentre in ogni famiglia si sprecano in media circa 400 euro di spesa l’anno. Per non parlare dell’obesità infantile che riguarda il 7,2% dei bambini fra gli 8 e i 9 anni. In questo quadro, sottolinea ancora Mango, “il ruolo della ricerca non è stato solo quello di radiografare il tessuto della città. E quindi di mettere in risalto e analizzare il ruolo e il contributo che possono fornire gli stakeholder. Ma anche di fornire ai milanesi gli strumenti per partecipare alla definizione delle policy cittadine”. L’obiettivo, insomma, non è solo interrogarsi su quale potrebbe essere il ruolo futuro di Milano Ristorazione, la più grande struttura pubblica europea nel settore della ristorazione capace di cucinare 85.000 pasti al giorno. Ma anche di favorire su questo e su altri temi il coinvolgimento della società civile milanese che a cavallo fra il 2014 e il 2015 si è riunita più volte in gruppi anche numerosi per individuare i problemi e suggerire soluzioni per la definizione della


Case Histories

food policy cittadina. L’obiettivo: varare una strategia che definisca il modo in cui il cibo sarà prodotto, distribuito e consumato a Milano nei prossimi anni. La food policy cittadina è un tassello fondamentale per raccogliere la sfida internazionale. Il 16 ottobre 2015, giornata mondiale dell’alimentazione, è infatti prevista a Milano la firma dell’Urban Food Policy Act: un patto internazionale a cui stanno lavorando oltre 40 città. Un traguardo importante voluto dal sindaco Giuliano Pisapia con l’obiettivo di rendere più equo e sostenibile il sistema alimentare urbano. Così come sono rilevanti una serie di sfide che riguardano il sistema delle fondazioni. A questo punto però, conviene fare un passo indietro. E tornare al 2008 quando il progetto Ager – Agroalimentare e Ricerca – viene lanciato da Fondazione Cariplo. “Sette anni fa”, ricorda Mango, “abbiamo varato Ager come coordinatori di un partenariato composto da ben 13 fondazioni italiane. Lo scopo: supportare la ricerca in settori che rappresentano l’eccellenza agroalimentare nazionale: dai cereali all’ortofrutta, dal comparto vitivinicolo a quello zootecnico”. Ager prevedeva l’assegnazione attraverso bandi competitivi di oltre 25 milioni di euro a 16 progetti che hanno coinvolto 46 università e centri di ricerca su tutto il territorio nazionale. Già allora fra gli obiettivi strategici dell’iniziativa Info www.fondazionecariplo.it/it/index.html

c’era lo sviluppo di tecnologie in grado di coniugare rese elevate, rispetto dell’ambiente e attenzione alla salute. Lo conferma, per esempio, la messa a punto di un processo per la produzione di prosciutto con il 25% di sale in meno. E lo certifica un pacchetto di soluzioni innovative per la coltura della pera che includevano un sistema a basso impatto ambientale per la difesa dalle malattie. Il successo di questa prima iniziativa ha aperto la strada ad Ager2, un secondo progetto voluto da nove fondazioni che mette a disposizione 7 milioni di euro per quattro settori: acquacoltura; olivo e olio; agricoltura di montagna; prodotti caseari. I primi bandi relativi a questa iniziativa saranno presentati il 16 luglio a Expo 2015. Ma non è tutto. Perché sul fronte internazionale Fondazione Cariplo sta lavorando con altre fondazioni europee per il lancio di una nuova iniziativa a sostegno dell’agroalimentare dell’area mediterranea. Tra le fondazioni coinvolte c’è la francese Agropolis “con cui abbiamo già promosso negli anni scorsi due bandi per progetti di ricerca sui cereali”, conclude Mango, “con l’obiettivo di migliorare la produzione cerealicola salvaguardando le risorse ambientali e umane. Con queste iniziative abbiamo assegnato 4 milioni di euro a otto progetti coinvolgendo 43 istituti di ricerca italiani, francesi e di paesi in via di sviluppo”.

Il 16 ottobre 2015, giornata mondiale dell’alimentazione, è prevista a Milano la firma dell’Urban Food Policy Act: un patto internazionale a cui stanno lavorando oltre 40 città.

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La bioeconomia arriva nel frigo: il packaging è 100% biobased Anche l’imballaggio alimentare si colora di verde: con vantaggi per i consumatori, per l’ambiente e per l’industria. A fare da apripista i paesi del Nord Europa, ma in pista ci sono anche colossi americani come Coca-Cola e HJ Heinz.

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Mario Bonaccorso è giornalista esperto di finanza ed economia. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

Birra in bottiglie di legno, latte in cartoni prodotti con gli scarti della canna da zucchero, bibite in lattine di Pet rigorosamente da risorse biologiche. Il futuro del packaging – ma in alcuni casi già il presente – è 100% biobased. Tre le parole d’ordine di questa rivoluzione trainata dall’industria alimentare: ridurre l’impronta ambientale, sviluppare prodotti ecofriendly e aumentare il riciclo. Il sistema, a quanto pare, fa vincere tutti: l’industria si affranca dall’impiego di materie prime fossili e riduce i volumi e il peso dei prodotti negli scaffali, i consumatori vedono soddisfatta la loro richiesta di maggiore ecosostenibilià i governi ottengono risultati nella riduzione delle emissioni di gas serra.

Info www.tetrapak.com/it

Leader di questa nuova era del packaging da fonti rinnovabili sono i paesi del Nord Europa. La svedese Tetra Pak ha da poco introdotto sul mercato Tetra Rex® 100% da fonte rinnovabile: un imballaggio prodotto esclusivamente con carta e con polimeri derivati da fonte vegetale, premiato per questa sua composizione innovativa dall’Istituto italiano imballaggio. Allo stesso modo della carta certificata Forest Stewardship

©Tetra Pak

di Mario Bonaccorso

Council™ (Fsc™), i polimeri possono essere tracciati all’origine e questo ha consentito al contenitore di ricevere il più alto livello di certificazione biobased da parte di Vinçotte, ente di certificazione riconosciuto a livello internazionale. I polimeri di origine vegetale utilizzati da Tetra Pak sono prodotti dall’impresa biochimica brasiliana Braskem, che ricava la materia prima da canna da zucchero coltivata su terreni degradati. I cartoni Tetra Pak Rex® sono già utilizzati da colossi lattiero-caseari come la finlandese Valio e la danese Arla per commercializzare bevande a base di latte. Ed è solo un primo passo, perché Valio ha deciso di adottare i sistemi di chiusura Tetra Pak 100% da fonte rinnovabile per tutti gli imballaggi gable top utilizzati. Da parte sua, Tetra Pak è già in trattativa con aziende lattiero-casearie in diverse parti del mondo per lanciare il contenitore. “Stimiamo – fanno sapere dalla multinazionale svedese – che considerato l’intero ciclo di vita del prodotto, la scelta del bio-polietilene rispetto al polietilene di origine fossile riduca la carbon footprint del 20-35%”. Anche l’olandese FrieslandCampina, una delle cinque più grandi aziende lattiero-casearie del mondo con un fatturato annuo di 11,3 miliardi di euro, prevede nel prossimo anno e mezzo di introdurre sul mercato un nuovo cartone biobased per bevande. Il tappo e il rivestimento dell’imballaggio saranno prodotti con un materiale ricavato da rifiuti organici certificati, che si aggiungerà a un cartone già rinnovabile. Questa innovazione – assicura l’azienda – renderà il nuovo packaging per bevande il più sostenibile sul mercato nei Paesi Bassi, con una carbon footprint anche in questo caso del 20% inferiore rispetto a quella degli attuali imballaggi. “Negli ultimi anni – dice Berndt Kodden, amministratore delegato di FrieslandCampina – i nostri cartoni per bevande hanno subìto un’evoluzione sostenibile. Ora siamo orgogliosi di presentare un nuovo traguardo: un cartone per latte biobased con cui investiamo nella transizione verso l’impiego di materie prime rinnovabili e l’approdo a un’economia circolare”. A fornire l’imballaggio biobased è la norvegese Elopak, di proprietà del Gruppo Ferd, uno dei più grandi gruppi industriali privati norvegese. I suoi cartoni a base biologica sono certificati ISCC PLUS (International Sustainability and Carbon Certification System), un sistema di certificazione internazionale per la biomassa e i biocarburanti. Passiamo dal latte alla birra, ma restiamo in Scandinavia. La Carlsberg ha recentemente annunciato che la nuova linea di confezionamento della sua birra sarà realizzata in fibra di legno sostenibile. Grazie alla collaborazione con EcoXpac – un’impresa che sviluppa e produce sistemi di packaging sostenibile – con il Fondo innovazione Danimarca e con l’Università tecnica della Danimarca, la società danese porterà sul mercato la prima bottiglia

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materiarinnovabile 04. 2015 biodegradabile nel suo genere: la “Green fiber bottle”. Caratteristica principale: tutto il materiale di cui è composta, tappo compreso, potrà essere riciclato o si decomporrà naturalmente. Gli amanti della birra però possono stare tranquilli: il nuovo contenitore non ne influenzerà il gusto e la qualità. Anzi – assicura Håkon Langen, senior Packaging Innovation Manager – la birra rimarrà fresca più a lungo di quanto non si riesca a fare con la tradizionale lattina in alluminio. Ma anche nel campo della plastica ci stiamo avvicinando alla bottiglia al 100% da fonti rinnovabili. Ci stanno lavorando colossi americani come Coca-Cola e HJ Heinz, che nel 2012 hanno formato – insieme a Ford Motor, Nike e Procter & Gamble – un gruppo di lavoro strategico (Plant PET Technology Collaborative) per accelerare lo sviluppo e l’uso di Pet 100% a base vegetale nei loro prodotti. In effetti il tradizionale Pet (polietilene tereftalato) utilizzato per produrre le comuni bottiglie di plastica è oggi usato in moltissimi altri prodotti: dall’abbigliamento, alle calzature, ai tessuti per l’automotive. Ecco spiegato l’interesse allo sviluppo di un Pet biobased da parte di Nike e Ford. La collaborazione si basa sulla tecnologia di packaging PlantBottle sviluppata da Coca-Cola,

che è in parte già prodotta da fonte vegetale e ha dimostrato di avere un minore impatto ambientale rispetto alle bottiglie di plastica Pet tradizionale. Nel 2013 alle imprese americane si sono unite le europee Unilever, Nestlé e Danone per costituire la Bioplastic Feedstock Alliance insieme al Wwf. Obiettivo: perseguire lo sviluppo di una bioplastica rispettosa dell’uso del suolo, della sicurezza alimentare e della biodiversità. Insieme a Coca-Cola, Danone ha avviato una partnership con la società biotech olandese Avantium per produrre bottiglie di plastica biobased con materiale rinnovabile che non minacci le risorse alimentari. Avantium, uno spin-off della società petrolifera Royal Dutch Shell, utilizza una tecnologia chimico-catalitica chiamata YXY per convertire i materiali a base vegetale in sostanze chimiche da fonti rinnovabili e in bioplastiche come il Pef, un poliestere 100% biobased con maggiori proprietà di barriera, termiche e meccaniche rispetto ai materiali per imballaggio oggi in commercio. Le prove in un impianto pilota sono state positive. Il prossimo passo: realizzare il primo impianto su scala commerciale. Traguardo ormai prossimo grazie a un finanziamento di 36 milioni di euro ricevuto un anno fa da un gruppo di investitori, tra cui proprio Danone e Coca-Cola.

Per un approfondimento sulla “Green fiber bottle”: tinyurl.com/ocamhx9

Info www.bioplasticfeedstock alliance.org

Intervista

“Ecco i risultati raggiunti in soli quattro anni”

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Mario Abreu, Vicepresidente divisione Ambiente, Tetra Pak

Quando si parla di packaging alimentare viene subito in mente il nome di Tetra Pak. Il colosso svedese è leader mondiale nelle soluzioni per il trattamento e il confezionamento degli alimenti. Nel 2013 ha venduto oltre 178 miliardi di confezioni in più di 170 paesi nel mondo. In questa intervista Mario Abreu, Vicepresidente ambiente, parla dell’impegno di Tetra Pak per un packaging sempre più sostenibile, di bioeconomia e di economia circolare. Qual è il ruolo di Tetra Pak nel settore del confezionamento biobased? Tetra Rex® è la prima confezione per alimenti liquidi completamente rinnovabile al mondo e di origine vegetale. Seguendo la scia del successo ottenuto nello stabilimento di produzione lattiero-casearia finlandese Valio, Tetra Rex® Bio-based viene ora offerta ai clienti Tetra Pak di tutto il mondo. Arla, uno tra questi clienti, ha appena lanciato il marchio Eko, ovvero latte in confezioni realizzate in Tetra Rex. Tetra Rex® Bio-based è prodotto con carta – già di per sé un materiale rinnovabile – rivestita

con strati di polietilene a bassa densità (Ldpe) derivato dalla canna da zucchero. La confezione prevede anche un tappo in polietilene ad alta densità (Hdpe), anch’esso derivato dalla canna da zucchero. Alla stregua dei prodotti certificati Fsc™ (Forest Stewardship Council™), l’origine rinnovabile di queste materie plastiche è tracciabile. È anche grazie a queste caratteristiche che l’innovativa confezione ha ricevuto la più alta certificazione Vinçotte, organismo di valutazione internazionale, per i prodotti biobased che rispettano il programma OK Bio-based. Quali sono gli obiettivi di Tetra Pak per i prossimi anni? Abbiamo intrapreso il percorso verso le materie plastiche di origine organica nel 2011, con l’introduzione dei primi tappi e del laminato di origine vegetale prodotti in Brasile. Lo scorso anno abbiamo lanciato le confezioni Tetra Rex® Bio-based, destinate ai prodotti freschi. Siamo continuamente alla ricerca di modalità per incrementare l’impiego di materie plastiche biobased nella nostra gamma di prodotti. In funzione della crescente domanda, stiamo pianificando


©Tetra Pak

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Info www.okcompost.be

ulteriori lanci del nuovo Tetra Rex® Bio-based in altre aree geografiche.

L’impiego di materie plastiche biobased, derivate dalla canna da zucchero invece che da petrolio, contribuisce inoltre alla riduzione delle emissioni di gas serra.

C’è maggiore richiesta di confezioni ecosostenibili da parte dei consumatori? Il nostro è un portafoglio basato sostanzialmente sulle risorse rinnovabili, considerando che il cartone è la parte più consistente delle nostre confezioni. Introducendo un imballo completamente rinnovabile compiamo un ulteriore passo a sostegno del nostro impegno verso le materie rinnovabili e il minor uso di materiali di origine fossile. L’Europa è la regione che registra la domanda più consistente sia di confezioni per i prodotti freschi sia di imballaggi sostenibili. I consumatori hanno mostrato un notevole interesse verso il nuovo Tetra Rex, e ciò riflette la crescente richiesta di imballaggi sostenibili. Realizzando confezioni in materie plastiche biobased, aiutiamo i nostri clienti a soddisfare le proprie esigenze e a conquistare i propri obiettivi di crescita sostenibile, fornendo al contempo prodotti con un forte profilo ambientale. I consumatori vogliono esser certi che la confezione nelle loro mani sia davvero sostenibile. Per quanto riguarda Tetra Rex® Bio-based, il contenuto fisico della confezione è tracciabile fino all’origine: ogni confezione deriva quasi interamente da vegetali è ciò e verificabile. Anche la certificazione Fsc garantisce ai consumatori che le fibre di carta dei nostri prodotti hanno origine da foreste gestite e da altre fonti controllate. È possibile per il settore alimentare e delle bevande essere sostenibile e rimanere competitivo al tempo stesso? Incentivando l’utilizzo di materie rinnovabili, garantiamo la disponibilità dei materiali anche in futuro, assicurandoci una fornitura costante di materie prime e riducendo l’impatto totale

sull’ambiente dei nostri prodotti. L’impiego di materie plastiche biobased, derivate dalla canna da zucchero invece che da petrolio, contribuisce inoltre alla riduzione delle emissioni di gas serra. Oggi il prezzo di mercato delle plastiche di origine vegetale è più alto rispetto a quelle di origine fossile, perché è più elevato il costo delle materie prime e la disponibilità di fornitori è limitata. È però prevedibile che nel tempo i prezzi delle materie plastiche biobased scendano, permettendoci così di ottenere crescita e sostenibilità a lungo termine invece che solo profitti a breve termine. Puntiamo a offrire ai nostri clienti confezioni a base di materiali biobased al prezzo più competitivo. Dal suo punto di vista, cosa sono la bioeconomia e l’economia circolare? Con bioeconomia intendo l’utilizzo di risorse rinnovabili nella produzione di cibo, materiali e confezioni di derivazione organica, oltre alla bioenergia. Le risorse rinnovabili quali ossigeno, acqua dolce, energia solare, legname e biomassa sono tutte presenti in natura e si rigenerano autonomamente. Cruciale per l’economia circolare è l’approvvigionamento responsabile, un ambito nel quale Tetra Pak è particolarmente attiva. Il cartone che utilizziamo è certificato Fsc Chain of Custody e stiamo studiando come espandere la diffusione di sistemi di certificazioni molto chiari per i biopolimeri. Insieme ad altre 14 aziende e a diverse Ong siamo inoltre membri di Asi (Aluminium Stewardship Initiative), un organismo che punta a definire standard globali per la produzione sostenibile dell’alluminio.

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materiarinnovabile 04. 2015 Intervista

Dal packaging biobased alla Ford a base di pomodoro Per l’industria alimentare l’impegno verso la bioeconomia e l’economia circolare non si limita all’impiego di packaging 100% da fonti rinnovabili, ma riguarda anche la riduzione degli scarti alimentari e il loro utilizzo per nuovi bioprodotti. Un caso esemplare è quello di Heinz: il colosso americano del ketchup (650 milioni di bottiglie vendute ogni anno), che lo scorso marzo ha annunciato la propria fusione con Kraft Foods per creare un gigante da 28 miliardi di dollari di fatturato globale, da un lato punta all’utilizzo di plastiche completamente biobased, dall’altro è impegnato con Ford nella sperimentazione per la produzione di parti di protezione del motore mescolando materia plastica con scarti del pomodoro trattati. Ne parliamo in questa intervista con Massimo Zonca, Group Leader – Global Packaging and Execution della società con quartier generale a Pittsburgh, in Pennsylvania. Quando potremo andare al supermercato per comprare una bottiglia di ketchup 100% da fonti rinnovabili? Al momento il 30% del materiale della Heinz ‘plant-bottle®’ viene da materiale rinnovabile (scarti della lavorazione della canna da zucchero) con il quale si produce il glicole etilenico. La parte rimanente per produrre il Pet 100% biobased è in teoria già disponibile in quanto ne sono stati definiti i processi, ma al momento i costi

©Heinz

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Massimo Zonca, Group Leader – Global Packaging Innovation and Execution presso HJ Heinz

e la complessità sono tali che non vi sono le condizioni per un lancio nell’immediato. Visto il contesto economico attuale, è presumibile che per il 2020 vi siano le condizioni che rendano sostenibile sotto tutti i punti di vista il lancio della plant bottle al 100% da fonti rinnovabili. Heinz sta investendo molto per arrivare a un packaging sempre più biobased. Quali sono i principali progetti che avete in corso? Oltre all’importante impegno sul rigid plastic (la bottiglia di ketchup) stiamo valutando aree di intervento sul flexible material (flow pack per biscotti, snack, pasta, sfarinati, polveri alimentari) e sui lid saldati sulla bocca di vasetti e bottiglie in plastica (salse, meals, babyfood, succhi di frutta, bevande). La nostra sperimentazione ha dato anche risultati interessanti circa la shelf life, considerando che occorre abbandonare i materiali barriera tradizionali (alluminio in foil o altre barriere da polimeri). In questo caso la differenza la farà non solo il mercato del biobased (che deve ancora raggiungere una massa critica tale da consentire un ritorno economico) ma anche una modifica delle abitudini dei consumatori, della logistica e dei retailers, visto che non sarà possibile garantire la medesima shelf life che oggi viene garantita dall’impiego dei materiali barriera. Nel novembre del 2013 avete dato vita alla Bioplastic Feedstock Alliance insieme a Nestlé, Danone, Unilever, P&G, Ford, The Coca-Cola Company, Nike e Wwf. Cosa unisce gruppi industriali di settori così differenti? Ciò che accomuna tutti è la presa di coscienza che l’utilizzo del petrolio per produrre materie plastiche ha un significativo impatto sulla biodiversità, sul clima e sugli altri sistemi naturali. Occorre pertanto una gestione più sostenibile delle risorse naturali (che non sono infinite): trovare alternative al petrolio è diventato un imperativo sia per il business sia per l’ambiente. Quali sono le sfide comuni? Quali gli obiettivi di questa alleanza? La principale sfida è quella di far crescere la massa critica per l’utilizzo dei biobased materials, aumentando così le opportunità di produzione delle plastiche da materiali rinnovabili. Gli obiettivi principali dell’alleanza sono quelli di riuscire a ridurre il costo delle materie prime biobased e accelerare lo sviluppo e l’impiego del 100% di biobased material per il Pet in particolare.


©BBDO Guerrero, Proximity Philippines – Wwf, 2011

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“Occorre una gestione più sostenibile delle risorse naturali (che non sono infinite): trovare alternative al petrolio è diventato un imperativo sia per il business sia per l’ambiente.”

Per il processo di produzione del vostro ketchup utilizzate due milioni di tonnellate di pomodoro ogni anno. Cosa è possibile fare oggi con gli scarti di questa produzione? L’osservazione è nata proprio all’interno dell’R&D di Pittsburgh dove già da tempo si adottavano sistemi di essiccazione e trattamento – in particolare delle bucce – per ridurne volume e peso e riutilizzarle nell’agricoltura. Dalla collaborazione nata per la plant-bottle si sono generate altre idee di possibile riutilizzo degli scarti. A che punto è il progetto comune con Ford per utilizzare parte di questi scarti per una plastica a base di pomodoro per le nuove autovetture del produttore americano? La sperimentazione per la produzione di parti di protezione del motore mescolando materia plastica con scarti trattati/essiccati ha dato buoni esiti. Oggi Ford dispone di una tecnologia che permette di ridurre l’impiego di materie plastiche per queste parti dell’auto rimpiazzandole con fibre vegetali ricavate dagli scarti di lavorazione del pomodoro. È davvero possibile per l’industria essere sostenibile e continuare a essere competitiva sul mercato? C’è effettivamente una richiesta da parte dei consumatori di prodotti biobased? E sono disposti a pagare di più per averli? Per l’industria ambiente e sostenibilità sono fattori essenziali: ormai l’attenzione all’ambiente e la definizione di processi industriali sostenibili non riguardano più solo il rispetto delle norme, ma sono diventati un must per moltissime realtà produttive. E anche un interessantissimo business, nel senso che consentono opportunità prima non esplorate che hanno come principale effetto la salvaguardia

dell’ambiente e delle risorse naturali. In effetti un buon 15% dei consumatori e diversi retailers sono già fortemente orientati al biobased, anche se è innegabile che non tutti sono disposti a pagare di più per questo. Ma è comunque un trend in crescita e non si può non tenerne conto. Utilizzate un sistema di etichettatura specifica per i prodotti biobased? Sì, le indicazioni in etichetta che richiamano le caratteristiche biobased sono fondamentali e rappresentano un’area di comunicazione importante perché il consumatore colga il messaggio positivo. Tutto ciò è poi oggetto di vero e proprio marketing: dalle immagini alle descrizioni alle grafiche da adottare, si è aperto un mondo. Che in un mondo digitale come il nostro si presta a messaggi più completi che possono essere veicolati attraverso gli smartphone o sui social network. E questo non potrà che far aumentare l’interesse del consumatore per gli aspetti ecologico-ambientali e di sostenibilità. In poche parole come si immagina il packaging tra dieci anni? Light, essential/sustainable, smart e... flexible. Sì, credo che il packaging flessibile abbia maggiori possibilità di crescita rispetto al packaging rigido per ragioni di servizio e facilità di trasporto. Sicuramente il rigid plastic e il vetro manterranno una loro influenza, ma il consumatore apprezzerà sempre più l’essenzialità del packaging. Anche in termini di comunicazione il flexible offrirà sempre maggiori opportunità e credo il marketing sfrutterà al meglio questa possibilità.

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di Sergio Ferraris

La carta di MÖBIUS L’Italia è il quarto paese in Europa per l’utilizzo di carta riciclata e spinge sul recupero di prossimità: la distanza media di conferimento alle piattaforme di riciclo è di 17,3 km. Per il macero siamo passati dall’import all’export. Quella della carta è una storia legata alle risorse. Già nel ’700 in Europa la carta subì la “crisi degli stracci” – la materia prima dell’epoca – terminata con la scoperta dell’estrazione della cellulosa dal legno. Ed è stata una corsa, quella della carta, che non ha conosciuto ostacoli. Dai primi quotidiani alla diffusione di massa dei libri, dagli imballaggi agli usi speciali di oggi, la carta è stata uno dei prodotti che più ha segnato le trasformazioni degli ultimi due secoli, ponendo però seri problemi ambientali. Produrre una quantità sempre maggiore di carta ha comportato infatti l’utilizzo crescente di sostanze chimiche, alti costi energetici, ma soprattutto il dover disporre di grandi quantità di cellulosa da legno per reggere le richieste dei mercati. Tutto ciò ha spinto l’industria – anticipando alcune volte le ragioni degli ambientalisti – a sviluppare metodologie e pratiche per riciclare la carta.

M.C. Escher, Nastro di Möbius II, 1963 ©2015 The M.C. Escher Company-Paesi Bassi. Tutti i diritti riservati. www.mcescher.com

Una storia di successo Il riciclo della carta è una storia di successo, specialmente per l’Italia. I numeri lo dimostrano. Il nostro paese è il quarto in Europa per l’utilizzo di carta riciclata, con un impiego di 4,7 milioni di tonnellate annue (dati Assocarta 2013), 48,4 kg di carta e cartone pro capite raccolti nel 2013: più 1% sull’anno precedente. Un aumento significativo se si pensa che nello stesso anno la produzione dei rifiuti urbani è diminuita del 3,2%. E il settore degli imballaggi cellulosici è il più virtuoso, visto che segna un tasso del 93% nel riciclo: oltre nove imballaggi su dieci vengono avviati a nuova vita. Si tratta di numeri che nascono dalla scarsità di risorse forestali del nostro paese, cosa che ha spinto le imprese a dotarsi di tecnologie e lavorazioni per il recupero della carta. Una questione di fibra Il macero oggi è la prima fonte di fibra per i prodotti cartari. Ma c’è fibra e fibra. I processi industriali, negli anni, si sono sviluppati per


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Lo scarto che salva energia Gli scarti della lavorazione della carta, come la fibra di cellulosa sotto forma d’ovatta e fiocchi, trattati in maniera naturale diventano un ottimo isolante per la bioedilizia. Trasformandosi da rifiuti a risorsa. Succede in Piemonte dove Nesocell, una startup dell’incubatore Ip3 del Politecnico di Torino, ha messo a punto un processo, a base di additivi naturali in fase liquida che rivestono le singole fibre, in grado di aumentare durabilità

ottimizzare l’impiego delle fibre cellulosiche da riciclo che non sono tutte uguali circa l’impiego finale. Lo standard EN 643 del Cen (Comitato europeo per la standardizzazione) identifica 95 tipi di diverse tipologie di carte e cartoni da riciclare, definendo le percentuali massime di altri materiali non cartacei ammessi e quelli proibiti che non devono mai essere presenti nella carta da macero destinata al riciclo. Il riciclo di prossimità Ciò a cui si sta lavorando a livello europeo e italiano per evitare fenomeni distorsivi sul fronte ambientale del riciclo da parte dei paesi extraeuropei è il riciclo di prossimità, che punta a ridurre le emissioni di CO2 legate al trasporto e a creare lavoro a livello locale. Un esempio di best practice arriva da Parigi, dove carta e cartone sono avviati al riciclo in quattro stabilimenti vicini alla città. Oltre a questo la Syctom – l’agenzia municipale per i rifiuti domestici – include nei contratti di vendita della carta e cartone recuperati una clausola di prossimità che vincola l’impresa assegnataria a lavorare la materia prima-seconda all’interno del territorio nazionale o al massimo nei paesi confinanti. Del resto su questo fronte le cose vanno bene anche in Italia. La distanza media di conferimento alle piattaforme di riciclo è di 17,3 km, mentre l’industria nazionale ha un tasso d’utilizzo della carta da macero di oltre il 55,2%. In pratica ogni 100 tonnellate di carta prodotte in Italia, 55 provengono dalla carta da riciclo. Curare la raccolta La raccolta della fibra secondaria nel nostro paese ha due canali. Il primo è quello delle imprese di trasformazione a valle delle cartiere, dalle quali arrivano gli sfridi (i residui di prodotto) delle lavorazioni, i giornali invenduti e gli imballi provenienti dalla grande distribuzione organizzata e dalle imprese. Si tratta di materia prima-seconda selezionata all’origine e pronta per l’utilizzo in cartiera. Il secondo canale è quello della raccolta differenziata dei rifiuti urbani che invece ha bisogno di una selezione

e potere isolante. Il prodotto ottenuto dura 50 anni, resiste all’umidità ed è ottimo per l’isolamento degli edifici con tamponature a camera d’aria, tramite insuflaggio. Le prestazioni sono migliori – a costi inferiori e usabilità analoga – rispetto a quelle di altri materiali sia d’origine petrolchimica, come l’Eps (polistirene espanso) e i poliuretani, sia di derivazione minerale, come le lane di roccia e di vetro.

preventiva prima di arrivare in cartiera. In assenza del riciclo, tutta questa carta sarebbe solo un rifiuto da spedire in discarica: il suo riutilizzo evita ogni anno la realizzazione di 20 discariche di medie dimensioni. Ormai la raccolta differenziata di carta e cartone in Italia ha una lunga tradizione. Da anni è attivo Comieco – il Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica – cui aderiscono i produttori, gli importatori

Il nostro paese è il quarto in Europa per l’utilizzo di carta riciclata, con un impiego di 4,7 milioni di tonnellate annue.

©Sergio Ferraris

Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.


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materiarinnovabile 04. 2015 Più facili da separare Gli imballaggi compositi poliaccoppiati sono uno dei più grandi problemi del riciclo, specialmente quelli per bevande che sono composti da cartone, alluminio e plastica. Nelle cartiere del Gruppo Lucart, per la prima volta in Italia, è stato messo a punto un sistema per separare i tre materiali avviandoli al riciclo. La fibra di cellulosa ottenuta, che rappresenta il 74% dell’imballaggio, viene utilizzata come materia prima anche per i prodotti principali dell’azienda, mentre plastica e alluminio sono conferite ad altre imprese che li utilizzano come materie prime nei settori dell’imballaggio e dell’edilizia. Questo sistema consente a molti Comuni di raccogliere gli imballaggi compositi poliaccoppiati per bevande assieme alla carta, semplificando il processo di raccolta differenziata ed evitando l’incenerimento o il conferimento in discarica.

e i trasformatori di prodotti a base di cellulosa e anche i recuperatori. La sua attività comprende la stipula di convenzioni e la gestione del sistema di raccolta e riciclo dei rifiuti a base cellulosica all’interno dei Comuni. Oggi Comieco copre il 70,7% dei comuni, l’83,9% della popolazione e ha raccolto in convenzione 1,5 milioni di tonnellate di carta e cartone, erogando ai Comuni in convenzione 88 milioni di euro (dati 2013). L’efficienza delle cartiere Ma non si può lasciare il nastro di Möbius della carta senza citare ciò che succede nel settore, a parte il riciclo. Il 75% delle fibre vergini di cellulosa necessarie alle cartiere italiane sono di provenienza certificata, a fronte del fatto che solo il 10% delle foreste globali lo sono. Per trattare queste fibre vergini le cartiere non usano il cloro gassoso e in 40 anni hanno diminuito il consumo d’acqua del 66%. Ma soprattutto negli ultimi 18 anni le aziende cartarie hanno aumentato l’efficienza energetica del 20% utilizzando la cogenerazione, visto che per produrre carta serve sia elettricità sia calore. Insomma se l’economia deve diventare circolare, la carta ha ottime possibilità di essere tra i materiali all’avanguardia, per chiudere il cerchio.

Intervista

La materia prima è la seconda Massimo Medugno, direttore generale di Assocarta

Info www.assocarta.it

Quanto è importante il riciclo della carta per il settore cartario? La carta da riciclo è la materia prima principale del settore. Quello del riciclo nel settore cartario è un sistema efficiente. Oggi un giornale avviato al riciclo torna in produzione in 7 giorni, una scatola in cartone ondulato in 14 giorni. Quali sono i problemi principali? L’industria cartaria italiana ha investito molto nella raccolta della carta e proprio per la sua capacità di gestione proattiva rischia di essere penalizzata. I principali concorrenti extraeuropei, come per esempio la Cina, accedono ai nostri giacimenti di materie prime-seconde senza sostenerne i costi e senza avere gli stessi vincoli ambientali. E quindi? Stiamo lavorando per attuare quei principi secondo i quali, per evitare il dumping ambientale, le aziende extraeuropee devono operare secondo condizioni

©Assocarta

©Assocarta

Le imprese cartarie sono in prima linea per ciò che riguarda la filiera della carta e del riciclo. Abbiamo chiesto a Massimo Medugno, direttore generale di Assocarta, di illustrarci la situazione dal punto di vista delle aziende.

Ciò a cui si sta lavorando a livello europeo e italiano è il riciclo di prossimità, che punta a ridurre le emissioni di CO2 legate al trasporto e a creare lavoro a livello locale.


Case Histories

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Per quanto riguarda la raccolta le imprese sono soddisfatte? La raccolta è un elemento chiave nella sostenibilità ambientale. L’incremento nel tasso nazionale, indice di un miglioramento delle infrastrutture per la raccolta della carta, si è verificato grazie anche al contributo fornito da Comieco, a cui partecipano le cartiere e i trasformatori. Ciò ha ridotto lo smaltimento in discarica, rendendo disponibili nuovi flussi dalla raccolta differenziata urbana e riducendo il ricorso all’importazione, ormai limitata a particolari qualità di maceri non disponibili in sufficienti quantità nel nostro paese.

©Assocarta

di riciclo equivalenti a quelle europee, con attenzione agli standard ambientali.

Intervista

La carta del sud Carlo Montalbetti, direttore generale di Comieco

Info www.comieco.org

Come si è arrivati a percentuali così alte del riciclo della carta in Italia? Grazie a due questioni centrali e sinergiche. La prima è stata la necessità di superare lo smaltimento in discarica dei rifiuti, per il quale l’Italia era maglia nera in Europa. La seconda è legata alla domanda di materiale: il nostro paese è ‘ricco di boschi poveri’ e l’industria della carta, nei secoli, ha dovuto orientarsi prima sugli stracci, poi sugli scarti agricoli e quindi dagli anni ’50 sul macero della carta. Ma non è stato sufficiente. Nel settore degli imballaggi fino al 2005 abbiamo importato macero dall’estero per 1,2 milioni di tonnellate. Poi, con l’aumento della raccolta differenziata, abbiamo annullato questa quota e ora siamo esportatori di macero. Ci sono ancora dei margini di miglioramento? Sì. Stimiamo che ci siano almeno 500.000 tonnellate di fibra cellulosica nei rifiuti urbani che possono ancora essere intercettate. Le aree dove si può fare ciò sono di sicuro Roma e una buona parte del Sud Italia, al quale ora dedichiamo le nostre attenzioni. Come? Abbiamo varato un piano straordinario per il Sud che prevede interventi anche economici da parte nostra. Per la prima volta investiamo 7 milioni di euro per aiutare i Comuni del Sud per arrivare a un sistema di raccolta efficiente. Una cifra che si aggiunge al contributo nazionale che è di 100 milioni l’anno. Bisogna considerare però che al Sud ci sono anche esempi positivi: Bari, per esempio, ha una raccolta della carta di 68 kg annui per abitante, comparabile con quella di Milano.

©Comieco

©Comieco

Il Consorzio Comieco è l’attore storico della raccolta della carta da macero. Il suo direttore generale Carlo Montalbetti ci spiega come il riciclo si è sviluppato in Italia e svela le prossime strategie del Consorzio.


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materiarinnovabile 04. 2015

La CARTA GREEN che dà nuova vita agli scarti agroindustriali di Roberto Rizzo

Quando eravamo piccoli ci dicevano che bisognava mangiare tutto quello che c’era nel piatto: guai a sprecare il cibo. Però probabilmente le nostre mamme non si preoccupavano di quello che accadeva al cibo prima di arrivare sul piatto: non consideravano la produzione di scarti (e talvolta di sprechi) della catena di produzione dell’industria agroalimentare.

Roberto Rizzo è un giornalista scientifico esperto di tematiche energetiche e ambientali e dal 2010 insegna al Master di Giornalismo Scientifico della Sissa di Trieste.

Invece di prendere la via della discarica o della termovalorizzazione, quegli scarti oggi possono diventare cartone per packaging di pregio, il cartoncino su cui stampiamo gli inviti per il nostro matrimonio o la carta della rivista che state sfogliando. O mille altre cose ancora. Tutto questo lo dobbiamo a Favini, cartiera italiana tra le più attive a livello internazionale nella ricerca, sviluppo e produzione di carte e specialità grafiche innovative e speciali. E che sta dimostrando da diversi decenni un’attenzione particolare all’ambiente. È stata infatti una delle prime aziende italiane a redigere il bilancio ambientale ed è stata la prima cartiera in Italia ad aver ottenuto la certificazione ISO14001 per il sistema di gestione ambientale. Inoltre, Favini porta avanti programmi concreti per la diminuzione del consumo di acqua ed energia e delle emissioni inquinanti dei propri stabilimenti

produttivi. “Il nostro obiettivo è unire la produzione di carta di qualità con la riduzione del nostro impatto sull’ambiente” spiega Michele Posocco, Brand Manager di Favini. “Non è quindi un caso che proprio Favini sia stata la prima cartiera italiana a sviluppare una gamma intera di prodotti ecologici. L’opportunità nacque all’inizio degli anni ’90 quando il Magistrato delle Acque di Venezia creò un comitato di esperti per fronteggiare l’eccessiva diffusione delle alghe in laguna, che creavano non pochi problemi al turismo e alla navigazione. Abbiamo aderito con entusiasmo a questo comitato per capire se fosse possibile usare le alghe nella produzione della carta. Grazie a uno studio durato un anno e finanziato dall’Unione europea nell’ambito del progetto Life abbiamo sviluppato Shiro Alga Carta, il capostipite dei nostri progetti sostenibili, una carta versatile con caratteristiche del tutto comparabili con le altre carte della stessa grammatura.” Le alghe non hanno un forte contenuto di cellulosa e Favini ha dovuto sviluppare un processo industriale innovativo, brevettato a livello mondiale insieme al prodotto. Il cuore del processo industriale consiste nell’essiccazione delle alghe e nella successiva macinazione in un mulino micronizzatore. La polvere così ottenuta, costituita da grani con dimensioni da 200-300 micron a mezzo millimetro,


Case Histories

Il numero di Materia Rinnovabile che state sfogliando è stampato su Carta Crush ricavata da mais.

va a sostituire una parte della cellulosa nell’impasto della carta. In venti anni sono state prodotte 15.000 tonnellate di Shiro Alga Carta per le applicazioni più disparate: dal packaging per gli occhiali di Armani agli shopper, ai libri, ai cataloghi, alle carte per gli inviti. Se inizialmente le alghe provenivano soltanto dalla laguna di Venezia, Favini nel corso del tempo ha iniziato a importarle da varie parti del pianeta (l’ultima in ordine di tempo è stata la Normandia) anche perché, per fortuna, il problema delle alghe in laguna si è ridimensionato. La Carta Crush Dopo Shiro Alga Carta, Favini ha iniziato lo studio di tutta una serie di sottoprodotti del settore agroindustriale simili alle alghe ma con quantità superiori di fibra. Sono stati creati diversi filoni di ricerca e realizzati alcuni prodotti pilota. Nel 2012 si è arrivati a Carta Crush, che rappresenta un’evoluzione migliorativa di Shiro Alga Carta. Con Carta Crush Favini nobilita scarti altrimenti destinati alla discarica, all’alimentazione animale o alla produzione energetica rendendoli compatibili con la produzione di carte ecologiche di alta qualità. Carta Crush è costituita per il 15% da scarti della filiera agroindustriale italiana, è Ogm free ed è riciclabile e compostabile. Vengono

usati gli scarti della lavorazione di cacao, olive, caffè, agrumi, vino, distillati, grappe, tutti lavorati con il mulino micronizzatore. I residui dell’ingrediente principale sono percepibili a occhio nudo, con una consistenza piacevole al tatto lungo tutta la superficie della carta. “Un contenuto del 15% è il massimo che oggi riusciamo a raggiungere senza inficiare la tinta, la stampabilità, il punto di bianco e le caratteristiche meccaniche della carta” spiega Flavio Stragliotto, direttore degli stabilimenti produttivi di Favini. “In alcuni casi siamo riusciti ad aumentare questa percentuale, come per gli scarti delle vinacce, con le quali arriviamo al 30%, e a CartaCrusca (20%) che abbiamo sviluppato lo scorso anno con Barilla per realizzare le scatole regalo dell’alta gamma ‘Accademia Barilla’. Non tutti gli scarti sono adatti per la produzione di Carta Crush” prosegue Stragliotto. “Per esempio, non siamo riusciti a usare gli scarti della torrefazione del caffè a causa della pellicina che ricopre il chicco (il cosiddetto pergamino) dall’elevato contenuto di oli e grassi, che a differenza della cellulosa hanno poca affinità con l’acqua: la produzione della carta avviene in acqua e quindi difficilmente può essere usato uno scarto ricco di oli. Il nostro team interno di Ricerca&Sviluppo, composto da sei persone, sta cercando di trovare nuovi scarti per l’impasto della carta, oltre a lavorare per migliorare i nostri prodotti standard e renderli meno impattanti sull’ambiente.” La differenza di costo tra Crush e una carta tradizionale è di circa il 5-10%, una forchetta che dipende dalla tipologia di scarto. Ogni sottoprodotto deve essere lavorato in maniera diversa: gli scarti di agrumi e mais hanno un costo basso, a differenza delle vinacce, che sono più complesse da preparare. “I macchinari delle nostre linee di produzione sono standard e poi da noi li abbiamo adattati alle produzioni” spiega Flavio Stragliotto. “Il mulino, che è il cuore del processo per produrre Carta Crush, è stato acquistato da un’azienda italiana per realizzare Shiro Alga Carta e l’abbiamo modificato per adattarlo alle nostre esigenze successive.”

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materiarinnovabile 04. 2015 Un mix amico dell’ambiente

Favini in numeri •• Favini opera da oltre 270 anni nel mercato della produzione di carta (1736) •• Due stabilimenti, entrambi in Italia •• 450 dipendenti •• 150 milioni euro di fatturato (circa 70% export) •• 70.000 tonnellate di carta prodotta ogni anno •• Una delle prime aziende in Italia a redigere il bilancio ambientale •• Prima cartiera in Italia ad aver ottenuto la certificazione ISO14001

La produzione di Carta Crush ha un contributo in termini di emissioni a effetto serra del 20% inferiore rispetto alla produzione di carta tradizionale.

Info www.favini.com

I vantaggi ambientali di Carta Crush non si limitano al contenuto di scarti della filiera agroalimentare. Il 30% proviene da carta da riciclo e Favini possiede tre turbine idroelettriche, attive dagli anni ’90, che sfruttano il salto di un torrente che sfocia nel Lago Maggiore, con una potenza complessiva di quasi 2 MW. La generazione elettrica di queste turbine permette di produrre 2.000 tonnellate l’anno di carta, quindi sufficienti per soddisfare il fabbisogno annuo di Carta Crush. La parte restante dell’energia necessaria per far funzionare gli stabilimenti produttivi proviene per il 50% dalla rete elettrica e per il 40% da un impianto di cogenerazione a gas, che oltre all’energia elettrica, produce calore usato per asciugare la carta. Grazie al consumo di energia da fonti rinnovabili e all’uso degli scarti agroindustriali e in base a misure effettuate con la metodologia Lca verificate da Dnv Business Assurance, la produzione di Carta Crush ha un contributo in termini di emissioni a effetto serra del 20% inferiore rispetto alla produzione di carta tradizionale. “Sempre sul fronte ambientale, mi piace sottolineare che le fibre vergini da noi utilizzate (conifere, eucalipto, faggio, pioppo) provengono da foreste certificate Fsc (Forest Stewardship Council), quindi coltivate in maniera sostenibile: la foresta è sfruttata come una piantagione e non appena si tagliano gli alberi ne vengono subito piantati di nuovi” afferma Flavio Stragliotto. “Fsc è sostenuta anche da associazioni ambientaliste internazionali del calibro di Greenpeace e Wwf e ha dato un volto nuovo al mondo della carta: negli ultimi 20 anni ha fatto un grosso lavoro per rendere più sostenibile il settore e coinvolgere un numero sempre maggiore di produttori. Per quanto riguarda l’uso di sostanze chimiche, nella produzione di Carta Crush usiamo solamente quelle standard dell’industria cartiera. Carta Crush ha un colore che ricorda quello del materiale di partenza e se non fosse così perderemmo in termini di impatto ambientale.” Favini possiede due stabilimenti produttivi: uno a Rossano Veneto, in provincia di Vicenza (dove viene prodotta Carta Crush), e uno a Crusinallo (Verbano-Cusio-Ossola). Entrambi gli stabilimenti


Case Histories

“Se a fine anni ’90 il nostro consumo di acqua era di 80 litri per chilo di carta prodotta, a fine dello scorso anno siamo arrivati a 15 litri e stiamo scendendo ancora, contro una media nazionale tra i 35 e i 40 litri.”

sono certificati ISO14001 e quello di Crusinallo ha anche la certificazione Emas, e questo vuol dire che l’azienda ha in atto dei programmi di miglioramento ambientale aggiornati di anno in anno. “In confronto alla media nazionale, Favini si pone all’avanguardia per il rispetto dell’ambiente” spiega Flavio Stragliotto. “Tanto per fornire un esempio concreto, pensiamo al nostro consumo di acqua: se a fine anni ’90 il nostro consumo di acqua era di 80 litri per chilo di carta prodotta, a fine dello scorso anno siamo arrivati a 15 litri e stiamo scendendo ancora, contro una media nazionale tra i 35 e i 40 litri. Tutte le cartiere si stanno muovendo per ridurre l’impatto ambientale e probabilmente quelli che ci riescono meglio siamo noi perché oltre a ridurre l’impatto delle attività tradizionali stiamo sviluppando il filone di prodotti dall’alto contenuto ecologico. Ovviamente i nostri stabilimenti produttivi, come qualunque attività umana, hanno un impatto sull’ambiente ma neutralizziamo le emissioni di CO2 residue non evitabili con l’acquisto di crediti per la riforestazione di un parco in Uganda e abbiamo finanziato la realizzazione di un impianto eolico in India. Inoltre, sponsorizziamo un progetto di salvaguardia di una foresta malgascia in Madagascar attraverso le attività di un’associazione italiana.” Le applicazioni di Crush “Inizialmente pensavamo che Carta Crush sarebbe stata utilizzata soprattutto nel settore ‘food e beverage’, ma in realtà si è fatta spazio nei campi più disparati. I nostri sono prodotti emozionali che coinvolgono l’utilizzatore perché

hanno contenuti elevati al passo con i tempi e oggi il consumatore è sempre più attento alle tematiche ambientali” prosegue Posocco. “Un esempio interessante è quello dell’azienda di fashion Yamamay, che produce intimo: ha usato Crush da caffè per la copertina dell’ultimo catalogo, che era dedicato ai Caraibi, un’area geografica che ha una forte produzione proprio di caffè.” Di recente, Carta Crush è stata usata per una nuova rivista di fotografia, in quanto la resa fotografica è assai buona, e per una collana di libri di cucina pubblicata dal Corriere della Sera. Anche il numero di Materia Rinnovabile che state sfogliando è stampato su Carta Crush (da mais). Di tutta la produzione Favini, Carta Crush rappresenta qualche punto percentuale e si tratta quindi di una produzione di nicchia. Il prodotto è comunque diffuso in 25 paesi: è stato il primo prodotto Favini a essere distribuito in Giappone, un mercato difficile da penetrare. Carta Crush ha vinto numerosi premi, tra cui l’Oscar dell’imballaggio, e la gift box di Academia Barilla realizzata in CartaCrusca ha ottenuto il Sette Green Award nella sezione packaging e il primo premio dell’Oscar dell’imballaggio IPACK-IMA 2015.

Carta Crush Agrumi Ogni anno in Italia per produrre i succhi si usa una quantità di agrumi pari a un milione di tonnellate. Ma soltanto il 40% dopo la spremitura diventa succo e il 60% (600.000 tonnellate) subisce delle rilavorazioni per la produzione di altri prodotti: oli essenziali, bioetanolo, pneumatici, pectina ecc. Il sottoprodotto di queste nuove lavorazioni, chiamato pastazzo depectinizzato, in genere viene disidratato e compattato per essere utilizzato come integratore nei mangimi animali o per la produzione di energia. Oppure va a finire in discarica. È a questo punto della filiera che interviene Favini, rivalorizzando per la prima volta il pastazzo depectinizzato e rendendolo compatibile con la produzione di carte ecologiche di alta qualità. Nasce cioè Carta Crush Agrumi.

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L’economia circolare a portata dei Comuni. E a costo zero

Nella gestione degli oli usati la legislazione italiana è tra le più avanzate al mondo: impone di rigenerare tutti gli oli disponibili. E già oggi in Italia il 30% delle basi usate per produrre oli lubrificanti è costituito da prodotti rigenerati. Ma occorre un cambio di passo. In questa direzione va letta la collaborazione tra Viscolube e Ancitel che punta al coinvolgimento dei Comuni. di Roberto Rizzo

In alto: Pasquale Domenico Cambiaso, La ricreazione dei Padri Filippini nella Chiesa di San Michele, Genova, metà del XIX sec. Collezione tipografica del Comune

Ipotizziamo che un’amministrazione comunale voglia diventare parte attiva dell’economia circolare, per esempio utilizzando il green public procurement (Gpp), cioè inserendo criteri di carattere ambientale nell’acquisto di beni e servizi. Però, visto il periodo di vacche magre, lo voglia fare a costo zero, quindi senza spese aggiuntive per la collettività. Un’impresa al limite del possibile? Per niente. Ne è un esempio l’ambito dell’olio lubrificante che le amministrazioni pubbliche comprano per i motori dei propri automezzi: nel trasporto pubblico, in quello scolastico o nei mezzi per l’igiene urbana. I lubrificanti sono costituiti da una miscela di oli base e additivi e oggi in Italia quasi un terzo del mercato delle basi lubrificanti è costituito da basi rigenerate. La rigenerazione è il processo che trasforma l’olio usato, che è un rifiuto pericoloso, in una materia prima seconda

da cui si producono nuovi lubrificanti. Si tratta di un’operazione dalle rese elevate: da una tonnellata di olio usato anidro si possono ottenere circa 750 kg di olio base rigenerato. L’azienda leader in Europa nella rigenerazione degli oli minerali è Viscolube. Presente in Italia con due stabilimenti con una capacità di trattamento di olio usato di circa 190.000 tonnellate l’anno, Viscolube è l’ideatrice, in collaborazione con Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), di una campagna di sensibilizzazione presso le amministrazioni comunali sull’uso di oli lubrificanti rigenerati proprio in un’ottica di economia circolare. “Insieme alla più grande azienda di additivi al mondo (Lubrizol), alcuni anni fa abbiamo sviluppato un lubrificante basato unicamente sulle basi rigenerate, il Revivoil, che abbiamo fatto approvare per la messa in commercio dai principali costruttori di motori” spiega Marco Codognola,


Case Histories direttore commerciale, acquisti e business development di Viscolube. “Benché la commercializzazione del prodotto sia compito dei nostri clienti, tre anni fa ci siamo chiesti se non fosse il caso di diffonderne la conoscenza tra le pubbliche amministrazioni, che hanno l’indirizzo di seguire la normativa Gpp ma non trovano sul mercato lubrificanti a base di materia prima seconda. A partire da questa idea iniziale, abbiamo incominciato a sondare alcuni Comuni, fra cui quello di Savona, che è stato

particolarmente ricettivo: abbiamo firmato un protocollo di intesa e siamo partiti con la prima sperimentazione sui loro automezzi nel periodo 2011-2012. Dopo l’esperienza con Savona, abbiamo proseguito la sperimentazione con i Comuni di Genova e Perugia.” I primi Comuni coinvolti Revivoil è costituito per il 100% da basi rigenerate (15W-40) e può essere utilizzato così com’è

Tabella 1 | Basi rigenerate: una realtà dimostrata Comune di Savona (ottobre 2011 - luglio 2012) Olio tradizionale

Olio con base rigenerata

km percorsi

9.222

10.963

Incremento viscosità a 40°C tra olio usato e nuovo, livello stress termo-ossidativo e di contaminazione

+ 11,4%

+ 5,5%

Presenza e quantità metalli d’usura (ppm)

Ferro 285

Ferro 152

Fonte: Analisi a cura Laboratorio Ssog – Milano.

Nota: Valutazione comparata tra lubrificante tradizionale e lubrificante con base rigenerata (Revivoil) per durata di esercizio di 10.000 km o 1 anno.

Comune di Genova (giugno 2012 - marzo 2013) Olio idraulico Iso 46 tradizionale

Olio idraulico Iso 46 tradizionale con base rigenerata

Durata esercizio (ore)

1.537

1.703

Colore ASTM D 1500 Inizio esercizio Fine esercizio

L1 L4

L1 L 3,5

Metalli d’usura fine esercizio (ppm) Ferro Cromo

61,6 10,0

Assente Assente

Viscosità cinematica a 40°C (mm2/s) Inizio esercizio Fine esercizio

47,0 38,4

44,5 39,1

Nota: Valutazione comparata tra due oli idraulici Iso 46 su due diverse presse elettroidrauliche, ma identiche in termini di caratteristiche costruttive.

Comune di Perugia (luglio 2012 - marzo 2013) Olio tradizionale

Olio con base rigenerata

km percorsi

5.216

10.856

Metalli d’usura

Assenti

Assenti

% assorbanza FT-IR tra olio usato e olio nuovo nitrazione ossidazione particolato solfatazione

Nota: Valutazione comparata tra due oli lubrificanti su due mezzi differenti ma di medesima motorizzazione.

+ 21,8% + 51,2% + 54,9% + 19,8%

+ 31,7% + 10,5% + 125% * + 6,1%

* La valutazione sfavorevole del particolato (generato dalla combustione del gasolio) nell’olio con base rigenerata è una diretta conseguenza del maggior chilometraggio accumulato dal mezzo.

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In base agli accordi con Viscolube, i Comuni si sono impegnati a usare lubrificanti formulati con una quota di olio rigenerato nel proprio parco mezzi o in quello delle società partecipate.

nei veicoli diesel pesanti, mentre va addizionato in percentuali variabili a tutti i lubrificanti in commercio, usati per esempio nei veicoli a benzina e nelle auto diesel. In base agli accordi con Viscolube, i Comuni si sono impegnati a usare lubrificanti formulati con una quota di olio rigenerato nel proprio parco mezzi o in quello delle società partecipate. Nel caso dei Comuni di Savona, Genova e Perugia si sono fatti lavorare in parallelo due mezzi identici: uno usando il lubrificante Viscolube 100% rigenerato – il Revivoil appunto – e l’altro un lubrificante tradizionale, ottenuto cioè dalla raffinazione del greggio. In tal modo si sono potute confrontare le performance e si è dimostrata l’equivalenza tra i due lubrificanti tramite le analisi chimico-fisiche effettuate da un laboratorio terzo (vedi tabella 1). Anzi: per alcuni parametri è emersa la superiorità del lubrificante che adottava basi rigenerate. C’è inoltre da sottolineare che se un Comune decide di utilizzare lubrificanti con basi rigenerate non ha costi aggiuntivi: non si deve realizzare nessuna infrastruttura ad hoc, basta acquistare il lubrificante dal distributore, proprio come nel caso dei lubrificanti convenzionali. La legislazione italiana L’Italia si è dotata nel corso degli anni di una delle legislazioni più avanzate per la corretta gestione del fine vita degli oli usati. Da noi vige infatti l’obbligo di portare alla rigenerazione tutti gli oli disponibili, a differenza di quanto avviene negli altri paesi europei, dove invece è ancora possibile la termovalorizzazione (nel Regno Unito la quasi totalità dell’olio usato viene bruciato). Diverso è il discorso quando si tratta di acquisti verdi della

pubblica amministrazione. “La legislazione italiana delinea un quadro ma non dà ancora regole puntuali” spiega Marco Codognola. “L’azione che stiamo portando avanti con Anci tende proprio a far nascere dal basso delle situazioni virtuose e speriamo che il legislatore possa tradurre queste azioni in una norma nazionale. Le faccio l’esempio degli Stati Uniti, dove per legge i lubrificanti usati dalla Pa devono contenere almeno il 25% di basi rigenerate. La normativa vale anche per l’esercito americano, che come possiamo immaginare è uno fra i più grossi consumatori di lubrificanti del paese. Un’enunciazione semplice come questa ha trasformato il mercato americano del riciclo degli oli usati, visto che fino a pochi anni fa tutto l’olio veniva bruciato. Un’amministrazione democratica ha reso possibile un cambiamento completo di paradigma: oggi negli Stati Uniti si contano numerose raffinerie di lubrificazione e le basi rigenerate costano di più di quelle vergini perché se ne riconosce il valore ambientale.” L’impegno di Ancitel Energia e Ambiente, il braccio operativo di Anci che supporta i Comuni nello sviluppo di nuove soluzioni in ambito ambientale, sarà quello di coinvolgere le amministrazioni nella realizzazione di un protocollo di intesa, finalizzato all’adozione di un bando di gara “tipo” per l’acquisto di prodotti green, come l’olio lubrificante formulato con basi rigenerate. “Ancitel è attiva in tutto il macro-settore che va dalla raccolta differenziata all’effettivo riciclo” afferma Filippo Bernocchi, delegato Anci Energia e Rifiuti. “Malgrado ci siano discipline volontarie e norme relative al Gpp, è necessario supportare le amministrazioni comunali sul tema dell’economia circolare. Quando si ha il problema di inserire

Gpp: gli acquisti verdi della pubblica amministrazione In Italia – secondo i dati Ispra – gli acquisti effettuati dalla pubblica amministrazione rappresentano il 17% del Pil. Un valore che mostra il notevole peso che la pubblica amministrazione può avere nell’orientare il mercato di beni e servizi, anche verso la sostenibilità. Lo strumento di politica ambientale che, agendo sulla leva della domanda, aiuta le Pa a scegliere prodotti e servizi a basso impatto è il green public procurement (Gpp). La pratica del Gpp consiste nell’inserire criteri ambientali all’interno negli appalti della Pa e, in tal modo, le procedure di appalto coinvolgono non solo criteri monetari ma anche gli impatti sulla salute e l’ambiente generati nell’intero ciclo di vita di prodotti e servizi. Tra gli obiettivi del Gpp: •• l’efficienza e il risparmio nell’uso delle risorse, in particolare dell’energia, con conseguente contenimento delle emissioni di CO2;

•• la riduzione nell’impiego di sostanze pericolose. •• la riduzione della quantità di rifiuti prodotti: grazie alla razionalizzazione degli acquisti e alla definizione dei criteri ambientali volti a favorire la diffusione dei prodotti dalla maggior durata di vita, riutilizzabili, riciclabili e con un ridotto volume d’imballaggio. Lo strumento con cui massimizzare la diffusione dei Gpp è il Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblica amministrazione (Pan Gpp). Il Piano d’azione prevede la definizione da parte del ministero dell’Ambiente dei criteri ambientali minimi. Si tratta di punti di riferimento a livello nazionale in materia di acquisti pubblici verdi relativi a numerose categorie merceologiche: dall’edilizia alla gestione dei rifiuti, dai servizi energetici alla ristorazione, dalla pulizia ai trasporti.

Info www.viscolube.it www.ea.ancitel.it


Case Histories Hartmann Schedel, Perugia, 1493, tratto dal Liber Chronicarum

Lorenzo Centurione, Savona, XIX sec.

all’interno di un disciplinare di gara gli oli rigenerati, l’amministrazione comunale ha bisogno di avere qualcuno che la supporti tecnicamente e che spieghi come realizzare al meglio le gare. Abbiamo fatto una prima selezione di Comuni da coinvolgere, visto che ci sono amministrazioni più o meno sensibili e talvolta dove l’amministrazione è sensibile è la parte burocratica-amministrativa a esserlo di meno: il lavoro è quindi duplice.” La collaborazione con Ancitel “La risposta delle pubbliche amministrazioni con cui abbiamo collaborato finora è stata assai positiva, perché queste vedono la nostra iniziativa come un modo per trasmettere ai cittadini dei valori virtuosi a costo zero” afferma Marco Codognola. “Ma non possiamo andare da ogni singolo Comune italiano a proporre le nostre basi: non è il nostro mestiere. Il nostro obiettivo è che siano le aziende produttrici dei lubrificanti a mettere in commercio i prodotti con basi rigenerate e a proporle alle amministrazioni pubbliche. Teniamo conto che oggi già il 30% delle basi usate da chi produce gli oli è formato da prodotti rigenerati, ma manca la consapevolezza degli utenti, fra cui le amministrazioni pubbliche, di un trend di mercato tanto lusinghiero. È da questi presupposti che nasce la collaborazione con Anci, e in particolare con Ancitel Energia e Ambiente. Dopo le sperimentazioni positive con alcuni Comuni, ci siamo ritrovati con i responsabili Anci a cui abbiamo spiegato

in che modo la nostra iniziativa può valorizzare il ruolo delle Pa nell’ambito dell’economia circolare. La risposta di Anci alla nostra sollecitazione è stata entusiasta.” Ancitel ha coinvolto finora circa 200 Comuni in una serie di iniziative di comunicazione e formazione e alcuni gruppi di Comuni stanno iniziando ad aderire al programma, con la formulazione di bandi di gara in cui è indicato come criterio preferenziale un lubrificante con un valore minimo di basi rigenerate. Il bando di gara “tipo” è stato predisposto da Ancitel, Viscolube ha fornito un supporto tecnico sui criteri minimi ambientali e sulla parte premiante. “Ho molto apprezzato la sensibilità ambientale di Viscolube, azienda che pur essendo leader nel suo settore e non avendo quindi problemi di concorrenza, ha deciso di supportare le amministrazioni comunali in questo percorso virtuoso” afferma Filippo Bernocchi. “Quella delle materie prime seconde è un’attività che ci vede impegnati anche in altre filiere, come quella di pneumatici e imballaggi. È in corso un dibattito tra chi vorrebbe che i Gpp divenissero obbligatori per legge con eventuali sanzioni e chi non condivide questo approccio. Il tema è complesso perché è necessario verificare caso per caso e materia prima seconda per materia prima seconda fin dove si può spingere l’equipollenza tra materia prima vergine e rigenerata dal punto di vista delle performance tecniche. Ritengo comunque che oggi l’investimento migliore consista nel promuovere la conoscenza tra gli enti locali sui vantaggi delle materie prime seconde per l’ambiente, l’economia e, non da ultima, l’industria italiana.”

Se un Comune decide di utilizzare lubrificanti con basi rigenerate non ha costi aggiuntivi: non si deve realizzare nessuna infrastruttura ad hoc.

Oggi già il 30% delle basi usate da chi produce gli oli è formato da prodotti rigenerati, ma manca la consapevolezza degli utenti, fra cui le amministrazioni pubbliche, di un trend di mercato tanto lusinghiero.

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Made in di Marco Capellini

FOOD WASTE

Edible Project, Food Nests

Impasto

Se arrivare a eliminare del tutto gli sprechi alimentari è un obiettivo difficile da raggiungere nel breve periodo, si moltiplicano le soluzioni tecnologiche per trasformare questi rifiuti in risorse. Come da frutta, gusci d’uovo, verdura e fondi di caffè si possono ricavare nuovi materiali per realizzare ciotole, vasi, borse, tessuti, scarpe e lampade.

Marco Capellini, tra i primi a occuparsi in Italia di design per la sostenibilità. Ceo di Matrec – Sustainable Materials & Trends, e libero professionista presso il suo studio MarcoCapellini | sustainable design & consulting.

Expo 2015 ha senza dubbio portato all’attenzione internazionale diversi aspetti relativi alla tutela delle risorse alimentari. Tra le varie tematiche, lo spreco del cibo assume un’importanza significativa da numerosi punti di vista. Da anni diversi paesi hanno intrapreso iniziative finalizzate a cercare di ridurre lo spreco alimentare, sia per una questione di etica dovuta a una disparità distributiva degli alimenti tra diverse zone del globo, sia come problema ambientale, in quanto causa significativa delle emissioni di CO2. A oggi però, oltre a studi e ricerche sempre più puntuali nel descrivere il problema, non si vedono risultati significativi in quanto il consumatore finale non è ancora diventato parte attiva di questo sistema. Di fatto lo zero food waste è un obiettivo difficilmente raggiungibile nel breve periodo, in quanto il processo produttivo in atto e i modelli di consumo non contemplano ancora precise

regole di gestione degli scarti alimentari. Ma fortunatamente le cose stanno, almeno in parte, cambiando. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una spinta verso soluzioni progettuali di valorizzazione dei rifiuti, grazie anche a ricerche, tecnologie e sperimentazioni sempre più orientate alla sostenibilità ambientale. Ma soprattutto grazie ad aziende che trasformano i rifiuti alimentari in nuova risorsa, sia come opportunità di mercato sia per perseguire i principi della circular economy. Ed è stato proprio questo l’obiettivo di Made in Food Waste, pubblicazione frutto di una ricerca internazionale svolta dall’Osservatorio internazionale di Matrec in collaborazione con l’Università di Architettura e design del Cile: spiegare come i rifiuti alimentari possono diventare risorsa per nuovi prodotti industriali. Opportunamente trattati, e in alcuni casi additivati con componenti naturali, gli scarti alimentari rivelano molte potenzialità di impiego e diventano


Case Histories

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Combine

Mondongo Shoes

Info www.matrec.com

Oltre a essere fortemente innovativi, tutti questi prodotti sono nella maggior parte dei casi funzionali, esteticamente piacevoli e l’origine naturale ne garantisce, quasi sempre, uno smaltimento virtuoso grazie alla loro biodegradabilità e compostabilità. La ricerca ha inoltre messo in evidenza la possibilità di utilizzare altri scarti alimentari come coloranti

Nook Toy Car Clothes in Milk Crush

Frutta, verdura e cereali, dopo una fase di essicamento naturale o meccanica, sono i prodotti maggiormente impiegati per la realizzazione per esempio di lampade, ciotole, fogli di carta e oggettistica per la casa. In alcuni casi la texture del prodotto ricalca disegni e forme del frutto di origine, mentre in altri l’impiego di un processo meccanico e l’aggiunta di diversi leganti naturali permette di utilizzare un processo di stampa per la realizzazione del prodotto finale. Di particolare interesse sono quei processi di recupero che permettono di ottenere, da queste tipologie di scarti, una serie di filati da utilizzare per la realizzazione di capi di abbigliamento. Dalle foglie di tè, gusci d’uovo, zucchero, cascami di riso, funghi micelio e gusci di arachidi si possono invece ottenere ciotole, vasi, spazzole, calzature e oggettistica per la casa. Anche i fondi di caffè, principalmente recuperati dai bar, sono stati oggetto di diverse applicazioni e sperimentazioni nella realizzazione di lampade, vasi, ciotole, tazzine e filati per tessuti. La naturalità e il colore del materiale conferiscono ai prodotti finali una texture, talvolta disomogenea, ma molto piacevole al tatto e alla vista. Particolare attenzione negli ultimi anni è stata data alla pelle di pesce che, recuperata a livello industriale e opportunamente trattata, ha trovato largo impiego nel settore moda e viene utilizzata anche dalle grandi marche del lusso per realizzare borse, scarpe, accessori e capi di abbigliamento. Ci sono anche tessuti ricavati dalla caseina del latte o dalla bagassa; scarpe, imballaggi e oggettistica realizzati dal recupero della fibra di cocco; stoviglie fatte con gli scarti di bambù, bagassa e canna da zucchero; spugne in fibra di agave e calzature ottenute da frattaglie ricavate dalle diverse parti dello stomaco del bovino.

naturali per tessuti e pelli. Anche se – va precisato – la loro valorizzazione non può e non deve essere interpretata come giustificazione di un minore impegno nel tentativo di ridurre la quantità dei rifiuti alimentari: è necessario intraprendere da subito azioni finalizzate a ridurre questi sprechi lungo tutta la filiera produttiva e attivare progetti per valorizzare gli eventuali scarti finali.

Pirarucu Shoes

nuovi materiali con caratteristiche e proprietà che si prestano a diverse applicazioni.


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materiarinnovabile 04. 2015 Scenari di sostenibilità

Cocolok Shoes

Matrec, grazie al suo Osservatorio internazionale per l’innovazione sostenibile, da anni collabora con le imprese applicando strategie di sviluppo e innovazione sostenibile per i nuovi materiali e prodotti. Ricerche e indagini internazionali dimostrano come il consumatore in fase di acquisto sia sempre più attento ai valori socioambientali dei prodotti, all’origine delle materie prime e dei processi produttivi.

COCOLOK SHOES: scarpe in cocco, lattice, bioresina e lana. I fogli in cocco vengono spruzzati con lattice naturale per poter essere modellati. La bioresina è utilizzata per dare struttura, mentre con il feltro di lana viene realizzato il calzino a contatto con la pelle (Regno Unito).

Coconut Bowls

WASARA: stoviglie monouso biodegradabili e compostabili realizzate con materiali 100% rinnovabili come bambù, polpa di canna e bagassa, rifiuto dell’estrazione del succo della canna da zucchero (Corea).

ARTICHAIR: una serie di arredi da interni realizzati con un materiale 100% biodegradabile, proveniente da parti di cardo, non utilizzate nel processo di produzione di bio-combustibile, ridotte in poltiglia (Regno Unito).

Artichair

FOOTGLOVE Earth Sustainable Shoes: collezione di scarpe casual composte da una suola con 35% di gomma naturale e 10% di lolla di riso. I rinforzi interni e le cuciture sono in Pet riciclato dalle bottiglie. La soletta è composta al 57% da caffè riciclato (Regno Unito).

Wasara

Footglove, Earth Sustainable Shoes

COCONUT BOWLS: ciotole colorate per alimenti realizzate in gusci di cocco levigati e laccati artigianalmente (Usa).


Case Histories AGRICOLA: lampade biodegradabili e compostabili realizzate con rifiuti provenienti dalla produzione e il consumo di frutta, verdura e cereali, trattati con diversi leganti naturali (Paesi Bassi).

Cocoform

Blanket, Project Saccharum

Saccharum Project

Agricola

SACCHARUM PROJECT: collezione di ciotole realizzate in zucchero raffinato, bagassa, saccarosio, fibre e ceneri di canna da zucchero; tutti materiali derivati dalla produzione di zucchero (Regno Unito).

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COCOFORM: packaging per uova realizzato in fibra di cocco riciclata dai gusci delle noci scartate dall’industria alimentare unita a lattice naturale (Paesi Bassi).

BLANKET: coperte ricamate e lavorate a maglia realizzate in bagassa, scarto di produzione della canna da zucchero. La bagassa viene processata chimicamente ed estrusa al fine di realizzare delle fibre (Regno Unito).


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ACQUA, ENERGIA, MATERIA e OCCUPAZIONE dagli pneumatici fuori uso Recuperato nel 2014 l’equivalente di 28 milioni di gomme di auto. In questo modo è stata evitata l’emissione di 344.000 tonnellate di CO2 e sono state risparmiate 377.000 tonnellate di risorse minerarie e combustibili fossili. E oltre 1,8 milioni di litri di acqua.


Case Histories a cura della redazione

Si fa presto a parlare di Report di sostenibilità. Ma non tutti i Report sono eguali tra loro. Un conto è scegliere con cura alcuni dati (magari mettendo in secondo piano quelli meno spendibili) per giocarseli abilmente sul tavolo della comunicazione. Un altro è consegnare tutti i propri incartamenti a un soggetto indipendente rinunciando a qualsiasi filtro. Ed è stata proprio questa la scelta effettuata da Ecopneus, società consortile senza scopo di lucro costituita da produttori e importatori di pneumatici allo scopo di garantire la raccolta, il recupero e il trattamento degli pneumatici fuori uso (Pfu). “Abbiamo percorso la strada della completa trasparenza”, sottolinea Giovanni Corbetta, direttore generale di Ecopneus. “E abbiamo dato le chiavi del nostro archivio agli analisti della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile affinché sviluppassero il Report in totale autonomia.” La scelta della trasparenza è un elemento importante che ci aiuta a comprendere la filosofia di Ecopneus, società consortile che gestisce oltre il 65% dei Pfu in Italia. Il nuovo Report, infatti, non si limita a illustrare le performance ambientali del sistema consortile. Così come non rimane solo all’interno di una logica di economia circolare per cui il consorzio deve assolvere agli obblighi di legge garantendo nel modo più efficace possibile il recupero dei Pfu. Al contrario il Report descrive un vero e proprio modello di green strategy che punta a costruire una filiera produttiva sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale. “L’obiettivo finale”, osserva Corbetta, “va oltre la soluzione di un problema, va oltre lo ‘smaltimento’ dei Pfu. L’obiettivo è far diventare questa un’industria che crea lavoro, sapere e prodotti sostenibili che concorrono alla sostenibilità del sistema paese”. Per capire di cosa stiamo parlando conviene fare un passo indietro. E ricordare che ci sono settori come la siderurgia che utilizzano il recupero degli scarti e dei rifiuti fin dall’epoca degli Etruschi. Ma non basta. Perché il rottame d’acciaio è un prodotto nobile, con un suo valore di mercato che lo inserisce a pieno titolo in una filiera produttiva. Mentre è da parecchi anni che si sono attrezzati in tal senso comparti come quello della plastica, della carta e del vetro. Per gli pneumatici non è così. È solo dal settembre del 2011, con l’introduzione del modello della responsabilità estesa del produttore di cui Ecopneus è un’importante realtà, che c’è una “regia” che spinge in modo sistematico per la valorizzazione dei Pfu, come “materia prima seconda”, dunque materia preziosa da valorizzare, non un rifiuto. Forse è il caso di sottolineare come i principali risultati evidenziati nel Report di Sostenibilità

di Ecopneus, anche se positivi, vadano valutati in una cornice più ampia. Partiamo comunque dai dati. Nel 2014 Ecopneus ha raccolto oltre 255.000 tonnellate di Pfu, equivalenti in peso a più di 28 milioni di pneumatici per autovettura provenienti da oltre 27.000 fra gommisti e altri operatori appartenenti al settore del “ricambio”: 165.000 tonnellate (64%) sono state avviate alla valorizzazione energetica e poco più di 91.000 tonnellate, pari al 36%, sono state avviate al recupero di materia. In realtà c’è di più. Nel Report, infatti, si mette in evidenza che conteggiando anche l’acciaio, gli ossidi e le ceneri che dopo il recupero di energia tornano alle acciaierie oppure entrano come componenti del cemento il recupero di materia balza al 59% e quello di energia si attesta al 41% includendo anche le fibre tessili che dopo la frantumazione degli pneumatici per ottenere i granuli o il polverino vengono inviati agli impianti per la valorizzazione energetica. Come afferma Corbetta, Ecopneus, pur preferendo il recupero di materia, invia le cosiddette “ciabatte”, le pezzature più grandi derivanti dalla frantumazione degli pneumatici, ai cementifici che le utilizzano come combustibile alternativo. Anche perché si tratta di una fonte di energia che sostituisce un combustibile fossile come il carbon coke. Comunque il bilancio ambientale 2014, misurato in termini di impronta ecologica, rimane largamente positivo: 344.000 tonnellate di CO2 equivalente evitate; 377.000 tonnellate di materie prime e 1,8 milioni di litri d’acqua risparmiati. A ogni modo Ecopneus, in sintonia con gli obiettivi dell’Unione europea, spinge con forza sul recupero di materia. Non a caso l’Ue chiede che entro il 2020 due terzi dei Pfu raccolti vadano al recupero di materia e un terzo al recupero energetico ribaltando le percentuali attuali. In questo quadro, come emerge dal Report, uno dei punti forti del sistema è la “la rete di partner su tutto il territorio nazionale” che lavora con Ecopneus “attraverso contratti di servizio”. Una filiera composta da “operatori della logistica e della frantumazione selezionati attraverso gare d’appalto su piattaforma informatica e sulla base di prerequisiti autorizzativi tecnici e di gestione avanzati e tesi al miglioramento continuo”. Di questa spinta verso la qualità recita ancora il Report, “la sostenibilità ambientale è una componente strategica costantemente integrata a ogni scelta aziendale”. In effetti Ecopneus fa più di quanto è richiesto dalla legge. Una direzione di marcia che non risponde a una convenienza economica ma a una scelta etica. Facciamo un esempio: nel 2014 Ecopneus ha superato del 13% il target di raccolta definita per legge. Se parlassimo di un’azienda questo risultato sarebbe positivo e verrebbe supportato da un aumento dei ricavi. Per Ecopneus

Ecopneus ha raccolto oltre 255.000 tonnellate di Pfu, equivalenti in peso a più di 28 milioni di pneumatici per autovettura.

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Ecopneus fa più di quanto è richiesto dalla legge. Una direzione di marcia che non risponde a una convenienza economica ma a una scelta etica.

non è così; vediamo perché. Per legge la società deve garantire una raccolta pari alla quantità di pneumatici nuovi immessi sul mercato dai suoi soci l’anno precedente alla raccolta e su questa base si calcolano i ricavi che rimangono immutati anche se si raccolgono quantità superiori. Nel 2014 il target di legge era di circa 222.000 tonnellate mentre ne sono state raccolte 255.000: un risultato ottenuto grazie a una rete capillare e alla buona gestione della raccolta che ha fatto recuperare oltre 30.000 tonnellate di Pfu in più rispetto all’obiettivo di legge. La green strategy di Ecopneus emerge anche sul piano del recupero e del riutilizzo dei Pfu. Nel biennio 2013-2015, infatti, il sistema consortile ha investito 14 milioni di euro in progetti e attività di sostegno al mercato e alle aziende dei prodotti e delle applicazioni in gomma dei Pfu. L’obiettivo: migliorare la conoscenza di un materiale di cui non sempre si conoscono le caratteristiche tecniche e le possibili applicazioni. Osservano gli estensori del Report: “Gli asfalti gommati, per esempio,

sono realizzati mescolando bitumi e conglomerati tradizionali con polverino Pfu. Estremamente durevoli e performanti spesso scontano una forte diffidenza da parte dei tecnici del settore – nonostante vengano impiegati con ottimi risultati in altri paesi – che può essere superata con l’avvio di sperimentazioni a livello locale”. “Ecopneus in Italia”, commenta Corbetta, “sta facendo uno sforzo enorme, in parte richiesto dal legislatore come missione dei soggetti consortili, in parte derivante dal nostro approccio strategico, per sostenere lo sviluppo di un’economia circolare, per aprire nuovi mercati e nuove soluzioni applicative per i prodotti – granuli e polverini – derivanti dal riciclo dei Pfu. Stiamo parallelamente cercando di far virare la filiera verso una sostenibilità ambientale e sociale aiutando le imprese del nostro network a monitorare, ottimizzare, ridurre i consumi; a migliorare la quantità dei prodotti e la capacità di collocazione degli stessi sul mercato; a rappresentare anche dal punto di vista occupazionale e sociale una filiera ‘sana’”. Quanto ai conti di Ecopneus sono due gli elementi strategici evidenziati dal Report. Il primo riguarda i benefici per il paese: 105 milioni di euro dovuti alla riduzione della domanda di materia prima vergine, per oltre il 90% legati al recupero della gomma. Riguardo il secondo, cioè “alla gestione delle risorse che sostengono il sistema”, il Report osserva che “Ecopneus opera con il massimo rigore e trasparenza: nel 2014 il valore economico distribuito è stato di 66,7 milioni di euro per il 90% distribuito alle aziende della filiera per i loro servizi di raccolta, trasporto e trattamento dei Pfu”.


Rubriche

Rubriche Profondo blu

Alghe: meno raccolta, più produzione Ilaria Nardello è specialista della ricerca industriale presso la National University of Ireland, Galway. Oceanografa con tredici anni di esperienza tra Usa and Ue, oggi sostiene l’interazione tra industria e università per creare innovazione e sostenibilità, con un interesse particolare per le applicazioni provenienti dall’uso delle risorse marine.

Aumenta in tutto il mondo la domanda di biomassa algale. Secondo gli ultimi dati della Fao riferiti al 2014, ogni anno si producono circa 25 milioni di tonnellate di alghe, poi utilizzate in modi diversi: come fertilizzanti, alimenti e base di prodotti cosmetici o processate per estrarne addensanti per l’industria alimentare o additivi per cibo per animali. La commerciabilità di questa risorsa è stata al centro del convegno “European Seaweed Production and Marketability” che si è tenuto a Oban, in Scozia, a metà maggio. Inserito tra gli eventi che celebrano la Giornata marittima europea, ospitato nel campus dell’Associazione scozzese per le scienze marine e accolto da due giornate di sole incredibili a certe latitudini, il workshop è stato un incontro unico nel suo genere. Per la prima volta, infatti, i responsabili di cinque progetti europei si sono riuniti per confrontarsi sulle pratiche e aspettative nella produzione e utilizzo industriale delle alghe marine: dalla coltivazione alla raccolta, fino all’estrazione di un prodotto di qualità. Un approccio molto concreto – dunque – nonostante la platea fosse formata per la metà da ricercatori. Negli ultimi anni il volume di commercio di questi beni è aumentato di oltre il 30% rispetto alle precedenti stime (Fao, 2012), dimostrando il notevole e crescente interesse per le biorisorse marine. D’altro canto, le grandi aziende che utilizzano alghe nei loro prodotti richiedono un approvvigionamento regolare e affidabile del materiale, sia in termini di quantità sia di qualità. Questo può rappresentare un problema quando i fornitori sono piccoli produttori, situati in diverse regioni geografiche, che offrono prodotti con caratteristiche difformi, dovute sia a differenti pratiche di produzione sia alla naturale variabilità delle condizioni ambientali. Queste criticità, così come le preoccupazioni per la sostenibilità per l’uso delle nostre risorse naturali, possono in gran parte essere affrontate ricorrendo a pratiche di acquacoltura, anziché utilizzare il raccolto naturale. Lo stanno facendo molte comunità rurali delle zone costiere del mondo – dall’Indonesia alle coste orientali del Canada fino alle coste atlantiche del Vecchio Continente – che per secoli hanno solo raccolto le alghe. Tanto che oggi la biomassa immessa sul mercato attraverso la coltivazione copre

ben il 95% del totale commercializzato, per un valore di 6,4 miliardi di dollari. Per il futuro l’Europa sembra poter rivestire un ruolo centrale in questo scenario. L’inquinamento nucleare delle acque marine in aree di produzione elevata, come il Giappone, assieme alle preoccupazioni legate agli incerti standard di qualità di altri grandi paesi produttori asiatici, come la Cina, stanno portando molti clienti a rivolgersi all’Europa. Qui rigorose normative, nazionali e comunitarie, costringono anche il più piccolo dei produttori a rispettare elevati standard qualitativi per l’utilizzo di ingredienti naturali in prodotti destinati agli esseri umani. Questo nuovo e pronunciato interesse fornisce una concreta opportunità di sviluppo per le comunità rurali delle zone costiere dell’Europa occidentale, dove un ambiente incontaminato e antiche pratiche di utilizzo sostenibile delle risorse naturali algali si combinano con un’adeguata e innovativa capacità di ricerca scientifica. Come dimostrato durante il piccolo incontro tenutosi in Scozia, questa sinergia fornisce soluzioni innovative per l’intera filiera del settore: dal miglioramento delle tecniche di coltivazione e di raccolta, all’ampliamento degli ambiti di applicazione. Per dare luogo al potenziale di sviluppo di questo importante settore della bioeconomia marina, secondo solo alla pesca, è però necessario che i piccoli produttori europei comprendano le esigenze dei grandi commercianti. E benché la presenza di ricercatori scientifici lungo le linee di produzione rappresenti un segnale molto incoraggiante per la sostenibilità e l’affidabilità di questo settore, la comunicazione tra i vari comparti necessita di supporto, organizzazione e occasioni di confronto.

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Bieconomia e ambiente

Ombrelloni circondati da rifiuti Stefano Ciafani, ingegnere ambientale, è Vicepresidente nazionale di Legambiente. È stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della XIV legislatura e membro del Comitato di indirizzo sulla gestione dei Raee.

La ricerca Beach litter di Legambiente è consultabile sul sito www.legambiente.it/ contenuti/dossier/beachlitter-2015-indagine-suirifiuti-spiaggiati

La presenza degli shopper è stata poco osservata in Italia, anche grazie alla messa al bando dei tradizionali sacchetti di plastica.

Ad accomunare molte delle spiagge del Mediterraneo non è solo il bel mare e il sole, ma anche i rifiuti che si trovano sui litorali. Rifiuti di ogni genere, di tutte le forme e dimensioni. Anche quest’anno la regina indiscussa dei rifiuti spiaggiati resta la plastica. È quanto emerge dall’indagine Beach litter realizzata e curata da Legambiente, nell’ambito della campagna “Spiagge e Fondali puliti – Clean up the Med 2015”. L’indagine è stata eseguita – da aprile a maggio 2015 – dai volontari di Legambiente, secondo il protocollo di monitoraggio messo a punto dal ministero dell’Ambiente e dell’Ispra, su un’area di 136.330 mq, dove sono stati trovati 22.114 rifiuti spiaggiati. Vale a dire 17 rifiuti ogni 100 mq, 5 rifiuti in più ogni 100 mq rispetto all’indagine dello scorso anno. L’indagine non si è fermata alle 29 spiagge italiane ma ha riguardato anche 25 lidi in altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, monitorati dalle associazioni che aderiscono a Clean up the Med: l’Algeria, la Croazia, la Grecia, la Spagna, la Turchia, la Tunisia. Un’area di 87.200 mq dove sono stati trovati 8.147 rifiuti spiaggiati, in particolare 14 rifiuti ogni 100 mq. Escludendo i frammenti e i resti di plastica e di polistirolo dalle dimensioni minori di 50 cm che sono i rifiuti più trovati (23,5%), a guidare la top ten dei rifiuti integri rinvenuti da Legambiente sulle spiagge italiane ci sono le bottiglie di plastica per bevande (10,3%), tappi e coperchi di plastica e metallo (6,9%), nasse, reti, strumenti da pesca e cassette per il pesce (6,5%). I mozziconi di sigaretta conquistano, invece, il quarto posto con il 5,4%. In quinta posizione troviamo i rifiuti da mancata depurazione (4,9%) come cotton fioc, assorbenti, blister, deodoranti da wc. Ci sono poi stoviglie usa e getta di plastica (4,8%), materiali da costruzione (4%), flaconi di detergenti (3,8%), bottiglie di vetro (3,3%). Sacchetti di patatine e stecchetti di leccalecca e gelati (1,9%) chiudono la classifica. Uno sguardo particolare lo merita la massiccia presenza rifiuti da mancata depurazione che se da un lato è la diretta conseguenza della scorretta abitudine di “smaltirli” gettandoli nel wc; dall’altra parte rappresenta anche un grave segnale dell’inefficienza dei sistemi depurativi che non riescono a filtrare neanche oggetti di una certa grandezza. Non è un caso, infatti, che l’83% di questi rifiuti sono stati trovati sulle spiagge che sono distanti meno di 1 km dalla foce di un corso d’acqua o molto prossime a scarichi o fossi. E il problema non accenna a diminuire: rispetto al 2014 la presenza di questi rifiuti è aumentata del 5%.

Ma non mancano neanche i rifiuti legati alle attività produttive. Per esempio nella spiaggia di Eboli – presso l’Area protetta dunale gestita da Legambiente – il 25% dei rifiuti trovati è costituito da resti plastici formati in prevalenza da seminiere in polistirolo espanso, provenienti dalle produzioni agricole della zona. A Trieste, invece, in un transetto della spiaggia di Canovella de’ Zoppoli, il 44% dei rifiuti rinvenuti sono reti per mitili: non a caso proprio di fronte alla spiaggia ci sono i filari di allevamenti di cozze. Anche sui litorali stranieri è la plastica a guidare la top ten dei rifiuti, seppur in percentuale minore rispetto all’Italia: il 52% contro l’80%. Prime in classifica le bottiglie di plastica (12,5%), a seguire tappi e coperchi sia di plastica sia di metallo (8,6%), shopper di plastica (7,3%), mozziconi di sigarette (5,5%), rifiuti da pesca (3,8%), bottiglie di vetro (3%), lattine di alluminio (2,4%), piccole buste di plastica per alimenti (2%), contenitori di plastica (1,9%) e per finire siringhe (1,6%). Tra i rifiuti spiaggiati all’estero vanno segnalate due nuove entrate rispetto alla classifica italiana: gli shopper in plastica (al terzo posto con il 7,3%) e le siringhe, la cui percentuale si attesta all’1,6%. Il primato in termini di più alta densità di rifiuti è andato alla spiaggia turca con 33 rifiuti ogni 100 mq (il doppio rispetto all’Italia). Seguono a breve distanza l’Algeria, con 28 rifiuti e la Croazia con 21 rifiuti ogni 100 mq. Meglio le spiagge della Tunisia (8 rifiuti ogni 100 mq), della Grecia (4), Portogallo (3) e della Spagna con 2 rifiuti ogni 100 mq. Gravissimi – si sa – sono i danni provocati dai rifiuti spiaggiati all’ambiente e alla fauna, all’economia e al turismo. Tartarughe marine, uccelli e mammiferi marini possono restare intrappolati nelle reti da pesca e negli attrezzi di cattura professionale. Oppure morire per soffocamento a causa dell’ingestione accidentale di rifiuti (in particolare buste di plastica) scambiati per cibo. Secondo diversi studi, nel Mediterraneo occidentale, l’ingestione di rifiuti è la causa di morte per l’80% delle tartarughe marine e danneggia l’intero ecosistema marino. Inoltre, le microplastiche ingerite dagli organismi acquatici, sono la causa principale dell’introduzione di plastiche nel biota e, quindi, del disequilibrio della catena alimentare. Quello dei rifiuti spiaggiati è un problema comune da affrontare al più presto. Serve uno sforzo congiunto che coinvolga tutti i soggetti e i territori interessati. L’Italia col bando sui sacchetti di plastica tradizionale ha fatto da capofila. Ora servono azioni sinergiche su tutto il bacino mediterraneo.


Rubriche

Pillole di innovazione

Pellicole commestibili? Le hanno inventate le zucchine! Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore. Coordina Triwù, web tv dedicata alla cultura dell’innovazione in Italia. Insegna New Media al Master in Comunicazione scientifica e Innovazione sostenibile dell’Università Milano Bicocca.

Per un approfondimento sul packaging commestibile brevettato dall’Università di Foggia: tinyurl.com/odnevh4

Non vi è dubbio che una specie che si nutrisse di spazzatura sarebbe una magnifica soluzione per l’economia circolare. Può essere l’obiettivo di un darwinismo progettato? Temo che da più ambiti della ricerca ci arriverebbe un segnale negativo, anche perché il dato centrale è che l’evoluzione delle specie è di una lentezza scoraggiante e prima di arrivare a mangiarsi i cellulari sostituiti da quelli nuovi (uno dei più gravi e moderni problemi in ambito rifiuti) potrebbero passare 2 milioni di anni. Bisogna fare qualcosa prima. Ecco, potremmo mangiarci i contenitori del cibo. Progettandoli commestibili, naturalmente. Ci sono risultati interessanti con contenitori di acqua minerale a base di alghe. Una direzione che potrebbe dare grandi risultati, e che ha già fornito ampie verifiche sperimentali, è invece quella delle pellicole edibili per avvolgere i prodotti da forno, come le tanto diffuse merendine. Ci lavora Carla Severini all’Università di Foggia, con un brevetto operativo da gennaio di quest’anno. Ci sono due aspetti fondamentali da tenere presente in tutta la vicenda degli involucri commestibili, funzionali a ridurre la nostra sorpresa di fronte a questo scenario innovativo. Il primo è che in natura quello che ci mangiamo, e che sta dentro, è sempre circondato da qualcosa che sta fuori ma che è fatto da materia che non è totalmente altra rispetto al contenuto. Anche se un numero crescente di piccoli di umani tende a pensare che l’involucro di platica dei tramezzini triangolari sia come la buccia delle arance, noi sappiamo che le cose non stanno così. La materia organica riesce a esprimersi con innumerevoli variazioni, e in molti casi noi ci mangiamo già tutto: zucchine, melanzane, prugne, uva, ciliegie. Mica togliamo la buccia. Il secondo aspetto – da maneggiare evitando ogni delirio di onnipotenza – potremmo definirlo della trasversalità. Lo stato attuale della scienza dei materiali sta esplorando un territorio – la cui vastità è difficilmente prevedibile – nel quale gli ingredienti si mescolano con modalità che nulla hanno da invidiare alle più mirabolanti miscelature gastronomiche. Dopo l’era del ferro e quella della plastica, le ere monotematiche – chiamiamole così – sono finite: già oggi in molti i casi la scienza dei materiali produce migrazioni dal cibo verso oggetti che nulla hanno a che vedere con l’alimentazione. Della serie:

dalla buccia delle arance si stanno progettando tessuti. Perché sorprenderci, allora, se si prendono le molecole di un certo alimento X e si usano come involucro protettivo di un altro alimento Y? Le pellicole edibili per i prodotti da forno, poi, hanno anche altri vantaggi. Durano di più dei contenitori attuali, sono più protettive ed evitano l’uso di conservanti, consentendo solo l’utilizzo di una busta per proteggere il prodotto dalla polvere. Riescono inoltre a mantenere valori organolettici più alti: risultato un muffin più morbido e fragrante. A proposito dei conservanti: un dato di notevole importanza è che i prodotti da forno presenti negli scaffali dei nostri supermercati, se devono essere ipocalorici – e sarebbe importante estendere questo genere di alimenti – devono contenere più conservanti perché le sostanze ipocaloriche deperiscono più rapidamente. Con le pellicole edibili, invece, la shelf life – la durata sullo scaffale – si prolunga. In conclusione: siamo di fronte a una innovazione che presenta davvero molti vantaggi. Andrà vagliata bene sul campo, ma le premesse sono indubbiamente interessanti. Sì, forse qualcuno è stato raggiunto dalla notizia che si sono progettati anche piatti, e posate, commestibili. È vero, e l’idea è in linea con la riduzione della mole di rifiuti e, in questo caso, di inquinanti (i detersivi) che l’intero ciclo alimentare immette nell’ambiente. Certo, se al bar si ordinerà un muffin avvolto in una pellicola edibile, e servito su un piatto pure quello commestibile, è ovvio che, ricordando quanto la nostra specie indubbiamente porti nel suo codice comportamenti probabilmente solo sopiti, anche il cameriere potrebbe essere oggetto di strani sguardi. Questo per dire che certe derive, poi, non è facile fermarle.

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