Materia Rinnovabile #5

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 05 | agosto 2015 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Robert Costanza: Reclamare il cielo, reclamare il futuro •• Mariana Mazzucato: è lo Stato il protagonista della trasformazione green •• Nancy Averett: così l’arte guarisce la natura

Tolleranza zero sullo spreco alimentare •• Carte e appelli da Expo 2015 •• Produrre meglio, produrre meno •• Acqua: una risorsa contesa

Agricoltura: quando sostenibilità fa rima con efficienza

Euro 12,00 - Versione online gratuita su www.materiarinnovabile.it

•• Biocarburanti da un vecchio divano? Si può! •• Il cartone vince sul degrado •• Indice di rinnovabilità, indice di qualità •• Green made in Italy: un modello da esportare

Eccoci nell’era dell’Antropocene •• Uova e miniere



#GEF2015 www.global-ecoforum.org


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Sommario

materiarinnovabile 05|agosto 2015 Free magazine bimestrale www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014

Antonio Cianciullo

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Contro la fame, oltre il cibo

Robert Costanza

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Reclamate il cielo!

a cura di Marco Moro e Roberto Coizet

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Per l’innovazione green servono capitali pazienti Intervista a Mariana Mazzucato

Nancy Averett

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Come l’arte può guarire la natura

Carlo Pesso

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Tolleranza zero

Antonio Cianciullo

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Fermare lo spreco di cibo

Fabio De Menna e Matteo Vittuari

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La trappola dell’insostenibilità

Aldo Femia

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Biomasse: il segreto è nell’equilibrio

Marta Antonelli

37

Acqua: una risorsa contesa

Revolve

40

Edifici: la sfida dell’economia circolare

Peter Viebahn

46

I minerali critici per le energie rinnovabili

Mario Bonaccorso

50

Come trasformare il vecchio divano in biocarburante

a cura di Marco Moro

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Il punto di vista del terreno Intervista a Luca Ruini

Sergio Ferraris

62

Il cartone vince sul degrado

Direttore responsabile Antonio Cianciullo

Hanno collaborato a questo numero Marta Antonelli, Alessandra Astolfi, Nancy Averett, Gianfranco Bologna, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Antonio Capece, Vincent Chornet, Stefano Ciafani, Roberto Coizet, Robert Costanza, P. Valentino De Angelis, Delia Del Gaudio, Fabio De Menna, Roberto Di Molfetta, Joanna Dupont Inglis, Fabio Fava, Aldo Femìa, Sergio Ferraris, Stefano Folli, Werner Fuhrmann, Giorgio Lonardi, Mariana Mazzucato, Federico Pedrocchi, Carlo Pesso, Luca Ruini, Cluster Spring, Peter Viebahn, Matteo Vittuari

Think Tank

Direttore editoriale Marco Moro

Ringraziamenti Erik Assadourian, Giancarlo Naldi, Massimilano Lepratti e Ester Pillia (Università della Sostenibilità), Giulia Rognoni, Stuart Reigeluth, Cesare Ronchi Caporedattore Maria Pia Terrosi Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi

Impaginazione Michela Lazzaroni Traduzioni Erminio Cella, Laura Fano, Franco Lombini, Elisabetta Luchetti, Mario Tadiello Coordinamento generale Anna Re Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabili relazioni internazionali Federico Manca, Carlo Pesso Ufficio stampa Silverback www.silverback.it info@silverback.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti per la versione su carta (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/modulo-abbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright © Edizioni Ambiente 2015 Tutti i diritti riservati

Policy

Design & Art Direction Mauro Panzeri (GrafCo3), Milano


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Rubriche

Case Histories

Marco Capellini

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500 materiali sotto osservazione

Cluster SPRING

70

Bioeconomia: il binomio virtuoso tra cluster nazionale e regioni

Giorgio Lonardi

73

Green economy: esportare il know-how italiano

Joanna Dupont-Inglis

76

In diretta da Berlaymont Biomassa: il futuro è nell’uso a cascata

Gianfranco Bologna

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Capitale naturale Ci siamo giocati tre quarti della biosfera

Stefano Ciafani

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Green & circular Le frontiere del riciclo

Federico Pedrocchi

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Pillole di innovazione Uova e miniere

Stampato da Geca Industrie Grafiche con inchiostri a base vegetale privi di oli minerali. Il sistema produttivo di Geca non produce scarichi e ogni sfrido delle nostre lavorazioni è immesso in un processo di raccolta e riciclo. www.gecaonline.it

Stampato su Crush, carte ecologiche di Favini realizzate con sottoprodotti di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero: copertina Crush Mais 250 g/m2, interno Crush Mais 120 g/m2. www.favini.com

In copertina Robert Costanza

Partner

Networking Partner

Media Partner

Sostenitori


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materiarinnovabile 05. 2015

Editoriale

M R Contro la fame, oltre il cibo di Antonio Cianciullo

Manifesto della green economy per l’agroalimentare in occasione di Expo 2015, documento disponibile online tinyurl.com/oprggmv

Un’alluvione di carta e di Carte (di Bologna, di Milano), un fiume di convegni, uno sventolio generoso di buoni propositi di lotta allo spreco di cibo. È un effetto dell’Expo di Milano da non sottovalutare: è stato compiuto uno sforzo di comunicazione importante; qualcosa resterà, aiuterà a cambiare gli umori nei confronti delle cattive abitudini alimentari, verrà incorporato nei gesti quotidiani di milioni di persone. Tuttavia sotto i riflettori è finita la denuncia dello spreco, non l’indicazione di soluzioni strutturali per ridurlo in modo radicale. Si è parlato molto di tecniche per evitare di trasformare in rifiuto cibi ancora utilizzabili (e questo è un passaggio urgente e necessario), non di una visione più ampia che consenta di prevenire il danno delineando i contorni di un’economia circolare. In primo piano è rimasto il tema della lotta contro la fame, declinato nella stessa logica quantitativa che ha prodotto il problema. Si è sentito spesso ripetere che occorre produrre di più perché la popolazione crescerà e i consumi pro capite aumenteranno. Si è sentito spesso ripetere che i problemi di inquinamento creati dall’agricoltura stanno aumentando. Si è sentito spesso ripetere che un terzo del cibo si perde lungo il percorso che dal campo arriva alla tavola. Ma come se si parlasse di meccanismi indipendenti: non si individuano, per esempio, i nessi tra l’inaridimento che fa perdere ogni anno 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile e le asimmetrie che portano un miliardo di persone a soffrire di carenza di alimenti mentre un altro miliardo di persone soffre per eccesso di alimenti. Sono nessi che tengono assieme la questione sociale (il 70% della produzione alimentare è assicurato dai piccoli agricoltori), la questione ambientale (un quinto delle terre produttive

è irrigato e il ciclo idrico, già in crisi, viene minacciato dal cambiamento climatico), la questione economica (la corsa a prezzi sempre più bassi non basta a battere la povertà e non aiuta a difendere la salute). Mettendo assieme questi fili si potrebbe ottenere un’immagine di lotta allo spreco più ampia. Non si tratta solo di non buttare cibo. Occorre evitare di dissipare acqua, energia, suolo fertile e coesione sociale forzando i cicli produttivi senza guardare ai risultati complessivi di medio periodo: un rischio che basterebbe sfogliare i libri di storia (dagli eccessi di irrigazione nella mezzaluna fertile alle centinaia di specie di insetti che hanno acquisito la resistenza al Ddt) per aver chiaro. La visione circolare dell’economia agricola può aiutare a costruire un modello più solido di rilancio produttivo. Magari facendo saltare gli steccati e le polemiche che contrappongono questi due mondi, soprattutto da quando la quota di colture destinata a fini energetici è andata crescendo, con un picco stimolato dalle sovvenzioni statunitensi per il mais che attorno al 2007 hanno fatto schizzare in alto i prezzi dei cereali creando la rivolta delle tortillas e lo slogan “nemmeno un metro quadrato di suolo agricolo per l’energia”. Una lite per la terra che appartiene a un mondo tecnologicamente superato, come si evince anche dal Manifesto della green economy per l’agroalimentare in occasione di Expo 2015, diffuso dal Consiglio nazionale della green economy. In questo manifesto si parla della bioeconomia basata sulla valorizzazione di biomasse di varia provenienza impiegate per generare energie rinnovabili e per fornire materiali per diverse attività (dall’artigianato alla chimica verde). E si dice che “queste attività – quando sono integrate e sostenibili per i territori e non sottraggono suoli e produzioni destinate


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all’alimentazione – possono contribuire a migliorare il presidio e la cura del territorio, il recupero di aree degradate e marginali, a fornire possibilità aggiuntive di reddito per il mondo agricolo contribuendo anche a contrastare l’abbandono delle campagne”. Le bioraffinerie, di cui l’Italia ha la leadership, rappresentano una versione avanzata di queste attività sostenibili: sono in grado di riutilizzare scarti di lavorazione agricola, o colture realizzabili senza uso di acqua e fitofarmaci su terre abbandonate, in una serie di processi “a cascata” in cui ogni volta vengono impiegati i residui del ciclo precedente per ottenere materiali utili in vari cicli produttivi. Questa visione dell’economia circolare, che allarga il tema cibo e lo integra nel sistema produttivo generale, può dare un contributo importante alla lotta contro lo sperpero della materia e dell’energia, aiutando a trovare la soluzione al rebus indicato da Expo 2015: nutrire un pianeta sempre più affollato, con sempre meno risorse e con un cambiamento climatico incombente. Per lottare contro la fame non basta produrre più alimenti: bisogna estendere lo sguardo al di là del cibo, garantendo la coesione sociale e l’equilibrio degli ecosistemi. Per dirla con le parole di Vandana Shiva nel manifesto Terra Viva: “La nuova agricoltura sostituisce il processo lineare di sfruttamento del suolo e delle risorse con un processo circolare di ritorno che garantisce la resilienza, la sostenibilità, la giustizia e la pace. Questa nuova agricoltura fa parte di un processo che punta a ridefinire il concetto di democrazia e libertà. Nella vecchia concezione atomistica e meccanicistica la mia libertà finisce dove comincia la tua. Nella nuova concezione, basata sull’economia circolare e sul ruolo crescente delle comunità, la mia libertà comincia dove comincia la tua e include la libertà della terra e di tutte le specie”.

Manifesto Terra Viva di Vandana Shiva, disponibile online tinyurl.com/lsh22ua


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materiarinnovabile 05. 2015

di Robert Costanza

Reclamate il cielo!

L’atmosfera è un bene comune della collettività globale. Se si verifica uno sversamento di petrolio nell’oceano, i governi recuperano la cifra necessaria per riparare i danni all’ambiente. Mentre restano inerti di fronte a “sversamenti” catastrofici di CO2 in atmosfera. Secondo la Public Trust Doctrine è responsabilità dei governi, in quanto amministratori fiduciari, proteggerla chiedendo i danni a chi inquina. Novanta aziende sono responsabili di due terzi delle emissioni di anidride carbonica. Per gentile concessione di Solutions Journal, www.thesolutionsjournal.com

L’atmosfera è un bene comunitario che appartiene a tutti. Il problema è che attualmente è una risorsa non protetta: chiunque può emettere anidride carbonica nell’atmosfera senza conseguenze per sé ma con enormi conseguenze cumulative per il clima e per la comunità globale. Molti ritengono che addebitare alle società e agli individui i costi per i danni causati dalle

loro emissioni, per esempio una carbon tax o un sistema cap/auction/dividend/trade, ridurrebbe drasticamente le emissioni. Tuttavia, nonostante alcuni interessanti esperimenti locali, implementare questo tipo di sistema attraverso negoziati internazionali a livello globale si è dimostrato quasi impossibile. Governi chiave, troppo influenzati dagli interessi che ruotano


©Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA-GSFC

Think Tank

1. Barnes P., Capitalism 3.0: A Guide to Reclaiming the Commons, BerrettKoehler, San Francisco CA, 2006. 2. Barnes P. et al., “Creating an Earth Atmospheric Trust”, Science 319:724 (2008). 3. Sax J.L., “The Public Trust Doctrine in Natural Resource Law: Effective Judicial Intervention”, Michigan Law Review 68:471–566; doi:10.2307/1287556. JSTOR 1287556 (1970).

Robert Costanza è professore e presidente del dipartimento di Politiche pubbliche presso la Crawford School of Public Policy, Australian National University.

4. Wood MC., Nature’s Trust: Environmental Law for a New Ecological Age, Cambridge University Press, New York NY, 2013. 5. Goldenberg Suzanne, “Just 90 companies caused two-thirds of man-made global warming emissions”, The Guardian [online] (2013); www.theguardian. com/environment/2013/ nov/20/90-companiesman-made-globalwarming-emissionsclimate-change.

giurista Mary Wood descrive come la Public Trust Doctrine abbia radici nell’antica legislazione romana e ricorra in molti sistemi normativi derivati da essa. La dottrina stabilisce che certe risorse naturali devono essere gestite in amministrazione fiduciaria in quanto beni al servizio del bene pubblico. È responsabilità del governo, in quanto amministratore fiduciario, proteggere questi beni da danneggiamenti e conservarli per l’uso pubblico. Secondo questa dottrina, il governo non può cedere o vendere questi beni a privati. In passato la Public Trust Doctrine è stata applicata in molti paesi per proteggere bacini idrici, coste, acqua dolce, fauna selvatica e altre risorse. Oggi, come Wood sostiene con energia, è arrivato il momento di espandere l’ambito di applicazione della dottrina a tutti i servizi essenziali mediante i quali il capitale naturale e gli ecosistemi supportano il benessere umano, compresi l’atmosfera, gli oceani e la biodiversità. Wood afferma che i governi hanno ridotto questa responsabilità alla protezione del Nature’s Trust, mentre bisogna chiedere loro di fare fino in fondo il proprio dovere, che prevede anche la richiesta di risarcimento dei danni. Questo problema è complicato dal fatto che l’atmosfera è un bene globale. Ma, dal punto di vista del Nature’s Trust, il fatto che le nazioni siano co-amministratori fiduciari non li rende meno responsabili per la protezione del bene di quanto lo siano le singole sovranità nazionali per la protezione di beni come le coste o i corpi d’acqua che si trovano entro i loro confini.

La società civile globale può cambiare questo stato di cose se reclama i diritti di proprietà sull’atmosfera. Sostenendo che tutti noi possediamo collettivamente il cielo, possiamo cominciare a utilizzare le istituzioni legali competenti in materia di proprietà per proteggere i diritti collettivi, sanzionare economicamente i danni a questo bene e premiare chi ne migliora le condizioni.

L’idea di Nature’s Trust cambia significativamente l’intero dibattito su come gestire il caos climatico. Piuttosto che vedersi come governi nazionali che negoziano tra loro sulla riduzione delle emissioni, i governi dovrebbero considerarsi come co-amministratori fiduciari con una responsabilità fiduciaria sulla protezione dell’Atmospheric Trust. Per riuscirci, possono chiedere il risarcimento dei danni ai privati i cui interessi stanno causando il problema. Come Wood fa notare, “gli amministratori fiduciari hanno l’obbligo esplicito di chiedere i risarcimenti monetari a terze parti che danneggiano o distruggono i beni legati al trust”. Se si verifica uno sversamento di petrolio nell’oceano, i governi recuperano la cifra necessaria a riparare i danni alle risorse naturali e la utilizzano per ripulire l’area colpita. Invece se ne stanno inerti davanti a uno “sversamento” catastrofico di anidride carbonica nell’atmosfera.

Questa idea è stata proposta da Peter Barnes e altri.1,2 La Public Trust Doctrine è un potente principio legale emergente che sta alla base di questa idea.3 Nel suo libro, Nature’s Trust: Environmental Law for a New Ecological Age,4 la

Ritenere gli inquinatori del clima responsabili per i danni da loro causati è più semplice di quanto possa sembrare: in tutto infatti sono circa 90 le aziende responsabili per due terzi del carbonio emesso in atmosfera.5 Questo significa

attorno ai combustibili fossili, hanno bloccato gli impegni vincolanti e gli strumenti economici efficaci.

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FATTURA Data: [presto] A: [Società XX] Secondo la dottrina del Public Trust, venite in questa sede sanzionati per danni ai beni atmosferici comuni: Dollari [x.xxx] per le tonnellate totali di CO2 equivalente introdotte nell’economia globale da data a data (basandosi sulle più recenti stime dei danni effettuate dall’Ipcc), più i danneggiamenti in corso:

= Dollari [xx.xxx,00]

Depositate questa cifra presso il Global Atmospheric Trust Fund entro 90 giorni o subirete un’azione legale con conseguenti sanzioni da parte degli azionisti del Trust – la popolazione della Terra. Le somme depositate in questo fondo saranno utilizzate unicamente per conservare e migliorare l’atmosfera per il bene di tutti gli azionisti, presenti e futuri. Questi utilizzi comprendono, ma non sono limitati a essi: -

Investimenti in fonti energetiche di proprietà comune, rinnovabili e a bassa emissione di carbonio come l’eolico e il solare.

-

Investimenti in progetti di rimozione del carbonio che riguardano foreste, suolo e paludi.

-

Investimenti nel miglioramento delle infrastrutture urbane per ridurre l’utilizzo dell’auto e migliorare la performance energetica degli edifici.

-

Investimenti per lo sviluppo tecnologico per amplificare e accelerare quanto sopra.

Con la copertura dei principali media gruppi di scolari spediscono fatture ai quartier generali delle maggiori compagnie di combustibili fossili.

Come alternativa al pagamento totale della fattura, potete investire una cifra equivalente in progetti che sono stati approvati e monitorati dal Trust in una delle categorie sopra citate. Firmato Azionisti dell’Earth Atmospheric Trust

che la richiesta di risarcimento potrebbe essere indirizzata a un numero relativamente piccolo di privati. Inoltre, per applicare questa strategia non sarebbe necessario un accordo tra tutti i governi. Dato che tutti i governi sono co-amministratori fiduciari del bene globale dell’atmosfera, anche un piccolo gruppo di nazioni potrebbe avviare la richiesta di risarcimento. La somma ottenuta con queste azioni legali potrebbe finanziare progetti di ripristino in quelle stesse nazioni, purché si verifichi che questi paesi stiano riducendo le emissioni di carbonio o accelerando la

transizione verso l’energia rinnovabile e non nucleare. I governi dovrebbero addebitare il costo dei danneggiamenti in corso attraverso una carbon tax o altri meccanismi. Ma, visto che fino a oggi i governi non hanno agito di loro iniziativa, sarà necessaria una ben pianificata pressione della società civile per spingerli a farlo e a vincere l’inevitabile resistenza delle aziende. Uno sforzo organizzato per “reclamare il cielo” come bene pubblico della società globale, in combinazione con la solida struttura legale fornita dal lavoro di


Think Tank

Harrison Ford

Robert Redford

Wood sulla Public Trust Doctrine, può riuscire nell’intento. Il Civil Rights Movement negli Stati Uniti si fondava su altrettanto solidi principi legali, ma per raggiungere i suoi obiettivi ha richiesto un attivismo sociale coordinato.

Brad Pitt

6. Moomaw W., “From Failure to Success: Reframing the Climate Treaty”, The Fletcher Forum of World Affairs, 2014; www.fletcherforum. org/2014/02/10/moomaw.

Leonardo Di Caprio

Cameron Diaz

42 Celebrities who care about the environment: www.examiner.com/ article/42-celebritieswho-care-about-theenvironment

Diamo vita a un’ampia coalizione di individui e gruppi e dichiariamo pubblicamente sul web e in altre sedi che l’atmosfera appartiene a noi e ai nostri discendenti, chiedendo che gli inquinatori paghino per ripristinare e conservare l’atmosfera. Fondiamo un Earth Atmospheric Trust che chieda il risarcimento dei danni al bene comune che è l’atmosfera e renda idonei i progetti di ripristino (progetti che portano alla riduzione del carbonio attraverso l’esproprio dei terreni e il rimboschimento, o che promuovono il passaggio a un’infrastruttura per l’energia rinnovabile). Non si tratta di “progetti di compensazione del carbonio”. Dobbiamo andare oltre le compensazioni e chiedere la “ripulitura” dell’atmosfera.6 Il Trust può tenere una contabilità finanziaria e una sulle emissioni di carbonio dei progetti finanziati dalle società inquinatrici per concretizzare la loro responsabilità verso i cittadini beneficiari. Occorre far partire una vasta campagna pubblica per di pressione: si può partire dall’invio di fatture agli inquinatori stessi per i danneggiamenti passati e quelli in corso. Immaginate questo scenario: •• viene fondato un Earth Atmospheric Trust per raccogliere il risarcimento per i danni passati e per certificare e tenere traccia dei progetti di ripristino finanziati dalle aziende responsabili per le emissioni di carbonio, e per finanziare direttamente progetti di ripristino; •• con la copertura dei principali media gruppi di scolari spediscono fatture ai quartier generali delle maggiori compagnie di combustibili fossili (vedi pagina precedente); •• 350.org e altri gruppi potenziano la campagna per portare il movimento al raggiungimento del suo obiettivo; •• il movimento Occupy si rafforza attorno a questa campagna; •• le principali ong internazionali, come Conservation International e il World Resources Institute, danno il loro sostegno alla campagna; •• grandi personalità dello spettacolo, come Robert Redford, Harrison Ford, Brad Pitt, Leonardo Di Caprio, Cameron Diaz e altri si uniscono alla campagna; •• Michael Moore gira un documentario sulla campagna. Il Nature’s Trust ha il potenziale per essere una nuova importante forza legale e sociale nella battaglia per rendere le attività umane sul pianeta compatibili con le “leggi della natura”. È arrivato il momento per gli abitanti del pianeta Terra di reclamare il futuro reclamando il cielo.

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a cura di Marco Moro e Roberto Coizet

Per l’innovazione green servono capitali pazienti Il settore pubblico è il vero motore della trasformazione verso un’economia sostenibile Intervista a Mariana Mazzucato

©Mariana Mazzucato

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Se esiste una mitologia dell’innovazione, lo stato vi compare con il ruolo di un inefficiente e pesante elemento di resistenza al cambiamento, mentre geniali imprenditori e coraggiosi venture capitalist appaiono lanciati verso il futuro. Una mitologia che oggi trova sostanza ulteriore nell’immaginario costruito attorno alle cosiddette startup. Ma uno sguardo lucido ai dati e alla storia può letteralmente ribaltare i ruoli in questa narrazione. In Lo stato innovatore (Laterza, 2014), Mariana Mazzucato traccia un quadro che demolisce molti dei miti più accreditati riguardo ai processi che hanno prodotto le maggiori innovazioni di questi ultimi decenni (e non solo), evidenziando la funzione centrale svolta dallo stato. Senza alcun intento di alimentare leggende sull’impresa privata Pavan Sukhdev, intervistato nel numero precedente di questa rivista, sostiene che il principale motore del cambiamento nel corrente modello di sviluppo debbano essere le grandi compagnie multinazionali, soprattutto in presenza di una crescente incapacità dei governi nell’esprimere la leadership necessaria. Lo possono essere a determinate condizioni: allineare i propri obiettivi con quelli della società, limitare


Think Tank Riacquisizioni, dividendi, introiti netti, Ricerca e Sviluppo 1980-2006* 2,40

* 293 corporation tra le S&P500 nell’ottobre 2007 operative nel 1980

Fonte: Lazonick, 2014 & 2015

2,20 2,00 1,80

Totale Dividendi/Utile netto (tasse ecluse)

Rapporto

1,60 1,40 1,20

Riacquisti/Utile netto (tasse escluse)

1,00 0,80

(Totale Dividendi +Riacquisti)/Utile netto (tasse escluse)

0,60 0,40 0,20

Mariana Mazzucato è un’economista con doppia nazionalità, italiana e statunitense. È docente di Economia dell’innovazione presso l’Università del Sussex, e autrice del volume The Entrepreneurial State: debunking public vs. private sector myths (edizione italiana, Lo stato innovatore, Laterza, 2014) attualmente disponibile anche in lingua, tedesca, greca, spagnola e portoghese.

l’uso della leva finanziaria, comunicare in modo corretto, costituire un elemento vitale nelle comunità e nei luoghi in cui operano. Farsi custodi e promotrici di capitale finanziario, naturale, sociale e umano. Lo faranno? Il punto, per Sukhdev, è che le corporation possono farlo, più facilmente, velocemente ed efficacemente dei governi. Una visione che sembra essere l’esatto opposto rispetto alle tesi e all’intento stesso del libro di Mariana Mazzucato, che è quello di smontare la falsa immagine dello stato come fattore inerziale, che rallenterebbe la “naturale” dinamicità dell’impresa, altrettanto “naturalmente” tesa verso l’innovazione. Un’immagine frutto di una percezione falsata di come le fondamentali innovazioni che hanno caratterizzato i decenni recenti abbiano avuto origine.

Marco Moro, Direttore editoriale di Edizioni Ambiente.

Quindi la prima domanda è: chi è e chi sarà il protagonista della trasformazione sostenibile, della trasformazione green? Lo stato o le imprese? “Il punto non è stato o impresa. Il problema è diverso secondo me: si tratta di accettare la situazione attuale o di usare sia la storia sia la teoria per costruire oggi uno stato diverso, per puntare a un cambiamento. Abbiamo di fronte due problemi fondamentali: il primo è che le grosse imprese sono superfinanziarizzate e maggiormente impegnate in attività di free-riding piuttosto che in quelle di ricerca e sviluppo. Ricomprano le proprie quote azionarie per far salire il valore delle stock options e per far crescere i guadagni di chi detiene le azioni, piuttosto che investire in ricerca e sviluppo. Tantissime società lo fanno, sia nel settore dell’Information Technologies sia in altri settori, e le peggiori sono quelle del settore energetico.

Roberto Coizet è Presidente di Edizioni Ambiente e Coordinatore del gruppo di lavoro “Sviluppo dei servizi degli ecosistemi” degli Stati Generali della Green Economy.

Il secondo problema è che abbiamo stato e governi privi del coraggio necessario a rifare ciò che alcuni governi hanno fatto in passato. Quindi, dobbiamo da un lato riformare, ridare coraggio, allo stato e dall’altro lato definanziarizzare le grandi imprese.

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Riacquisti/Ricerca & Sviluppo

Il punto perciò non è stato o imprese, ma che tipo di imprese e che tipo di stato. Io parlo sempre di uno stato mission oriented, non parlo di stato come ‘il ministero dell’economia’, la grande burocrazia, un’economia gestita top down. Ma se guardiamo tanto alla Silicon Valley, quanto a nazioni come la Germania, la Danimarca e altre (forse anche la Cina), quello che vediamo è che nei luoghi dove c’è stata smart innovation c’è stato dietro quello che chiamo stato decentralizzato, un decentralized network state ed è interessante vedere che tipo di organizzazioni e strutture vi operano e che ruolo hanno giocato. Ma l’altro aspetto interessante è il ruolo dello stato che ne emerge: quello di un soggetto che non si limita a correggere i fallimenti del mercato, per esempio quando c’è di mezzo un bene pubblico come può essere la ricerca di base, dove c’è troppo poco investimento privato e lo stato deve correggere. Questa rimane una funzione molto importante, basti pensare che è lo stato ad aver finanziato tutta la ricerca di base che c’è dietro allo sviluppo di settori come l’IT, le nanotecnologie, le biotecnologie e oggi il green. Sullo sviluppo delle energie rinnovabili sono stati impegnati quasi solo fondi statali. Ma oltre a tutto ciò, lo stato ha anche giocato un ruolo di creazione del mercato. Così è avvenuto negli Usa, dove per quanto riguarda lo sviluppo delle energie rinnovabili, lo stato ha creato, ha formato il mercato, per esempio intervenendo su tutta la catena dell’innovazione, non solo nell’ambito dell’upstream basic research, ma anche sulla ricerca applicata. E ci ha anche messo i soldi: il capital financing delle imprese nel settore delle rinnovabili non è venuto all’inizio dai venture capitalist, ma da “capitali pazienti” provenienti da diversi tipi di fondi pubblici. In Israele, per esempio, c’è un Public Venture Capital Fund; in Usa ci sono tanti tipi di fondi, come lo Small Business Innovation Capital Fund, tanto per citarne uno. C’è quindi stato un impegno pubblico molto attivo su tutta la catena della ricerca, non solo sulla ricerca di base. E in più si è trattato sempre di un impegno mission oriented. Cosa intendo

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materiarinnovabile 05. 2015

Spesso grandi sfide come quelle su cui si impegna l’Unione europea (invecchiamento della popolazione, cambiamento climatico) rischiano di essere molto astratte.

dire? Che l’obiettivo, come nel caso della ricerca spaziale, era chiaro e definito a priori: arrivare sulla Luna. Si può discutere dell’utilità o meno di averlo fatto e addirittura se sia stato fatto veramente o meno. Ma è il modello che conta, mentre spesso grandi sfide come quelle su cui si impegna l’Unione europea (invecchiamento della popolazione, cambiamento climatico) rischiano di essere molto astratte. Sfide condivisibili, ma quando ci arrivi? Bisogna definire una direzione, anche broadly defined, ma concreta, ponendo obiettivi chiari, in modo da sapere quando gli obiettivi sono raggiunti.” Quindi c’è una fondamentale diversità tra investimento privato e investimento pubblico in rapporto all’innovazione. Lo stato è (o può essere) protagonista quando si tratta di innescare processi di cambiamento di valore strategico, come nel caso della green economy, mentre il privato agisce quando qualcun altro ha creato le condizioni favorevoli per farlo e se non ha altri modi, più convenienti, per migliorare la propria performance. Tornando allo sviluppo green, quali sono le linee strategiche che uno stato dovrebbe adottare? Quali gli elementi chiave per implementare la mission? “Per sviluppare una green economy oggi uno stato non può limitarsi a intervenire sui fallimenti del mercato, per esempio attraverso l’imposizione di una carbon tax, ma deve fare delle scelte strategiche, mission oriented, nella direzione green. Perché nel passato è successo così: sviluppare il settore IT è stata una scelta, lavorare sulle nanotecnologie è stata una scelta. Oggi la scelta strategica da fare è green, che non vuol dire solo energia rinnovabile, ma un ri-orientamento di tutta l’economia. Prendiamo proprio l’esempio del settore IT: la cosiddetta IT revolution è solo a metà strada, non è ancora realmente diffusa. Come ha detto Robert Solow: ‘i computer sono dappertutto ma non li vediamo nelle statistiche relative alla produttività’. Finora il settore IT non ha avuto una direzione, non è stato orientato secondo

un strategia finalizzata a un obiettivo. Green potrebbe essere la nuova direzione per arrivare a quel full deployment, a quel pieno dispiegamento che, per esempio la electricity revolution ha avuto solo negli ultimi cinquant’anni. Il problema è che non abbiamo più il coraggio nemmeno di parlare dello stato in questi termini, cioè come soggetto che orienta lo sviluppo e l’innovazione. Nel migliore dei casi ne parliamo solo come soggetto che agisce sulla riduzione del rischio per il settore privato: incentiva, crea delle private-public partnership, stabilisce regole. Non è un soggetto che prende decisioni coraggiose, di cui tante falliranno. E anche questo va sottolineato, perché si deve accettare anche per lo stato, in quanto fondamentale investitore in innovazione, la possibilità del fallimento. Prendiamo ciò che ha fatto Obama nel 2009: una gran parte delle misure di stimolo all’economia era green directed, con prestiti garantiti ad attività green, come i 465 milioni di dollari prestati a Tesla e i 500 milioni assegnati a Solyndra. Poi cosa è successo: Tesla è andata bene, mentre Solyndra è fallita. Ai contribuenti, che hanno finanziato queste iniziative cosa è andato? Nulla, se non i costi. Allora, non ammettendo che lo stato innovatore è uno stato investitore, uno stato che si assume un macro-rischio, (e quindi in questo deve anche poter contare dei fallimenti) si continua solo a socializzare il rischio e a privatizzare il guadagno. E questo crea un grosso problema, perché così aumenta la disuguaglianza (perché, come accennato sopra non si ridistribuiscono guadagni allo stato, cioè alla collettività) e si sottraggono fondi alla prossima sfida da affrontare. Qualsiasi venture capitalist sceglie di investire su un portafoglio a maggior rischio sapendo che bilancerà investendo su altre cose più sicure. Facendo finta che lo stato debba solo ridurre i rischi per l’impresa privata e limitarsi a un ruolo di regolatore e amministratore, e facendolo anche nei paesi dove lo stato svolge efficacemente questo ruolo di investitore/innovatore (ciò che comunque non succede in Italia) non c’è questo revolving fund. Nulla torna alla stato, ossia alla collettività.

Investimenti in Ricerca e Sviluppo per le energie rinnovabili negli Stati Uniti

Fonte: Nemet e Kammen (2007), “U.S. energy research and development: Declining investment, increasing need, and the feasibility of expansion”, Energy Policy, 35 (1), 746-755

Milioni di dollari al valore del 2002

1,000 800 600 400 200 0

Settore pubblico Settore privato 1985

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1989

1991

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1999

2001

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2005


Think Tank

La politica di Renzi è esattamente quella che vede lo stato come puro facilitatore per il settore privato: vuoi una tassa in meno? No problem. Quella legge ti dà fastidio? Te la tolgo. E il tutto senza alcuna evidenza che ciò serva a produrre un risultato utile alla collettività.

Cosa produce un simile atteggiamento nell’opinione pubblica? Prendiamo l’esempio dell’assistenza sanitaria negli Usa: la spesa annua dei contribuenti per i medicinali è di 32 miliardi di dollari, ma quando Obama ha deciso di portare l’assistenza sanitaria a 70 milioni di persone che non vi avevano accesso, con il cosiddetto Obamacare, è stato accusato di ‘mettere le mani nel nostro sistema sanitario’. Lui ha difeso il provvedimento con le solite argomentazioni della sinistra, richiamando valori etici e idee di giustizia, quando avrebbe legittimamente potuto dire: ‘Stiamo mettendo le mani nel vostro sistema sanitario? Eh no cari, noi abbiamo creato il vostro sistema sanitario!’. Le persone non vedono nemmeno questo ruolo dello stato come co-creatore, ma le medicine che comprano sono state create dallo stato (attraverso quanto sopra, ossia per esempio il finanziamento di una ricerca mission oriented). C’è quindi un problema di ignoranza e lo stesso Obama (ma vale per tutti i politici nazionali o locali) non ha nemmeno più il vocabolario, non ha le parole per parlare dello stato in questi termini. E i politici non le hanno nemmeno quando sono perfettamente consapevoli del ruolo svolto dallo stato. Ovviamente, c’è anche il caso peggiore: il caso in cui alla politica il vocabolario manca perché manca la comprensione di quello che è stato fatto. Renzi visita la Silicon Valley e se ne torna a casa con il Jobs Act, ma non ha minimamente compreso il ruolo svolto dallo stato nella stessa creazione di Silicon Valley. Il governo o lo stato, deve creare un’enorme onda sopra la quale i gli imprenditori o i venture capitalist possano surfare. Oggi non c’è più lo stato che crea questa bella onda. Ma non solo: quando crei l’onda non puoi solo lasciarla andare, ma devi creare dei patti, simbiotici e non parassitari, con l’impresa. Prendiamo ancora l’esempio di Obama: quando la Fiat è arrivata proponendosi come acquirente di Chrysler, Obama in sostanza ha detto ‘Caro Marchionne, vuoi comprare Chrysler? Bene, ma dal momento che sono stati i contribuenti a salvare Chrysler, allora ti dico io cosa devi fare: devi investire in motori ibridi’. Quindi la Fiat in America investe in motori ibridi e in Italia che fa? Nulla del genere, ovviamente. Ma qualcuno glielo ha chiesto? Ovviamente no. La politica di Renzi è esattamente quella che vede lo stato come puro facilitatore per il settore privato: vuoi una tassa in meno? No problem. Quella legge ti dà fastidio? Te la tolgo. E il tutto senza alcuna evidenza che ciò serva a produrre un risultato utile alla collettività. Prendiamo il Jobs Act: sarebbe risultato significativo per la collettività se il sistema di imprese italiano avesse una media di 13-14 lavoratori, che assumendo e passando a 15 e oltre avrebbero beneficiato di questa legge. Ma la realtà è che la media degli addetti nelle imprese italiane è 4! Quindi si è trattato solo di un regalo, senza condizioni, alle grandi imprese. L’impedimento alla crescita non era nei diritti dei lavoratori, ma nell’assenza di un ecosistema serio, fatto tanto di investimenti pubblici quanto

privati. In Italia la relazione tra pubblico e privato è parassitaria. Sono inerti entrambi, quindi non c’entrano pubblico o privato o la sussidiarietà del terzo settore. Anche il terzo settore lo vedo inerte, un tappabuchi, non è un soggetto che spinge all’apertura di nuovi mercati. Così come fa lo stato quando, in merito alla salute, sostiene la ricerca su nuovi farmaci anziché promuovere diversi modelli di lifestyle!” C’è però una contraddizione che emerge visibilmente negli ultimi decenni: la politica (pubblica) ha effettuato una forte delega nei confronti dell’economia. E l’economia ha a sua volta effettuato una delega nei confronti dell’economia monetaria. Le scelte politiche si prendono tenendo sempre più conto di aspetti legati a fattori strettamente monetizzabili. Sukhdev ci ricorda che una parte rilevante del capitale naturale, e quindi del bene comune, è legato a fattori non immediatamente monetizzabili. Non c’è rischio allora che questa “conversione culturale” delle politiche pubbliche le renda meno capaci di vedere le priorità della sostenibilità? C’è una diversità possibile, tra stato centralizzato e quello che definisci come stato decentralizzato? Come si fa a non perdere la visibilità del bene comune e orientare quindi il progetto, la ricerca, l’innovazione tecnologica nell’interesse della collettività? “Innanzitutto quando parlo di stato decentrato non mi riferisco necessariamente a diversi livelli geografici di governo (nazionale o regionale, per esempio) ma a un sistema come quello Usa, dove tutte le competenze su un tema, poniamo l’energia, non sono assorbite da un ministero specifico, ma sono distribuite su una quantità di diversi tipi di agenzie e organizzazioni. Poi si può anche guardare se sono federali, statali o locali, ma non è questo il punto. Prendiamo Arpa-e: ora questa agenzia si sta dedicando di trasferire al campo delle energie rinnovabili quel ‘out-of-the-box-thinking’ e assolvere quella funzione che Darpa ha svolto per tutto ciò che poi è diventato internet. È un’agenzia federale, ma è decentralizzata dal punto di vista organizzativo; se entri lì dentro ti sembra di entrare nell’HQ di Google: c’è la stessa atmosfera creativa e non solo, nell’agenzia sono riusciti a portare dentro i cervelli migliori. Lo stesso capo dell’agenzia era un premio Nobel. Perché quello che è interessante è che quando tu hai una mission oriented public agency diventa un onore andarci a lavorare. Se invece sei solo lì a facilitare il lavoro al settore privato, a de-risk, se sei un vero scienziato non hai motivi di andarci. In secondo luogo, a prescindere dal livello territoriale di un organismo di questo genere, ciò che è importante capire è l’aspetto organizzativo. Vale anche per la storia italiana: pensiamo alla vicenda dell’Iri. Qui è evidente come il punto non sia se c’è o non c’è bisogno di un’Iri. Guardiamo

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materiarinnovabile 05. 2015 Per un approfondimento vedi il volume di Mariana Mazzucato e Caetano C. R. Penna Mission Oriented Finance for Innovation, disponibile online tinyurl.com/pl7yvmm

Che tipo di relazioni con la grande impresa possono essere utili alle poche piccole imprese veramente interessate all’innovazione? Bisogna de-finanziarizzare la grande impresa e dare quindi il tipo di aiuto che serve alle poche piccole imprese che sono davvero impegnate in questo senso.

alla storia. Quando è che l’Iri ha giocato un ruolo importante? Com’era organizzata, chi ci lavorava, com’erano i contratti di queste persone? Per esempio, in Darpa i contratti sono di cinque anni: tu entri e sei invitato, non dico a fallire, ma a fare cose difficili e poi sei valutato non solo in merito al successo che hai raggiunto, ma anche per i rischi che ti sei assunto. L’altra cosa è che oggi siamo in un periodo totalmente deformato: le politiche di austerity stanno infatti provocando un fenomeno esattamente contrario, di crescente centralizzazione. Prendiamo ciò che sta succedendo con il governo Cameron nel Regno Unito rispetto a quello che era il Big Society Project: la prima cosa che ha fatto è stato di chiudere i Quango (l’acronimo sta per Quasi-Autonomous Non-Governmental Organisation, ndr) come il Carbon Trust, che era molto interessante – e che rimane oggi ma molto depotenziato – e agiva come un public venture capital fund per l’energia. È stata una delle prime cose che hanno tagliato. Il risultato delle politiche di austerity di un governo come quello di David Cameron non è quindi solo la diminuzione della spesa sociale, ma anche la sua crescente centralizzazione, riducendo questa diversità di organizzazioni decentralizzate e producendo un’immagine di minore importanza del settore pubblico (e quindi un minore interesse nell’andare a lavorare in queste organizzazioni).” Quindi secondo te l’elemento chiave dentro la struttura di questo modello di settore pubblico dinamico e progettuale è rappresentato da una sua molteplicità e varietà interna. La centralizzazione ne rappresenta invece la fine? “No, il punto è un altro. Il punto non è centralizzato o decentralizzato. Chiunque voglia innovare ha bisogno di capitale paziente. Il modo in cui nel mondo si è realizzato capitale paziente diretto, cioè erogato direttamente da soggetti preposti a farlo (cosa che non avviene per esempio in Italia) è diverso: in Germania lo si è fatto attraverso una grossa banca pubblica, cosi come in Cina; in Usa no. In Finlandia c’è da un lato un’agenzia pubblica centrale per l’innovazione molto grossa (Tekes, agenzia nazionale finlandese per il finanziamento dell’innovazione) ma anche Sitra (Fondo finlandese per l’innovazione) che è un’agenzia periferica. C’è bisogno di tutte e due. Dunque ciò che realmente serve è una molteplicità di organizzazioni, e questo è il fattore chiave, per disegnare un tessuto dinamico e flessibile. E questa molteplicità e dinamicità ha un ruolo importante anche verso il settore privato, che se non ha una parte pubblica con queste caratteristiche con cui confrontarsi diventa inerte. E, alla lunga, diventano inerti tutti e due. L’altro punto è come valutare, soprattutto quando si parla di bene pubblico. Cos’è un bene pubblico? Il bene pubblico è una market failure: bene pubblico si ha quando c’è un qualcosa su cui

è molto difficile ottenere profitti e quindi c’è un sotto investimento da parte dell’impresa privata. È come per la fusione nucleare: perché l’impresa non fa la fusione nucleare? Perché se e quando sarà inventata la fusione nucleare sarà impossibile per un’impresa appropriarsi di questa invenzione così basic che verrà usata da tutti. Un’invenzione i cui spillover potenziali sono così innumerevoli da non poter entrare nel portafoglio di nessuna azienda. Il punto è che il solo finanziamento pubblico non è mai bastato per farci avere queste general purpose technlogies, come internet o l’elettricità, le nanotecnologie, le biotecnologie, cose che hanno poi degli spillover, delle ricadute enormi in tutta l’economia. Non è mai bastata solo la ricerca di base, ma a monte ci sono sempre state delle scelte, che hanno riguardato non solo la questione del bene pubblico, ma anche l’intervento in tutta la catena dell’innovazione. Lì come si misura il problema: quando stiamo ragionando in termini di bene pubblico non dobbiamo nemmeno porci il problema della valutazione: l’obiettivo è l’open access (tema su cui in questo periodo stiamo facendo enormi passi indietro) e quindi investi finché puoi perché sai che avrai ricadute enormi. Ma proprio perché non basta questo, perché bisogna fare anche la ricerca applicata, di cui una buona parte è destinata – come è normale che avvenga – a fallire, c’è bisogno che questi capitali pazienti vadano alle poche imprese seriamente intenzionate a innovare, e considerare che possano anche dare come esito un fallimento (vedi il caso già citato di Solyndra). È esattamente in questo punto che bisogna chiedersi se è lecito monetizzare, prevedere che lo stato possa guadagnare, oltre che perdere. Non si può far finta che, come si fa per la ricerca di base, la cosa non ha importanza perché tanto le ricadute saranno talmente ampie che il cittadino comunque ne beneficerà. Il mio punto di vista è che proprio non ammettendo che lo stato deve giocare questo ruolo, di stato innovatore, non abbiamo ammesso che la parte pubblica, ossia la collettività, potesse trarre un guadagno da questa innovazione downstream e quindi il processo a un certo punto si blocca. E questo avviene perché non abbiamo più un sistema di tassazione come quello che ha permesso, per esempio, la nascita della Nasa: sotto la presidenza di Eisenhower (un repubblicano e un militare, oltretutto) la tassazione per i più abbienti, l’upper marginal rate, arrivava al 93%! Negli anni questo sistema di tassazione è stato progressivamente smantellato, queste risorse non ci sono più, e quindi oggi è arrivato il momento di svegliarsi e fare, per esempio, come fa lo stato di Israele mantenendo equity in alcuni di questi investimenti strategici. In altri casi lo strumento può essere una golden share sui brevetti. Magari non per sempre, ma solo finché si decide di giocare questo ruolo di stato innovatore e non lasciare tutti i profitti al privato. Oppure si potrebbe utilizzare un sistema di prestiti come si fa con gli studenti universitari in UK: lo stato ti presta dei soldi per sviluppare il tuo curriculum di studi.


Think Tank Finanziamenti KfW per i progetti di protezione dell’industria, dell’ambiente e del clima in Germania

Programma KfW per le energie rinnovabili

Altri programmi per le energie rinnovabili

Totale miliardi di euro

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2001

0,48

2002

0,71

2003

0,08

2004

0,89

2005

0,55

2006

0,42

2007

Una volta laureato non trovi lavoro? Non mi restituisci niente. Se invece ce la fai, restituisci il debito.” Lo stato innovatore ha quindi necessità di istituire un esplicito “patto sociale” (o politico, se vogliamo) con le imprese? “Senza dubbio, è può essere un patto semplice come quello citato, per esempio un accordo per reinvestire i profitti realizzati. Quello di cui c’è bisogno è esattamente questo. Non serve parlare di new deal, ma almeno di un deal, di un patto. Di questo non si può fare a meno. Come Obama ha fatto con la Fiat o come è stato fatto con AT&T nel settore della telefonia. E oggi le grandi aziende hanno livelli record di risorse immobilizzate, che non vengono reinvestite. Un simile strumento dovrebbe essere parte della politica di innovazione e quindi dovremmo chiederci che tipo di impresa privata serve, per esempio all’innovazione dell’economia in senso green. Tornando agli Usa, sappiamo che la piccola impresa fa poca innovazione, quindi la questione da affrontare sarebbe: che tipo di relazioni con la grande impresa possono essere utili alle poche piccole imprese veramente interessate all’innovazione? Bisogna de-finanziarizzare la grande impresa e dare quindi il tipo di aiuto che serve alle poche piccole imprese che sono davvero impegnate in questo senso. L’obiettivo deve essere creare quell’ecosistema che esiste per esempio in Germania, dove stanno stra-investendo e dove l’ecosistema di cui parliamo vede in azione una banca pubblica specificamente mission oriented (la KfW) e un tessuto di agenzie autonome per la ricerca (come i sessanta istituti raggruppati nella Fraunhofer Gesellschaft) che stanno sostenendo e orientando il processo di innovazione.” L’immagine dello stato come “rallentatore dell’innovazione” è particolarmente solida

2,82

5,51

9,59

7,56

7,94

2008

2009

2010

2011

2012

in Italia. E molti tra i recenti governi hanno fatto moltissimo per accreditarla. Per contro, in alcuni settori chiave dell’innovazione sostenibile, come la bioeconomia, a svolgere una funzione trainante è l’impresa. Alcune direttive dell’Unione europea sono servite a “imporre” strategie di lungo periodo altrimenti assenti, che hanno fornito un supporto ai settori più avanzati dell’impresa privata. Può sembrare una domanda fuori luogo pensando all’attuale situazione dell’Unione europea di fronte alla crisi greca, ma le istituzioni sovranazionali come la Ue potrebbero svolgere meglio dei governi questa funzione di spinta verso un’innovazione di portata strategica? “Certo! A patto che quella istituzione non sia essa stessa fonte dei problemi. Per fare fronte alla crisi e rientrare nei parametri richiesti dalla stessa Ue, dal 2009 la Spagna ha tagliato del 40% i fondi pubblici per l’innovazione. Poi tu puoi avere Horizon 2020 che ti dice ‘voilà, ecco 80 miliardi per l’innovazione’, ma intanto hai strangolato quell’ecosistema di agenzie, di soggetti decentrati che è vitale per implementare i processi. E chi ci lavora in istituzioni o agenzie che non hanno più soldi? Se sei un bravo scienziato ci vai volentieri? Certo che no! Vai a lavorare per Bill Gates! Quindi c’è bisogno sia di un piano nazionale sia di un piano transnazionale che però si muovano in modo coerente. La molteplicità è un fattore positivo, ma oggi in Europa le forze transnazionali si muovono in modo contrario: si riducono i fondi proprio a Horizon 2020, che è il principale programma messo in campo dalla Ue per la ricerca finalizzata all’innovazione sostenibile, per finanziare il Piano Juncker di investimenti in infrastrutture e... nella ricerca! Se è coerenza questa...”

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materiarinnovabile 05. 2015

Come l’ARTE può guarire la natura

di Nancy Averett

Questa storia è stata prodotta in partnership con FUTUREPERFECT, www.resilience.org/ stories/2015-06-08/artthat-walks-in-the-world#

Nancy Averett è una giornalista scientifica freelance, di stanza a Cincinnati, Ohio. Scrive per diverse riviste statunitensi.

Due artisti californiani creano sculture che riparano gli ecosistemi danneggiati. E alla fine scompaiono nella natura. Perché, affermano Daniel McCormick e Mary O’Brien, “vogliamo che le nostre sculture giochino un ruolo nel ripristino dell’equilibrio ecologico degli ambienti compromessi”.

Daniel McCormick e Mary O’Brien hanno ricevuto negli anni molti complimenti per le loro sculture pubbliche. Ma qual è la loro recensione preferita? Gli escrementi di tartaruga che trovavano ogni mattina lungo un tratto del loro lavoro. “Gli animali l’hanno individuata subito, e questo ci ha fatto sentire davvero bene”, dice O’Brien, riferendosi a un’opera lunga più di 80 metri che hanno costruito la scorsa primavera con l’aiuto di centinaia di volontari lungo il Carson River, in Nevada.


Foto di Mary O’Brien

Think Tank Un albero morto trasformato in scultura per il progetto sul fiume Truckee

A sinistra: Una scultura creata per il fiume Carson

Foto di Monique Verdin

Mary e Daniel al lavoro su un progetto in Louisiana

Watershed Sculpture, www.watershed sculpture.com

Probabilmente non molti artisti trovano eccitanti le deiezioni animali, ma McCormick e O’Brien si sono specializzati nella creazione di sculture il cui scopo è aiutare a guarire l’ambiente. La loro Watershed Art ha preso la forma di spazi per la coltivazione delle ostriche a Oakland, di barriere anti tempeste sulla Gulf Coast della Louisiana, e ora di habitat ripariale lungo alcuni tratti dei fiumi Truckee e Carson in Nevada.

le installano nel bacino o corso d’acqua fissandole al terreno con germogli di piante autoctone a crescita rapida, come alberelli di salice o di pioppo. Le opere trattengono il suolo eroso, permettendo all’acqua di scendere a valle più pulita. Alla fine i germogli crescono e inglobano la scultura fino a renderla semplicemente parte del paesaggio.

Aiutare gli ambienti compromessi

Per i loro ultimi progetti in Nevada, McCormick e O’Brien hanno fatto squadra con The Nature Conservancy (Tnc) per lavorare su due differenti fiumi: il Carson e il Truckee. Questa primavera hanno finito il loro lavoro sul Truckee: quattro installazioni al McCarran Ranch Preserve della Tnc, poco più a est di Reno.

“Come artisti, vogliamo fare di più che limitarci a documentare i cambiamenti che si verificano in natura”, dice McCormick. “Vogliamo che le nostre sculture giochino veramente un ruolo nel ripristino dell’equilibrio ecologico degli ambienti compromessi.” Per farlo, lui e O’Brien intrecciano rami di piante prese direttamente negli specchi d’acqua realizzando sculture lunghe due, tre o addirittura sei metri – secondo McCormick somigliano a enormi baccelli di piselli – che sono progettate per inserirsi nelle anse erose dei letti dei fiumi. Quindi

Steward dell’habitat

I due fiumi hanno una lunga storia di interventi umani, tra cui il pascolo senza restrizioni, deviazioni per l’irrigazione, dragaggio e rettifica di assi fluviali, ognuno dei quali ha arrecato un danno al loro ecosistema. Tnc stima, per esempio, che il bacino del fiume Truckee rispetto al 1900 abbia perso il 90% dell’habitat forestale lungo il

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Foto di Mary O’Brien

materiarinnovabile 05. 2015

In alto: Una delle grandi strutture a “baccello di pisello” che gli artisti hanno costruito per contribuire a ripristinare la zona ripariale del fiume Truckee

Foto di Mary O’Brien

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“Noi la chiamiamo arte che cammina per il mondo.”

Un’Avian Habitat Sculpture lungo il fiume Truckee ha attirato una coppia di scriccioli

suo corso e fino al 70% della popolazione aviaria. L’organizzazione ha acquisito alcuni habitat in strategiche aree palustri, ripariali e campestri lungo entrambi i fiumi, e ha lavorato al loro ripristino non solo a vantaggio di una varietà di pesci, uccelli, rettili e insetti autoctoni ma anche per assicurare un controllo più efficace e naturale delle esondazioni per le comunità situate a valle, come Reno. In questi habitat situati in aree chiave si trovano le sculture di McCormick e O’Brien, create con l’aiuto di centinaia di volontari. “Dato che ci aiutano a crearle, sono orgogliosi di esserne responsabili”, dice O’Brien dei volontari locali. “E alla fine, ne diventano gli steward.”

Artisti che interagiscono direttamente con la natura I due artisti hanno consultato Elisabeth Ammon, ornitologa e direttrice scientifica del Great Basin Bird Observatory, su come il loro lavoro sui fiumi avrebbe potuto contribuire ad attirare gli uccelli. “Mi hanno mostrato alcune bozze e volevano sapere come avrebbero potuto essere utili agli uccelli autoctoni”, dice Ammon, che è un’esperta del ripristino di habitat ripariali. E aggiunge: “I migratori stanno arrivando proprio ora, quindi sarà interessante vedere come useranno queste opere. Le strutture dovrebbero offrire posatoi davvero grandi per gli uccelli. A volte nelle paludi, dato che non c’è molto spazio dove posarsi, gli uccelli amano appollaiarsi molto in alto a osservare gli insetti e i pesci”. Effettivamente, diversi scriccioli cominciarono a svolazzare intorno a una delle sculture lungo il Truckee, chiamata Avian Habitat Resource Sculpture, mentre gli artisti ci stavano ancora lavorando. Gli uccelli si sono accoppiati e vi hanno fatto il nido. Le sculture di McCormick e O’Brien sono state esposte al Center for Art + Environment del Nevada Museum of Art dal dicembre del 2014 all’aprile scorso. William Fox, direttore del centro, dice che il loro lavoro si inseriva perfettamente, perché il centro colleziona, studia e promuove l’arte ideata per “intervenire direttamente negli affari della terra”. Un’arte di questo tipo, aggiunge, è parte di un progresso naturale perché gli artisti che prima semplicemente catalogavano il mondo naturale ora interagiscono direttamente con esso. “Daniel McCormick e Mary O’Brien sono l’avanguardia di questa evoluzione”, continua. “Noi la chiamiamo arte che cammina per il mondo.”


Think Tank Recare vantaggio al sistema naturale L’idea di creare arte che potesse curare un ecosistema è nata da McCormick, che all’inizio degli anni ’90 cominciò a realizzare grandi sculture a forma di cesto. L’artista divenne noto per aver svolto il suo lavoro di ripristino artistico nella Golden Gate National Recreation Area e cominciò a tenere workshop per varie organizzazioni come la West Marin Unified School District nel nord della California. “Io me ne andrei a spasso là fuori con i bambini a mettere le sculture nei canaletti che portano rifiuti agricoli nel torrente principale”, dice McCormick. “Possiamo rallentare il processo di erosione per evitare che il fango raggiunga l’area di deposizione delle uova di due specie autoctone, il salmone Coho e la trota arcobaleno.” Alla fine si è unita a lui O’Brien. I due – oltre a essere colleghi – sono partner nella vita e hanno lavorato a progetti in tutto il paese, sebbene la maggior parte della loro attività si è svolta in California. Con il passare del tempo il lavoro si è fatto più arduo a causa dell’avanzata dei cambiamenti climatici. Il Nevada, per esempio, ha sofferto per una lunga siccità, quindi gli artisti devono piantare i loro germogli di salice o di pioppo in acque più profonde perché possano sopravvivere al caldo e al secco. “Ci sono supposizioni che facciamo sul lato scientifico del ripristino, ma quando si è sul campo tutte quelle regole non sempre sono adeguate, perché il clima è cambiato”, dice McCormick. “Siamo nel mezzo di una siccità della durata tra i 7 e i 10 anni.” I turisti che vogliono vedere l’arte “acquatica” di McCormick e O’Brien possono visitare il River Fork Ranch nei pressi di Genoa in Nevada, o

Foto di Simon Williams di The Nature Conservancy

Al Center for Art + Environment, nel Nevada Museum of Art, gli artisti hanno tenuto una mostra che comprendeva disegni e modelli in scala delle loro sculture

il McCarran Ranch vicino a Reno. The Nature Conservancy of Nevada ha nel suo sito web delle mappe che aiutano le persone a trovare le sculture. Ma chi vuole vederle non dovrebbe aspettare troppo, dato che le sculture verranno nascoste alla vista quando i germogli di salice metteranno radici e si trasformeranno in alberi più grandi. Il fatto che queste strutture un giorno saranno invisibili non disturba gli artisti. “Sono state studiate per aiutare il sistema naturale – spiega McCormick – e dopo un periodo di tempo, quando il processo di ripristino è radicato, la presenza degli artisti diventa sempre meno visibile”.

Scultura sul fiume Truckee

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materiarinnovabile 05. 2015

Focus Spreco

TOLLERANZA ZERO di Carlo Pesso

Secondo la Fao circa 1/3 del cibo prodotto nel mondo finisce nella spazzatura, con un’impronta ecologica sorprendente: 7% delle emissioni di gas serra. Uno spreco non solo immorale (795 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza per condurre una vita sana), ma con un valore economico stimato in 360 miliardi di euro l’anno: vale a dire circa due volte il Pil della Grecia. I metodi adottati da Germania e Francia per affrontare la riduzione degli sprechi alimentari. “A questo punto, il problema è che abbiamo un problema.” – Capitan Ovvio1


Policy

Carlo Pesso, Centro Studi Edizioni Ambiente.

1. nonciclopedia.wikia. com/wiki/Capitan_Ovvio 2. www.nomorefood towaste.nl 3. Fao (2011), Global Food Losses and Food Waste; www.fao.org/docrep/014/ mb060e/mb060e00.pdf. Fao (2013), Food Wastage Footprint: Impact on Natural Resources; www.fao.org/docrep/018/ i3347e/i3347e.pdf 4. Strategies to achieve economic and environmental gains by reducing food waste, WRAP, 2015 newclimateeconomy. report/wp-content/ uploads/2015/02/ WRAP-NCE_Economicenvironmental-gainsfood-waste.pdf 5. Programma per la distribuzione di derrate alimentari agli indigenti; fr.wikipedia. org/wiki/Programme_ europ%C3%A9en_d% 27aide_aux_ plus_d%C3%A9munis 6. www.zugutfuerdie tonne.de/service/english/ video 7. www.zugutfuerdie tonne.de 8. German National Research Strategy, Bioeconomy 2030. Our route towards a biobased economy, Federal Ministry of Education and Research (Bmbf), 2011; www.bmbf.de/ pub/Natinal_ Research_Strategy_ BioEconomy_2030.pdf

Il 2012 verrà ricordato come un anno di svolta. Durante Rio+20, la Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha lanciato la Sfida Fame Zero, iniziativa attraverso la quale la Fao – agenzia dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura istituita nel 1945 con il mandato di ridurre gli sprechi alimentari – e una serie di partner hanno definito un’azione globale volta a limitare le perdite alimentari e lo spreco di cibo. Sulla stessa scia e con simili finalità, il governo olandese ha recentemente organizzato la conferenza internazionale “No more food to waste” (16-19 giugno 2015). Dai lavori della conferenza emerge una lista dettagliata di desiderata e di azioni da intraprendere.2 Accade spesso che i cittadini percepiscano le organizzazioni internazionali e multilaterali come entità pachidermiche. Sono enormi e appaiono molto potenti anche se impacciate e a volte rumorose; è preferibile che si tengano a una certa distanza, non essendo sempre chiaro il loro modo di agire. Va detto però che gli elefanti sono animali particolari, perché tramite dei sensori posizionati sui piedi percepiscono i tremori causati da altri animali ed elefanti, anche se molto lontani. Ecco perché avvertono l’arrivo di un terremoto in anticipo rispetto agli altri. Il risultato della conferenza è proprio questo: ha anticipato con chiarezza quanto sta accadendo sul pianeta. Con i piedi per terra Ridurre gli sprechi alimentari significa mitigare questioni sociali e ambientali drammatiche sotto ogni punto di vista. Il Wfp (World Food Programme) stima che 795 milioni di persone, pari a 1/9 della popolazione mondiale, “non abbiano cibo a sufficienza per condurre una sana vita attiva”,3 mentre la Fao valuta che circa 1/3 di tutto il cibo prodotto nel mondo finisca nella spazzatura. L’impronta ecologica di tutto ciò è pari a un sorprendente 7% delle emissioni di gas serra.4 Il valore economico complessivo di questo spreco è attualmente stimato in 360 miliardi di euro l’anno e raggiungerà probabilmente i 500 miliardi di euro l’anno nei prossimi 15 anni. Vale a dire che lo spreco alimentare ammonta ogni anno a circa due volte il Pil della Grecia (185 miliardi di euro l’anno, si colloca tra il 43° e il 53° Pil internazionale secondo Ppp) e supera di gran lunga il debito greco totale, pari a 320 miliardi di euro. (A proposito, secondo Eurostat nel 2014 il 44% dei greci viveva al di sotto della soglia di povertà.) Considerato questo contesto e la crisi economica del 2008, a causa del netto incremento della povertà registrato in tutta Europa, le organizzazioni locali sono state le prime a spronare all’azione. I governi nazionali e le istituzioni dell’Unione europea hanno poi intrapreso lo stesso cammino. Già dal 1985, con l’iniziativa “Restos du Cœur” portata avanti dal comico e poi candidato presidenziale francese

Coluche e poi nel 1986, con l’istituzione della Federazione europea dei banchi alimentari, l’azione degli enti di beneficienza e dei volontari aveva già dato risultati significativi, tra cui il programma dell’Unione europea per gli indigenti.5 Ciò non toglie che la vasta portata del problema impongano la pianificazione di nuove azioni. Spronare all’azione i cittadini dei paesi membri dell’Ue: il caso della Germania Nel marzo del 2012 uno studio dell’Università di Stoccarda ha stabilito che i cittadini tedeschi sprecano 82 kg di cibo pro capite l’anno. I rifiuti alimentari delle famiglie ammontano a un totale di 6,7 milioni di tonnellate di cibo l’anno, equivalenti a circa 230 euro pro capite. Il Ministero per l’Agricoltura e l’Alimentazione ha perciò avviato l’iniziativa “Troppo buono per il cestino!”, che punta a ridurre lo spreco alimentare condividendo responsabilità e impegno lungo l’intera catena di valore. Il progetto consiste in una campagna di informazione pubblica con messaggi video,6 un sito web dedicato7 che offre informazioni e suggerimenti utili per la vita quotidiana, la diffusione dell’applicazione “Zu gut für die Tonne”, che consiglia come preparare 400 deliziose ricette con gli avanzi e il contributo di chef famosi. Bmel, Slow Food Deutschland e.V. e Bundesverband Deutsche Tafel organizzano giornate nazionali contro lo spreco alimentare, al grido di “Wir retten Lebensmittel!” (“Salviamo il cibo!”). Durante questi eventi, presso produttori e supermercati viene raccolto il cibo che andrebbe altrimenti gettato. I partecipanti preparano quindi un gustoso “menu di avanzi” che viene poi consumato dai cittadini in conviviali banchetti di strada. Un’indagine condotta nell’ottobre del 2014 dall’associazione di ricerca per i consumatori GfK per conto del Ministero per l’Agricoltura e l’Alimentazione ha misurato i risultati della campagna: oltre ad aver stabilito che un cittadino tedesco su due era a conoscenza dell’iniziativa, l’indagine ha rilevato che il 58% degli intervistati è oggi più attento a ciò che acquista per evitare di produrre sprechi, il 46% utilizza meglio i propri avanzi e il 36% pone maggiore attenzione alle corrette pratiche di conservazione dei cibi. Dal punto di vista del settore industriale, lo studio German National Research Strategy – Bioeconomy 2030, Our route towards a biobased economy,8 suggerisce che la maggior parte dei problemi sollevati dalla produzione di rifiuti alimentari verrà risolta con l’avvento della bioeconomia. Nello specifico, i rifiuti alimentari organici diventeranno una materia prima per la nuova bioindustria emergente. Non esistono in effetti piani dettagliati che comprovino questi potenziali risultati, ma molti indicatori segnalano come questa sia senz’altro la strada futura. Come già accaduto per la produzione colture alimentari di base da destinare a fonte energetica, la novità continuerà certamente a sollevare dibattiti pubblici.

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materiarinnovabile 05. 2015 • costituzione di un’associazione tra i principali interlocutori del settore alimentare; • sviluppo di linee guida e buone prassi che tengano conto di tutte le fasi della catena alimentare; • definizione di una serie di accordi volontari; • proseguimento delle campagne di comunicazione pubblica e di aumento della consapevolezza.

The Waste Makers, Vance Packard, Pelican Book, 1960

11. Programme national de prévention des déchets 2014-2020, Ministère de l’Écologie, du Développement durable et de l’Énergie; www.developpementdurable.gouv.fr/IMG/ pdf/Programme_ national_prevention_ dechets_2014-2020.pdf 12. “Stop au gâchis alimentaire en France!”; www.change.org/p/stopau-g%C3%A2chis alimentaire-en-france

Un tocco francese

9. Rapport intermédiaire de l’étude relative au gaspillage alimentaire, Ministère de l’Écologie, du Développement durable, des Transports et du Logement, 2011; www.developpementdurable.gouv.fr/ IMG/Rapport%20 interm%C3%A9diaire_ VF-1.pdf

10. Réduction du gaspillage alimentaire. État des lieux et pistes d’action, Ministère de l’Écologie, du Développement durable et de l’Énergie, novembre 2012; www. developpement-durable. gouv.fr/IMG/pdf/ Rapport_final_gaspillage_ alimentaire_nov2012.pdf

La Francia, invece, ha intrapreso un percorso totalmente differente. Secondo il Ministero francese per l’Ambiente,9 a partire dal 1974 lo spreco alimentare è raddoppiato: oggi i cittadini francesi gettano 20 kg di cibo pro capite ogni anno. Di questi 20 kg, 7 sono costituiti da cibi confezionati e non consumati. Nel complesso finiscono nella spazzatura tra i 100 e i 160 euro pro capite l’anno, con un impatto sui redditi familiari pari a 12-20 miliardi di euro l’anno, senza considerare gli effetti collaterali. Nel 2010, il Consiglio nazionale francese per la riduzione dei rifiuti ha istituito un gruppo di lavoro specifico per la prevenzione degli sprechi alimentari, inteso a suggerire le possibili azioni in tal senso.10 Il Consiglio ha elaborato una serie di raccomandazioni che puntano a collegare la strategia nazionale per la prevenzione degli sprechi di cibo al programma alimentare nazionale, prevedendo nello specifico alcune azioni: • attuazione di una legislazione che chiarisca le responsabilità delle organizzazioni che desiderano donare cibo e di quelle che ricevono gli alimenti donati; • consolidamento della formazione specializzata per cuochi professionisti; • inclusione dello spreco alimentare come argomento dei programmi curricolari scolastici; • chiarimenti sulla legislazione e sulla normativa esistente con specifico riferimento ai mercati della ristorazione e della nutrizione; • chiarimenti sulla legislazione e sulla normativa esistente con specifico riferimento alle etichette con date di scadenza consigliate e precise;

Nel 2013 il Ministero dell’Agricoltura ha definito un successivo accordo anti-spreco a livello nazionale, basato su 11 differenti misure emerse dall’impegno degli attori dell’intera catena alimentare (agricoltori, grande distribuzione, agribusiness, vendita al dettaglio, ristorazione e ristoranti commerciali, autorità locali). Nell’agosto del 2014, ha aderito anche il Ministero dell’Ambiente, proponendo un programma nazionale per la prevenzione degli sprechi per il periodo 2014-2020.11 Tra gli altri obiettivi, punta a una riduzione degli sprechi del 50% entro il 2025, mediante l’attuazione di sei azioni specifiche: • sostenere e rafforzare la battaglia contro la produzione dei rifiuti nel settore della ristorazione; • prendere in esame i legami tra prodotti alimentari e imballaggi; • incentivare l’utilizzo dei contenitori da asporto per ciò che avanza nei ristoranti; • promuovere azioni contro gli sprechi alimentari a livello locale; • monitorare l’avanzamento di normative destinate ai grandi produttori di rifiuti organici; • costituire un’associazione tra i principali interlocutori che si occupano del problema dei rifiuti alimentari. Tra i due esempi europei di metodi per affrontare la riduzione degli sprechi alimentari, l’approccio incrementale adottato dalle autorità francesi è forse quello più maturo e completo per gestire la complessità del problema. Ma c’è da prendere in considerazione un altro aspetto dell’agire politico tipico dei francesi: la predilezione per i grandi balzi in avanti, che conosciamo con il nome di giacobinismo. Un assessore che sovverte le regole Nello scorso maggio, Arash Derambarsh è salito agli onori delle cronache nazionali e internazionali. Derambarsh, assessore municipale di 35 anni per il partito “Divers Droit” (destra diversa) nel sobborgo periferico di Courbevoie, nord-ovest di Parigi, ha promosso una petizione online per porre fine agli sprechi di cibo.12 In soli quattro mesi, ha raccolto oltre 200.000 firme e conquistato un’improvvisa visibilità internazionale. Il 21 maggio, l’Assemblea nazionale ha adottato all’unanimità tre emendamenti alla legge sulla transizione energetica, che obbligano innanzitutto i distributori alimentari a prevenire qualsiasi spreco di cibo ancora adatto al consumo umano. Pertanto, i supermercati non potranno più utilizzare la candeggina per danneggiare l’invenduto prossimo


Policy

Con lo sguardo sempre rivolto al futuro, Derambarsh ha svelato in un’intervista a The Guardian17 la sua intenzione di riproporre il problema – tramite l’associazione One fondata da Bono Vox, cantante degli U2 – a settembre del 2015, quando durante l’Assemblea delle Nazioni Unite verranno discussi gli obiettivi di sviluppo del millennio. A novembre la questione verrà sollevata durante il summit economico dei G20 in Turchia e poi durante la conferenza COP21 sull’ambiente che si terrà a Parigi a dicembre. Rimanere nei binari giusti Sembra che l’elefante di cui si è detto all’inizio si sia definitivamente messo in moto. Sebbene sia molto lento all’inizio, quando inizia a camminare è molto più veloce della maggior parte degli esseri umani e meno incline ad arresti improvvisi. Il progredire verso la cancellazione dello spreco alimentare secondo le modalità promosse dall’assessore francese solleva però anche numerose problematiche, alcune delle quali

13. “France to force big supermarkets to give unsold food to charities”, The Guardian, 22 maggio 2015; www.theguardian. com/world/2015/may/22/ france-to-force-bigsupermarkets-to-giveaway-unsold-food-tocharity 14. “Stop food waste in Europe#StopFoodWaste”; www.change.org/p/ frans-timmermans-stopfood-waste-in-europestopfoodwaste 15. “Gaspillage: l’obligation des dons des invendus alimentaires soumise au parlement européen”, Le Figaro, 8 luglio 2015; www.lefigaro.fr/ conso/2015/07/07/0500720150707ARTFIG00005gaspillage-l-obligationdes-dons-des-invendusalimentaires-soumise-auparlement-europeen.php 16. Économie circulaire: un changement systémique face à la rareté des ressources, Parlement Européen Actualité, 9 luglio 2015; tinyurl.com/q9666vd 17. “Man who forced French supermarkets to donate food wants to take law global”, The Guardian, 25 maggio 2015; www.theguardian. com/world/2015/may/25/ french-supermarketsdonate-food-wasteglobal-law-campaign

18. “La loi sur le gaspillage alimentaire, une fausse bonne idée?”, Libération, 22 maggio 2015; tinyurl.com/mh9d5ue. “Les députés votent l’interdiction de jeter les invendus alimentaires”, Le Figaro, 22 maggio 2015; tinyurl.com/m93ccrp

Don’t waste bread!, Clarke & Sherwell Ltd - Ministry of Food, 1914–1919

Qualora per il supermercato sia impossibile evitare gli sprechi, gli altri emendamenti obbligano a donare le merci in eccesso ad associazioni di beneficienza e altre organizzazioni riconosciute. Nel caso in cui questa soluzione non sia applicabile, il cibo in eccesso deve essere destinato all’alimentazione animale o al compostaggio per l’agricoltura e il giardinaggio, e, come ultima ratio, destinato alla produzione di energia. A partire da luglio 2016, i supermercati con superficie superiore ai 400 metri quadrati sono obbligati a sottoscrivere convenzioni specifiche con le organizzazioni di beneficienza, pena due anni di reclusione o multe fino a 75.000 euro.13 Dopo aver ottenuto questo unanime consenso in Francia, Derambarsh punta a far adottare regole simili a livello di Unione europea, e poi a livello globale. Agisce con un metodo simile a quello utilizzato nel suo paese e con il quale ha ottenuto tanto successo. Una petizione online, diffusa tramite change.org in sei diverse lingue (incluso il fiammingo), è già stata firmata da oltre 550.000 cittadini europei.14 L’obiettivo è quello di raggiungere un milione di firme. Qualcosa si muove: il 9 luglio 2015 la Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare15 del Parlamento europeo ha adottato un emendamento al pacchetto di leggi sull’economia circolare, con 45 voti a favore e 19 contrari; l’emendamento è quindi stato approvato dalla sessione plenaria del Parlamento con 394 voti a favore, 197 contrari e 82 astenuti (il testo finale non è ancora disponibile al momento della stesura di questo articolo).16

evidenziate tanto dai distributori quanto dalle organizzazioni di beneficienza.18 Una delle difficoltà più importanti è come conservare la qualità dei cibi donati. In che modo e con quali costi, per esempio, i supermercati dovranno conservare il cibo da donare? E soprattutto, come riusciranno gli enti destinatari dei cibi a immagazzinarli e poi distribuirli? L’organizzazione delle necessarie infrastrutture logistiche, ovvero dei sistemi di trasporto e refrigerazione, ha costi molto elevati. In che modo verranno coperti? Una delle possibili e più promettenti soluzioni è il principio della responsabilità condivisa o estesa del produttore (Epr). La rivista Materia Rinnovabile continuerà a documentare il dibattito in corso sulla possibile applicazione dell’Epr per contrastare lo spreco alimentare e sulle promettenti innovazioni su cui si basa la bioeconomia.

Lick the platter clean. Don’t waste food, World War II Posters, 1942 - 1945, National Archives at College Park

alla scadenza, una pratica comune dettata da priorità in termini di gestione dei rischi sanitari, che fa però indignare Derambarsh, attivista locale da sempre impegnato per una migliore distribuzione del cibo.

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Focus Spreco di Antonio Cianciullo

FERMARE lo spreco di cibo Fermare lo spreco di cibo. È questo il tema che tiene assieme i vari appelli e le varie Carte scritti in occasione di Expo 2015. Impossibile non essere solidali con questa richiesta. Ma fermarsi alla denuncia morale serve a poco. Occorrerebbe mettere a fuoco con maggiore chiarezza i meccanismi che causano questo sperpero di risorse; gli stili di consumo che obbligano a scartare grandi quantità di alimenti ottimi dal punto di vista nutrizionale ma imperfetti sotto il profilo estetico; i sistemi economici che spingono ad abusare della chimica di sintesi provocando danni ambientali e sanitari rilevanti. Occorrerebbe proporre un’alternativa basata sul ritorno al principio della circolarità della materia applicato dalla natura. Ma di tutto ciò nei dibattiti a Expo e su Expo si è parlato poco. I documenti principali che richiamiamo qui contengono comunque elementi che vanno in questa direzione. Abbiamo ritenuto opportuno evidenziarli.

Manifesto della Green Economy per l’agroalimentare in occasione di Expo 2015 Promosso da •• Consiglio Nazionale della Green Economy

Documento disponibile online tinyurl.com/oprggmv

“Diffondere eco innovazione e buone pratiche”

La green economy punta sul risparmio, sull’uso efficiente e razionale delle risorse, secondo un modello di economia circolare. Questo modello è valido anche per le produzioni rinnovabili, come quelle agroalimentari, che non sono disponibili in quantità illimitate né senza oneri ambientali ed economici. Pur tenendo conto dei notevoli progressi compiuti dalla produttività e dalle produzioni agricole, in un mondo come il nostro – popolato da miliardi di persone che continuano ad aumentare e con consumi alimentari in continua crescita – visti anche i fattori di pressione e i rischi ai quali è esposta l’agricoltura, sarebbe irresponsabile non fermare lo spreco di alimenti e di risorse agricole. Paradossalmente, mentre una parte della popolazione mondiale continua a soffrire la fame o a essere denutrita, un’altra parte rilevante della popolazione mondiale è colpita

dall’obesità e butta una quantità elevata di alimenti nei rifiuti. Per contrastare gli sprechi serve una corretta informazione e una migliore educazione alimentare; sono necessari stili di vita e consumi alimentari più consapevoli e sobri. È, inoltre, necessario applicare alle filiere agroalimentari un sistema di economia circolare, puntando a minimizzare i rifiuti, a prevenire attivamente scarti e perdite in tutte le fasi: della produzione e della trasformazione, dell’imballaggio e della conservazione, del trasporto e della distribuzione fino al consumo. Occorre, in particolare, diffondere le buone pratiche e le migliori tecniche disponibili per utilizzare, in modo corretto e sostenibile, tutti i sottoprodotti derivati dalle produzioni agroalimentari e per riciclare e recuperare tutti i rifiuti rimanenti. […] I fattori di pressione sul territorio sono aggravati da modelli agroindustriali, ancora diffusi nel mondo, che inseguono logiche di un mercato a breve termine e a basso costo, che perseguono produzioni a bassa qualità, che fanno largo uso di sostanze nocive, che sfruttano in modo insostenibile terreni e acque e sono incapaci di riconoscere il giusto valore del capitale naturale e dei servizi ecosistemici. Questi modelli, già ampiamente messi in discussione nel mondo agricolo, possono essere definitivamente superati promuovendo una green economy agroalimentare basata su produzioni sostenibili di qualità – veri e propri motori di sviluppo


Policy delle economie e delle culture locali – nonché valorizzando, anche con una adeguata comunicazione, i loro effetti positivi ambientali, per l’occupazione e un miglior benessere. Occorre puntare su territori ben coltivati con buone pratiche agricole – senza l’impiego in campo aperto di organismi geneticamente modificati (ogm) – supportate da buoni livelli

di formazione e di conoscenza e da un maggiore contributo della ricerca e della ecoinnovazione: quelle biologiche, quelle delle filiere ecosostenibili di qualità, quelle che valorizzano la biodiversità, recuperano e mantengono varietà – vegetali e animali – tipicità locali, patrimoni di paesaggi e di culture rurali. […]

Carta di Milano Promossa da •• Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali •• Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale •• Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare •• Ministero della Salute •• Onu – Organizzazione delle Nazioni Unite •• Fao – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura •• Presidente Steering Committee dei Commissari dei Paesi Partecipanti

Documento disponibile online tinyurl.com/pxf53hx

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a Expo Milano 2015 Padiglione Italia Laboratorio Expo- Fondazione Giangiacomo Feltrinelli We – Women for Expo Feeding Knowledge Osservatorio sullo spreco alimentare – Università di Bologna Fondazione Triulza Barilla Center for Food and Nutrition Comitato Scientifico delle Università per EXPO 2015 – Comune di Milano

“Gestire le risorse in modo equo” […] Noi crediamo che: •• tutti abbiano il diritto di accedere a una quantità sufficiente di cibo sicuro, sano e nutriente, che soddisfi le necessità alimentari personali lungo tutto l’arco della v ita e permetta una vita attiva; •• il cibo abbia un forte valore sociale e culturale, e non debba mai essere usato come strumento di pressione politica ed economica; •• le risorse del pianeta vadano gestite in modo equo, razionale ed efficiente affinché non siano sfruttate in modo eccessivo e non avvantaggino alcuni a svantaggio di altri; •• l’accesso a fonti di energia pulita sia un diritto di tutti, delle generazioni presenti e future; •• gli investimenti nelle risorse naturali, a partire dal suolo, debbano essere regolati, per garantire e preservare alle popolazioni locali l’accesso a tali risorse e a un loro uso sostenibile; •• una corretta gestione delle risorse idriche, ovvero una gestione che tenga conto del rapporto tra acqua, cibo ed energia, sia

fondamentale per garantire il diritto al cibo a tutti; •• l’attività agricola sia fondamentale non solo per la produzione di beni alimentari ma anche per il suo contributo a disegnare il paesaggio, proteggere l’ambiente e il territorio e conservare la biodiversità. Noi riteniamo inaccettabile che: •• ci siano ingiustificabili diseguaglianze nelle possibilità, nelle capacità e nelle opportunità tra individui e popoli; •• non sia ancora universalmente riconosciuto il ruolo fondamentale delle donne, in particolare nella produzione agricola e nella nutrizione; •• circa 800 milioni di persone soffrano di fame cronica, più di due miliardi di persone siano malnutrite o comunque soffrano di carenze di vitamine e minerali; quasi due miliardi di persone siano in sovrappeso o soffrano di obesità; 160 milioni di bambini soffrano di malnutrizione e crescita ritardata; •• ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo prodotto per il consumo umano siano sprecati o si perdano nella filiera alimentare; •• più di 5 milioni di ettari di foresta scompaiano ogni anno con un grave danno alla biodiversità, alle popolazioni locali e sul clima; •• le risorse del mare siano sfruttate in modo eccessivo: più del 30% del pescato soggetto al commercio è sfruttato oltre la sua capacità di rigenerazione; •• le risorse naturali, inclusa la terra, possano essere utilizzate in contrasto con i fabbisogni e le aspettative delle popolazioni locali; •• sussista ancora la povertà energetica, ossia l’accesso mancato o limitato a servizi energetici e strumenti di cottura efficienti, non troppo costosi, non inquinanti e non dannosi per la salute.

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La Carta di Bologna contro gli sprechi alimentari Promossa da •• Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare •• Dipartimento di Scienza e tecnologie agroalimentari dell’Università di Bologna •• Segreteria tecnico-scientifica del Piano nazionale di prevenzione degli sprechi alimentari

Documento disponibile online tinyurl.com/ommupjj

“Introdurre target misurabili” […] Considerato che: •• approssimativamente un terzo di tutto il cibo prodotto per il consumo umano a livello globale, pari a circa 1,3 miliardi di tonnellate all’anno, viene perso o sprecato lungo la filiera; •• al contempo, più di 800 milioni di persone nel mondo sono ancora cronicamente denutriti e circa un miliardo di persone non ha adeguato accesso all’acqua potabile; […] •• secondo le stime della Fao, i costi ambientali associati alle perdite e agli sprechi alimentari su scala globale corrispondono, ogni anno, a circa 250.000 miliardi di litri d’acqua, 1,4 miliardi di ettari di terra e sono responsabili per l’emissione in atmosfera di circa 3,3 miliardi di tonnellate di CO2eq; •• il costo economico dello spreco alimentare è imponente ed equivale a circa 1.000 miliardi di dollari/anno. Se si considerano i costi “nascosti”, tuttavia, il valore stimato è di gran lunga superiore; •• si prevede che la domanda di prodotti alimentari aumenterà del 60% nei prossimi 40 anni, trainata dall’aumento della popolazione mondiale, che si stima raggiungerà i 9 miliardi di persone nel 2050, e dalla progressiva modifica delle abitudini alimentari verso diete a maggior consumo di carne e prodotti di derivazione animale. Si prevede, inoltre, un’ulteriore pressione sui sistemi agricoli (incluse silvicoltura e pesca) dovuto al progressivo incremento della domanda globale di legname, bio-carburanti, biocombustibili e di prodotti per l’alimentazione animale; •• al contempo, le risorse essenziali per la produzione agricola sono minacciate dal progressivo peggioramento della qualità dell’ambiente, dai cambiamenti climatici,

dalla perdita di biodiversità e dei relativi servizi ecosistemici e, in certe aree, dall’urbanizzazione e dall’industrializzazione. Preso atto che: •• sprechi e perdite alimentari sono responsabili, se pur indirettamente, dell’aumento della competizione internazionale per l’accesso ad acqua, energia, suolo agricolo e cibo, portando di conseguenza a un aumento delle tensioni e dei conflitti per l’accesso alle risorse naturali; •• alla luce delle previsioni di crescita della popolazione mondiale, il contrasto agli sprechi alimentari ha un ruolo cruciale sia per la riduzione dell’impronta ambientale della produzione agricola, sia nell’assicurare un’adeguata disponibilità di cibo per tutti garantendo, al contempo, il rispetto dei limiti ecosistemici; •• la riduzione degli sprechi e delle perdite alimentari è una sfida globale. È necessario un coordinamento internazionale al fine di unire gli sforzi e affrontare il problema attraverso l’adozione di adeguate misure. Noi, i Governi, ci impegniamo a: 1) includere il problema degli sprechi e delle perdite alimentari all’interno dell’agenda internazionale in materia di protezione dell’ambiente e sostenibilità; 2) adottare una definizione chiara, comune e ufficiale di “sprechi e perdite alimentari” e una metrica comune per la loro qualificazione e quantificazione, con riferimento ai risultati prodotti dai principali progetti europei e internazionali condotti sul tema; 3) avviare un processo partecipato allo scopo di identificare le principali cause degli sprechi e delle perdite alimentari lungo la filiera, le possibili soluzioni e i possibili ambiti di intervento. Tale processo richiede l’identificazione degli attori direttamente coinvolti nell’attuazione delle misure (sia a livello individuale che collettivo) e la valutazione dei costi e dei potenziali benefici ad esse associati. Tale processo richiede inoltre l’identificazione delle principali problematiche, inclusi i vincoli sistemici, e delle modalità/ strumenti per la loro risoluzione (infrastrutture, tecnologie, cambiamenti organizzativi nelle filiere/ sistemi alimentari, capacity building, politiche e cambiamenti istituzionali); […] 6) introdurre target misurabili di riduzione degli sprechi e delle perdite alimentari lungo i diversi anelli della filiera. […]


Policy

Terra Viva Promosso da •• Navdanya International

Documento disponibile online tinyurl.com/lsh22ua

“L’agricoltura biologica può salvare il clima”

La nuova agricoltura di cui il mondo ha bisogno, integra diversi elementi dell’agricoltura contadina e delle pratiche colturali arcaiche, con la più recente conoscenza prodotta dalle scienze ecologiche. L’agroecologia e l’agricoltura rigenerativa stanno oggi emergendo in tutto il mondo come alternative all’agricoltura industriale. Esse differiscono radicalmente dal modello agroindustriale dominante, basato su combustibili fossili e sostanze chimiche, che è di tipo estrattivo in due sensi: perché si basa sul petrolio e perché deruba dal suolo la sua fertilità. La nuova agricoltura è fortemente radicata in suoli sani e vivi. La fertilità del suolo è oggetto di cure attente, e fornisce un considerevole contributo alla riduzione della dipendenza dai combustibili fossili. È inoltre un’agricoltura ecologicamente intensiva e produttiva. L’intensità della produzione non si costruisce sulla base di un elevato uso di input esterni ma è invece radicata nella diversità, nelle molteplicità delle colture, nella rotazione, nella pacciamatura e in cicli agronomici ben coordinati che combinano suoli, colture e animali in un complesso equilibrio. […] La nuova agricoltura è fondamentalmente autosufficiente. Le risorse principali richieste per la produzione sono prodotte e riprodotte all’interno della famiglia agricola stessa o nell’ambito della comunità rurale. Questo vale soprattutto per l’energia. Anziché importare energia dalla rete, la nuova agricoltura produce energia. E contribuisce anche a raffreddare il pianeta. Anziché contribuire all’emissione

di gas serra (come detto il 25% di tutti i gas serra del globo provengono dall’agricoltura industriale), contribuisce a sequestrare il carbonio. Arricchire i suoli e rafforzare la biologia del suolo aiuta a fissare l’anidride carbonica e contemporaneamente riduce la necessità di fertilizzanti chimici. […] Ricerche realizzate in tutto il mondo hanno dimostrato che le coltivazioni biologiche accrescono il contenuto di carbonio nel suolo, rendendolo il più grande bacino di smaltimento del carbonio e il più grande serbatoio d’acqua. Con la capacità di assorbire in media 2 tonnellate di anidride carbonica per ettaro ogni anno, l’agricoltura biologica possiede il potenziale per sequestrare 10 giga tonnellate di anidride carbonica, il che equivale alla quantità che è necessario rimuovere dall’atmosfera per tenere il carbonio al di sotto di 350 parti per milione, e l’aumento della temperatura media entro i 2 gradi centigradi. […] Al livello globale la nuova agricoltura, basata sull’intensificazione del riciclaggio locale delle sostanze nutritive attraverso l’integrazione fra colture e allevamenti, mette fine ad alcuni dei principali squilibri che caratterizzano attualmente l’agricoltura mondiale. Un esempio in tal senso è l’estesa estrazione di sostanze nutritive dal suolo necessaria alla produzione di soia in Argentina o nel Cerrado in Brasile, che viene poi esportata in Europa come mangime per allevamenti intensivi che determinano una sovrapproduzione di stallatico, il quale finisce per inquinare terra, acqua e aria. Un altro imponente squilibrio consiste nell’uso di fertili terreni coltivabili per la produzione di cereali per mangimi animali (rinchiusi in enormi aree di ingrasso), mentre allo stesso tempo ampie zone a pascolo in collina e in montagna rimangono inutilizzate. Inoltre, il 70% dei poveri di questo mondo è costituito da popolazioni rurali che, in un modo o nell’altro, sono legate alle attività agricole. In netto contrasto con questa massiccia povertà rurale stanno le enormi ricchezze finanziarie accumulate nei grandi imperi alimentari. Infine, un ulteriore squilibrio sta nella distribuzione decisamente diseguale della produzione di cibo fra paesi e regioni diverse. […]

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Focus Spreco

Foto di Evan Amos

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di Fabio De Menna e Matteo Vittuari

Fabio De Menna ha un dottorato di ricerca in Diversity Management and Governance presso l’Università di Bologna. È assegnista di ricerca presso il Dipartimento di scienze e tecnologie agroalimentari dell’Università di Bologna, dove si occupa di analisi del ciclo di vita (LCA) dei sistemi agroalimentari e di bioenergie. Matteo Vittuari ha un dottorato in Cooperazione internazionale e politiche per lo sviluppo sostenibile presso l’Università di Bologna. È ricercatore presso il Dipartimento di scienze e tecnologie agroalimentari dell’Università di Bologna, dove si occupa di sostenibilità delle politiche agricole e rurali, bioenergie e spreco alimentare.

La trappola dell’insostenibilità Oggi il sistema agroalimentare si è trasformato in un modello tecnologico estrattivo di proporzioni gigantesche. È anche poco efficiente, e scarti e sprechi rappresentano un serio problema ambientale che ha gravi ricadute economiche e sociali. Nella fase agricola vengono generati 13 milioni di tonnellate di scarti, a cui vanno sommati scarti e sprechi generati dall’industria alimentare, 3,7 milioni di tonnellate provenienti dalle lavorazioni vegetali e 9,9 milioni di tonnellate dalle produzioni animali. Occorre ripensare i sistemi produttivi mettendo in discussione come, quanto e da cosa produrre. Secondo la Ellen MacArthur Foundation, un sistema economico può definirsi circolare quando è in grado di rigenerare da solo i propri stock di capitale umano, tecnologico, sociale e naturale. Alla base di questa capacità rigenerativa vi è la distinzione basilare fra flussi di materiale biologico,

che possono essere reintegrati nella biosfera, e flussi di materiale tecnico, che invece devono essere programmati, sin dall’estrazione di risorse, in maniera da ottimizzarne riuso, riparazione, restaurazione e riciclo. Il passaggio dal modello lineare a quello circolare dovrebbe garantire importanti ricadute economiche


Policy in vari settori, come la progettazione di prodotti e servizi, i risparmi in termini di gestione dei rifiuti, la nuova imprenditorialità derivante dal loro riutilizzo a cascata. Solo in Europa, sono previsti risparmi in termini di rifiuti per un valore di 600 miliardi di euro, mentre l’introduzione di misure per aumentare la produttività delle risorse potrebbe portare a un incremento dell’1% del Pil e alla creazione di 2 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2030. Nella transizione verso l’economia circolare, i sistemi agroalimentari, considerata la natura biologica dei prodotti agricoli e la loro posizione di interfaccia fra biosfera e tecnosfera, potrebbero rivestire un ruolo chiave. Nel corso della storia, industrializzazione dell’agricoltura e globalizzazione hanno portato a un crescente utilizzo di risorse minerarie di origine fossile, rendendo la produzione di cibo sempre meno sostenibile. Gli esempi sono innumerevoli: la

Figura 1 | Scarti del settore agroalimentare italiano (milioni di tonnellate), 2011

Agricoltura

Colture vegetali

2,2

Colture arboree

13

Trasformazione

9,9

Produzioni vegetali

3,7

Produzioni animali

Fonte: elaborazione autori su dati Sodano e Garuti 2014; Gruppo 2013, 2009; ENEA 2011. Tutti i dati sono riferiti al 2011 fatta eccezione per i dati sulle colture arboree (stime generiche).

fertilizzazione chimica e le emissioni derivanti, il consumo di acqua e l’abbassamento delle falde acquifere, la perdita di suolo e biodiversità ecc. In un sistema economico basato su un modello di crescita lineare e sullo sfruttamento crescente dell’ecosistema, il sistema agroalimentare ha perso la sua capacità di mimesi dei sistemi ecologici per trasformarsi in un modello tecnologico estrattivo di proporzioni gigantesche e, soprattutto, largamente inefficiente. La produzione, la gestione e, soprattutto, lo spreco di alimenti, scarti, sottoprodotti e rifiuti rappresentano ormai da tempo un serio problema ambientale, con gravi ricadute economiche e sociali. L’economia circolare rappresenta l’opportunità di investire su prevenzione e riutilizzo ottenendo più prodotti e servizi, anche diversi dal cibo, a parità di risorse estratte. Produzione agricola e trasformazione: le opportunità di riutilizzo e valorizzazione degli scarti Già i primi due segmenti del settore agroalimentare, agricoltura e trasformazione, sono caratterizzati da rilevanti percentuali di scarto e spreco. Per quanto riguarda la fase agricola, secondo stime recenti del Crpa (Centro ricerche produzioni animali) riferite all’anno 2011 (Sodano e Garuti, 2014), in Italia la disponibilità di scarti vegetali ammonterebbe a più di 13 milioni di tonnellate di sostanza secca, di cui almeno 6 disponibili per la valorizzazione. La disponibilità annua di residui da colture arboree sarebbe invece stimabile in circa 900.000 tonnellate di residui da fruttiferi, 600.000 tonnellate di sarmenti (tralci della vite, ndC) e 700.000 tonnellate dall’olivicoltura (Bonari et al., 2009; Enea, 2011) (vedi figura 1). La raccolta e la gestione di questi scarti rappresentano una voce di costo rilevante nei bilanci delle aziende agricole, con un rapporto fra costi e benefici spesso negativo. Pertanto, nonostante una quota rilevante di scarti sia già impiegata nella produzione di bioenergia e mangime, questi sono nel migliore dei casi rinterrati per apportare sostanza organica al terreno, oppure lasciati al suolo e combusti. Mentre, all’interno di un sistema economico circolare l’estrazione di sostanze ed energia da questi materiali potrebbe generare vantaggi economici anche per i produttori agricoli attraverso la creazione di valore aggiunto nelle filiere secondarie. Oltre a questi scarti, una quota altrettanto rilevante di produzione primaria rimane in campo per motivi economici o per il rispetto di standard estetico-commerciali (criteri riguardanti forma, dimensione, colore del prodotto). Uno spreco che equivale al 3% della produzione complessiva, sebbene sia in calo: da 1,7 milioni di tonnellate nel 2009 a circa 1,5 milioni di tonnellate nel 2011. Le problematiche e la quantità di prodotto lasciate in campo presentano differenze significative tra

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materiarinnovabile 05. 2015 Definire per intervenire Spreco alimentare Definizione Fao (Fao, 2013): la Fao identifica lo spreco alimentare come ogni sostanza edibile che, invece di essere destinata al consumo umano, viene smaltita, persa, degradata o consumata dai parassiti in ogni fase della filiera agroalimentare. Nel 2011, in uno studio commissionato allo Swedish Institute for Food and Biotechnology (Sik) (Fao, 2011), viene proposta una distinzione tra perdite e sprechi alimentari. Le perdite alimentari si verificano nelle fasi a monte della filiera agroalimentare (produzione agricola, raccolta, trasformazione), gli sprechi alimentari si verificano invece nelle fasi a valle (distribuzione, vendita al dettaglio e consumo). Definizione Progetto FP7 Fusions (Östergren K. et al., 2014): può essere considerato “food waste” ogni alimento, e parte inedibile di alimento, che è stata rimossa dalla filiera agro-alimentare per essere recuperata o eliminata (includendo quanto viene indirizzato al compostaggio, prodotti sotterrati o non raccolti, utilizzati per la digestione anaerobica, la produzione di bioenergia, la cogenerazione, l’incenerimento, lo smaltimento nelle fognature, nelle discariche e nel mare). Sottoprodotto La normativa italiana, accanto alla definizione di rifiuto, individua anche le condizioni in base alle quali una sostanza o un oggetto non sono

All’interno di un sistema economico circolare l’estrazione di sostanze ed energia da questi materiali potrebbe generare vantaggi economici anche per i produttori agricoli attraverso la creazione di valore aggiunto nelle filiere secondarie.

da considerarsi tali, introducendo il concetto di sottoprodotto, che viene così descritto all’art 183 bis del Dlgs 152/2006: “È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), la sostanza o l’oggetto, che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanze o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”. Rifiuto La normativa italiana, all’art. 183 del Dlgs 152/2006 e ss.mm.ii., definisce rifiuto, riprendendo quanto indicato nella direttiva comunitaria 98/2008/CE, qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.

le varie colture, con percentuali più elevate nel caso di ortaggi in serra (12,53%), legumi e patate (5,21%) e olive (4,85%) (Segrè, Falasconi 2011). In tutti i casi, la dimensione di questi sprechi diventa ancora più evidente se si considerano anche tutte le risorse che sono state impiegate nei processi produttivi. Limitando l’analisi all’aspetto energetico, è possibile stimare la perdita di energia derivante dallo spreco nella fase agricola in circa 98 Ktep (0,098 Mtep), un dato equivalente ai consumi annuali di energia termica di 400.000 appartamenti da 100 metri quadrati ad alta efficienza energetica (Segrè, Vittuari 2012). Anche in questo caso, un’economia rimodulata in maniera circolare porterebbe a limitare – in modo strutturale – la perdita di flussi biologici (cibo) e tecnologici (risorse) connessi allo spreco di cibo. Prevenzione e recupero a fini alimentari rappresenterebbero dunque la migliore forma di conservazione del valore del cibo prodotto. Si continua a sprecare anche nell’industria alimentare Ma scarti e sprechi sono generati anche dall’industria alimentare. A livello nazionale gli scarti sono pari a circa 3,7 milioni di tonnellate

provenienti dalle lavorazioni vegetali e a 9,9 milioni di tonnellate dalle produzioni animali (Sodano, Garuti, 2014). Se, da un lato, i processi industriali permettono di conservare più a lungo (attraverso surgelamento o inscatolamento), dall’altro producono inevitabili rifiuti e sottoprodotti, in genere proporzionali al numero di processi e ai servizi inclusi nel prodotto finito (per esempio patate fritte e surgelate) (Segrè, Vittuari 2012). Anche in questo segmento ci sono grandi differenzi fra le diverse categorie di prodotto lavorato. Secondo un’indagine condotta da Crpa in Emilia Romagna (Rossi, Piccinini 2007), le percentuali di scarto di materia prima variano tra il 2% (frutta e ortaggi per consumo fresco) e il 10% (ortaggi surgelati) nella sola fase di preparazione, e tra il 2,5-3,7% (pomodori) e il 65-68% (mais dolce) nella fase di trasformazione. Nelle produzioni animali, il settore dei bovini è quello caratterizzato da sprechi più elevati, raggiungendo il 33-35% del peso vivo. Sono già molte le aziende che hanno adottato sistemi e tecnologie finalizzate al recupero degli scarti. Buccette di pomodoro, scarti dell’industria dolciaria, del pane e di lavorazione della patata, sono tutti ottimamente impiegabili, e impiegati, sia nel settore della mangimistica sia nella produzione


Policy Bibliografia •• Bonari E., R. Jodice. S. Masini (a cura di), L’Impresa agroenergetica – Ruolo e prospettive nello scenario “2 volte 20 per il 2020”, Quaderni, Edizioni Tellus 2009. •• Campiotti C., C. Viola, M. Scoccianti, G. Giagancovo, G. Lucerti (Enea, Unità tecnica efficienza energetica, servizio agricoltura, Centro ricerche Casaccia,

Roma); Alonzo G. (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali), Le filiere del sistema agricolo per energia ed efficienza energetica, 2011. •• FAO, Global food losses and food waste – Extent, causes and prevention, Rome, 2011. •• Östergren K., J. Gustavsson, H. Bos-Brouwers, T.

di biogas. Tuttavia, in un sistema a cascata, esistono utilizzi alternativi che permetterebbero di aumentare ulteriormente l’efficienza e di generare maggiore valore aggiunto ricavando molecole base per i settori farmaceutico, alimentare, chimico. Per esempio, dalle bucce di patata e dai residui di amido è possibile produrre bioplastica per poi ricavare biogas dai successivi scarti. Allo stesso modo, dal residuo della torrefazione del caffè è possibile ricavare una pellicola argentea (silver skin) che – se opportunamente lavorata – può costituire fonte di preziosi elementi nutritivi, oltre che di cellulosa ed energia. Oltre ai sottoprodotti, la trasformazione è comunque caratterizzata da consistenti quantità di sprechi alimentari. Queste perdite ammontano a circa 1,8 milioni di tonnellate, con una rilevanza maggiore per l’industria delle bevande, quella lattiero-casearia e quella della lavorazione e conservazione di frutta e ortaggi (Segrè, Falasconi 2011). Complessivamente questo spreco corrisponde al 2,6% del prodotto finale e comporta dunque una perdita di energia stimabile in 80 Ktep (0,08 Mtep), equivalenti ai consumi annuali di energia termica di 330.000 appartamenti da 100 metri quadrati ad alta efficienza energetica (Segrè, Vittuari 2012). Come nel caso dell’agricoltura, dunque, la prevenzione delle perdite alimentari

Timmermans, O. Hansen, H. Møller, G. Anderson, C. O’Connor, H. Soethoudt, T. Quested, S. Easteal, A. Politano, C. Bellettato, M. Canali, L. Falasconi, S. Gaiani, M. Vittuari, F. Schneider, G. Moates, K. Waldron, B. Redlingshöfer, FUSIONS – Definitional Framework for Food Waste, 2014 •• Rossi L., S. Piccinini,

“Sottoprodotti agroindustriali, un potenziale da sfruttare”, L’Informatore Agrario, 34/2007, pp. 67-70, 2007. •• Segrè A., L. Falasconi, Libro nero dello spreco in Italia: il cibo, Edizioni Ambiente, Milano 2011. •• Segrè A., M. Vittuari, Libro verde dello spreco in Italia: l’energia, Edizioni Ambiente, Milano 2012. •• Sodano M., M. Garuti

M., “Il valore dei sottoprodotti agricoli e agroindustriali”, Agricoltura – Mensile della regione Emilia Romagna, 12, dicembre 2014. •• Ellen MacArthur Foundation: ellenmacarthur foundation.org •• EU Circular economy: ec.europa.eu/ environment/circulareconomy/index_en.htm

a livello di trasformazione costituirebbe una strategia efficace per limitare anche le inefficienze in termini di consumo di risorse tecnologiche. Come passare a sistemi produttivi circolari e più efficienti Il superamento dei limiti dello sviluppo lineare a vantaggio di un sistema circolare che non sprechi risorse naturali costituisce, dunque, una grande opportunità per ripensare la dicotomia crescitasviluppo. Passare a un’economia circolare significa ripensare i sistemi produttivi nella loro interezza mettendo in discussione come, quanto e da cosa produrre. Il passaggio a sistemi produttivi circolari, e quindi più efficienti, dovrebbe, infatti, permettere di produrre meglio e meno perché a parità di risorse utilizzate si otterrebbe una maggiore quantità di prodotti e servizi. Prevenzione, recupero e riuso degli scarti alimentari, per esempio in bioraffinerie integrate nel territorio e dedicate alla produzione di energie, bioplastiche, e sostanze chimiche o nutritive da fonti rinnovabili, rappresentano tappe fondamentali verso processi produttivi che guardino alle opportunità di “seconda vita” prima di pensare al fine vita e allo smaltimento dei materiali (risorse) utilizzati.

Un’economia rimodulata in maniera circolare porterebbe a limitare – in modo strutturale – la perdita di flussi biologici (cibo) e tecnologici (risorse) connessi allo spreco di cibo. Prevenzione e recupero a fini alimentari rappresenterebbero dunque la migliore forma di conservazione del valore del cibo prodotto.

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Focus Spreco

BIOMASSE:

il segreto è nell’equilibrio di Aldo Femia

Gran parte della biomassa residua – proveniente da attività agricole e forestali, dalla zootecnia e dai rifiuti organici – non viene restituita al suolo, ma viene sprecata finendo nelle discariche. Con conseguente impoverimento del terreno in termini di nutrienti. Per richiudere il ciclo e ridurre gli sprechi è fondamentale il ruolo del compostaggio e del recupero energetico attraverso la digestione anaerobica.

Aldo Femia è primo ricercatore presso l’Istituto nazionale di statistica (Istat). Esperto di contabilità satellite, e in particolare di conti ambientali in termini fisici, in passato ha lavorato presso il Wuppertal Insitut Für Klima Umwelt Energie e presso l’Ocse.

Un’economia circolare ideale è un’economia che oltre a far circolare il più possibile i materiali al proprio interno prima di restituirli alla natura, quando li restituisce lo fa in maniera da ripristinare gli stock naturali esattamente lì dove li ha intaccati. Creando così una condizione di equilibrio tra input e output materiali della natura nel quale il riprodursi delle condizioni iniziali garantisce – in teoria all’infinito – la riproducibilità del processo economico. La condizione essenziale di rinnovabilità dei cicli delle biomasse è il mantenimento dell’equilibrio negli stock di nutrienti e nella composizione del suolo fertile soprattutto per quel che riguarda la componente organica. Il suolo fornisce infatti azoto, fosforo, potassio e altro alle piante, che si procurano invece dall’acqua e dall’atmosfera gli altri elementi di cui hanno bisogno (carbonio, idrogeno, ossigeno).


Policy

localmente con apporti minerali e sintetici (anzi, sovracompensati, con conseguenze negative per la qualità delle acque). Ma così il costo fisico di quello che è un vero e proprio spreco di nutrienti è soltanto spostato altrove, a causa della materia e dell’energia necessarie per la produzione di fertilizzanti di sintesi, e dei composti chimici che finiscono nell’atmosfera.

©Gesina Roters, francobolli delle poste olandesi sul tema del riciclo e del risparmio energetico, 2011

Certo, non c’è alcuna garanzia che il sistema di utilizzo umano mantenga l’equilibrio dei flussi e la giusta composizione degli stock, ma senza dubbio fino a quando parte delle biomasse coltivate finiscono in discarica, le sostanze in esse contenute non sono restituite ai suoli dai quali sono prelevate. Questi ammanchi possono essere – e in effetti sono – compensati

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materiarinnovabile 05. 2015 È dunque in una logica di sistema complessivo che va inserita la progettazione di filiere di utilizzo, delle biomasse in genere e di quelle residue in particolare, che tendano a chiudere i cicli e ridurre gli sprechi, privilegiando la piccola scala e il livello locale per tenere conto dei costi ecologici della raccolta e del trasporto. Le biomasse residue da attività agricole e forestali, dalla zootecnia, i rifiuti organici delle industrie agricole, e della filiera legno-carta e la frazione organica dei rifiuti solidi urbani prodotti da distribuzione e consumo (Forsu) sono al centro dell’attenzione di due filiere che tendono a chiudere i cicli: quella del compostaggio e quella del recupero energetico attraverso la digestione anaerobica. Queste permettono di chiudere il ciclo dei nutrienti e di conservare il suolo fertile, utilizzando il compost e il digestato come ammendanti/fertilizzanti, e al contempo di migliorare il bilancio degli scambi di carbonio con l’atmosfera.

Le filiere [...] del compostaggio e quella del recupero energetico attraverso la digestione anaerobica permettono di chiudere il ciclo dei nutrienti e di conservare il suolo fertile, utilizzando il compost e il digestato come ammendanti/fertilizzanti, e al contempo di migliorare il bilancio degli scambi di carbonio con l’atmosfera.

Qualche numero può aiutare a delineare un quadro complessivo. Sull’entità delle biomasse residue delle attività primarie abbiamo due stime in apparenza molto distanti. Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), in riferimento al 2006, per l’Italia le ha valutate in 18 Mt, considerando però solo le coltivazioni principali ed esprimendo il dato in “sostanza secca”. L’altra è la stima più completa ed espressa in peso “tal quale”, fornita dal Sustainable Europe Research Institute di Vienna: pari a circa 76 Mt (anno 2011). In realtà le differenze metodologiche tra queste due stime possono essere notevolmente ridotte attualizzandole, estendendole a tutte le coltivazioni ed esprimendole entrambe in termini di peso “tal quale”. In tal modo si arriva

ad almeno 60 Mt. La differenza residua è dovuta probabilmente alla inclusione nelle stime del Seri di parti delle piante non considerate nello studio Ispra (per esempio radici, piante legnose a fine vita) e all’utilizzo da parte quest’ultimo di coefficienti specifici per le cultivar italiane. Inoltre lo studio di Ispra – al fine di determinare le potenzialità per il recupero energetico di queste e delle altre biomasse combustibili e residue – evidenzia altre tematiche da considerare: la stagionalità della disponibilità di questi materiali, la distribuzione polverizzata e i conseguenti costi di raccolta e trasporto. Concludendo che “qualunque valutazione di fattibilità tecnico-economica per il loro recupero deve pertanto essere condotta a livello locale”. Infine, precisa Ispra, di questi materiali risultava già utilizzato in vario modo il 43% della sostanza secca e un terzo in peso effettivo; ed è probabile che la quota sia cresciuta nel frattempo. Va segnalato al riguardo che la stima delle quantità e la conoscenza dell’effettiva destinazione dei residui colturali e di potatura potrebbe essere resa, per gli anni più recenti, più semplice e precisa grazie all’introduzione da parte di Istat di alcuni quesiti ad hoc nelle indagini strutturali sul settore agricolo. Per quanto riguarda le deiezioni animali, la stima per il 2013, ricavabile dai dati forniti dal Centro ricerche produzione animale (Crpa) e riportati anche nello studio Ispra è di 117 Mt, tra liquame (68 Mt) e letame (49 Mt). Gran parte del letame è restituita alla terra, ma è in rapida crescita l’utilizzo energetico. Dai 312 impianti di digestione anaerobica per la produzione di biogas censiti da Ispra per l’anno 2007, 147 erano quelli che trattavano liquame e letame, esclusivamente (88) o in combinazione con scarti organici (agro-industriali e Forsu)


Policy Bilancio delle biomasse utilizzate in Italia Prodotti tessili e abbigliamento 1 Mt

Beni agricoli 19 Mt Carta 2 Mt

Legna da ardere 1 Mt

Prodotti della zootecnica e della pesca circa 1 Mt

Bevande e tabacco circa 16 Mt

Generi alimentari trasformati industrialmente 33 Mt

e/o colture dedicate alla produzione di energia, per un assorbimento annuo di circa 3 Mt di materia. Nel giro di 7 anni si è passati a circa 1.300 impianti (inclusi quelli che trattano fanghi di depurazione civile) per una potenza installata di 1.000 MWe, e come ha dichiarato in un’intervista a La Stampa Piero Gattoni, è previsto che “entro il 2030 in Italia dovrebbero contarsi circa 2.300 impianti e la potenza elettrica installata dovrebbe raddoppiare”. In Italia il bilancio delle biomasse utilizzate,

esclusi i residui di coltura non immessi nel mercato, vede gli input ai consumi finali delle famiglie attestarsi in totale intorno ai 73 Mt. Di questi, solo 3 Mt sono recuperati come rifiuti per il compostaggio. Ovviamente, non tutti i 73 Mt potrebbero essere recuperati: circa 16 Mt sono costituiti da bevande e tabacco, 2 Mt da carta, 1 Mt da prodotti tessili e d’abbigliamento e 1 Mt da legna da ardere. Rimangono dunque 53 Mt di beni agricoli (19 Mt), prodotti della zootecnia e della pesca (circa 1 Mt), e generi alimentari trasformati

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materiarinnovabile 05. 2015

Bibliografia •• Commissione Europea – DG Ambiente Unità C1, Food Waste in the EU: a study by the European Commission, Workshop on Municipal Waste Prevention, Barcellona, 24 novembre 2011 •• Waste Watcher – Knowledge for Expo 2015, www.lastminutemarket. it/media_news/wpcontent/uploads/2014/05/ Knowledge-for-Expo-

Rapporto-2014.pdf •• Segrè A., L. Falasconi, Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo, Edizioni Ambiente 2011 •• SDA Bocconi, Analisi della filiera del compostaggio, giugno 2014, www.slideshare. net/MilanoRecycleCity/ analisi-della-filiera-delcompostaggio •• WWF Italia, Quanta natura sprechiamo?

Le pressioni ambientali degli sprechi alimentari in Italia, Roma 2013, awsassets.wwfit. panda.org/downloads/ report_quanta_ natura_sprechiamo_ ottobre_2013.pdf •• Ispra, Rapporto rifiuti 2013 •• Istat, annali di statistica, serie XI vol. 2, Contabilità ambientale e pressioni sull’ambiente naturale: dagli

Quantità di cibo sprecato in Europa all’anno

89 milioni di tonnellate di cibo sprecato

1. Dai più recenti Rapporti sullo spreco domestico di Waste Watcher emergerebbe però che di tale enorme massa la parte dovuta immediatamente alle famiglie non arriva a 1 Mt (639 grammi/settimana/ famiglia, cioè circa 800 Kt in un anno).

È il peso di

8.900

Tour Eiffel

industrialmente (33 Mt). Accettando un grande margine di incertezza, si può dire che queste due ultime voci corrispondano a 27 Mt di sostanza secca. Per quanto riguarda lo spreco di cibo, un’indagine del 2011 del Dipartimento di scienze e tecnologie agroalimentari dell’Università di Bologna lo ha quantificato lungo l’intera filiera agroalimentare in Italia a circa 20 Mt. Nello stesso anno un report della Commissione europea ha stabilito che in Europa la quantità di cibo che viene sprecata

schemi alle realizzazioni, pp. 176-181 •• Istat, Questionario e libretto indagini: legnose agrarie e Spa •• La Stampa, intervista a Piero Gattoni, presidente del Consorzio Italiano Biogas, del 1 febbraio 2015, www. lastampa.it/2015/02/01/ scienza/ambiente/focus/ biogas-litalia-terzoproduttore-al-mondo-

dopo-germania-e-cinaOSjLZIsghgUmMloNF 7mxIN/pagina.html •• Piccinini S., M. Soldano, C. Fabbri, “La produzione di biogas del settore agricolo in Italia”, Agriregionieuropa, anno 7, 24, marzo 2011, agriregionieuropa. univpm.it/content/ article/31/24/laproduzione-di-biogasdel-settore-agricolo-italia

ammonta a 89 milioni di tonnellate l’anno, ovvero 179 chilogrammi pro capite. Per l’Italia ciò vorrebbe dire 10,8 Mt, che è un livello più facilmente riconciliabile con i 7 Mt di scarti indutriali da noi stimati (non tutto spreco), ai quali vanno aggiunti gli sprechi domestici. Più del 40% dello spreco totale alimentare, infatti, si concretizza a livello domestico. Finisce nella pattumiera (dati Adoc – Associazione per la difesa e l’orientamento dei consumatori) “il 35% dei prodotti freschi, il 19% del pane, il 16% di frutta e verdura. Senza considerare gli sprechi di ristoranti, bar e mense”. Per produrre ciò che serve ad alimentare questi sprechi, nel 2012 sono stati immessi inutilmente nell’ambiente circa 143.100 t di azoto reattivo (mentre 85.800 t è l’azoto connesso alle perdite lungo la filiera). Prendendo per buono il 40% come quota del totale degli sprechi della filiera da attribuire al consumo finale domestico, e applicandolo alla stima di 20 Mt di sprechi totali, in Italia avremmo 8 Mt di sprechi domestici, mentre considerando il 40% dei 10,8 Mt, avremmo uno spreco alimentare da parte delle famiglie di 4,3 Mt, 1 pari all’8% dei 53 Mt che arrivano ai consumatori. Anche le biomasse consumate dagli uomini (circa 5 Mt di escrementi espressi in sostanza secca) rappresentano una risorsa valorizzata nella produzione di biogas. Parte di questi, infatti, a seguito della depurazione alimentano digestori per la produzione di biogas (fino al 40% di quelli censiti nel 2007). Quelli forniti qui, così come nei precedenti articoli, sono solo alcuni dei numeri necessari per comporre un quadro quantitativo generale dei cicli di utilizzo delle biomasse. Se ne potrebbero fornire molti altri: per esempio dettagli sulla composizione e destinazione degli scarti delle industrie agroalimentari e della filiera legno-carta, o – per alcune voci – dettagli territoriali. Tuttavia, purtroppo, da essi non emerge ancora quel quadro sufficientemente preciso, completo e coerente che la progettazione di un’economia circolare estesa per le biomasse italiane richiederebbe.


Policy

Focus Spreco

di Marta Antonelli

ACQUA:

una risorsa contesa Entro dieci anni saranno 1,8 miliardi le persone che vivranno in aree con assoluta scarsità d’acqua. La competizione in questo settore sarà ancora più intensa perché non solo saremo di più ma aumenteranno i consumi di cibo e di carne. Quindi di acqua, visto che servono 15.000 litri per ottenere un chilo di carne bovina. E crescerà anche il fabbisogno idrico a fini energetici e per la produzione di biocarburanti. Marta Antonelli è un’economista dello sviluppo e geografa. Attualmente lavora come ricercatrice post-dottorato presso l’Università “Roma Tre” e collabora con la Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition (Bcfn). Le è stato conferito un PhD in Politiche ambientali e Sviluppo dal King’s College di Londra.

“Water, water, everywhere,/And all the boards did shrink;/Water, water, everywhere,/Nor any drop to drink” (“Acqua, acqua, ovunque,/ e tutto il tavolato della nave si rinsecchiva;/ Acqua, acqua, ovunque,/e nemmeno una goccia da bere”). Samuel Taylor Coleridge scrisse queste righe alla fine del 18° secolo, ma ancora oggi suonano drammaticamente vere per molti paesi del mondo. Nonostante il pianeta sia letteralmente coperto di acqua, solo una minuscola porzione (quasi l’1%) è acqua dolce accessibile per l’utilizzo umano. La carenza idrica, che si verifica quando le richieste di tutti i settori (agricoltura, industria, usi domestici) non possono essere soddisfatte a causa di ristrettezze legate alla quantità o alla qualità dell’acqua, attualmente riguarda circa il 40% della popolazione mondiale. E le previsioni per il futuro non sono rassicuranti: entro dieci anni 1,8 miliardi di persone vivranno in aree con assoluta scarsità d’acqua e circa il 60% in regioni con problemi idrici. La scarsità fisica di acqua è particolarmente pesante in Medio Oriente, Africa settentrionale e Asia meridionale, mentre in molti paesi dell’Africa si riscontra la scarsità idrica economica (l’acqua ci sarebbe ma è poco accessibile all’uomo) dovuta a carenze infrastrutturali, barriere istituzionali o finanziarie. Chi sono i competitor Nel corso dell’ultimo secolo, l’uso di acqua è cresciuto a un tasso più che doppio di quello

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materiarinnovabile 05. 2015 dell’incremento demografico. La sfida raggiunge proporzioni ancora maggiori se consideriamo che – da qui al 2050 – si prevede che la popolazione mondiale toccherà i 9,6 miliardi, per poi passare a quasi 11 miliardi nel 2100. Ma soprattutto, grazie allo sviluppo delle economie, le preferenze alimentari della popolazione si stanno spostando verso una maggiore domanda di prodotti di origine animale. Non solo. I cambiamenti climatici stanno già modificando i pattern delle precipitazioni, l’evapotraspirazione e le temperature, come pure la frequenza e la potenza degli eventi climatici estremi. Queste nuove condizioni, dunque, comporteranno enormi sfide specialmente per le società con scarsa diversificazione economica e più carenti dal punto di vista sociale e istituzionale.

1. L’impronta idrica è un indicatore dell’uso di acqua dolce, definito come il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre beni e servizi. L’acqua è misurata in termini di volumi utilizzati (acqua evaporata o incorporata in un prodotto) e/o inquinati per unità di tempo. Viene distinta anche la fonte dell’acqua usata (che sia quella contenuta nel suolo o acqua proveniente dalle falde o dai bacini in superfice).

Per prima cosa è quindi essenziale affrontare le questioni legate all’uso agricolo dell’acqua, visto che oggi la coltivazione rappresenta il settore che ne utilizza la maggiore quantità ed è in competizione con gli altri tipi di impiego, non solo con quello domestico e industriale ma anche con gli ecosistemi acquatici e terrestri. Circa il 70% dell’acqua prelevata dalle falde e dai bacini in superficie è impiegata dal settore agricolo; percentuale che sale al 90% in alcune economie dei paesi in via di sviluppo. E la situazione si aggraverà nei prossimi anni: entro il 2050 si prevede che la quantità di acqua utilizzata in agricoltura aumenterà di circa il 20%. Un incremento inevitabile che si verificherà anche nei paesi che già oggi soffrono di deficit idrico e persino in presenza di miglioramenti della produttività raggiungibili grazie allo sviluppo tecnologico. In questo ambito, infine, un ulteriore elemento con cui fare i conti è quello legato alla degradazione del suolo. La produzione agricola occupa oggi circa l’11% del territorio, il 52% del quale è moderatamente o gravemente degradato. Basti pensare che ogni anno 12 milioni di ettari

di terreno diventano improduttivi a causa della siccità e della desertificazione. Un problema grave che sembra voler essere rimosso, considerato che solo pochi paesi al mondo si sono dotati di una politica nazionale sulla siccità. Lo stretto rapporto tra cibo e acqua L’incremento demografico, insieme al cambiamento di stile di vita e all’urbanizzazione, farà crescere del 50% il fabbisogno di cibo nel 2030, del 70% nel 2050. Nei paesi in via di sviluppo questo incremento sarà del 100% entro metà del secolo. Il consumo di cibo è consumo di acqua a causa della stretta connessione tra produzione di cibo attraverso la fotosintesi nelle piante e dispersione di acqua attraverso la traspirazione delle colture. Circa il 90% dell’acqua utilizzata dalle società è legata al cibo: per questo il cambiamento delle preferenze alimentari gioca un ruolo importante. I prodotti di origine animale hanno, infatti, una forte impronta idrica1 a causa dei grandi volumi di acqua “incorporati” nel mangime: dai 4.000 litri per un chilo di carne di pollo agli oltre 15.000 litri per un chilo di manzo, anche se sono le condizioni locali (paese povero o ricco di acqua e tipologia di acqua utilizzata) e le modalità di produzione (allevamento intensivo o al pascolo) a determinare la dimensione degli impatti sulle risorse idriche. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità il consumo medio annuale di carne raggiungerà i 45 kg pro capite entro il 2030. Con l’aumento della domanda di proteine animali una maggiore quantità di cereali sarà dirottata dal consumo umano a quello animale. Attualmente più di un terzo della produzione globale di cereali è utilizzato per l’alimentazione di animali (o per altri usi, per esempio i biocarburanti). Circa il 26% del territorio mondiale è utilizzato per il pascolo di bestiame e il 21% del terreno arabile per la produzione di cereali destinati alla loro alimentazione.


Policy Acqua per l’energia e per i trasporti Entro il 2035 la domanda globale di energia salirà di un terzo rispetto al 2011, specie nelle economie emergenti del mondo: Cina e India, ma anche paesi in Medio Oriente e Asia meridionale. Soddisfare questo crescente fabbisogno di energia rappresenta un’altra sfida ineludibile da affrontare nei prossimi anni. Di conseguenza crescerà anche la domanda di acqua per usi energetici. Nei prossimi 20 anni il prelievo di acqua per scopi energetici si prevede arriverà al 20% dei prelievi totali (era il 15% nel 2010) e l’utilizzo di centrali elettriche più efficienti con più avanzati sistemi di raffreddamento farà salire la percentuale di consumo all’85%. Ma il fabbisogno idrico crescerà anche nel settore del trasporto dove la domanda si sta spostando dai carburanti convenzionali verso combustibili fossili non convenzionali che però richiedono un uso intensivo di acqua: fracking, sabbie bituminose, biocarburanti ed elettricità. Proprio i biocarburanti – nonostante l’Unione europea stia rivedendo le proprie politiche energetiche – continueranno a essere una componente sostanziale dell’insieme dei carburanti per la produzione di energia. La domanda di materie prime per produrre biocarburanti è da decenni la maggiore fonte di nuove richieste inerenti i prodotti agricoli e attualmente riguarda il 2-3% del terreno arabile mondiale. Si stima che entro il 2030 per produrre la materia prima per i biocarburanti saranno necessari tra i 18 e 44 milioni di ettari in più. La coltivazione di biomassa per i biocarburanti destinati ai trasporti è inoltre in competizione con la produzione di cibo. Per due motivi: sottrae cospicue aree di terreno coltivato e richiede grandi volumi di acqua. È stato dimostrato che la scarsità di acqua dolce si acuirà nei prossimi 15 anni dato che si prevede che l’impronta idrica dei biocarburanti crescerà di oltre dieci volte rispetto al 2005. L’aumento del

Bibliografia •• Allan J.A. (2013), “Foodwater security: beyond water and the water sector”, in Lankford B., Bakker K., Zeitoun M., and Conway D. (a cura di), Water security: principles, perspectives, practices, Earthscan, Londra •• UN-Water, Fao, 2007, Coping with water scarcity. Challenge of the twenty-first century •• Erd (Report on Development 2011/2012) (2012), Confronting

scarcity: managing water, energy and land for inclusive and sustainable growth. Disponibile online erd-report.com/erdreports/erd3-2011-2012/ •• Gerbens-Leenes P.W., van Lienden A.R., Hoekstra A.Y., van der Meer T.H. (2012), “Biofuel scenarios in a water perspective: The global blue and green water footprint of road transport in 2030”, Global Environmental Change, v.

22, pag. 764-775 •• Hoekstra A.Y. (2013), “L’impronta idrica: uno strumento per mettere in relazione i nostri consumi con l’uso dell’acqua”, in M. Antonelli e F. Greco, L’acqua che mangiamo, Edizioni Ambiente •• Iea (International Energy Agency/ Agenzia internazionale dell’energia) (2013), World Energy Outlook 2013. Executive Summary, Oecd/ Iea. Disponibile online

consumo di biocarburanti nei paesi europei sarà alto per quanto riguarda sia il bioetanolo sia il biodiesel, con Francia, Italia, Germania e Regno Unito tra i maggiori consumatori mondiali. Raggiungere questo triplice obiettivo di garantire la soddisfazione dei bisogni della società, contribuire allo sviluppo e preservare l’ecosistema richiede l’ideazione di nuove politiche e, soprattutto, la volontà politica di superare un processo di riforme politicamente controverso. Una componente fondamentale di questo processo riguarda il considerare la pioggia come fonte ultima dell’acqua gestibile per uso agricolo e riuscire ad alleggerire la pressione sulle fonti di acqua dolce (laghi, fiumi e falde acquifere) che sono le più onerose in termini di costo opportunità, visto che possono anche essere usate per altri scopi con una resa di maggior valore. L’efficienza dell’agricoltura alimentata dalla sola acqua piovana può essere aumentata mediante una migliore gestione dell’umidità del suolo e della fertilità del terreno, per esempio, ricorrendo all’irrigazione supplementare solo quando necessaria. È stato stimato che il 75% delle richieste globali legate all’aumento di produzione potrebbero essere soddisfatte innalzando la produttività dell’agricoltura a basso rendimento delle regioni in via di sviluppo e portandola a un livello pari all’80% di quella dell’agricoltura ad alto rendimento. Inoltre, l’adozione di tecnologie come i Sistemi di supporto alle decisioni (Decision Support Systems) permette una migliore efficienza nell’uso degli input agricoli. Il potenziamento dei dati è anche un passo fondamentale per rendere la gestione dell’acqua un tema prioritario nell’agenda dei politici. Sviluppare un approccio integrato che tenga conto delle interazioni multiple tra i differenti settori e delle implicazioni trans-settoriali dell’utilizzo di acqua è la chiave per andare avanti sulla strada della sostenibilità.

www.iea.org •• Molden D. (2007), Water for Food, Water for Life: A comprehensive Assessment of Water Management in Agriculture, Earthscan, Londra •• United Nations Department of Economic and Social Affairs [Undesa] (2013), World Population Prospects: The 2012 Revision, Highlights and Advance Tables, Nazioni Unite, New York •• UN Water (2014), The

United Nations World Water Development Report 2014. Water and energy, v. 1 •• Who (World Health Organisation/ Organizzazione mondiale della sanità) (2013), “Global and regional food consumption patterns and trends”, Nutrition Health Topics. Disponibile online www.who.int/ entity/nutrition/topics/en/

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EDIFICI: la sfida dell’economia circolare Bruxelles costruisce un futuro sostenibile Questo articolo è stato pubblicato su Revolve Magazine, n. 16 (Estate 2015), p. 68-75; revolve.media/brusselsbuilding-the-future

A Bruxelles il settore edilizio – che conta 25.000 occupati – è responsabile del 70% delle emissioni di gas serra. Rappresenta perciò la maggior opportunità di risparmio energetico ed è essenziale affinché il paese centri gli obiettivi Ue in materia di energia e riduzione della CO2. Ma, oltre alla performance energetica degli edifici, occorre tenere conto anche della qualità e durevolezza dei materiali utilizzati nella costruzione e del loro intero ciclo di vita.


Policy Bruxelles è nota per aver reso i suoi edifici più “passivi” o energeticamente efficienti. Sono attive norme che mirano a soddisfare i più alti standard di risparmio energetico nella costruzione di nuovi edifici o nell’ammodernamento di strutture più vecchie. La Regione della capitale belga possiede anche un efficace meccanismo già operativo per istruire i professionisti sulle più efficienti tecniche di costruzione, e ha creato incentivi perché i giovani professionisti possano acquisire una reale esperienza nella costruzione di edifici con prestazioni energetiche ancora superiori. Dai workshop di formazione a una gara di costruzione tra scuole, alla realizzazione di nuovi asili nido “passivi”, Bruxelles si sta muovendo verso un futuro energeticamente più efficiente.

Céline Fremault

Intervista a Céline Fremault

Céline Fremault è Ministro del governo della Regione Capitale di Bruxelles, Responsabile per il settore abitativo, la qualità della vita, l’ambiente e l’energia.

A sinistra: Vista su Bruxelles

Quali sono gli aspetti principali dell’economia circolare della Regione di Bruxelles? “Le crisi finanziarie, economiche, sociali e climatiche che ci troviamo di fronte sono opportunità di cambiamento che dovremmo cogliere. Dobbiamo avere l’audacia di ripensare completamente il nostro modello di sviluppo. L’eccessivo consumo di beni e servizi non è certo una prospettiva credibile o auspicabile. Io desidero promuovere un modello di sviluppo che sia più sostenibile e più umano; uno in cui la crescita economica non sia un fine di per sé ma uno strumento per una migliore qualità della vita. Queste sono le priorità del modello che vorrei promuovere con la mia roadmap per l’economia circolare. Applicato alla scala della Regione Capitale di Bruxelles, questo nuovo modello mira a dirigere l’economia verso una gestione razionale e intelligente delle risorse – che vanno dalle materie prime all’energia e comprendono acqua, aria e suolo – limitando le esternalità e sviluppando circuiti di catene di valore economico più brevi di cui possano beneficiare sia le nostre aziende sia i nostri lavoratori. È anche un’opportunità per i cittadini di Bruxelles di riconciliare economia e ambiente senza dogmatismi attraverso nuovi modi di considerare la città di domani in cui la qualità della vita sia per tutti, anche per i meno fortunati tra noi.” Come si possono integrare meglio le rinnovabili nel sistema energetico? “Oggi a Bruxelles abbiamo pochi meccanismi per supportare lo sviluppo delle energie sostenibili. Io sono coinvolta nel processo di riforma della green electricity promotion, regolamentazione che risale al 2006 e che ha introdotto il sistema dei certificati verdi. In termini di sviluppo delle energie rinnovabili, questo meccanismo

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Il workshop CDR ad Anderlecht offre corsi di formazione in tecniche di costruzione passiva

Gli edifici sono i nostri principali luoghi di vita: una casa, un ufficio, un asilo nido o una scuola per i nostri figli. Ecco perché dobbiamo garantire la miglior qualità possibile in termini di performance energetica, gestione dei flussi di energia o isolamento acustico.

Il Concorso di edilizia sostenibile passiva offre agli studenti l’opportunità di acquisire esperienza sul campo (www.cdr-brc.be)

è il più efficace tra quelli che la Regione di Bruxelles ha a disposizione. Parlando in termini concreti, per ogni megawatt/ ora (MWh) prodotto vengono rilasciati un numero predefinito di certificati che assicurano l’ammortamento delle spese e la redditività delle installazioni entro sette anni, al massimo. Garantire la stabilità del mercato di questi certificati resta il mio interesse primario, dato che più di due terzi dell’elettricità prodotta a Bruxelles gode del supporto del sistema dei certificati. Parallelamente, ho già sottoposto al governo il mio nuovo Piano per l’aria, l’energia e il clima, che mette in atto diverse misure mirate a incoraggiare le istituzioni pubbliche a muoversi verso le energie rinnovabili. Quando si tratta di rinnovabili, intendo agire tanto sull’offerta quanto sulla domanda.” Qual è l’importanza degli edifici energeticamente efficienti? “Gli obiettivi europei per affrontare i cambiamenti climatici, ai quali Bruxelles aderisce, sono estremamente ambiziosi in materia di energia e riduzione della CO2. Il settore edilizio e quello dei trasporti sono gli unici su cui Bruxelles può agire per raggiungere questi obiettivi. Rinnovare le esistenti infrastrutture è quindi un aspetto fondamentale, in cui dobbiamo mettere tutta l’energia necessaria, altrimenti c’è il rischio che l’obiettivo europeo non venga raggiunto a Bruxelles. Ecco perché ogni appartamento nuovo o ristrutturato deve soddisfare la normativa PEB 2015 (quasi-passività). All’interno di questo contesto, è ora essenziale tenere conto della performance energetica e dei suoi impatti, come anche della qualità e durevolezza dei materiali utilizzati, e del ciclo

Fonte: Michel Petillo

Fonte: Michel Petillo

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di vita dell’edificio, che deve rispondere ai bisogni delle differenti funzioni della città. Gli edifici sono i nostri principali luoghi di vita: una casa, un ufficio, un asilo nido o una scuola per i nostri figli. Ecco perché dobbiamo garantire la miglior qualità possibile in termini di performance energetica, gestione dei flussi di energia o isolamento acustico.” Come si può comunicare meglio con i cittadini? “Oggi possiamo osservare un paradosso: si stanno sviluppando sempre più iniziative cittadine mentre una larga maggioranza della popolazione presta ancora così poca attenzione alle questioni ambientali e climatiche. Dal luglio 2014 ho scelto di accettare la sfida di portare i cittadini e le aziende a interessarsi di più ai problemi ambientali. Da allora ho l’opportunità di parlare con persone impegnate, che dedicano il loro tempo, che si fanno coinvolgere e cercano insieme di cambiare le loro condizioni di vita verso forme più sostenibili e durevoli che rispettino il nostro ambiente. Lavorare ai progetti insieme ad altri cittadini crea contatti e una dinamica che dà impeto all’azione collettiva, che ci permette di andare oltre, di perseguire lo stesso obiettivo insieme.” Ci può indicare alcuni esempi concreti di progetti sostenibili nella Regione Capitale di Bruxelles? “1. La settimana dell’edificio sostenibile – un piano che permetterà alle scuole partecipanti sia di concepire sia di ultimare un progetto di costruzione passiva in linea con i criteri di costruzione sostenibile. www.cdr-brc.be


Policy

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sviluppare importanti moduli di formazione e favorire gli aiuti finanziari. www.confederationconstruction.be 4. Brussels Retrofit XL – una piattaforma mirata a condividere tecnologie tra i centri di ricerca e le aziende di Bruxelles. Comprende 11 progetti di ricerca con 13 team dalle università e dai centri di ricerca di Bruxelles. www.brusselsretrofitxl.be Lavorare ai progetti insieme ad altri cittadini crea contatti e una dinamica che dà impeto all’azione collettiva, che ci permette di andare oltre, di perseguire lo stesso obiettivo insieme.

5. Opalis – un sito web indirizzato agli appaltatori e agli architetti che vogliono comprare o vendere materiali riusabili. www.opalis.be 6. Baticréa – una cooperativa specializzata per tutte le professioni legate al settore edilizio. www.baticrea.be”

Verso un’economia circolare

Progetto pilota di Reginald van Oldeneel per il Concorso di edilizia sostenibile passiva

3. La piattaforma di addestramento della Confédération Construction Bruxelles-Capitale (CCB-C) – ideata per analizzare le necessità di formazione degli impiegati e anche per

Fonte: CDR

2. Il Concorso di edilizia sostenibile passiva per le scuole – 47 studenti e 18 insegnanti provenienti da otto scuole superiori tecniche e professionali hanno collaborato con studenti di architettura di La Chambre-Horta (ULB) a un progetto sostenibile, passivo, modulare e trasportabile. www.cdr-brc.be

Tra gli esempi concreti citati dal Ministro Céline Fremault per promuovere la costruzione sostenibile a Bruxelles, ci sono numerose attività realizzate all’interno della “Alliance EmploiEnvironment” (Alleanza ambiente-occupazione). Lanciata nel 2010 dal governo della Regione Capitale di Bruxelles, l’Alleanza ambienteoccupazione rappresenta un approccio innovativo e inclusivo che punta a rendere l’azione di migliorare l’ambiente una fonte effettiva di opportunità economiche e di occupazione per gli abitanti di Bruxelles. Il progetto va oltre la classica consultazione e partecipazione legando strettamente tutti gli stakeholder perché lavorino insieme nello sviluppo di settori verdi e occupazione sostenibile. A Bruxelles, il settore edilizio con 25.000 posti di lavoro tra fissi e autonomi (dati del 2011)


materiarinnovabile 05. 2015 di occupazione, formazione e istruzione, gli obiettivi dell’Alleanza ambiente-occupazione rimangono oggi quelli iniziali. La futura roadmap regionale per l’economia circolare porterà una chiara visione per orientare il processo di co-sviluppo intrinseco all’Alleanza ambienteoccupazione.

Dopo quattro anni di implementazione, il primo asse dell’alleanza (l’edilizia sostenibile) ha generato effetti concreti e importanti nel settore. In questo momento operatori pubblici e privati si riconoscono reciprocamente: sono nate diverse solide partnership attorno a progetti concreti, ognuna delle quali consapevole delle sfide dell’edilizia sostenibile e dei bisogni delle aziende e del settore. Questo tipo di network genera valore reale.

C’è l’opportunità di riformulare lo sviluppo economico affinché sia più equo e favorevole allo sviluppo umano, per migliorare la qualità della vita a Bruxelles sia dei cittadini sia della città, e rispondere così alle principali sfide ambientali e sociali che l’urbanizzazione deve affrontare oggi. Il governo di Bruxelles ha scelto di cogliere questa opportunità perseguendo l’economia circolare.

Molto interessante anche il “Passive Sustainable Building Contest” (Concorso di edilizia sostenibile passiva), organizzato da Brussels Environment in collaborazione con il Brussels Reference Center for the Construction Center (CDR/BRC) (vedi box). Considerando le sfide di Bruxelles, identificate nella nuova Dichiarazione delle politiche regionali del 2014, tra le quali il miglioramento della qualità della vita e dello sviluppo economico, la creazione

A sinistra: Asilo nido Saint-François

L’economia circolare è stata il tema centrale di un simposio internazionale svoltosi a Bruxelles nel maggio 2015; questa economia mira a incentivare la conservazione delle risorse e a ridurre l’impatto dei rispettivi settori sull’ambiente creando al contempo opportunità economiche. D’ora in avanti l’Alleanza ambiente-occupazione seguirà questo percorso a Bruxelles. Dato che questa roadmap rappresenta uno degli impegni della 2025 Strategy, essa permetterà maggior coordinamento e coerenza con le azioni di altre politiche nella Regione Capitale di Bruxelles.

Maquette presentata alla giuria, Fase I giugno 2014

Fonte: Nicolas Neefs/CDR

Lo “shock demografico” di Bruxelles comporta importanti implicazioni riguardo a istruzione, cultura, sport e altri servizi sociali. Secondo l’istituto Brussels Statistics entro il 2020 ci saranno 32.500 alunni in più e serviranno 79 nuove scuole entro il 2015. È una bella sfida.

responsabile del 70% delle emissioni di gas serra, rappresentando quindi la maggior opportunità di risparmio energetico. Mediante le 64 azioni concrete pianificate dall’Alleanza, la Regione Capitale di Bruxelles si è impegnata ad aiutare il settore edilizio ad adeguarsi al crescente mercato dell’edilizia sostenibile.

Fonte: Yvan Glavie

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Policy Asili nido “passivi”: edifici esemplari per le prossime generazioni Lo “shock demografico” di Bruxelles comporta importanti implicazioni riguardo a istruzione, cultura, sport e altri servizi sociali. Secondo l’istituto Brussels Statistics entro il 2020 ci saranno 32.500 alunni in più e serviranno 79 nuove scuole entro il 2015. È una bella sfida.

Come risultato della gara organizzata all’interno dei Méridien Quarter Contracts, l’asilo nido di Rue Saint-François di Saint-Josseten-Noode, progettato da O2 Architects, possiede 30 posti letto e comprende tre appartamenti. Gli architetti hanno optato per una struttura in calcestruzzo, che dà rigidità e inerzia, completata da parti montate su telai di legno assemblate e isolate in loco. Il fabbisogno energetico dell’asilo nido è pari a 13 kWh/m2 l’anno, mentre quello degli appartamenti è compreso tra i 6 e i 12 kWh/m2.

Fonte: CDR

La richiesta di progetti da parte della Regione Capitale di Bruxelles con l’iniziativa “Exemplary buildings” (Batex) ha incoraggiato la costruzione di nuove scuole e asili nido il più possibile efficienti sotto il profilo energetico. Nel 2011, un tredicesimo asilo nido ha adottato gli standard degli edifici “passivi” di Bruxelles; la maggior parte degli asili nido che applicano questi standard usano fonti di energia rinnovabili.

Primo incontro tra progettisti e costruttori, febbraio 2014

Il Concorso di edilizia sostenibile passiva Intervista con Julien Holef, Project Manager Passive Sustainable Building Contest per CDR/BRC “Il Concorso di edilizia sostenibile passiva è stato realizzato in associazione con l’Alleanza ambiente-occupazione e ha preso forma concretamente nel settembre 2013. Lo scopo è quello di permettere agli studenti provenienti dalle scuole di edilizia di Bruxelles di provare a completare con le loro mani un vero edificio che verrà usato come spazio di addestramento.” Oltre al fatto che si tratta di un edificio sostenibile che può essere smontato e trasportato, la specificità di questa competizione sta nella varietà delle persone partecipanti, e nella possibilità per chi vi prende parte di capire e tenere conto delle particolari sfide poste al mercato immobiliare. “Seguire il progetto dall’inizio alla fine, vedere persone che traggono piacere dalla costruzione di questo edificio pilota e

condividere il loro entusiasmo, ecco ciò che mi ha più appassionato”, afferma Julien. “Il coinvolgimento delle scuole è stato totale, dagli studenti agli insegnanti, all’amministrazione. È un progetto che nessuno può affrontare da solo ed è grazie alla partecipazione di ognuno che raggiungeremo qualcosa di cui gli studenti potranno essere fieri.” Hanno partecipato al concorso 47 studenti, futuri professionisti dell’edilizia provenienti da otto scuole di Bruxelles, e futuri designer e studenti di architettura. Sono stati raggruppati in due squadre multidisciplinari, ognuna delle quali ha presentato il proprio progetto di edificio. Nel febbraio 2015 i partecipanti hanno iniziato a costruire il padiglione nel workshop, poi sono stati completati il tetto e le suddivisioni dei moduli. Il prossimo grande passo sarà l’assemblaggio dei differenti elementi. A progetto finito (giugno 2015), il modulo passivo verrà smontato, trasportato e rimontato in un altro posto dove sarà utilizzato come area di addestramento.

Il coinvolgimento delle scuole è stato totale, dagli studenti agli insegnanti, all’amministrazione. È un progetto che nessuno può affrontare da solo ed è grazie alla partecipazione di ognuno che raggiungeremo qualcosa di cui gli studenti potranno essere fieri.

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di Peter Viebahn

I minerali critici per le energie rinnovabili Il Wuppertal Institute ha condotto uno studio per valutare quali materiali sono da considerare critici in relazione al previsto incremento delle energie rinnovabili in Germania. I problemi relativi a materiali come terre rare e vanadio riguardano la dipendenza da pochi paesi fornitori e gli usi competitivi. Articolo pubblicato su Ecoscienza 6/2014. Traduzione di Stefano Folli.

Viebahn P., Soukup O., Samadi S., Teubler J., Wiesen K., Ritthof M. (2015), “Assessing the need for critical minerals to shift the German energy system towards a high proportion of renewables”, Renewable and Sustainable Energy Reviews; doi: 10.1016/j. rser.2015.04.070

La sfida La politica energetica del governo federale della Germania ascrive alle energie rinnovabili il ruolo di “importante pilastro dell’approvvigionamento energetico futuro”. In base agli obiettivi, le energie da fonte rinnovabile dovranno rappresentare il 18% del consumo finale lordo di energia al 2020, salendo al 60% al 2050. Se si considera solo la generazione di energia elettrica, la proporzione di consumo lordo di elettricità derivante da fonti rinnovabili dovrà arrivare all’80% al 2050. Tuttavia, non sono solo le questioni relative all’approvvigionamento energetico o alla protezione del clima a giocare un ruolo fondamentale nella realizzazione dell’Energiewende (transizione energetica) e, in particolare, nello sviluppo di fonti rinnovabili di energia: una valutazione complessiva della sostenibilità delle singole tecnologie deve essere effettuata tenendo conto di una serie di criteri. Tali criteri comprendono considerazioni sui costi a breve e a lungo termine, la sicurezza energetica, l’impatto sull’uso del territorio, l’accettabilità sociale, gli impatti ambientali e il fabbisogno di risorse. Quando si parla di “valutazione delle risorse”, è riconosciuto che l’utilizzo complessivo di risorse di un sistema energetico è in genere


Policy considerevolmente inferiore se si basa su energie rinnovabili (anche se non primariamente sulle biomasse) piuttosto che su fonti fossili. Tuttavia, questo non significa necessariamente che le energie rinnovabili siano sempre da considerare prive di problemi rispetto all’uso delle risorse. In particolare, ancora poche ricerche hanno riguardato il consumo e la disponibilità a lungo termine dei minerali, generalmente necessari nella fabbricazione di convertitori energetici e infrastrutture. A questo proposito, è di particolare interesse la disponibilità dei minerali individuati come “terre rare”, come indio, gallio, lantanio e neodimio, e di altre materie prime che giocano un ruolo significativo, come nichel e vanadio. L’approccio della valutazione Il Wuppertal Institute ha condotto uno studio che cerca di colmare il gap delle precedenti valutazioni, contribuendo a un’analisi di sostenibilità olistica delle energie rinnovabili. Lo scopo dello studio ultimato nel 2014 è stato quello di fornire un’indicazione su se e come la trasformazione del sistema di approvvigionamento energetico possa essere configurata in un modo

più efficiente rispetto all’uso delle risorse, con un elevato livello di espansione delle energie rinnovabili. Per raggiungere tale scopo, lo studio ha incluso l’individuazione di quali minerali “critici” siano rilevanti in Germania per la produzione di tecnologie per generare energia elettrica e termica e combustibili da energie rinnovabili in un arco di tempo che arriva al 2050. A questo proposito, la valutazione di “criticità” comprende la disponibilità a lungo termine delle materie prime identificate, la situazione dell’approvvigionamento, la riciclabilità e le condizioni ambientali che regolano la loro estrazione.

Peter Viebahn è Co-Direttore del Gruppo di Ricerca 1: Future Energy and Mobility Structures presso il Wuppertal Institute for Climate, Environment and Energy.

L’analisi è stata condotta in riferimento a diversi scenari energetici a lungo termine sviluppati in anni recenti per il sistema di approvvigionamento energetico della Germania. Questi scenari descrivono diverse traiettorie per lo sviluppo delle energie rinnovabili al 2050, fino al caso estremo di copertura totale delle esigenze di elettricità e calore coperte da energie rinnovabili. Le figure 1 e 2 mostrano, per esempio, un possibile sviluppo di alcune risorse minerali in base a diversi scenari per l’installazione di energia eolica e fotovoltaica al 2050.

Studio del Wuppertal Institute, KRESSE – Kritische mineralische Ressourcen und Stoffströme bei der Transformation des deutschen Energieversorgungssystems. Final report, 2014 (in tedesco); wupperinst.org/de/projekte/ details/wi/p/s/pd/38/

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Figura 2 | Fotovoltaico Indio

Tonnellate (cumulativo, 2011-2050)

Fabbisogno di neodimio per impianti eolici onshore di nuova costruzione in Germania – consumo specifico (linea) e assoluto (colonne) per decade. kg/MW

Tonnellate per decennio

Figura 1 | Energia eolica

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Domanda cumulativa stimata di minerali critici per l’installazione di fotovoltaico in Germania dal 2011 al 2050. Roadmap “continuity” Roadmap “thin film renaissance”

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Risultati

La Cina è il solo paese rilevante che produce disprosio al momento. Allo stato attuale non è chiaro se altri paesi saranno in grado di diventare fornitori nel lungo periodo e in quali condizioni il minerale sarebbe estratto.

Lo studio mostra che la disponibilità geologica di minerali in generale non rappresenta un fattore di limitazione per l’espansione pianificata di energie rinnovabili in Germania. Potrebbe non essere possibile, tuttavia, che ciascuna variante tecnologica venga utilizzata in misura illimitata. Delle tecnologie indagate, le seguenti si sono dimostrate più probabilmente “non critiche” rispetto all’offerta di minerali: •• uso nel settore elettrico: idroelettrico, turbine eoliche senza magneti a terre rare, fotovoltaico cristallino a base di silicio, solare termico; •• uso nel settore del riscaldamento: energia geotermica, energia solare termica; •• infrastrutture: reti elettriche, tipi specifici di dispositivi di stoccaggio di energia elettrica, elettrolisi alcalina e celle a combustibile a ossidi solidi. Anche l’offerta di minerali nell’uso di biomasse e biocarburanti nei settori elettrico, del riscaldamento e dei trasporti non può essere classificata come critica. Tuttavia, la stessa disponibilità di biomasse e i problemi connessi, in particolare il consumo di suolo e gli usi alternativi, a seconda dei tipi di biomasse, va tenuta in considerazione. Questi aspetti non sono stati affrontati dallo studio. Elementi specifici di sub-tecnologie di energia eolica, fotovoltaico e stoccaggio tramite batterie sono stati identificati come critici rispetto all’offerta di minerali. Tuttavia, ci sono alternative non critiche a queste tecnologie che potrebbero

essere usate in modo crescente in futuro o che già dominano il mercato. L’uso dell’energia eolica è stato studiato rispetto al consumo di neodimio (Nd) e disprosio (Dy), che sono sempre più utilizzati nei magneti permanenti con resistenza a campi di elevata intensità nei generatori. Nonostante un alto livello di disponibilità, un’offerta adeguata delle quantità richieste non può essere considerata come garantita per la Germania. Una delle ragioni principali è l’eccessiva dipendenza da pochi stati


Policy

Ringraziamenti L’autore ringrazia i suoi colleghi Christine Krüger, Arjuna Nebel, Michael Ritthoff, Sascha Samadi, Ole Soukup e Jens Teubler per il loro contributo ai risultati presentati in questo articolo e il Ministero Federale Tedesco degli Affari Economici e dell’Energia per il sostegno finanziario.

fornitori, con un effetto congiunto sulla sicurezza della fornitura. La Cina è il solo paese rilevante che produce disprosio al momento, per esempio. Allo stato attuale non è chiaro se altri paesi saranno in grado di diventare fornitori nel lungo periodo e in quali condizioni il minerale sarebbe estratto (costi di produzione, qualità dei siti di stoccaggio, legislazione ambientale ecc.). Tuttavia, l’uso di Nd e Dy non è essenziale per impianti onshore, poiché problemi come gondole molto pesanti e lavori di manutenzione costosi per le turbine riguardano principalmente impianti offshore. Nel caso di impianti offshore, nuove tecnologie che non richiedono terre rare sono in fase di sviluppo e potrebbero giocare un ruolo importante a lungo termine. Finché gli impianti con magneti a terre rare sono utilizzati offshore, dovrebbero essere progettati per essere riciclabili. Relativamente al fotovoltaico, tecnologie selezionate a film sottile sono state individuate come critiche. La domanda di indio in celle Cigs (diseleniuro di rame indio gallio) non sembra poter essere assicurata nel lungo termine. In particolare, c’è un uso competitivo rilevante dovuto alla domanda crescente nella produzione di Lcd e allo stesso tempo un’elevata dipendenza da un solo paese fornitore (Cina). Sarebbe perfino difficile mantenere l’attuale quota di mercato della Germania (3% nel 2012). È incerto se il fabbisogno di selenio possa essere coperto da fonti convenzionali. Perciò un’espansione considerevole di tecnologie a film sottile dovrebbe Le strategie che prevedono il prolungamento della vita utile e del ciclo di vita dei sistemi dovrebbero essere favorite insieme alle strategie di riciclo.

quanto meno essere considerata come critica. Nel caso di celle CdTe, si è ipotizzato per vari motivi che la tecnologia sarà progressivamente eliminata in Germania entro il 2020. Le quantità di cadmio e tellurio richieste fino al 2020 sono considerate non problematiche. Per quanto riguarda lo stoccaggio di elettricità, sono stati considerati lo stoccaggio in batterie a breve-termine, lo stoccaggio su larga scala (batterie di flusso redox e batterie agli ioni di litio) e lo stoccaggio tramite elettrolisi alcalina e di idrogeno con riconversione in celle a combustibile a ossido solido per uno stoccaggio a medio e lungo termine. Per queste tecnologie, solo le batterie di flusso redox a base di vanadio comunemente disponibili vanno considerate come critiche per quanto riguarda l’approvvigionamento di materie prime. In particolare, c’è un uso competitivo importante perché il vanadio è un elemento di lega importante, per esempio per acciai per utensili. La situazione è aggravata dal fatto che sono solo tre i principali paesi produttori (Cina, Sud Africa e Russia). Si consiglia di utilizzare batterie agli ioni di litio, che sono da considerare meno critiche dal punto di vista della disponibilità di risorse, o impianti di stoccaggio materiali (centrali con bacino di pompaggio, serbatoi di aria compressa) per la conservazione a breve termine. Conclusioni Mentre i settori del riscaldamento e dei trasporti molto probabilmente non sono da considerare critici per l’uso diretto delle energie rinnovabili, bisogna porre attenzione al settore elettrico, in riferimento alla domanda di ricerca posta. Anche se la disponibilità di minerali per le relative tecnologie non è un problema, bisogna tenere in considerazione i rischi potenziali di approvvigionamento dovuti alla dipendenza da pochi paesi fornitori e agli usi competitivi. Un aspetto centrale delle raccomandazioni politiche che emergono dallo studio è la proposta di concentrarsi a medio termine sulle strategie di efficientamento e di riciclaggio con l’intento di garantire l’approvvigionamento di materie prime per la Germania. Per esempio, il miglioramento dell’efficienza nell’uso delle risorse e della riciclabilità dovrebbero essere elementi chiave dello sviluppo tecnologico e anche il potenziale esistente di riciclo dovrebbe essere sfruttato. Tuttavia, ogni processo di riciclo comporta, in qualche caso, una notevole perdita di materiale e un elevato consumo energetico. In molti casi (per esempio per quanto riguarda i magneti a terre rare), il riciclo di alta qualità è molto difficile. Per questa ragione, le strategie che prevedono il prolungamento della vita utile e del ciclo di vita dei sistemi dovrebbero essere favoriti e insieme alle strategie di riciclo. In questo caso, è richiesta una stretta collaborazione con il settore industriale.

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Come trasformare il vecchio divano in biocarburante Un’iniziativa olandese indaga sui metodi per utilizzare i rifiuti solidi urbani per produrre biocombustibili liquidi e biochemicals. di Mario Bonaccorso

Mario Bonaccorso è giornalista esperto di finanza ed economia. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

Vecchi mobili, divani, vestiti, pannolini e scontrini del bar. Sono rifiuti solidi urbani. Ne produciamo ogni anno nel mondo un miliardo e trecento milioni di tonnellate, secondo un Rapporto del 2012 della Banca Mondiale. E solo il 34% viene riciclato. Il resto finisce in discarica o nell’inceneritore. Un progetto olandese, che ha come capofila il colosso chimico AkzoNobel, sta adesso indagando per vedere come è possibile impiegare parte di questi rifiuti non riciclabili per produrre biocombustibili liquidi e prodotti chimici biobased. Con molteplici vantaggi: da una parte

si risolve l’annoso problema dei rifiuti che finiscono in discarica, dall’altra si mette a disposizione delle imprese una materia prima che non compete con il cibo, non ha impatti sull’uso del suolo ed è già inserita nel sistema logistico di raccolta e distribuzione dell’industria che gestisce i rifiuti. Attore fondamentale del progetto olandese è Enerkem, una società canadese (con sede a Montréal, Québec) che ha sviluppato una tecnologia in grado di convertire i rifiuti in gas di sintesi, un materiale di partenza comune per i prodotti come il metanolo o l’ammoniaca.


Case Histories

“Date le crescenti preoccupazioni per la materia prima e la scarsità di energia, la necessità di innovare e sviluppare soluzioni meno tradizionali diventa sempre più importante.”

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Nel novembre del 2014 un consorzio olandese pubblico-privato guidato da AkzoNobel ha siglato con Enerkem un accordo per esplorare l’uso dei rifiuti come materia prima per la produzione di carburanti e sostanze chimiche e la costruzione di una nuova bioraffineria a ciò dedicata. A contendersi la bioraffineria, che nei progetti dei partner dovrà essere costruita nel giro di due o tre anni per essere la prima di questa tipologia in Europa, sono la città di Rotterdam e quella di Delfzijl (nella provincia di Groninga). Prima in Europa, perché la tecnologia di Enerkem sta già dimostrando di essere efficace a Edmonton, in Alberta (Canada): la bioraffineria inaugurata il 4 giugno 2014 ha permesso alla città canadese di far crescere la propria percentuale di diversione dei rifiuti dal 60 al 90% producendo etanolo e metanolo. Ed è considerata dagli addetti ai lavori un vero e proprio modello di bioeconomia circolare.

L’uso dei rifiuti come materia prima per l’industria chimica

©AkzoNobel

Quattordici partner olandesi hanno unito le forze per esplorare l’uso dei rifiuti per produrre carburanti e sostanze chimiche. La partnership pubblicoprivato studierà le opzioni per la costruzione della prima bioraffineria di questo tipo in Europa, a Rotterdam o Delfzijl.


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Il 34% dei rifiuti urbani gestiti nei 28 stati membri viene smaltito in discarica, il 24% è trattato in impianti di incenerimento, mentre il 27 e il 15% sono avviati, rispettivamente, a riciclaggio e compostaggio.

Mentre in Cina è il Qingdao City Construction Investment Group ad avere in programma la costruzione di una bioraffineria che utilizzerà la tecnologia di Enerkem, dopo un accordo concluso a ottobre 2014 con la società fondata quindici anni fa dall’attuale presidente e amministratore delegato Vincent Chornet. Secondo Werner Fuhrmann, membro del Comitato Esecutivo di AkzoNobel e responsabile per le specialità chimiche, “date le crescenti preoccupazioni per la materia prima e la scarsità di energia, la necessità di innovare e sviluppare soluzioni meno tradizionali diventa sempre più importante. Per accelerare queste innovazioni stiamo entrando in partnership strategiche, tutte incentrate sulla sostituzione di materie prime non rinnovabili, per avere importanti benefici ambientali.” La partnership con Enerkem è una di queste. Ma – in pratica – cosa consente di fare la tecnologia dell’impresa quebecchese? Ricicla il carbonio contenuto nei rifiuti non riciclabili in sostanze chimiche rinnovabili, ponendosi come complementare rispetto alle tecnologie esistenti, quali il riciclaggio e la digestione anaerobica. A Edmonton, ormai una tappa obbligatoria per chi vuole vedere con i propri occhi un caso di successo nella gestione dei rifiuti urbani, ogni anno vengono gassificate 100.000 tonnellate di rifiuti solidi secchi post-riciclati, per produrre inizialmente 10 milioni di litri di biometanolo, un intermedio chimico, e poi etanolo cellulosico.

Info www.akzonobel.com enerkem.com

La bioraffineria fa parte di un sistema di gestione integrata dei rifiuti, dove il 20% viene riciclato, il 40% finisce nel compostaggio e il 30% viene utilizzato per produrre biocarburanti e biochemicals. “Usiamo il calore e la pressione per abbattere i materiali che di solito finiscono in discarica e poi trasformarli in metanolo ed etanolo”, spiega l’ad Vincent Chornet. “In totale, il processo dai rifiuti al prodotto finale richiede circa quattro minuti.” A Edmonton vengono prodotti 38 milioni di litri di etanolo all’anno, una quantità sufficiente per alimentare 400.000 vetture con una miscela di etanolo del 5%. I buoni risultati raggiunti a Edmonton hanno fatto salire l’interesse nei confronti dell’iniziativa olandese. Se inizialmente il consorzio era formato da AkzoNobel, Enerkem e quattro partner regionali, a giugno si sono aggiunti otto nuovi partner, tra cui due colossi industriali del calibro delle francesi Air Liquide e Veolia e l’Autorità del Porto di Rotterdam. Entro la fine di quest’anno saranno resi noti i risultati dello studio di fattibilità per la costruzione della bioraffineria. E non è detto che, se saranno positivi, l’esempio non possa essere seguito da altri paesi europei.

Rifiuti: che ne facciamo in Europa? Secondo uno studio dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) su dati Eurostat (Rapporto Rifiuti Urbani, 2014), il 34% dei rifiuti urbani gestiti nei 28 stati membri viene smaltito in discarica, il 24% è trattato in impianti di incenerimento, mentre il 27 e il 15% sono avviati, rispettivamente, a riciclaggio e compostaggio. Con riferimento allo smaltimento in discarica, si passa da percentuali inferiori allo 0,5% (Germania) al 99% circa (Romania). Oltre alla Germania, anche la Svezia, il Belgio, i Paesi Bassi, la Danimarca e l’Austria fanno registrare percentuali molto basse di smaltimento in discarica (fino al 3% circa), mentre, all’estremo opposto, Grecia, Lettonia, Croazia e Malta smaltiscono in discarica una percentuale di rifiuti urbani compresa tra l’82 e l’87% circa. Fino ad arrivare, appunto, al 99% della Romania. Eccezion fatta per la Grecia, i paesi nei quali il ricorso alla discarica interessa oltre il 65% dei rifiuti urbani gestiti sono tutti di recente adesione all’Ue. Il valore pro capite relativo allo smaltimento in discarica nell’Ue 28 è pari, in media, a 161 kg/ abitante per anno. Il dato è diversificato sul territorio comunitario, con valori più contenuti nei paesi dell’Ue 15 (in media 140 kg/abitante per anno), nei quali le misure intraprese per l’allontanamento dei rifiuti dalla discarica sono ormai consolidate, e valori molto più elevati nei Nsm – Nuovi stati membri (in media 241 kg/ abitante per anno), nei quali l’attuazione della normativa Ue è stata avviata più recentemente. Anche se in entrambi i raggruppamenti si registra una riduzione rispetto al 2011 (-7,9% nei vecchi stati e -5,1% nei Nsm). Per quanto riguarda l’incenerimento, nel 2012 nell’Unione europea sono stati così trattati quasi 57 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. Di questi, il 97,7% è incenerito negli stati dell’Ue 15. Rispetto al 2011, a livello di Ue 28, si registra una riduzione delle quantità trattate del 4,1%. È bene precisare che la voce incenerimento comprende anche le quantità di rifiuti urbani avviate a recupero energetico. Come per lo smaltimento in discarica, anche i dati riguardanti l’incenerimento evidenziano una situazione molto eterogenea tra gli stati membri: circa 28,6 milioni di tonnellate (pari al 50,2% del totale Ue 28) sono inceneriti nelle sole Germania e Francia, mentre cinque stati membri (Bulgaria, Grecia, Cipro, Lettonia e Romania) non ricorrono affatto a questa opzione di trattamento e altri quattro (Croazia, Lituania, Malta e Slovenia) avviano a incenerimento quantità di rifiuti urbani particolarmente esigue (rispettivamente 2.000 t, 8.000 t, 1.000 t e 10.000 t).


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90%

100%

10%

80%

20%

Ue 28 70%

30% 60%

40% 50%

Discarica Incenerimento Riciclaggio Compostaggio

Fonte: elaborazione Ispra su dati Eurostat.

Romania

Grecia

Spagna

Portogallo

Italia

Francia

Lussemburgo

Malta

40% 50%

100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0%

Estonia

60%

Irlanda

30%

Croazia

70%

Regno Unito

Nsm

Lettonia

20%

Finlandia

80%

Lituania

10%

Cipro

100%

Slovacchia

90%

40% 50%

Austria

60%

Polonia

30%

Danimarca

70%

Bulgaria

Ue 15

Paesi Bassi

20%

Ungheria

80%

100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0%

Belgio

10%

Rep. Ceca

100%

Svezia

90%

Slovenia

Dati ordinati per percentuali crescenti di smaltimento in discarica

Germania

Ripartizione percentuale della gestione dei rifiuti urbani nell’Ue, anno 2012


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materiarinnovabile 05. 2015 Intervista

Dai rifiuti solidi urbani ai biocarburanti: le bioraffinerie di quarta generazione Vincent Chornet, Presidente e AD di Enerkem

Ottenere bioprodotti dai rifiuti solidi urbani per accelerare la transizione verso un’economia circolare, dove il rifiuto diventa una risorsa anziché un problema. Ne parliamo con Vincent Chornet, co-fondatore, presidente e amministratore delegato di Enerkem, la società canadese che si sta facendo largo sulla scena della bioeconomia mondiale grazie a una tecnologia che consente la trasformazione dei rifiuti non riciclabili né compostabili in biochemicals e biocarburanti. Fondata nel 2000, la società di Montréal dà lavoro oggi a 160 persone tra Canada e Stati Uniti, dove sono in corso diversi progetti per costruire quelle che lo stesso presidente Barack Obama ha definito “bioraffinerie di quarta generazione”, facendo riferimento – in un discorso alla Georgetown University del 2011 – al progetto Enerkem per la costruzione di una bioraffineria per biocarburanti avanzati a Pontotoc (Mississippi). Grazie alla tecnologia di cui è proprietaria Enerkem ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui nel 2011 quello di una delle 50 imprese più innovative al mondo da parte della prestigiosa rivista americana “Fast Company”. Enerkem sostiene di produrre carburanti puliti e prodotti chimici verdi dai rifiuti con risultati migliori dal punto di vista economico e con una maggiore sostenibilità rispetto ad altre tecnologie che si basano su fonti fossili. Com’è possibile? Enerkem recupera chimicamente le molecole di carbonio contenute nei rifiuti non riciclabili. In meno di cinque minuti, il nostro esclusivo procedimento converte queste molecole in gas di sintesi puri, chiamati anche syngas, che poi vengono trasformati in biocarburanti e sostanze chimiche, utilizzando catalizzatori disponibili sul mercato. Operiamo in condizioni di basso impatto utilizzando temperature fino a 760 °C e pressioni sotto le 5 atmosfere, il che riduce fabbisogno energetico e costi. L’assetto dei costi di Enerkem, pertanto, si basa su operazioni di contenuto impatto (temperature, fabbisogno energetico e pressione ridotti), strutture compatte in linea con il nostro approccio modulare e standardizzato e materie prime di basso valore. Secondo la Banca Mondiale, a livello globale vengono generati 1,3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi urbani l’anno. Dove sono situati i vostri impianti per la trasformazione in biocarburanti? E dove avete in programma di costruirne di nuovi? Oggi Enerkem conta uno stabilimento commerciale

a pieno regime a Edmonton (Alberta, Canada), un impianto dimostrativo a Westbury (Quebec, Canada) e un impianto pilota a Sherbrooke (Quebec, Canada). Stiamo anche costruendo altre bioraffinerie commerciali in Nord America e in tutto il mondo. I vostri impianti sono accettati dall’opinione pubblica? I nostri impianti compatti sono socialmente accettabili per una serie di motivi: la tecnologia Enerkem offre una soluzione sostenibile al crescente fabbisogno di combustibili rinnovabili e alle sfide legate allo smaltimento dei rifiuti e alle emissioni di gas serra (Ghg). Allo stesso tempo, risponde alla domanda su come smaltire i rifiuti non riciclabili e non compostabili in continuo aumento, creando prodotti con un valore aggiunto. Oltre a ridurre la quantità delle discariche, l’utilizzo di rifiuti solidi urbani come materia prima per la produzione di biocarburanti offre molti vantaggi: sono le materie


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Oggi Enerkem conta uno stabilimento commerciale a pieno regime a Edmonton (Alberta, Canada), un impianto dimostrativo a Westbury (Quebec, Canada) e un impianto pilota a Sherbrooke (Quebec, Canada).

prime più a buon mercato, non competono con l’offerta di alimenti, non hanno un impatto sull’uso del terreno e sono già disponibili grazie all’attuale sistema di raccolta garantito dalle infrastrutture logistiche e di distribuzione del settore. Lo scorso novembre avete firmato un accordo con la AkzoNobel, leader mondiale nel settore delle vernici e rivestimenti e un grande produttore di sostanze chimiche specializzate, per sviluppare un progetto di collaborazione finalizzato allo sviluppo di impianti per la trasformazione da rifiuti a sostanze chimiche in Europa. Come funzionerà questo progetto? Inizialmente la partnership pubblica e privata era formata dalla AkzoNobel, la Enerkem e quattro partner regionali, successivamente si sono aggiunte altre otto imprese. Lo scopo principale è utilizzare il processo di conversion di Enerkem, per trasformare rifiuti domestici (e non solo) in prodotti utili, come metanolo

e ammoniaca. A partire dal suo lancio, avvenuto lo scorso anno, questa importante iniziativa olandese è più che raddoppiata a livello di dimensioni. I 14 partner hanno tutti l’esperienza necessaria per far funzionare al meglio il progetto: dalla raccolta dei rifiuti alla conversione, agli impianti industriali e le vendite. Valuteranno le varie opzioni per creare il primo impianto europeo, o a Rotterdam o a Delfzijl. Nei prossimi decenni quale sarà il ruolo dei rifiuti nella bioeconomia? E cos’è l’economia circolare? La tecnologia Enerkem è complementare al riciclaggio e compostaggio. Noi usiamo solo la frazione di rifiuti non riciclabile e non compostabile, come quella tessile, le plastiche non riciclabili, i residui legnosi o i contenitori alimentari usati. Una bella spinta in direzione dell’economia circolare in cui i rifiuti diventano una risorsa per la produzione di prodotti di uso quotidiano.

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Il punto di vista

DEL TERRENO Strategie di sostenibilità per le risorse e le comunità in nuovo patto per l’agricoltura a cura di Marco Moro

Solo seminando le giuste varietà, applicando la corretta rotazione delle colture e lavorando il terreno in funzione delle previsioni metereologiche si possono ridurre fino al 30% impatti ambientali e costi, migliorando la resa e diminuendo il rischio di malattie.

Intervista a Luca Ruini “I nostri sistemi di analisi mostrano che a scala globale siamo arrivati al punto di non ritorno dell’espansione dei terreni agricoli”: così si è espresso Johan Rockström nell’intervista pubblicata nel n. 2 di questa rivista. Lo scienziato svedese ha posto quindi un interrogativo drammatico:

“Stiamo considerando seriamente la minaccia degli effetti del cambiamento climatico, che nei prossimi anni porterà a sempre maggiori shock sulla produzione agricola?”. Le pratiche agricole correnti sono contemporaneamente una delle maggiori


Case Histories

Luca Ruini

cause della crisi ambientale e l’ambito forse maggiormente esposto ai suoi effetti. La ricerca di risposte a questo stato di fatto non può che iniziare tra i soggetti che operano sulla linea più “calda” del fronte, tra le aziende del sistema agroalimentare, dove il rapporto tra attività economica e capitale naturale è diretto, e la sua tutela una necessità.

Luca Ruini è Vice Presidente Sicurezza, Ambiente & Energia di Barilla G. e R. F.lli. e referente interno nella Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition per l’Area Sustainable Growth. È membro del Consiglio d’Amministrazione di Conai, Consorzio nazionale imballaggi.

Marco Moro, Direttore editoriale di Edizioni Ambiente.

Barilla, seconda maggiore compagnia italiana del settore per fatturato, ha attivato da alcuni anni un progetto per la sostenibilità nella filiera, pensato per produrre effetti postivi sui diversi “capitali” coinvolti dalla sua attività: naturale, sociale ed economico. Durante un incontro presso la nostra redazione, Luca Ruini, referente dell’azienda su queste tematiche, ci ha raccontato la genesi e le ricadute del progetto. Un modello anche per filiere diverse dal grano duro. “Il progetto di agricoltura sostenibile è nato da una curiosità. Sono ormai parecchi anni che svolgo analisi del ciclo di vita dei prodotti alimentari, calcolando in che maniera sono distribuiti gli impatti ambientali lungo la filiera agroalimentare. La prima volta che feci questo tipo di analisi su un pacchetto della nostra pasta, più di dieci anni fa, rimasi sorpreso: mi aspettavo di trovare i maggiori impatti ambientali nelle fasi di trasporto, produzione e packaging, e invece venne fuori che gli impatti più rilevanti erano legati alla fase agricola e a quella di cottura della pasta. Ovviamente, questo non fece sospendere le

attività sugli altri aspetti, ma mi portò a cercare di capire come si sarebbero potuti ridurre gli impatti in particolare sulla fase a monte della produzione, ossia durante la coltivazione. E quindi chiesi ai colleghi che si occupavano di migliorare la qualità del grano di indicarmi a chi potevo rivolgermi per capire in che modo ottimizzare in particolare l’uso dei fertilizzanti e della chimica in generale. Venni indirizzato verso chi per noi eseguiva, in campi sperimentali, prove agronomiche per migliorare la qualità del grano. La cosa interessante che emerse fu la disponibilità di una mole di dati e di analisi storiche che potevano servire per fare una comparazione tra diverse modalità di coltivazione. Si evidenziò come la corretta rotazione tra specie diverse che migliorano la fertilità del terreno (come le leguminose) e specie che assorbono i nutrienti consentisse di ottimizzare l’uso di fertilizzanti, riducendone le quantità immesse, e di chimica in generale. Chiesi quindi di effettuare un’analisi sulle rotazioni che in quel momento venivano praticate, nelle diverse aree da cui la nostra azienda acquista il grano – nel Nord, Centro e Sud Italia – e comparare i risultati con quelli che si sarebbero ottenuti con delle rotazionie pratiche più efficienti, alternative, adattate ai diversi contesti locali, per migliorare l’uso dei fertilizzanti e dei prodotti fitosanitari in genere. E chiesi, inoltre, di condurre l’analisi con un mix di indicatori, ambientali (ad esempio carbon footprint, consumo d’acqua...) e agronomici ‘classici’ (efficienza, costo, riduzione del rischio). L’analisi produsse un risultato inaspettato: al Centro e Sud d’Italia tutte le soluzioni alternative di corretta rotazione proposte producevano benefici rispetto a tutti gli indicatori: avevano minore impatto ambientale, in alcuni

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materiarinnovabile 05. 2015 casi aumentavano la resa e contraevano anche i costi, oltre a ridurre il rischio della presenza di determinate malattie. Ho rifatto i calcoli tre volte, perché prima di andare in azienda a raccontare una roba del genere, bisogna essere sicuri... Trovo che sia un esempio ‘da manuale’ di sostenibilità: cambiando il punto di vista si

La guida Barilla per la coltivazione sostenibile del grano duro di qualità in Italia 1. Rotazione delle colture 2. Ara il suolo con rispetto 3. Usa le varietà più adatte 4. Usa solo semi certificati e trattati 5. Semina quando è il momento 6. Usa la giusta quantità di semi 7. Controlla subito le specie infestanti 8. Dosa l’azoto in funzione dei bisogni delle piante 9. Proteggi le piante dalle malattie 10. Fai diventare sostenibile tutto il sistema di coltivazione

sono recuperate alcune vecchie pratiche (corretto avvicendamento colturale) e in effetti, quando non esistevano i fertilizzanti chimici, o ruotavi correttamente le colture oppure il terreno si impoveriva, si specializzavano malattie e erbe infestanti e non si riusciva a coltivare più niente.”

Info www.barilla.it

Come si è passati poi alla messa in pratica del progetto, sulla base delle evidenze emerse dalle analisi? “In effetti il secondo passaggio era molto delicato: io sono ingegnere elettronico e se vado a parlare agli agricoltori proprio non mi credono. Quindi è stato necessario un passaggio intermedio per testare il modello nella pratica. Scegliemmo alcune aziende agricole al centro, al nord e al sud che tipicamente lavoravano con noi per il miglioramento qualitativo della coltivazione del grano e provammo a confrontare sistemi di coltivazione tradizionale (spesso in mono

successione) e con l’impiego di queste rotazioni. In più, venne messo a punto un Sistema di supporto alle decisioni (Dss) per consentire agli agricoltori di adottare strategie mirate. Si tratta di utilizzare modelli di previsione dell’insorgenza di malattie che raccomandano quando e come impiegare fertilizzanti e fitofarmaci in funzione dell’andamento climatico, e quindi meteo. Inserendo in una piattaforma web dati sul tipo di terreno, su che varietà si è seminata nell’anno in corso e quale invece nell’anno precedente, e associando ai dati di una centralina meteo collocata in prossimità del campo, si ottengono indicazioni su cosa fare e quando, al fine di ottimizzare l’agrotecnica. Spesso in passato gli agricoltori effettuavano trattamenti chimici (fertilizzazione, diserbo e fungicidi) a ‘calendario’ senza valutare il reale stato delle colture o la reale infestazione (malattie o malerbe). Con questo nuovo sistema di supporto alle decisioni, sul web l’indicazione che si ha è ‘tratta solo se e quando ne hai bisogno’, ovvero se le condizioni climatiche rendono probabile l’insorgenza di malattie. Altrimenti, non fare nulla.” E sul piano dei risultati che riscontri si sono avuti? “Dai campi sperimentali, nel corso di tre anni consecutivi, abbiamo avuto esattamente una conferma dei risultati teorici e da lì abbiamo costruito un decalogo, la base con cui andare a raccontare agli agricoltori come pensavamo di poter suggerire loro di coltivare in modo più sostenibile e con maggiore efficienza. Inoltre, abbiamo iniziato ad ampliare la base di test in modo da avere maggiori conferme e coinvolgere sempre più agricoltori. Per arrivare all’anno scorso quando, usciti dalla fase di sperimentazione, sono state raccolte oltre 80.000 tonnellate, pari quasi a un terzo delle quantità che acquistiamo ogni anno in Italia. Un risultato che si è potuto ottenere grazie al fatto che ormai da più di 15 anni abbiamo stipulato con i nostri fornitori dei contratti di coltivazione.” Di cosa si tratta? “Stipuliamo da molti anni dei contratti di coltivazione con le organizzazioni dei produttori,


Case Histories sia per garantirci la qualità (per produrre la pasta è necessario che il grano abbia determinate caratteristiche qualitative soprattutto in termini contenuto proteico) sia per garantirci i quantitativi necessari a mantenere il nostro elevato volume di produzione. Avendo già questa base di rapporti consolidati, abbiamo previsto in questo tipo di accordi l’utilizzo del Dss messo a disposizione gratuitamente e il rispetto del Decalogo per la coltivazione del Grano Duro di Qualità, oltre che l’impiego di varietà di alto livello qualitativo. Grazie a questa combinazione di strumenti siamo arrivati ad avere a disposizione oltre 80.000 tonnellate di grano, delle quali sappiamo chi le ha coltivate e dove. Dietro a questo sistema di supporto delle decisioni c’è il lavoro svolto dallo spin off Horta dell’Università di Piacenza che offre all’agricoltore strumenti semplici da leggere che però hanno alle spalle un livello di complessità molto elevato e quindi un know-how importante. Il risultato – e qui parliamo di effetti sul capitale umano e sociale – è che si sono trasferite al mondo agricolo una serie di competenze che consentono di svolgere le pratiche agronomiche in modo corretto e più sostenibile.” Quindi si è trattato di una strategia articolata, che integrava ricerca, utilizzo di strumenti già in essere, definizione di un decalogo, trasferimento di competenze. Questa esperienza si è sviluppata in particolare in Italia o anche in altri luoghi? “Siamo partiti in Italia, perché in Italia ovviamente c’è il più grosso bacino di utilizzo di grano duro, ma non ci siamo fermati qui, anzi. Stiamo estendendo l’utilizzo di questi strumenti alla Grecia e alla Turchia, rilevando differenze significative. In Francia – dove invece il mondo dell’agricoltura è già molto più organizzato, le competenze ci sono, le aziende sono più grandi, ci sono supporti agronomici importanti – abbiamo trovato chi già applicava questo tipo di pratiche in maniera strutturata e da parecchio tempo. Lì si è trattato solo di individuare e calcolare quali fossero gli impatti per le singole produzioni. E stiamo sviluppando un progetto anche negli Stati Uniti. La cosa interessante è che quando feci i primi calcoli legati agli impatti ambientali del grano duro, ricevetti una telefonata dal Canada in cui si sosteneva che i miei dati erano sbagliati e mi si spiegava il perché. Cosa succedeva? Che anche lì avevano adottato il metodo delle rotazioni tra lenticchie e piselli perché già trent’anni fa era nata

addirittura un’associazione, Pulse Canada, con l’intento di insegnare agli agricoltori come coltivare in rotazione le alternative ai cereali. Il Canada è un paese esportatore e per essere competitivi sul mercato europeo era necessario ridurre l’utilizzo di fertilizzanti. In questo modo, partendo da un puro criterio di efficienza, hanno ridotto anche gli impatti ambientali. Negli ultimi trent’anni hanno ridotto del 30% consumi e impatti, adottando in modo strutturato questo tipo di pratiche agronomiche. E i risultati che hanno trovato i canadesi sono gli stessi che abbiamo trovato noi. Da quando abbiamo iniziato a rendicontare i risultati che si ottenevano applicando le corrette rotazioni abbiamo rilevato riduzioni fino al 30%, quindi numeri grossi: vuol dire 400 kg di CO2 equivalente per tonnellata di grano duro. Quindi se faccio solo esattamente quello che devo fare, quando è necessario farlo in funzione delle condizioni microclimatiche, solo con questo riduco impatto ambientale e costi, miglioro la resa, diminuisco il rischio di malattie; perché faccio le cose che servono quando servono.” Un modo di operare che mette in discussione il processo di crescente standardizzazione che l’agricoltura ha visto in questi ultimi cinquant’anni. “Sì, in agricoltura sostenibilità vuol dire essere capaci di adattarsi al contesto: cambia il contesto, cambia la soluzione. Posso avere lo stesso modello di analisi, ma poi le soluzioni sono diverse. Se cambio l’area geografica dove coltivo, cambia il tipo di rotazione che devo fare perché devo mettere insieme le caratteristiche del terreno, le condizioni climatiche e quali materie prime vengono richieste localmente. Un esempio: in Emilia Romagna, Barilla acquista pomodoro, basilico e grano duro,

quindi ha la possibilità di proporre all’agricoltore di ruotare questi tre tipi di colture e sono io, Barilla, che direttamente gliele acquisto. Facile no?” Che risultati si sono avuti nella valorizzazione di un bene comune chiave come il suolo? “La modalità di coltivazione adottata preserva

In agricoltura sostenibilità vuol dire essere capaci di adattarsi al contesto: cambia il contesto, cambia la soluzione. Se cambio l’area geografica dove coltivo, cambio il tipo di rotazione che devo fare perché devo mettere insieme le caratteristiche del terreno, le condizioni climatiche e quali materie prime vengono richieste localmente.

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materiarinnovabile 05. 2015 la qualità del suolo, perché decido quanto terreno uso, se aro, quanto aro, come semino. Nel decalogo che proponiamo ci sono una serie di raccomandazioni che vengono applicate in funzione del contesto e di quello che ho coltivato prima: e questo ha un impatto molto differente rispetto alla qualità del terreno. Effettuando correttamente le rotazioni, per esempio, posso raggiungere un equilibrio che mi consente di ridurre l’utilizzo fertilizzanti.” Intervenendo quindi su un’ampia gamma di quelle che si definiscono, con un certo gusto del paradosso, “esternalità”… “Oggi c’è in generale meno cura del territorio e quindi abbiamo provato a capire se promuovendo un determinato modello di agricoltura si possono avere impatti positivi da questo punto di vista. Soprattutto applicandolo su aree ‘svantaggiate’, dove normalmente non andrei per una serie di motivi, soprattutto economici. Ci interessava vedere che tipo di beneficio potrebbe portare rispetto alle comunità e in che maniera potrebbe essere valorizzato. Sono pochissimi gli studi che provano a quantificare, per esempio, il danno provocato da un terreno lasciato in abbandono. Il costo del non fare, in sostanza. E, sia chiaro, non lo facciamo per filantropia, ma per capire se e come alcune pratiche agronomiche dovrebbero essere sostenute proprio per garantire la tutela del territorio. Servirebbe un’accurata valutazione costi/ benefici, che ancora manca.”

Oggi c’è in generale meno cura del territorio e quindi abbiamo provato a capire se promuovendo un determinato modello di agricoltura si possono avere impatti positivo da questo punto di vista, soprattutto se lo applico su aree “svantaggiate”, dove normalmente non andremmo per una serie di motivi, soprattutto economici.

Quindi avete sperimentato l’applicazione di questo tipo di procedure su aree marginali o svantaggiate? “Non ancora. Stavamo pensando di poter verificare su qualche area, soprattutto nel Sud Italia. Al sud in alcuni casi chi possiede la terra non la coltiva e la affida a terzisti, che hanno interesse solo a seminare e raccogliere, non ad aver cura del terreno. Il grano è molto semplice da coltivare e quindi ci sono alcune zone a vocazione grano duro che hanno sfruttato eccessivamente il terreno e trascurato la cura del territorio. Questo però ci ha condotti a capire, ancora una volta, che bisogna cambiare il punto di vista: il problema a questo punto non è il rapporto tra l’azienda Barilla e l’agricoltore per avere una determinata quantità di grano, ma è come riuscire a ottimizzare dal punto di vista economico e ambientale quello specifico terreno. Il punto di vista è quello del terreno. Quindi ho fatto un ragionamento con i miei colleghi dicendo: facciamo contratti di coltivazione per il grano duro, ma poi noi acquistiamo anche lo zucchero, acquistiamo anche il pomodoro, il basilico, e spesso esattamente nelle stesse aree, dagli stessi produttori, le stesse cooperative. La domanda che feci loro era: c’è la possibilità di mettersi intorno a un tavolo con i vari altri attori, cioè chi coltiva i pomodori, chi coltiva la barbabietola da zucchero per capire se c’è la possibilità di proporre delle rotazioni tra queste colture che sono correttamente complementari dal punto di vista agronomico per

nutrire correttamente il terreno? Non era mai stata fatta una proposta di questo genere. Oggi siamo già arrivati a firmare quattro accordi che possono permettono all’agricoltore di fare una corretta programmazione dell’uso del suolo. È un modo di relazionarsi molto differente, che mette al centro il terreno, il capitale naturale, e in ultima analisi il bene comune. Nel giro di un anno e mezzo siamo riusciti a mettere attorno a un tavolo e a firmare accordi cui mai nessuno aveva pensato. Perché il punto di vista era diverso.” Cambiare il punto di vista vi ha permesso di intervenire contemporaneamente e in modo efficace sul capitale naturale e su quello umano, quindi sul livello di partecipazione di questi soggetti anche a livello di consapevolezza rispetto a come è fatta la filiera. Da questo punto di vista come commenti i risultati ottenuti? “Da un lato ne sono sorpreso, perché è interessante vedere come effettivamente un approccio di sostenibilità ti mette in condizione di guardare un problema da un punto di vista differente. E ovviamente conduce a soluzioni differenti, che mettono insieme e ottimizzano più aspetti: quello del capitale naturale e quello economico, perché comunque gli agricoltori spendono meno e quindi hanno beneficio anche a livello dell’azienda. Inoltre la maggiore e più costante disponibilità di grano duro di qualità mi permette di acquistare, attraverso i contratti di coltivazione, la materia prima di cui ho


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La cosa che mi ha stupito di questa operazione è che tanto riducevamo l’impatto sull’ambiente ambientale e tanto più si riducevamo i costi di produzione.

bisogno. Una serie di benefici a cascata. L’altra cosa positiva è che si introduce un elemento di programmazione che negli ultimi anni, a livello sia nazionale sia locale è stato assente. Non è facile far capire che agendo in un certo modo si ottiene un vantaggio generale. Bisogna che interessi diversi riconoscano che c’è un interesse comune che è utile e conveniente per tutti perseguire. Adottare il punto di vista del terreno non è proprio usuale, c’è di mezzo il mercato con le sue dinamiche che non sono legate solo ai costi di produzione ma anche a quanto è piovuto in Canada o al tempo che ha fatto in Australia. Ma si tratta di un cambiamento di ottica necessario, che porta le aziende a domandarsi come lavorare con la filiera. Cosa non facile, perché si sta lavorando su sistemi complessi, con tanti soggetti. Ma è una strada obbligata a mio avviso.” La risposta c’è stata? “Certo, anzi quest’anno ci aspettiamo addirittura un ulteriore aumento. Una volta abbiamo inserito in questi progetti un agricoltore legato a Coldiretti, che inizialmente doveva fare solo un appezzamento. Poi, quando ha scoperto quanto poteva risparmiare ha applicato lo stesso strumento su tutto il suo terreno e ha iniziato a raccontarlo, che era proprio quello che volevamo. All’inizio avevamo fatto fatica a convincerlo, ma quando ha capito come funzionava e quali risultati ci aspettavamo che avesse, e i risultati sono arrivati… è perfetto.”

E le ricadute in termini di miglioramento di qualità del prodotto? “Ovviamente c’è un aumento della qualità del prodotto perché una delle caratteristiche principali è la quantità di proteine, e la quantità di proteine nel grano è strettamente legata a quanti nutrienti trova la pianta nel suolo. Inoltre, storicamente Barilla partecipa ed è coinvolta in un’attività di miglioramento della qualità delle varietà di grano, lavorando sulle modalità di coltivazione. Negli ultimi anni abbiamo introdotto nuove varietà di grano di alta qualità adatte alla pastificazione. In particolare, abbiamo selezionato più di una varietà che avesse le stesse caratteristiche qualitative dei migliori grani statunitensi, ma fosse adatta alle condizioni ambientali del Nord e del Centro-Sud Italia. Portare in Italia la produzione di queste 40.000 tonnellate di grano duro di alta qualità – che prima venivano coltivate nelle zone a clima desertico degli Stati Uniti – ha significato un risparmio di acqua di irrigazione pari a 35 milioni di metri cubi/anno. Là veniva irrigato, qui da noi no. Nei propri stabilimenti nel mondo Barilla impiega annualmente dai 2 ai 3 milioni di metri cubi di acqua; questo dà le proporzioni del risparmio di risorse idriche conseguito.” L’ultima domanda, la domanda chiave per un’azienda, è quella sulla convenienza economica di questo tipo di strategia. “La cosa che mi ha stupito di questa operazione è che tanto riducevamo l’impatto ambientale e tanto più si riducevamo i costi di produzione. Come già detto: l’agricoltore ha minori costi da sostenere, l’azienda ha la qualità e la quantità di grano di cui ha bisogno. Un vantaggio importante: con i contratti di coltivazione posso prevenire situazioni di scarsità di approvvigionamento e di aumento dei prezzi. In questo modo lo scorso anno abbiamo coperto buona parte del fabbisogno. Un aspetto fondamentale di supply security. Diversamente, saremmo in condizione di dover comprare il grano in giro per il mondo, rischiando di pagarlo di più rispetto a quello che facciamo coltivare. E in Italia cerchiamo di farlo in prossimità di impianti di macinazione. Minor, costo, minor impatto ambientale. La convenienza è evidente.”

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Il CARTONE

vince sul degrado

di Sergio Ferraris

Al Rione Sanità ogni giorno si raccolgono 2,3 tonnellate di cartone. Un risultato eccellente dovuto non solo alla collaborazione di cittadini e commercianti, ma soprattutto all’essere riusciti a utilizzare il riciclo come occasione di promozione sociale e opportunità di lavoro. E l’intenzione è quella di trasferire il know-how qui maturato per farne un modello da esportare in tutta la città, e non solo.

Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.

È uno dei luoghi con la più alta densità abitativa in Italia. È un centro storico. È al sud. Eppure lì il riciclo funziona. Parliamo del Rione Sanità al centro di Napoli, 67.000 abitanti, con una densità abitativa di 13.400 abitanti/km2 (Casavatore, sempre nei pressi di Napoli, primo in Italia tra i Comuni conta “solo” 12.253 abitanti/km2), dove la raccolta, specialmente, di cartone da dicembre 2014 è una realtà concreta e vincente. Vicoli stretti, spesso in salita, piccole realtà commerciali e ben due mercati sono solo alcuni degli ingredienti che

la squadra della cooperativa sociale “Ambiente Solidale” si trova a dover affrontare ogni giorno per portare al termine la raccolta di cartone nel quartiere. Un’attività che ben pochi avrebbero il coraggio di mettere in piedi, anche in zone più “accoglienti” come per esempio il centro storico di Roma, dove a inizio 2015 si è arrivati a una raccolta di 4,7 tonnellate al giorno di cartone, ma su una popolazione di 196.000 persone. “Ora al Rione Sanità raccogliamo 2,3 tonnellate di cartone al giorno e stimiamo che ci sia stato un incremento del 200% rispetto al sistema


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Negli anni ’90, infatti, la gestione dei rifiuti era affidata dalla municipalizzata Asia all’esterno e fu internalizzata dalla giunta de Magistris per porre un argine agli scandali e alla cattiva conduzione del servizio, che sfociò – verso la metà degli anni Duemila – nei roghi di rifiuti incontrollati in tutta la città. Viste le premesse è comprensibile che la fiducia verso una gestione sostenibile dei rifiuti da parte dei cittadini fosse, nei fatti, minima. “Nell’estate 2012 mi arrivò una telefonata da Luca Meldolesi già docente d’economia all’Università Federico II di Napoli, che dopo una riunione con Marco Vitale, economista d’impresa e Carlo Montalbetti, direttore generale di Comieco, mi diceva che su Napoli i problemi erano grandi e che la raccolta di cartone era addirittura in calo” racconta Paolo Caputo, economista e aziendalista che con Roberto Celentano economista dello sviluppo ha promosso la sperimentazione. “Così ci siamo messi al lavoro, tenendo conto che in una città difficile come Napoli è necessario creare una sorta di convergenza d’interessi tra cittadini che abbia anche risvolti economici. Ossia il commerciante e il cittadino hanno interesse a tenere pulito il territorio, mentre altri cittadini hanno a loro volta interesse a trasformare la soluzione a questo problema in un lavoro.” Ed è proprio una rete dal basso che ha consentito alla raccolta di cartone di decollare. Il progetto, infatti, ha avuto una spinta decisiva da Padre Alex Zanotelli che ha coinvolto la chiesa, realtà dei cittadini come la Rete Sanità e ha trovato un appoggio fondamentale da parte delle istituzioni, specialmente nella figura di Tommaso Sodano, che all’epoca della partenza del progetto era vicesindaco della città partenopea. Sul fronte del radicamento territoriale del progetto l’opera del giovane parroco della parrocchia Santa Maria dei Miracoli, Padre Valentino De Angelis, 35 anni e da due al Rione Sanità, è stata essenziale.

Ora al Rione Sanità raccogliamo 2,3 tonnellate di cartone al giorno e stimiamo che ci sia stato un incremento del 200% rispetto al sistema di raccolta precedente.

Antonio Capece

L’orografia urbana sociale del Rione Sanità, infatti, è complessa. “Utilizziamo un mezzo di piccole dimensioni per poter arrivare ovunque, impiegando sei addetti, per sei giorni su sette” continua Capece. “Con questi vincoli dobbiamo scaricare sei volte al giorno in piattaforma, ma raccogliamo quasi solo cartone pulito e di prima categoria, anche perché abbiamo una grande collaborazione da parte dei cittadini e dei negozianti.” E questa collaborazione, che sta alla base del successo dell’iniziativa, non è scontata ed è resa possibile da un altro mix d’ingredienti dal carattere non tecnico, ma sociale. Il progetto di raccolta di cartone, infatti, arriva dopo anni di traversie e di cambiamenti di rotta sul fronte della gestione dei rifiuti.

“Era necessario che ci fosse un ente morale, al di sopra delle parti, per consentire la creazione di una rete tra pubblico e privato”, dice Padre De Angelis. “La proposta di Alex Zanotelli sulla raccolta del cartone è stato un modo concreto per rendere in maniera altrettanto concreta la speranza, in un territorio dove la gente aveva dimenticato l’ambiente.” La parrocchia di Padre De Angelis è stata un punto di riferimento importante per l’iniziativa, al punto che all’inizio i locali della chiesa erano diventati una “piattaforma” per la raccolta. “La risposta dei parrocchiani è stata molto positiva, direi accolta con entusiasmo perché il desiderio di fare qualcosa per il Rione Sanità da parte degli abitanti è forte”, prosegue Padre De Angelis. “Ciò che è difficile vedere al Rione Sanità sono le istituzioni, bisogna faticare per trovarle, e spesso sembra che il rione sia una terra di nessuno dove

Padre Valentino De Angelis

di raccolta precedente” ci dice Antonio Capece, presidente della cooperativa Ambiente Solidale. “Ma non si tratta di una semplice attività di raccolta, perché il quartiere è una realtà complessa e si sono dovute mettere in campo risorse e metodologie inedite.”

La parrocchia di Padre De Angelis è stata un punto di riferimento importante per l’iniziativa, al punto che all’inizio i locali della chiesa erano diventati una “piattaforma” per la raccolta.

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i controlli sono inesistenti. Per questo motivo la parrocchia può avere un ruolo importante.” E di sicuro contano parecchio i riferimenti continui che Padre De Angelis fa da tempo durante la messa domenicale circa l’importanza del riciclo e il rispetto del creato. “Non è vero che questa è gente di spazzatura e che il quartiere è da riciclare conclude Padre De Angelis, parlando dei cittadini del Rione Sanità, mentre si appresta a raggiungere una famiglia del quartiere in scooter. “Il Rione Sanità può fare un ottimo riciclo e penso che il futuro andrà in questa direzione, con la raccolta di altri materiali.” E non bisogna dimenticare che il Rione Sanità oltre ad avere problemi di tipo urbanistico e sociale è affetto da un elevato tasso di disoccupazione e per questa ragione anche la scelta del soggetto incaricato della raccolta è stata strategica sotto il profilo della comunicazione. “Scegliere una cooperativa che dà lavoro a ex detenuti ed ex tossicodipendenti è un segnale”, afferma Antonio

Gli addetti alla raccolta sono […] persone che conoscono bene il rione, i suoi abitanti e sono a loro volta riconosciuti dai cittadini. In questa maniera abbiamo dei terminali, delle antenne sul territorio che sono al tempo stesso la testimonianza concreta circa il fatto che il recupero e il riciclo sono un’occasione di riscatto.

Delia Del Gaudio

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Capece, uscendo dalla chiesa di Santa Maria dei Miracoli. “E oltre che un segnale è anche un simbolo e un valore con il quale si coniuga l’ambiente, l’economia e il lavoro, caratterizzando in maniera precisa l’attività del riciclo.” La cooperativa Ambiente Solidale è molto attenta all’aspetto integrato della propria attività circa la sostenibilità sociale, oltre che ambientale. Su attività consolidate come quella dei vestiti usati destina una percentuale degli introiti alla lotta contro la povertà alimentare, ma per il Rione Sanità ha voluto andare oltre. “Gli addetti alla raccolta sono cittadini del Rione Sanità stesso”, dice Delia Del Gaudio, responsabile comunicazione di Ambiente Solidale. “Si tratta di persone che conoscono bene il rione, i suoi abitanti e sono a loro volta riconosciuti dai cittadini. In questa maniera abbiamo dei terminali, delle antenne sul territorio che sono al tempo stesso la testimonianza concreta circa il fatto che il recupero e il riciclo sono un’occasione di riscatto per persone dal passato problematico, attraverso il lavoro e al tempo stesso una possibilità di riscatto per il Rione Sanità.” Nel giro di pochi mesi l’esperienza della raccolta di cartone al Rione Sanità ha fornito una quantità d’indicazioni positive e di potenzialità circa questa metodologia e il Comune si è mosso ai massimi livelli. Tommaso Sodano, da vicesindaco, infatti ha messo a punto un bando per allargare l’esperienza del Rione Sanità a 675.000 abitanti di Napoli, in pratica il 65% del territorio partenopeo. La scommessa è quella di utilizzare una sperimentazione sul riciclo per farne un modello da esportare in tutta la città, ma non solo. Ambiente Solidale, infatti, ha partecipato al bando del Comune di Napoli in partenariato con la Cooperativa Sociale Arcobaleno di Torino. E l’intenzione è quella di esportare il know-how messo a punto nel Rione Sanità per migliorare la raccolta di cartone e utilizzare il riciclo come occasione di promozione sociale. Un modello inedito per trovare la connessione tra ambiente e sociale, due aspetti che in Italia hanno ancora una grande difficoltà anche solo a dialogare.


Case Histories Intervista

La raccolta è capillare Roberto Di Molfetta, responsabile Area riciclo e recupero di Comieco

Sulla sperimentazione al Rione Sanità abbiamo sentito Roberto Di Molfetta, che ci ha evidenziato pregi, ma anche criticità dell’esperienza. Foto: Tommaso Gesuato

Come è nato il progetto della raccolta del cartone al Rione Sanità? È un progetto nato dall’ esigenza di trovare forme per incrementare la raccolta del cartone nei centri più problematici, ma con forte potenziale di raccolta: si è pensato a una sperimentazione al Rione Sanità dove abbiamo trovato un tessuto sociale disponibile e fertile e l’adesione entusiasta di Tommaso Sodano, allora vicesindaco di Napoli. E così siamo riusciti ad avviare questa che è una sperimentazione della durata di 6-8 mesi. Avendo già su Napoli una convenzione con Asia, nell’ambito dell’accordo Anci-Conai, abbiamo sviluppato un’intesa specifica per la sperimentazione nel Rione Sanità. Che obiettivo vi ponete con questa sperimentazione? L’obiettivo è quello d’intercettare sia le utenze commerciali, sia quelle produttive che generano come rifiuto il cartone. Ma oltre a ciò abbiamo voluto verificare la possibilità di sviluppare un servizio di raccolta capillare che andasse più in profondità di quello di Asia, in una zona dove le criticità sono rappresentate dalla conformazione fisica del quartiere e dal basso coinvolgimento in generale dell’utenza rispetto al servizio. Per fare ciò siamo stati anche attenti al fatto che il servizio della sperimentazione non si sovrapponesse a quello di Asia, ma lo completasse.

Info www.ambientesolidale.it www.comieco.org

E sul fronte sociale? La sperimentazione nel Rione Sanità ha avuto come caratteristica anche quella di andare al di là delle finalità ambientali abbracciando obiettivi sociali, ossia quello di consentire a persone disagiate e del quartiere d’avere un reddito. Su questo fronte è stata fondamentale l’attività della Rete Sanità di Alex Zanotelli e della parrocchia di Santa Maria dei Miracoli di Padre Valentino De Angelis. Si può tracciare un primo bilancio? Sì. Questa è stata un’esperienza che ha avuto luci e ombre e dalla quale abbiamo imparato parecchio. Da un lato abbiamo avuto un aumento della raccolta del cartone, con la partecipazione di soggetti che in precedenza erano assenti. E ora si sta concretizzando l’allargamento a una zona più vasta tramite il bando che Asia Napoli ha messo a punto anche grazie alla sperimentazione. La parte più problematica è stata quella relativa al bacino ottimale che deve essere più ampio per far tornare i conti. Al Rione Sanità, infine, sarebbe stato utile avere un mezzo più grande, da affiancare a quello piccolo che entra nei vicoli, per poter aumentare le quantità e contenere i costi.

Che differenza c’è tra la raccolta fatta in questa maniera e quella tradizionale? Parecchia. Si passa da una raccolta di cartone depositato vicino ai rifiuti indifferenziati a una raccolta per singolo utente in funzione delle sue esigenze. Da evidenziare che Asia, per verificare le modalità, su un’area più vasta, ha affidato alla cooperativa Arcobaleno di Torino – pioniere in Italia della cooperazione sociale applicata al settore della raccolta differenziata – in collaborazione con una cooperativa locale, una seconda sperimentazione su un’altra zona di Napoli. Anche in questo caso l’esperienza è andata bene. C’è stata una riduzione dei costi per Asia e un aumento della raccolta. Comieco ha dei programmi per il Sud. Pensate di utilizzare quest’esperienza? Sì, pensiamo che una serie di modalità di questa sperimentazione possano inserirsi nel nostro progetto per il Sud che prevede il finanziamento di strumenti e automezzi. Noi prevediamo che al Sud si possa raddoppiare la raccolta, passando dalle 624.000 tonnellate raccolte ogni anno a 1,3 milioni di tonnellate. A Napoli, rimanendo nello specifico stimiamo che si possano superare in breve tempo le 40.000 tonnellate, partendo dalle 30.000 tonnellate del 2014. Il potenziale di raccolta a Napoli è tra le 60 e 70.000 tonnellate sviluppando la raccolta di carta presso le famiglie e gli uffici e del cartone presso tutte le utenze della città. Quindi pensate che si possa replicare quest’esperienza? Pensiamo di sì. Il bando del Comune di Napoli per la raccolta del cartone che riguarda circa metà del territorio ha preso molto dall’esperienza partenopea delle cooperative. Tutte le aree dove c’è una difficoltà logistica specifica sono adatte, ma occorrono anche altri fattori da prendere in considerazione. Ci deve essere un interesse a sviluppare questo tipo di servizio da parte degli enti locali e bisogna valutare con attenzione l’ottimizzazione del servizio e tutti i costi cessanti legati alla sottrazione del cartone dal flusso dei rifiuti indifferenziati. E inoltre occorre utilizzare realtà radicate sul territorio che abbiano un know-how specifico che non è possibile improvvisare. Roma, con il suo centro storico, potrebbe essere un banco di prova? Noi abbiamo presentato da tempo ad Ama (l’azienda municipalizzata di Roma) un piano specifico per la raccolta del cartone e siamo in attesa. Ama, infatti, ancora non riesce a intercettare tutto il cartone disponibile. Servono servizi diversi, molto più capillari che arrivino a utilizzare modalità innovative, come, per esempio, la segnalazione da parte dei negozi circa la presenza di cartone.

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500 MATERIALI

sotto osservazione Ogni giorno usiamo prodotti che hanno una vita media di pochi minuti, ma che richiedono risorse che si rigenerano in milioni di anni. L’indice di rinnovabilità mette in relazione la vita di un prodotto con i tempi di rigenerazione del materiale impiegato per realizzarlo. Anche con l’obiettivo di responsabilizzare il consumatore al momento dell’acquisto. di Marco Capellini

Quando parliamo di prodotti e quindi di materiali, la rinnovabilità va intesa come la capacità di un materiale di rigenerarsi col tempo (mesi o anni) per poi tornare a disposizione del sistema. L’aumento della popolazione mondiale, il continuo cambiamento degli stili di vita, il consumismo, i prodotti usa e getta stanno portando a un sempre

più a un elevato sfruttamento delle risorse naturali: un aspetto che necessariamente va controllato favorendo, appunto, materiali e prodotti della rinnovabilità. Senza un adeguato controllo dei consumi il costante aumento della domanda di risorse porterà inevitabilmente a un fallimento del sistema, cosa che rappresenterebbe una grossa sconfitta sia sul piano ambientale sia su quello economico.

Studio Marlene Huissoud

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Case Histories

Per raggiungere risultati e obiettivi di significativo interesse nella salvaguardia delle risorse naturali, è necessario orientare le scelte del consumatore attraverso strumenti informativi/formativi chiari, trasparenti e che permettano di mettere in relazione la scelta e l’acquisto di un prodotto

Marco Capellini, tra i primi a occuparsi in Italia di design per la sostenibilità. Ceo di Matrec – Sustainable Materials & Trends, e libero professionista presso il suo studio MarcoCapellini | sustainable design & consulting.

STUDIO MARLENE HUISSOUD: Il propoli, una sostanza resinosa di origine vegetale che le api raccolgono ed elaborano con l’aggiunta di cera, polline ed enzimi, viene usato per realizzare dei vasi. Questo è stato manipolato come il vetro utilizzando la tecnica di soffiaggio. Info www.marlene-huissoud.com

Nanollose Pty Ltd

Due anni fa, partendo da questo principio, abbiamo avviato con MATREC e alcune aziende un progetto per la definizione di “indici di rinnovabilità”, dove l’obiettivo è stato mettere in relazione un prodotto industriale con il tempo di ricrescita dei materiali impiegati per realizzarlo. E quindi delle risorse naturali necessarie. Il concetto è di arrivare a creare un rapporto di responsabilità dell’azienda per le scelte materiche di prodotto, grazie al quale il consumatore sarà in grado di valutare e decidere la “qualità di un prodotto” anche in relazione ai tempi di rigenerazione del materiale impiegato. Oggi, a due anni dall’inizio del progetto, abbiamo indicizzato oltre 500 materiali di uso comune tra naturali e riciclati, suddivisi per tipologia e origine. Per verificare l’interesse e la validità dello strumento, abbiamo condotto delle prove di applicazione degli indici di rinnovabilità su alcuni prodotti di arredamento, capi di abbigliamento, accessori e imballaggi, riscuotendo un forte interesse da parte delle imprese. Ne è emerso che ci sono prodotti che consumiamo e/o utilizziamo giornalmente, realizzati con materiali che impiegano centinaia o migliaia di anni per rigenerarsi, mentre per altri la rigenerazione dei materiali è rapida: da pochi mesi a qualche anno. Tutto questo deve essere comunicato in modo diretto e con semplicità al consumatore per informarlo che ci sono prodotti che hanno una vita media di qualche minuto, ma che richiedono risorse che si rigenerano con milioni di anni. A livello internazionale diverse aziende hanno iniziato a sperimentare e sviluppare prodotti solo utilizzando materiali rinnovabili. In alcuni casi una vera e propria rivoluzione che inizia ad avere un riscontro positivo dal mercato, con scelte materiche che ricordano quelle degli anni Cinquanta e Sessanta quando l’artigianalità e la creatività dovevano essere espresse con i materiali allora disponibili.

con la quantità di risorse impiegate e il tempo loro necessario per rigenerarsi. Inoltre, l’insieme di questi aspetti deve essere associato ad adeguati strumenti di valutazione della circolarità di un prodotto e attraverso la misurazione dei risultati finali. Troppe aziende, infatti, utilizzano la sostenibilità come strategia di marketing nascondendosi dietro spot e slogan che evidenziano la riciclabilità del prodotto, senza espressamente dire chi è il soggetto che poi ricicla quel prodotto. Messaggi irresponsabili a discapito del sistema, del consumatore e di quelle aziende che, invece, sono in grado di gestire seriamente l’intero ciclo di vita di un prodotto e di salvaguardare le risorse. Gli indici di rinnovabilità, applicati in un contesto di economia circolare, sono la soluzione per avviare un processo vincente e di tutela delle risorse naturali rinnovabili.

Studio Marlene Huissoud

La salvaguardia e tutela del patrimonio “naturale” è uno dei temi centrali della legislazione nazionale e comunitaria. Le politiche ambientali e gli accordi internazionali dei diversi paesi sono orientati a cercare di salvaguardare le risorse naturali anche attraverso strumenti e strategie che non sempre vengono percepite e correttamente interpretate dal consumatore. L’acceso dibattito sull’economia circolare e la volontà della Commissione europea di creare un circolo virtuoso in materia di rifiuti sono un primo passo importante. Si tratta di un tema complesso che però merita di essere portato direttamente all’attenzione del consumatore, per permettergli di conoscere la “rinnovabilità” del prodotto e responsabilizzarlo al momento dell’acquisto.

NANOLLOSE PTY LTD: Cellulosa microbica proveniente dalla fermentazione della birra e utilizzata per realizzare tessuti sostenibili. Il processo di fermentazione può essere effettuato su scala industriale senza impatti ambientali ed economici. Info nanollose.com

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VEUVE CLICQUOT: Il Naturally Clicquot II è una nuova versione del packaging eco-responsabile in amido di patate. La confezione, pur mantenendo inalterati i materiali utilizzati, ha una nuova forma che ne facilita il trasporto.

Veuve Clicquot

Info www.veuve-clicquot.com

Solidwool

SOLIDWOOL: Sedia Hembury ispirata alla Eames Plastic Side Chair realizzata negli anni ’50 con fibra di vetro. Nella nuova versione la fibra di vetro è stata sostituita da un materiale composito realizzato da lana (come rinforzo) e bio-resine (come legante).

GUAPA CYCLES: Telaio per bicicletta in bambù e lino impregnato con un materiale composito. Il telaio è protetto da un rivestimento resistente ai raggi UV e all’acqua, e mantiene l’estetica del legno naturale.

Info www.solidwool.com

Guapa Cycles

Deepmello

Info www.guapa.cc

DEEPMELLO: Pelle conciata con un tannino naturale estratto dalla radice del rabarbaro, di provenienza locale. Rispetto a quella convenzionale, questa lavorazione non usa sali di cromo dannosi per l’ambiente, inquinanti e metalli pesanti, e il cuoio è 100% biodegradabile. Info www.deepmello.com


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MERCEDES-BENZ E CORTICEIRA AMORIM CORK COMPOSITES: Il Design Studio della Mercedes-Benz, in collaborazione con la Corticeira Amorim Cork Composites, ha realizzato per il surfista americano Garret Mcnamara la prima tavola da surf prodotta con sughero portoghese.

HEMP EYEWEAR: Occhiali da sole realizzati in fibre di canapa e di lino, e rivestiti in resina naturale impermeabile. Le lenti polarizzate sono fabbricate con materiale biologico. Tutti i materiali utilizzati (imballaggio compreso) sono riciclabili e biodegradabili.

Abeego Design Inc.

Info www.hempeyewear.com

Mercedes-Benz e Corticeira Amorim Cork Composites

Hemp Eyewear

Info www.amorimcorkitalia.com

ABEEGO DESIGNS INC.: Packaging per alimenti realizzato in cera d’api, olio di jojoba e resina di albero infusi in un tessuto di canapa e cotone biologico. Malleabile a temperatura ambiente, irrigidisce una volta raffreddato mantenendo la forma voluta, ed è isolante e traspirante. Info abeego.com

OAT SHOES B.V.: Scarpa 100% biodegradabile. Soletta in sughero raccolto eticamente in Portogallo; suola in bio-plastica certificata; tomaia in lino, cotone certificato e pelle biodegradabile. Temperatura, umidità e quantità di microbi nel suolo influenzano la velocità di degradazione.

OAT Shoes B.V

Info www.oatshoes.com


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BIOECONOMIA: il binomio virtuoso tra cluster nazionali e regioni a cura del Cluster SPRING

2000 miliardi di euro, 22 milioni di posti di lavoro, 9% dell’occupazione complessiva dell’Unione europea: con queste cifre la bioeconomia si presenta come opportunità unica per lo sviluppo sostenibile comunitario e degli stati membri. Per diventarlo, deve partire dalla valorizzazioni delle specificità locali, come dimostra l’esempio italiano del Cluster Tecnologico della Chimica Verde.

Cluster SPRING è il cluster nazionale italiano della chimica verde.

Una piattaforma nazionale per promuovere un modello di economia circolare incentrato su filiere innovative, integrate e multisettoriali: così si presenta il Cluster Tecnologico Nazionale della Chimica Verde SPRING, nato per promuovere una bioeconomia intesa come rigenerazione territoriale. SPRING rappresenta infatti l’intera filiera

italiana biobased: dall’agricoltura, alla ricerca nel campo della chimica da fonti rinnovabili e delle biotecnologie industriali, alla realizzazione di materiali e bioprodotti, all’industria di trasformazione e alla fase di smaltimento. Forte dell’eterogeneità dei suoi oltre 100 associati (tra cui grandi player industriali, Pmi, università, centri di ricerca pubblici e privati, associazioni, fondazioni, poli di innovazione e altri soggetti


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Le Regioni saranno protagoniste di una rigenerazione territoriale che moltiplichi su scala nazionale competenze e casi studio di eccellenza già presenti a livello locale.

attivi nel campo della comunicazione ambientale e del trasferimento tecnologico), il Cluster si propone di rilanciare la chimica nazionale dal punto di vista della sostenibilità ambientale, sociale ed economica, stimolando ricerca e investimenti in nuove tecnologie con un approccio interdisciplinare e la creazione di bioraffinerie integrate, partendo dalla valorizzazione delle specificità dei territori e in costante dialogo con gli attori locali. Attori locali rappresentati innanzitutto dalle Regioni italiane – nello specifico Basilicata, Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sardegna, Veneto e Umbria – in qualità di interlocutori privilegiati dell’aggregazione, che fin dall’inizio si sono impegnati a sostenerne le attività attraverso strategie di sviluppo e documenti di programmazione coerenti con la sua visione e i suoi obiettivi. Tale dialogo trova oggi ulteriore conferma nell’istituzione di un Tavolo Permanente Cluster/Amministrazioni regionali, che permetterà nei prossimi mesi di facilitare il confronto reciproco in materia di programmazione locale strategica e la costituzione di partnership interregionali, stimolando le relazioni con istituzioni e stakeholder nazionali ed europei e favorendo le ricadute positive sui territori e la condivisione di best practices a supporto di attività di ricerca e innovazione. Se la bioeconomia rappresenta una opportunità incredibile per lo sviluppo sostenibile comunitario

e degli stati membri – in un mercato europeo stimato in 2000 miliardi di euro e che dà impiego a oltre 22 milioni di persone, il 9% dell’occupazione complessiva dell’Unione – sono infatti proprio le Regioni a giocare un ruolo chiave all’interno di tale strategia. Regioni chiamate a diventare ”sostenibili”, come già espresso dal Bioeconomy Panel della Commissione Europea e dalla 3rd Bioeconomy Stakeholders’ Conference di Torino nell’ottobre 2014: vale a dire protagoniste di una rigenerazione territoriale che moltiplichi su scala nazionale competenze e casi studio di eccellenza che già esistono a livello locale. In che modo? Favorendo l’utilizzo efficiente delle risorse, la messa a punto di processi a basso impatto ambientale e lo sviluppo di progetti di innovazione tecnologica multidisciplinari, mettendo in atto una crescita economica e sociale integrata e rispettosa degli ecosistemi e incoraggiando lo sviluppo una cultura comune della bioeconomia. SPRING si pone proprio al servizio delle Regioni e di questo loro importante compito, grazie anche a una Roadmap di strategia e innovazione industriale elaborata con la collaborazione della società D’Appolonia. La Roadmap è il documento strategico che delinea la posizione dell’Associazione sulle linee di sviluppo del settore della bioeconomia in Italia. Essa rappresenta da un lato l’espressione delle progettualità del Cluster in materia di R&D – favorendo la creazione di partnership e l’accesso a opportunità di finanziamento – e, dall’altro, lo strumento di dialogo politico/ istituzionale di cui il Cluster si è dotato per

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materiarinnovabile 05. 2015 agevolare l’implementazione del framework normativo di supporto alla bioeconomia, mettendone in luce gli impatti positivi in termini di competitività, sviluppo, occupazione e sostenibilità. In linea con politiche locali e comunitarie e in un contesto coerente di sviluppo della bioeconomia nazionale, la roadmap permette quindi di accedere come “sistema-Paese” a più ampie opportunità di crescita anche a livello europeo, favorendo l’attivazione di filiere virtuose interregionali e ottimizzando la complementarità fra domanda e offerta tecnologica all’interno del comparto biobased. L’evento “Dialogo tra SPRING e Regioni su bioeconomia e strategie sostenibili” – svoltosi a Terni lo scorso 29 giugno presso la sede di Confindustria e che, grazie al supporto di Regione Umbria e del cluster regionale Umbria SPRING, ha riunito i rappresentanti delle Regioni e un folto numero di stakeholders della filiera italiana della chimica da fonti rinnovabili – è stata l’opportunità per presentare l’avanzamento di queste azioni, insieme allo stato dell’arte dei quattro progetti nazionali di Ricerca & Sviluppo e formazione

finanziati dal MIUR e delle attività locali a supporto della chimica da fonti rinnovabili. Un’attenzione al territorio, quella di SPRING, che si inserisce in un più ampio contesto di stimolo al comparto e di spinta verso un modello di economia circolare, sempre più dinamico sia a livello italiano sia europeo. Basti ricordare, a livello nazionale, le direttive ministeriali esistenti in termini di sostenibilità (Cam – Criteri ambientali minimi), il recente evento istituzionale “Verso Parigi 2015 - Stati Generali sui cambiamenti climatici” svoltosi il 22 giugno a Roma alla presenza del premier Matteo Renzi, e la futura finalizzazione ed emanazione del Green Act da parte del governo italiano; in ambito europeo, la già varata “Framework Strategy for a Resilient Energy Union with a Forward-Looking Climate Change Policy”, il COP21 – United National International Climate Change Conference Parigi 2015 in programma questo autunno, e l’imminente nuova proposta del Circular Economy Package da parte della Commissione europea. Scenari e sfide in continua evoluzione, nell’ambito dei quali SPRING si pone l’obiettivo nei prossimi mesi di presentare ufficialmente la sua Roadmap strategica ai principali ministeri nazionali.

Il cluster tecnologico nazionale della chimica verde “SPRING” Nato in risposta a un bando del 2012 del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con l’obiettivo di creare una piattaforma nazionale della chimica verde che agisse da propulsore della crescita economica sostenibile dei territori e del sistema economico nazionale, il Cluster Tecnologico Nazionale della Chimica Verde SPRING – Sustainable Processes and Resources for Innovation and National Growth si è costituito ufficialmente nel 2014 come associazione senza scopo di lucro, per iniziativa di quattro soci fondatori: Biochemtex, Novamont, Versalis e Federchimica. Incoraggiando la crescita e lo sviluppo dell’industria biobased italiana attraverso un approccio olistico all’innovazione, SPRING si propone di favorire azioni di ricerca, dimostrative, di trasferimento tecnologico, di divulgazione e di formazione, incentivando la creazione di bioraffinerie e di filiere integrate multisettoriali, presentandosi come interlocutore di riferimento sulla bioeconomia e sul portafoglio di politiche nazionali e comunitarie di interesse per le industrie biobased. Con gli attuali 103 associati - il 43% dei quali soggetti industriali (dagli spin-off, alle Pmi, ai grandi player industriali nel settore della chimica da fonti rinnovabili), seguiti da enti di ricerca (29%) e dalle altre tipologie di enti (28%), e distribuiti per il 60% nel nord Italia, il 24% nel centro e il 16% nel sud e isole - il

Cluster è governato da un Consiglio Direttivo formato da rappresentanti eletti da quattro Comitati, rispettivamente dell’Industria, dell’Accademia, delle Associazioni e delle Istituzioni regionali. I quattro progetti di ricerca industriale, sviluppo sperimentale e formazione finanziati attivati nell’ambito di SPRING a inizi 2014 (ALBE - ALternative Biomasses for Elastomers; BIT3G - Bioraffineria di III generazione integrata nel territorio; LIDIA - Sviluppo di tecnologie di seconda generazione per la conversione di derivati organici in acidi dicarbossilici green, come bulding blocks di origine rinnovabile per la sintesi di chemicals e polimeri; e REBIOCHEM - Biochemicals da biomasse: integrazioni di bio-conversioni per la produzione e l’applicazione di biochemicals da biomasse di II generazione da fonti rinnovabili) si focalizzano ciascuno su una tematica specifica nell’ambito della trasformazione tramite processi fortemente innovativi di biomasse sostenibili in chemicals e prodotti ad alto valore aggiunto, e sono condotti da un partenariato basato su una logica multiregionale e di integrazione di competenze e sulla collaborazione tra mondo industriale e della ricerca. Ogni progetto è abbinato a uno specifico progetto di formazione per giovani ricercatori, dalle competenze e professionalità eterogenee per ricoprire tutta la filiera di sviluppo delle bioraffinerie.

La Roadmap permette di accedere come “sistema-Paese” a più ampie opportunità di crescita anche a livello europeo, favorendo l’attivazione di filiere virtuose interregionali.

Info www.clusterspring.it


Case Histories

Europa

38 eventi

Asia

8

eventi

America

3

eventi

Africa

4

eventi

Green economy: esportare il know-how italiano Per far avvicinare le nostre imprese green ai mercati esteri occorre perseguire con tenacia una strategia di internazionalizzazione. Con l’obiettivo di mettere in contatto paesi ricchi di materie prime con il nostro modello orientato al recupero e riuso. L’utilità di una piattaforma informatica per intercettare le occasioni di business sui mercati internazionali. di Giorgio Lonardi

Giorgio Lonardi, giornalista di economia e finanza.

Info www.ecomondo.com fimai.com.br/en_US/

C’è una “via italiana” alla green economy che si sta affermando sui mercati globali. Ecomondo, la manifestazione organizzata da Rimini Fiera e giunta alla sua 19ª edizione, rappresenta un modello capace di far leva sia sulla flessibilità delle Pmi green del Bel Paese sia sulla capacità di intrecciare il momento dei convegni di alto livello tecnico e scientifico con quello commerciale. Lo conferma la recente acquisizione da parte di Rimini Fiera di Fimai, la manifestazione fieristica dedicata all’ambiente leader sul mercato sudamericano con circa 500 espositori e 15.000 visitatori professionali. E lo certifica la prossima edizione di Fimai Ecomondo Brasil che si svolgerà a San Paolo dall’11 al 13 novembre 2015. In effetti l’operazione messa a segno da Rimini Fiera in partnership con il Gruppo Tecniche Nuove segna un punto di svolta per la green economy italiana. A cominciare dal consolidamento del brand Ecomondo che già oggi è la fiera di riferimento per l’Europa del Sud e il bacino del Mediterraneo dedicata alla sostenibilità ambientale e in particolare alle tecnologie per lo sviluppo sostenibile. Una leadership destinata dunque a estendersi anche all’America Latina. Ma senza

dimenticare che si tratta anche di un’ottima occasione per le imprese del settore che intendano avvicinarsi ai mercati del Sudamerica. Lo sbarco all’Expo Center Norte di San Paolo, rileva Alessandra Astolfi, project manager di Ecomondo, corona una strategia di internazionalizzazione perseguita con tenacia. Non è un caso, infatti, che a fine maggio del 2015 la stessa Ecomondo abbia organizzato la sezione Waste&Recycling della fiera Indutec di Johannesburg. “L’obiettivo”, dice Astolfi, “era di mettere in contatto un paese ricco di materie prime come il Sudafrica con un modello orientato al recupero e al riuso come quello italiano”. Ma non è tutto. L’appuntamento di Johannesburg, infatti, rientra in un programma internazionale di 53 incontri in 4 continenti allo scopo di favorire il business delle imprese green italiane e la loro espansione all’estero. Come spiega sempre Astolfi, il road show si è posto un duplice obiettivo. Il primo era di mostrare ai buyer internazionali le caratteristiche distintive del know-how made in Italy nel settore dell’economia circolare. A cominciare dai tradizionali cavalli di battaglia di Ecomondo, e cioè i settori della valorizzazione dei rifiuti, dell’industria bio-based e della chimica verde. Senza sottovalutare la rilevanza del ciclo integrato

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materiarinnovabile 05. 2015 delle acque, dalle reti fognarie alle tecnologie per ridurre le perdite e aumentare l’efficienza. Lo scopo: favorire la partecipazione dei buyer stessi alla prossima edizione di Ecomondo, la diciannovesima, in programma a Rimini dal 3 al 6 novembre 2015. Un impegno che ha coinvolto anche l’Ice (Istituto per il commercio con l’estero), i ministeri italiani dell’Ambiente e dello Sviluppo economico che, mettendo assieme le loro forze, porteranno a Rimini settanta aziende cinesi. Il secondo obiettivo era creare contatti utili per le aziende che hanno partecipato agli incontri. “Non dobbiamo però dimenticare”, puntualizza Astolfi, “che la dimensione media delle imprese green italiane è ridotta: il 65% dei player ha meno di 10 dipendenti. E questo limita la possibilità di intercettare le occasioni di business sui mercati internazionali. Ecco perché abbiamo creato una piattaforma informatica in grado di favorire gli incontri mirati con i buyer esteri selezionando con cura gli obiettivi di entrambe le parti.” Risultato: alla scorsa edizione di Ecomondo si sono svolti ben 1.800 appuntamenti one to one. E l’obiettivo del 2015 è di fare meglio e di più. Le aspettative per Ecomondo 2015, forte della presenza di 1.200 aziende su 16 padiglioni

espositivi, sono alte. E gli organizzatori non nascondono di voler superare il traguardo delle 100.000 presenze raggiunto l’anno scorso. Si tratta infatti di una manifestazione ricca di novità: lo conferma Global Water Expo, la nuova proposta Ecomondo dedicata al ciclo delle acque che va ad allargare la platea delle imprese interessate alla manifestazione. Nel giro di due-tre anni vuole diventare anche in questo segmento la Fiera di riferimento per l’Europa del Sud e il bacino del Mediterraneo. Fra le nuove proposte, collocate nell’ambito de La Città Sostenibile, un focus sul trasporto pubblico locale denominato Ibe Green e un’area sulla Riqualificazione urbana.Global Water Expo va quindi ad aggiungersi alle aree tematiche che da sempre costituiscono il cuore della manifestazione di Rimini: le tre aree Waste (dedicate rispettivamente ai macchinari per il trattamento dei rifiuti, riciclo e servizi, raccolta e trasporto), Reclaim Expo (tecnologie di bonifica e gestione dei siti contaminati) e Air (monitoraggio e trattamento dell’inquinamento dell’aria), cui da qualche anno si è aggiunta l’area dedicata al settore emergente della bioeconomia, ossia BioBased Industry (bioraffinerie integrate).

Intervista

Di cosa si discuterà a Ecomondo

Fabio Fava

Intervista al professor Fabio Fava, a cura di Marco Moro

Negli ultimi anni la manifestazione di Rimini è riuscita a intercettare e documentare i trend più interessanti e concreti che stanno trasformando il rapporto tra economia, ambiente e società. Dal 2012 alla guida del Comitato scientifico che orienta il programma culturale dell’evento c’è il professor Fabio Fava, docente di biotecnologia industriale e ambientale all’università Alma Mater di Bologna e rappresentante italiano per la bioeconomia presso i comitati di programma Horizon 2020 della Commissione europea. A lui chiediamo, innanzitutto, su quali grandi temi il comitato scientifico ha orientato la composizione del programma. Quali sono le maggiori novità rispetto all’ultima edizione? Oltre ai tradizionali convegni diretti a presentare e discutere le nuove normative e policy nazionali ed europee nei diversi ambiti della Green e Circular Economy, Ecomondo 2015 ospiterà molti eventi dedicati alla ricerca e all’innovazione negli stessi ambiti, alle start-up e all’internazionalizzazione delle imprese. Il tema Waste sarà affrontato da diverse prospettive: dalla classificazione dei rifiuti alla luce delle recenti disposizioni europee alle nuove strategie ministeriali sulla prevenzione dei rifiuti, alla ricerca e innovazione

nel campo della valorizzazione dei rifiuti con la presentazione di case studies fra cui quelli relativi al recupero di metalli presenti nei prodotti hi-tech a fine vita e nei Raee. Sul tema Aria, vi sarà uno spazio dedicato all’abbattimento delle emissioni odorigene legate agli impianti di trattamento rifiuti e a quelli di trattamenti dei reflui, recentemente oggetto di novità normative specifiche in termini di emissioni in atmosfera. Sul fronte Reclaim Expo, oltre a una prima giornata dedicata a casi di studio di bonifica sostenibile e conversione di siti con operatori nazionali ed europei, sarà organizzata una sessione dedicata alla gestione sostenibile dei sedimenti portuali, un tema che ha connotazioni specifiche nella regione mediterranea e che influenza il funzionamento e lo sviluppo delle strutture portuali. L’inquadramento europeo della problematica sarà ulteriormente valorizzato da una sessione speciale del progetto di ricerca FP7 Killspill, dedicato alla prevenzione e al risanamento dei rilasci di petrolio in mare. Sul fronte Water, sarà lanciato uno nuovo spazio espositivo Global Water Expo che porterà a Ecomondo i principali attori dei network internazionali. Come il Water_2020, al fine di dimostrare come l’innovazione ‘ready-to-market’ viene applicata in impianti reali, consentendo di raggiungere ottimi livelli di efficienza energetica,


Case Histories Trend visitatori a Ecomondo 101.144 93.125 84.351 75.980 64.858

63.332

65.109

2008

2009

2010

57.907 52.595 45.146

2005

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2007

economica ed ambientale. Gli innovatori interagiranno con le aziende, che in Italia e all’estero stanno colmando i gap infrastrutturali con interventi da centinaia di milioni di euro. Si parlerà di efficienza energetica con riferimento al water-energy-carbon nexus e all’applicazione delle recenti direttive europee con la presentazione di esperienze nazionali e internazionali, anche nell’ambito di progetti Horizon 2020, che standardizzano metodi e strumenti di certificazione energetica dei depuratori. Saranno inoltre presentati i finanziamenti messi a disposizione da Horizon 2020 e la Public Private Partnership (Ppp) Biobased Industry a sostegno dell’innovazione e del rinascimento industriale nell’ambito della green economy. Si parlerà anche di Joint Programming Initiatives (Jpis) e di Smart Specialisation Strategies regionali e di come favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese alle opportunità di cofinanziamento europee. Infine, saranno anche presentate le priorità industriali la cui implementazione è prevista nell’ambito della nuova Key Innovation Community sui Raw Materials, ossia sull’approvvigionamento di materie prime. Ecomondo si è affermato come l’evento di riferimento per l’economia circolare nel nostro paese, il luogo dove questa si rappresenta. All’interno di questa visione si è consolidato negli ultimi anni anche lo spazio per la bioeconomia. Su cosa si focalizzerà il dibattito in merito a questi due grandi ambiti di trasformazione dell’economia? Alle criticità e opportunità legate alla prospettiva dell’economia circolare e alle strategie per una

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sua efficace implementazione in Italia è dedicata un’importante iniziativa di Conai (cui si aggiunge il convegno internazionale promosso dal Consiglio Nazionale della Green Economy, dal Comitato Tecnico scientifico di Ecomondo Fiera e dalla rivista “Materia Rinnovabile” sul ruolo dei sistemi collettivi di gestione dei rifiuti nella valorizzazione dei flussi di materia, ndC). Di grande rilievo, sul fronte della biobased industry, ci saranno l’evento internazionale co-organizzato da Cluster SPRING con Ocse focalizzato sulle criticità e opportunità delle bioraffinerie multi-prodotto alimentate con rifiuti organici e sottoprodotti. E anche quello dedicato all’uso delle Key Enabling Technologies nell’industria alimentare per aumentarne l’efficienza – e quindi la sostenibilità – e permettere la valorizzazione dei loro sottoprodotti e rifiuti in una prospettiva di economia circolare. Sempre il cluster della chimica verde propone l’evento sulla Public Private Partnership Biobased Industry, un’iniziativa europea che sostiene la ricerca e l’innovazione nel settore con 3,7 miliardi di euro nel periodo 2014-2020 e che vedrà la partecipazione delle Regioni italiane, con l’obiettivo di promuovere un allineamento dei finanziamenti alla ricerca e innovazione regionali, nazionali ed europei riducendo la frammentazione e la duplicazione. Il tema biowaste sarà anche l’oggetto di un grande evento sulla produzione di biogas da biomasse agricole residuali e rifiuti organici organizzato dal Consorzio nazionale biogas e il Consorzio italiano compostatori.

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Rubriche In diretta da Berlaymont

Biomassa: il futuro è nell’uso a cascata Joanna Dupont-Inglis si è specializzata in Scienze ambientali all’Università del Sussex e a quella di Nantes. Nel febbraio del 2009 è entrata a far parte di EuropaBio, l’associazione europea delle bioindustrie, e dall’aprile 2011 dirige il settore delle biotecnologie industriali.

Negli ultimi mesi si è assistito nella Brussels bubble a un sempre più acceso dibattito culminato sul tema dell’“uso a cascata” della biomassa. Il motivo di tale discussione è che, sebbene il termine in sé sia ora familiare, trovando posto in un crescente numero di proposte politiche, tra le quali il recente parere del Parlamento europeo sull’economia circolare, “a cascata” può, e spesso lo fa, significare cose molto diverse per persone diverse. Il concetto fu inizialmente sviluppato dal settore del legno. Qui il principio del cascading è definito come: “una strategia per utilizzare le materie prime, e i prodotti con esse realizzati, in step cronologicamente sequenziali, più a lungo frequentemente ed efficentemente possibile, e solo per recuperare energia da essi alla fine del loro ciclo di vita”. In realtà, più recentemente questo è diventato un principio guida per altri settori che usano biomassa come principale materia prima con l’obiettivo di assicurare lo sviluppo di una bioeconomia sostenibile. Comunque, mentre questo concetto può essere rilevante e appropriato per alcuni, molti altri credono fortemente che le realtà della bioeconomia siano troppo complesse e diverse per poter applicare tale principio indiscriminatamente. Questo in parte perché la definizione dell’uso a cascata formulata nel settore del legno implica che maggiore è il numero di volte in cui un prodotto è usato e può essere riciclato, più è sostenibile. Senza dubbio ciò avrà senso per alcune applicazioni. In ogni caso questa definizione implica anche che i prodotti “monouso” siano intrinsecamente meno sostenibili. Ma seguendo questa logica molti prodotti a base biologica, che possono essere usati solo una volta, dal cibo, ai cosmetici a solventi e detergenti, non soddisferebbero pienamente i criteri di sostenibilità dato che non possono essere recuperati e riutilizzati. Da qui il bisogno di adottare un approccio più flessibile che valuti caso per caso. Naturalmente è importante che la biomassa sia considerata una risorsa di valore nella transizione verso un’economia circolare e che si debba tenere conto di molti parametri quando si valuta l’uso e la sostenibilità dei prodotti che ne derivano. In realtà devono essere considerati moltissimi fattori, come le economie locali, le differenze e le specializzazioni regionali, i bisogni della società, l’esistenza di alternative praticabili ecc. per valutare il modo più sostenibile ed efficiente per valorizzare la biomassa disponibile.

Ecco perché l’uso “intelligente ed efficiente” della biomassa dovrebbe essere il principio guida fondamentale che permette a ogni sua frazione di essere valorizzata per fornire cibo, mangimi, prodotti a base biologica ed energia. La pietra angolare delle industrie dei prodotti a base biologica è rappresentata dalle bioraffinerie che si focalizzano sulla trasformazione sostenibile della biomassa in un ampio spettro di prodotti tra i quali cibo, mangime, sostanze chimiche, carburanti e materiali spesso partendo da una singola materia prima. Effettivamente le bioraffinerie sono sostenibili per loro natura, estraendo il massimo valore dalla biomassa, ottimizzando l’uso delle singole frazioni per realizzare diversi prodotti finali. Ciò non solo migliora la realizzabilità economica delle bioindustrie e la loro sostenibilità, ma ottimizza l’uso di tutte le frazioni della biomassa nel corso del processo. Infine, nell’attuale dibattito sull’uso a cascata della biomassa, alcune organizzazioni confondono sempre più l’uso a cascata e l’uso gerarchico. Tutti i prodotti a base biologica hanno il loro valore di mercato e quindi il concetto teorico di gerarchia nell’utilizzo della biomassa non è adeguato e non può essere tradotto in regolamentazione. Invece quello che è necessario è un approccio intelligente ed efficiente quando si tratta di valorizzare la biomassa. Il principio del cascading e della gerarchia nell’uso, come definito dal settore del legno, non può quindi essere applicato trasversalmente e indiscriminatamente a tutti i settori che utilizzano la biomassa come materia prima di base. Uno schema di politica Ue per l’uso intelligente ed efficiente della biomassa dovrebbe tenere presente la realtà di tutti i settori industriali ed evitare di creare nuove inutili barriere allo sviluppo e alla commercializzazione di prodotti a base biologica in Europa. Poiché tali prodotti affrontano continuamente la sfida di provare a guadagnarsi fette di mercato su un terreno di gioco molto in salita, specialmente quando paragonato ai prodotti a base fossile, è necessaria l’adozione di misure di supporto per lo sviluppo di bioraffinerie in Europa. Se tali misure possono aggirare le barriere all’aumento degli investimenti, facilitando l’introduzione di prodotti innovativi a base biologica nel mercato e permettendo l’accesso a materie prime rinnovabili, da fonti sostenibili e a prezzi competitivi, l’Europa ha qualche speranza di raccogliere i frutti di questo intelligente ed efficiente settore.


Rubriche

Capitale naturale

Ci siamo giocati tre quarti della biosfera Gianfranco Bologna è direttore scientifico e Senior Advisor di Wwf Italia. Segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia. È stato anche membro del Club di Roma per un mandato sotto la presidenza di Alexander King. Autore e curatore di numerose pubblicazioni, nel 2013 ha scritto Sostenibilità in pillole (Edizioni Ambiente) e Natura Spa. La Terra al posto del PIL (Bruno Mondadori editore).

Running S.W., “A Measurable Planetary Boundary for the Biosphere”, Science, v. 337, 2012; doi: 10.1126/ science.1227620

Siamo entrati nell’era dell’Antropocene. Sono molte infatti le ricerche che stanno conducendo all’individuazione di un nuovo periodo geologico della storia della Terra, definito appunto Antropocene perché gli effetti prodotti dall’azione umana sui sistemi naturali sono ritenuti equivalenti alle grandi forze geofisiche che hanno modellato e modificato il nostro pianeta nei suoi 4,6 miliardi di anni di vita. Il panorama è tanto vasto da aver dato vita persino a tre riviste scientifiche dedicate all’Antropocene (vedi i risultati dei grandi programmi di ricerca sul Global Change coordinati nell’ambito del programma Future Earth, www.futureearth.org). Più di tre quarti della biosfera terrestre sono stati già profondamente trasformati in biomi antropogenici. Questo – afferma Erle C. Ellis, ecologo dell’Università del Maryland nel saggio “Ecology in an Anthropogenic Biosphere” pubblicato sulla rivista scientifica Ecological Monographs – è avvenuto a causa di molteplici fattori. Tra cui, per esempio, la crescita della popolazione e le profonde modifiche dell’utilizzo dei suoli e della geomorfologia degli ambienti originali. I dati sui flussi di materia e di energia trasferiti dai sistemi naturali ai sistemi sociali, e quindi ai metabolismi industriali delle nostre società, sono ormai ben conosciuti (vedi www. materialflows.net) e incidono profondamente sul mantenimento del capitale naturale del sistema Terra. Intendendo per capitale naturale – come indicato dalla più recente letteratura scientifica – le componenti viventi e non viventi degli ecosistemi che contribuiscono a generare beni e servizi utilizzabili da parte dell’umanità.

e dei flussi di materia ed energia che in essi circolano. Si tratta dell’appropriazione umana della produttività primaria netta (Human Appropriation of Net Primary Productivity, Hanpp) sulla quale hanno indagato per primi i grandi ecologi della Stanford University, come Peter Vitousek, Paul Ehrlich e Pamela Matson, con un lavoro pubblicato nel 1986 su Bioscience “Human appropriation of the products of the photosynthesis”. La produttività primaria netta (Npp, Net Primary Production) rende conto dell’ammontare netto dell’energia solare che viene trasformata dalle piante attraverso i processi di fotosintesi in materia organica e messo quindi a disposizione degli altri livelli delle catene alimentari in tutta la biosfera. Una parte significativa dell’Npp viene poi utilizzata dalla nostra specie, attraverso la conversione dei suoli e la produzione di biomassa (Hanpp). È questo dunque un indicatore molto significativo della scala delle attività umane ed è strettamente collegato al metabolismo socioeconomico misurato da altri indicatori come i flussi di materia.

In questi ambiti di ricerca e applicazione, sta suscitando un’attenzione particolare un indicatore molto importante e utile per comprendere le modifiche che l’uomo causa alle dinamiche evolutive dei sistemi naturali

Lo studioso Steven Running dell’Università del Montana, in un lavoro apparso su Science ha proposto che l’Hanpp venga considerato come un nuovo confine planetario nel dibattito e nelle azioni politiche internazionali per la sostenibilità. Da aggiungere ai planetary boundaries già indicati da diversi autorevoli scienziati nelle due pubblicazioni su Nature nel 2009 e su ScienceExpress nel 2015 e di cui si è già parlato sul numero 2 di Materia Rinnovabile nell’intervista a Johan Rockström, direttore dello Stockholm Resilience Centre. I dati più recenti documentano che l’appropriazione umana della Npp è passata dal 13% del 1910 al 23% del 2005. E nel 2050 potrebbe arrivare a una percentuale compresa tra il 29 e il 44%.

Krausmann F. et al., “Global human appropriation of net primary production doubled in the 20th century”, Proceedings of the National Academy of Sciences, v. 110, n. 25, 2013; doi: 10.1073/ pnas.1211349110

Oltre a sottrarre fondamentale materia organica al resto della vita sulla Terra, l’appropriazione umana della produttività primaria netta altera la composizione dell’atmosfera, la ricchezza della biodiversità, i flussi di energia attraverso le catene alimentari nonché l’approvvigionamento di importanti servizi degli ecosistemi. Ed è per questo che costituisce un indicatore prezioso per verificare il mantenimento del capitale naturale.

Haberl H. et al., “Human appropriation of net primary production: patterns, trends and planetary boundaries”, Annual Review of Environment and Resources, v. 39, 2014; doi: 10.1146/annurevenviron-121912-094620

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materiarinnovabile 05. 2015

Green & circular

Le frontiere del riciclo Stefano Ciafani, ingegnere ambientale, è Vicepresidente nazionale di Legambiente. È stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della XIV legislatura e membro del Comitato di indirizzo sulla gestione dei Raee.

Il dossier Comuni Ricicloni 2015 è consultabile online: www.ricicloni.it/dossier

Progetto Second Life, www.secondlifeitalia.it/ progetto-second-life

Sembra passato un secolo da quando nel 1996 Milano fu sepolta da decine di migliaia di tonnellate di rifiuti in strada per lo stop alla discarica di Cerro Maggiore. Oppure dal 2002 quando in Campania esplose l’emergenza rifiuti partita col sequestro delle discariche di Tufino (Na) e Parapoti (Sa). Oggi l’Italia può raccontare una storia diversa. Quella dei 1.520 Comuni ricicloni premiati per aver superato nel 2014 il 65% di raccolta differenziata. Quella dei 356 Comuni che oltre a essere ricicloni hanno prodotto lo scorso anno anche un quantitativo pro capite residuo minore di 75 kg. Le esperienze più virtuose non sono più solo tra i piccoli Comuni settentrionali: basti pensare ai 145 Comuni ricicloni della Campania (circa il 10% del totale nazionale) o ai 104 delle Marche (regione ormai vicina alle performance del Nord Est). O alle raccolte differenziate di poco inferiori al 65%, ma comunque molto significative, di Salerno, Andria o Cosenza. E poi come non ricordare le esperienze di raccolta differenziata spinta messe in campo a Treviso (con la tariffazione puntuale attiva dal luglio 2014), a Parma o nella metropoli di Milano (ormai un esempio internazionale). Non ci sono poi solo esperienze di buona gestione. Ormai l’Italia può contare anche sull’innovazione tecnologica e impiantistica per superare la discarica. Oggi si produce dell’ottimo compost grazie a impianti di digestione anaerobica e alla produzione di energia rinnovabile attraverso la combustione del biogas. Nelle Marche è attivo il primo impianto di rigenerazione degli elettrodomestici fuori uso che vengono poi rivenduti, con tanto di garanzia, nel primo outlet di questo tipo nell’ambito del progetto Second Life. Grazie alla ricerca è possibile avviare a riciclo prodotti fino a ieri non riciclabili: è il caso dei pannolini usa e getta che con l’impianto in provincia di Treviso potranno essere avviati finalmente a riciclo o quello delle plastiche miste che nella Revet di Pontedera (Pi) o nello stabilimento di Montello (Bg) diventano granuli da avviare a riciclaggio. Sono poi in corso programmi di ricerca, sostenuti dal Conai (Consorzio

nazionale imballaggi), per risolvere il problema della non riciclabilità di alcuni imballaggi. L’Italia è diventata uno straordinario laboratorio di buone pratiche, tra gestione del servizio, innovazione impiantistica e ricerca, ma è arrivato il momento di completare questa rivoluzione. Come? Replicando le buone pratiche consolidate o pionieristiche, realizzando tanti impianti per il riuso e il riciclaggio e per gestire al meglio anche i troppi rifiuti speciali che finiscono nella rete delle ecomafie, innalzando il livello dei controlli ambientali ancora a macchia di leopardo sul territorio nazionale. Ma per farlo serve un grande movimento trasversale che metta insieme tutte le migliori energie di questo paese per costringere chi governa a Roma o nelle Regioni a varare norme per rendere più convenienti le politiche di prevenzione e di riciclo. Il ciclo integrato dei rifiuti deve diventare gerarchico anche dal punto di vista dei costi: serve un nuovo sistema di incentivi e disincentivi per fare in modo che la prevenzione e il riciclo siano più convenienti, anche economicamente, rispetto all’incenerimento e allo smaltimento in discarica. È arrivato il momento di creare un fronte compatto. Non c’è più tempo da perdere. Solo così sarà possibile far entrare tutta l’Italia a pieno titolo nella società europea del riciclo, ben delineata dalla direttiva sui rifiuti approvata nel 2008.


Rubriche

Pillole di innovazione

Uova e miniere Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore. Coordina Triwù, web tv dedicata alla cultura dell’innovazione in Italia. Insegna New Media al Master in Comunicazione scientifica e Innovazione sostenibile dell’Università Milano Bicocca.

Nella millenaria storia delle tecnologie innovative prodotte da noi umani c’è una direzione costante. È quella che in gergale da set cinematografico si chiama “buona la prima” e cioè quando la prima scena girata viene bene e si può passare alla seconda. Ovvero, la prima è chiusa e non se ne parla più. Non è sempre così per tutte le scelte tecnologiche, ma per un numero ragguardevole – e importante – lo è. Al termine della Seconda guerra mondiale la marina militare statunitense pensò subito alla costruzione di un reattore nucleare per i sommergibili. La Westinghouse ne ricavò immediatamente un modello per usi civili e per i decenni successivi non si vide altro in circolazione, sebbene già a metà degli anni ’50 fossero apparsi i primi progetti di reattori a sicurezza intrinseca, ovvero quelli che adesso si definiscono di quarta generazione. Enormemente più sicuri, a parte, naturalmente, la gestione delle scorie. Nessun rimpianto per un nucleare perduto; qui ciò che conta è il meccanismo dell’innovazione che, per un insieme molto preciso di ragioni economiche e anche politiche, può congelare una soluzione e ignorare le molte sue possibili evoluzioni. La scienza dei materiali sta generando, di fatto, una forte pressione per grandi deviazioni di percorso. Una delle più recenti sembra destinata a creare una stagione conflittuale fra le miniere di calcio e le uova. Ivan Cornejo, ricercatore cileno operativo negli Stati Uniti, ha studiato i danni ambientali prodotti dalle miniere di calcio, in Asia per esempio, e ha lavorato su una possibile alternativa: estrarre il calcio dai gusci delle uova che finiscono nella spazzatura. E poi oltre al calcio ha anche scoperto che diversi tipi di materiali vetrosi si possono recuperare dai rifiuti alimentari: gusci di arachidi, bucce di banane e di granoturco. È vero, può sembrare strano che si passi dalle miniere alle verdure che si trovano nei mercati, ma non dobbiamo sorprenderci perché l’universo è certamente sconfinato ma quando puntiamo i nostri spettroscopi verso corpi celesti lontanissimi si trova sempre la stessa zuppa di elementi. E questo è un fatto prodigioso e allo stesso tempo molto utile

per capire come la sostenibilità è un obiettivo che si può praticare con intelligenti alchimie sostitutive. Dopodiché si può segnalare che – non per quelle a cielo aperto, tuttavia – la Fondazione Edmund Mach di Trento ha sviluppato un progetto per la conservazione delle mele nelle miniere abbandonate, interessante per una semplice ragione: c’è fresco naturale e quindi niente frigoriferi che consumano molta energia. Ma di frigoriferi e verdura ne parliamo un’altra volta. Insomma, scaviamo miniere da un sacco di tempo ma molti materiali si trovano in tanti luoghi e forme intorno a noi. Oggi abbiamo gli strumenti per recuperarli (magari è già da un po’ che li abbiamo...). Per esempio: durante la pulizia delle strade si potrebbero ricavare metalli preziosi dalla polvere che su di esse si deposita. Platino, palladio, rodio. È tutta roba che esce dalle marmitte catalitiche. Angela Murray (Università di Birmingham, UK) ha messo a punto un sistema per farlo. Mats Eklund, dell’Università di Linköping, Svezia, ha analizzato quanto ferro, rame e alluminio, si trova interrato nella rete di cablature d’ogni tipo che giace sotto le strade delle nostre città, come cavi e congegni vari non utilizzati. Hanno fatto un esperimento su tre cittadine svedesi, e proiettando i risultati sulla situazione nazionale hanno stimato la presenza di 630 milioni di dollari di materiale recuperabile, a costi inferiori a quelli necessari per estrarlo dalle miniere.

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Andrea,

Assistant Product Manager, agenzia di pubblicità

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