MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 08 | gennaio-febbraio 2016 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente
Gunter Pauli: saranno i bambini a inventare il futuro green • Marta Ceroni: dalla Grande accelerazione al Modello iceberg • Victor Olgyay: tra le montagne per ripensare le città • Mauro Panzeri: il marchio del riciclo compie 45 anni
Focus Germania/Bioeconomia: ecco la ricetta vincente • 1.270 miliardi di euro e 7 milioni di occupati: i numeri della bieconomy nella Ue5 • Economia biobased: cosa ci possiamo aspettare? • Scende in campo il compost
Germogli di economia sostenibile
Euro 12,00 - Versione online gratuita su www.materiarinnovabile.it
• Ma quanto ci costa produrre l’olio di palma? • Nelle auto il design guarda ai nuovi materiali
Piccole aziende blu crescono • A spasso con il maialino • L’insostenibile pesantezza delle fabbriche di cibo
A B B I A M O T O LT O UN PESO INIMMAGINABILE D A L L E S P A L L E D E L F U T U R O.
Noi di Ecopneus in soli 4 anni abbiamo recuperato 1 milione di tonnellate di pneumatici fuori uso, il peso di 8 navi da crociera. E le abbiamo trasformate in qualcosa di più. Grazie a un lavoro etico e trasparente, 100 milioni di pneumatici fuori uso hanno fatto sudare e divertire tantissimi sportivi diventando campi di basket, tennis e calcio. Hanno ridotto il rumore negli uffici plasmandosi in pareti fonoassorbenti. Hanno protetto migliaia di bambini come gomma antiurto nei parchi giochi. Hanno rivestito chilometri di strade con manto gommato e attenuato le vibrazioni di numerose linee ferrotranviarie. Hanno dato energia sostenibile ad aziende in Italia e all’estero. Ma soprattutto, hanno fatto una cosa inestimabile: reso il nostro Paese un posto più vivibile per le generazioni future.
Fondazione Cariplo fa filantropia con la passione per l’arte, la cultura, la ricerca scientifica, il sociale e l'ambiente. Oggi è concentrata sul sostegno ai giovani, al welfare di comunità e al benessere delle persone, realizzando progetti insieme alle organizzazioni non profit. Dal '91 ad oggi la Fondazione ha sostenuto oltre 30 mila iniziative donando 2,8 miliardi di euro.
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International Conference on Bio-based Materials 5 – 6 April 2016, Maternushaus, Cologne, Germany
++ Special Topics: ++ Lignin ++ Polyhydroxyalkanoates (PHA) ++
HIGHLIGHTS OF THE WORLDWIDE BIOECONOMY 250 participants and 30 exhibitors mainly from industry are expected!
Contact
• Policy and Markets • Bio-based Building Blocks and Polymers • Biorefineries and Industrial Biotechnology • Innovation Award “Bio-based Material of the Year 2016“
Organiser
Dominik Vogt Exhibition, Partners, Media partners, Sponsors +49 (0)2233 4814-49 dominik.vogt@nova-institut.de
This conference aims to provide international major players from the bio-based building blocks, polymers and industrial biotechnology industries with an opportunity to present and discuss their latest developments and strategies. Representatives of political bodies and associations will also have their say alongside leading companies. The 9th International Conference on Bio-based Materials builds on successful previous conferences. More information at: bio-based.eu/conference.
www.bio-based.eu/conference
BIO-BASED START-UP DAY
7 April 2016 · Maternushaus · Cologne · Germany
Bio-based Chemicals & Materials ++ Biotechnology ++ Carbon Capture & Utilization
Organised in collaboration with
START-UP HIGHLIGHTS
CLIB
High-potential start-ups from the field of bio-based chemistry, polymers and biotechnology are invited to present themselves to industry and investors!
www.clib2021.de
www.ibbnetzwerk-gmbh.com
Organiser
www.nova-institute.eu
The Bio-based Start-up Day will bring start-ups, investors and industry together by giving the floor to everyone and providing great opportunities of networking. The day will start with a keynote speech followed by the presentation of the start-ups. Clusters will also have the chance to present their own start-ups. The audience will then have the opportunity to meet the start-ups in person. Investors will afterwards provide an insight into their incentives and experiences working with start-ups in the biobased and biotech sector. The day will end with a discussion and a coming together.
bio-based.eu/startup
Partner
selezione ADI Design Index 2015
Media Partner
MATERIA RINNOVABILE Networking Partner
Sostenitori
Partner Tecnici
Stampato da Geca Industrie Grafiche con inchiostri a base vegetale privi di oli minerali. Il sistema produttivo di Geca non produce scarichi e ogni sfrido delle nostre lavorazioni è immesso in un processo di raccolta e riciclo. www.gecaonline.it
Stampato su Crush, carte ecologiche di Favini realizzate con sottoprodotti di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero: copertina Crush Mais 250 g/m2, interno Crush Mais 120 g/m2. www.favini.com
Eventi
Editoriale
2016: MR si rinnova assieme alla materia di Antonio Cianciullo
Benvenuti nel 2016, anche se gli auguri arrivano un po’ in ritardo. Per noi di Materia Rinnovabile il 2015 è stato l’anno in cui abbiamo messo a punto la macchina organizzativa del progetto: non una semplice rivista, ma un luogo attorno a cui attivare la riflessione su un tema trascurato: c’era stata molta (giusta) attenzione sull’energia, scarsa consapevolezza dell’importanza del recupero della materia. Il bilancio del 2015 è stato positivo per Materia Rinnovabile e per il settore. Nell’anno che si è da poco concluso abbiamo inserito tra i sostenitori Barilla e Fondazione Cariplo e ampliato la rete dei Networking Partner (associazioni, cluster, istituti di ricerca, università, agenzie di consulenza) aggiungendo adesioni di peso come quelle del Worldwatch Institute, di Matrec, del Global Footprint Network, di Ambiente Italia, di European Bioplastics. Positivo anche il bilancio del debutto sui social. Su Twitter il profilo @MRinnovabile è arrivato a quota mille e viaggia al ritmo di 2 nuovi followers al giorno: su un campione di 100 tweet, nel periodo 10-17 dicembre 2015, gli account potenzialmente raggiunti (direttamente dall’attività dell’account o indirettamente grazie all’interazione di altri profili) sono stati oltre 80.000. E contemporaneamente sono arrivati segnali importanti di cambiamento. L’Unione europea, sia pure dopo un primo stop e un ridimensionamento delle norme, ha varato il pacchetto sull’economia circolare di cui diamo ampio conto in questo numero. Poi c’è stata la Conferenza di Parigi del dicembre scorso. Alcuni, adottando un punto di vista rigorosamente scientifico, l’hanno bocciata perché le conclusioni non contengono le misure necessarie a metterci al riparo dalla minaccia climatica. Io credo che un simile giudizio non colga il punto essenziale: il summit Onu non era un incontro scientifico perché, da questo punto di vista, l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) aveva già tracciato a più riprese un esauriente quadro della situazione; si trattava di trovare un accordo politico. E per trovare un accordo politico attorno ai temi che muovono i mercati bisognava raggiungere un’intesa economica. Le premesse di questa intesa sono state trovate grazie a una mediazione su scala globale. L’accordo è stato raggiunto sui contenuti difesi dall’Unione europea e dagli ambientalisti
(mantenere il riscaldamento ben sotto i 2 gradi di aumento e fare ogni sforzo per non superare la soglia di 1,5 gradi rispetto all’epoca preindustriale); con le modalità care agli Stati Uniti (niente regole dall’alto, solo le leggi della domanda e dell’offerta); con i tempi voluti dalla Cina (quando Pechino aveva già cominciato a considerare molto pericolosa la pressione dell’inquinamento sul suo territorio e aveva maturato una leadership produttiva nel settore delle fonti rinnovabili). I risultati di questo sforzo sono ancora insufficienti ma non trascurabili. Per la prima volta hanno coinvolto 186 paesi responsabili di oltre il 95% delle emissioni serra. E hanno già portato a raggiungere metà dell’obiettivo di riduzione della CO2. Per la prima volta nella storia dell’umanità si è innescato un meccanismo di governance dei beni comuni che vede una distribuzione globale degli impegni. Certo, è una governance debole perché non si è partiti, come vorrebbe la logica, dal target da raggiungere per poi distribuire i compiti, ma si è fatto il percorso inverso: ogni paese ha assunto volontariamente un obiettivo e lo ha comunicato. Tuttavia il meccanismo si è messo in moto e c’è una ragionevole possibilità che la macchina dell’economia, una volta individuato uno scopo capace di mobilitare la pubblica opinione portando profitti e consensi, corra più veloce della politica. Ci crede anche la cordata di imprenditori guidati da Bill Gates e Mark Zuckerberg che ha deciso di mobilitare 20 miliardi di dollari per accelerare la ricerca green. È in questo quadro che Materia Rinnovabile intende rilanciare la sfida nel 2016. Quest’anno rafforzeremo la nostra presenza attraverso nuove iniziative. Ci sarà una diffusione sempre più articolata della rivista e degli Insight, lo strumento di approfondimento che ha visto la luce alla fine del 2015. A gennaio è partito il Centro Materia Rinnovabile, nato per fornire assistenza alle imprese impegnate nella transizione green e per dimostrare che l’economia circolare è un formidabile strumento per accelerare la sinergia tra ecologia ed economia. Infine abbiamo cominciato a organizzare convegni e momenti di incontro del mondo che si riconosce nel recupero della materia come asse per il rilancio dell’economia, dell’occupazione e del sostegno dei territori interessati dai vari progetti. Sarà un anno interessante.
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08|gennaio-febbraio 2016 Sommario
MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE
Antonio Cianciullo
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2016: MR si rinnova assieme alla materia
a cura di Sergio Ferraris
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Saranno i bambini a inventare il futuro green Intervista a Gunter Pauli
a cura di Emanuele Bompan
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Tra le montagne per reinventare le città Intervista a Victor Olgyay
Mauro Panzeri
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Ha 45 anni ma non li dimostra
Marta Ceroni
18
Dalla Grande accelerazione al Modello iceberg
Roberto Giovannini
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Ma quanto ci costa davvero produrre olio di palma?
Joanna Dupont-Inglis
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Economia circolare: gli ambientalisti criticano il pacchetto Ue
Michael Carus, Achim Raschka, Kerstin Iffland, Lara Dammer, Roland Essel, Stephan Piotrowski
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Il futuro dell’economia biobased
a cura della redazione
40
1.270 miliardi di euro: tanto vale la bioeconomy nella Ue5
Roberto Rizzo
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Scende in campo il compost
Free magazine bimestrale www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Antonio Cianciullo
Hanno collaborato a questo numero Gianfranco Bologna, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Marco Capellini, Michael Carus, Massimo Centemero, Marta Ceroni, Lara Dammer, Joanna Dupont Inglis, Roland Essel, Sergio Ferraris, Roberto Giovannini, Kerstin Iffland, Elena Jachia, Manfred Kircher, Christine Lang, Giorgio Lonardi, Victor Olgyay, Ilaria Nardello, Mauro Panzeri, Gunter Pauli, Federico Pedrocchi, Stephan Piotrowski, Achim Raschka, Roberto Rizzo, Massimiliano Tellini, Silvia Zamboni
Think Tank
Direttore editoriale Marco Moro
Ringraziamenti Luigi Bechini, Dario Bolis, Claudio Busca, Ilaria Catastini, Massimo Centemero, Gennaro Galdo, Stefania Maggi, Carlo Montalbetti, Michele Posocco, Stefano Stellini Caporedattore Maria Pia Terrosi Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini
Design & Art Direction Mauro Panzeri (GrafCo3), Milano Impaginazione Michela Lazzaroni Traduzioni Erminio Cella, Laura Coppo, Maddalena Gerini, Franco Lombini, Mario Tadiello
Policy
Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi
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Coordinamento generale Anna Re
Silvia Zamboni
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Le Regioni dell’economia circolare
Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabili relazioni internazionali Federico Manca, Carlo Pesso
Mario Bonaccorso
a cura di Mario Bonaccorso
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Focus Germania Sarà Berlino la capitale mondiale della bioeconomia?
Ufficio stampa Silverback www.silverback.it info@silverback.it
Focus Germania Le nuove frontiere della bioeconomy Intervista a Christine Lang
Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333
Case Histories
Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it
Marco Capellini
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Automobile: il design strizza l’occhio ai nuovi materiali
Abbonamenti per la versione su carta (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers
Giorgio Lonardi
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Germogli di bioeconomia
Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi)
Rubriche
Copyright ©Edizioni Ambiente 2015 Tutti i diritti riservati
Ilaria Nardello
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Gianfranco Bologna
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Federico Pedrocchi
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Profondo blu Piccole aziende blu crescono
Capitale naturale L’insostenibile pesantezza delle fabbriche di cibo
Pillole di innovazione Il maialino da Pechino
In copertina Bruno Munari, La natura ci insegna a riciclare. Qual è il seme della plastica? disegni per la mostra Neolite, Triennale di Milano, 1991. ©Bruno Munari
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Saranno i bambini a inventare il futuro green Intervista a Gunter Pauli Alla Cop21 si è cercato il consenso ancor prima di cominciare, con il risultato che si è annacquato tutto. Ma non possiamo aspettare oltre: bisogna iniziare subito a fare sul serio, superando gli accordi globali. Occorre agire a livello locale e nelle città puntando su modelli differenti di business e sulla valorizzazione dei territori.
a cura di Sergio Ferraris
Gunter Pauli, autore, docente, attivista, imprenditore. www.zeri.org www.TheBlueEconomy.org Twitter @MyBlueEconomy Education Twitter @gunterpauli
Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.
Gunter Pauli, imprenditore, economista, ecologista, inventore della Blue Economy, tra i promotori del Protocollo di Kyoto, è molto critico sulla Cop21: ha soluzioni, studiate in venti anni con la propria fondazione Zeri (Zero Emissions Research Initiative) che vanno oltre gli accordi internazionali sul clima e che puntano a risolvere anche i problemi sociali, oltre a quelli ambientali. Lo abbiamo incontrato a Milano, pochi giorni dopo la conclusione della Cop21 di Parigi. La Cop21 di Parigi sul clima è finita da pochi giorni. Cosa pensa dell’accordo? “Ho deciso di non andare alla Cop21. Per due motivi. Il primo è che sono convinto che la Camera e il Senato degli Usa non ratificheranno l’accordo fatto da Obama, mentre il secondo è che io partecipai ai lavori della Cop3 – quella dove si decise il Protocollo di Kyoto – e ricordo che noi tutti sapevamo che nella versione originale dell’accordo c’era un gruppo di nazioni molto forte, come l’Europa e il Giappone, che volevano davvero andare avanti nella difesa del clima. Nella Cop21 si è cercato il consenso ancora prima di cominciare e così si è annacquato tutto. Quando ho visto i documenti preparatori ho capito che Cop21 poteva
essere solo un appuntamento dove incontrare delle persone interessanti, ma niente altro. Il primo appuntamento per la verifica sarà tra quattro anni, ma non possiamo attendere tutto questo tempo. In definitiva la Cop21 di Parigi è stato un appuntamento che sancisce la fine dei negoziati globali sul clima. È la fine del processo iniziato a Rio nel 1992 ed è una buona chiusura perché ora si può iniziare a fare sul serio.” Fare sul serio come, in che maniera? “Dobbiamo agire in maniera reale a livello locale, nelle città, con i cittadini e le comunità. Non dobbiamo aspettare ma puntare più in alto rispetto agli accordi internazionali che hanno fallito. Abbiamo oltre 50 accordi internazionali per la protezione dell’ambiente e l’ambiente non è mai stato così in cattive condizioni come oggi. Non si deve perdere altro tempo con il modello degli accordi globali, ma ci si deve attivare ora. Penso che una delle cose migliori successa durante la Cop21 sia stata l’invito che Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, ha rivolto a migliaia di sindaci di tutto il mondo per discutere su cosa sia possibile fare circa i cambiamenti climatici. E loro possono fare molto di più rispetto a
Think Tank
da rispettare. Nulla. Quindi ora non abbiamo nessuno strumento per forzare chiunque in direzione della tutela del clima. Ci aspettiamo che le persone diventino green, ma dovremmo attendere almeno 25 anni perché lo diventino sul serio? E nel frattempo cosa succede? L’unica maniera per spingere le persone a muoversi ora è, come dicevo, progettare e implementare modelli di business profondamente diversi da quelli attuali.” Come per esempio? “Prendiamo il fotovoltaico. Tutti sappiamo che alla fine l’energia solare sarà meno costosa di quella fossile, ma il calo dei prezzi è troppo lento e dobbiamo accelerarlo. Si tratta di un processo che necessita un altro tipo d’approccio e che non è possibile con gli strumenti che si imparano nei master di business administration, con i quali ci si focalizza su una cosa sola per volta, come la CO2, l’acqua, l’elettricità o le auto. Se ci si occupa solo di un aspetto produttivo non è possibile uscire dalla ‘trappola’ dell’inquinamento e delle emissioni climalteranti. Abbiamo bisogno di lavorare come opera la natura. Dobbiamo trasformare tutti i modelli di business in ecosistemi che sono molto più efficienti di quanto pensiamo. Anzi lo sono più di qualsiasi sistema pensato dagli ingegneri e dai manager. Secondo me la principale questione è il cambiamento del modello di business.”
qualsiasi governo nazionale perché i sindaci decidono come agire nelle città.”
Gunter Pauli
blue economy 2.0
200 PROGETTI IMPLEMENTATI
4 MILIARDI DI DOLLARI INVESTITI
3 MILIONI DI NUOVI POSTI DI LAVORO CREATI Prefazioni di Catia Bastioli e Giuseppe Lavazza
A ben vedere, quelli che vengono celebrati come trionfi dal pensiero economico, che li allinea nelle statistiche sul Pil e sulla crescita, di frequente si rivelano fenomeni del tutto irrazionali. Utilizzando i rasoi usa-e-getta buttiamo ogni anno centinaia di tonnellate di titanio, estratte in miniere dall’altra parte del mondo e lavorate a temperature altissime con costi energetici e ambientali enormi. Quando beviamo un caffè diamo valore solo a una frazione minima della biomassa da cui è stato prodotto: il resto lo gettiamo nella spazzatura dove genera gas serra e danneggia i suoli. Per potabilizzare l’acqua spesso scarichiamo nei fiumi e in mare sostanze chimiche dannose per la vita acquatica. Tagliamo milioni di alberi per soddisfare i nostri fabbisogni di carta, e quando l’abbiamo usata ne ricicliamo comunque una frazione minima... Gli esempi potrebbero continuare, ma è chiaro che l’umanità spreca troppa energia e materiali, e nel farlo emette troppi gas serra. Il principale responsabile di questo stato di cose è il modello economico dominante, basato su una logica lineare di incremento dei consumi. Serve una svolta, e questa può arrivare dalla blue economy teorizzata e applicata da Gunter Pauli. Incentrata sull’imitazione degli ecosistemi e la circolarità dei flussi di materia, negli ultimi vent’anni ha ispirato migliaia di imprenditori che in tutto il mondo hanno implementato progetti e generato milioni di nuovi posti di lavoro. Questa nuova edizione interamente rivista e aggiornata di uno dei classici della scienza della sostenibilità dà conto degli ultimi sviluppi, e delinea prospettive ancora più esaltanti per quei leader, politici e aziendali, che saranno capaci di applicarle.
Quali sono gli strumenti che possiamo usare per avviare un processo dal basso? “Il cambiamento più importante riguarda il modello di business. Se continuiamo con la globalizzazione, aumentando il commercio internazionale su scala globale, incrementeremo le emissioni climalteranti. Dobbiamo lavorare con le economie locali cogliendo le opportunità dei territori: se non cambiamo il modello di business non combatteremo i cambiamenti climatici e non risponderemo ai bisogni dei cittadini a livello locale. Non ha senso utilizzare merci che provengono dall’altro capo del mondo, quando si possono produrre vicino a noi.” 17/11/15 15:45
Lei sostiene che la lotta ai cambiamenti climatici, senza una direzione chiara, può avere effetti catastrofici. Perché pensa questo e quali sono gli strumenti che abbiamo ora dopo la Cop21? “Una delle sfide che abbiamo di fronte riguarda il fatto che l’accordo di Parigi non ha strumenti da utilizzare, non possiede obblighi, né adempimenti
E in che maniera possiamo realizzarlo? “Prima di tutto dobbiamo rispondere ai bisogni locali con soluzioni locali, quando è possibile. È necessario creare sviluppo economico non grazie alle esportazioni, ma agendo sulle necessità locali. Negli Usa, per esempio, il 25% dei bambini nascono in povertà. Non è accettabile che nella nazione più ricca del pianeta un quarto dei nuovi nati sia povero fin dall’inizio della propria esistenza. Oggi possiamo vedere in maniera chiara i limiti delle risorse e come stiamo moltiplicando gli effetti di ciò nelle economie locali. Far arrivare il salmone dal Cile, le mele dal Sudafrica o i computer dalla Cina, per interessi economici, significa deprimere i territori, mentre dovremmo dare sicurezza alle persone più povere, sviluppando questi territori. La natura lo fa da sempre. Gli ecosistemi rispondono ai bisogni locali con le risorse locali. Dobbiamo imparare a vivere con dei limiti, il che non significa tornare al medioevo all’età della pietra e vivere in povertà.” Bene, ma in concreto abbiamo delle soluzioni realizzabili oggi? “Sì. Prendiamo, per esempio, una tazzina di caffè, prodotto commercializzato a livello globale, come molti altri. Quando beviamo un caffè ne
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consumiamo solo lo 0,2% e il residuo – cioè il 99,8% del prodotto – non dovrebbe essere buttato via perché è una risorsa. Il caffè utilizzato può essere impiegato come concime nella coltivazione dei funghi e gli scarti di questa coltivazione possono diventare, a loro volta, proteine per l’alimentazione dei polli. In questa maniera abbiamo tre prodotti anziché uno solo e, visto che la produzione mondiale di caffè è di dieci milioni di tonnellate, otterremmo il triplo di prodotti. Ma per fare ciò non si deve ‘chiudere’ il caffè nelle capsule d’alluminio, come avviene ora con il commercio globale, ma incapsularlo nelle bioplastiche basate sul cardo che si possono produrre a livello locale e consentono il riutilizzo del caffè. Questo è un modo nel quale si sviluppa anche l’economia locale dando reddito alle persone che vivono nei territori. Oggi invece abbiamo abbracciato la logica opposta, esternalizzando tutti i costi ambientali e utilizzando solo il commercio internazionale.” Quindi l’Europa che pensa d’uscire dalla crisi puntando sulle esportazioni sbaglia? “La Germania, per esempio, dipende dall’esportazione e per questo motivo è tra i primi dieci paesi del mondo in termini di occupazione. Ma nelle altre nazioni non si genera lavoro e aumenta la povertà: questa è una trappola perché così l’occupazione cresce solo in dieci paesi e aumenta l’emigrazione. Questa dinamica si nota anche in Italia, dove i territori periferici, come le isole perdono abitanti da oltre 25 anni, perché le persone non vedono un futuro in questi luoghi. È necessario trovare un bilanciamento tra il commercio e la risposta ai bisogni locali. L’Italia è un caso interessante perché è una delle poche nazioni che ha fatto dei passi concreti nella bioeconomia. E una delle cose che dobbiamo fare è proprio riconnettere l’agricoltura con l’industria. Oggi si pensa che l’agricoltura sia il passato e che il lavoro in questo settore non produca sviluppo economico. Non è vero. Basta osservare i settori della produzione alimentare e della realizzazione delle macchine per questa attività. Occorre integrare il settore industriale primario e quello secondario, producendo valore nelle nostre economie. Ma bisogna considerare che la crescita non è fatta di numeri assoluti, anzi, oggi abbiamo perso la cognizione dell’aumento del valore complessivo perché la globalizzazione e il commercio internazionale ci spingono a pensare solo al taglio dei costi. Per questa ragione la maggior parte delle aziende italiane produce oltre oceano. La domanda è: quanti dei vantaggi della produzione agricola, dalla pesca, dall’attività mineraria, possiamo far ricadere sulla produzione dei beni a livello locale?” Nuovo bilanciamento, per nuovi vantaggi. Ma su che scala, visto che quella globale ha dei limiti?
“Anche il livello nazionale non funziona. Bisogna puntare sul modello e sull’identità regionale come ha fatto l’Unione europea. Penso che quando si scommette sull’identità regionale si può far crescere l’economia locale in maniera più forte rispetto al fatto di puntare sull’economia globalizzata. Anche se ci sono delle contraddizioni, basta pensare all’acqua. Sulle risorse idriche abbiamo investito miliardi di euro in infrastrutture a livello locale, ma compriamo l’acqua in bottiglie di plastica, realizzate con il petrolio e commercializzate dalle marche internazionali a un prezzo cinquanta volte maggiore. Sviluppare economie di questo tipo è una cosa senza senso. L’esperienza che abbiamo fatto con la fondazione Zeri in diverse parti del mondo è che un’economia diversa non solo è possibile, ma è anche l’unica via per avere la piena occupazione. Oggi ci si sorprende quando si parla di piena occupazione e la maggioranza dei politici dice che è irrealizzabile, però se si pensa che non sia possibile in partenza è ovvio che l’obiettivo non si raggiungerà mai e si accetteranno percentuali come il 10, il 15 o il 20% di disoccupazione. È sufficiente vedere cosa succede in Spagna, dove hanno creduto che con l’economia globale si potesse dimezzare la disoccupazione e oggi hanno il 25% dei giovani che non hanno mai avuto un lavoro in tutta la loro vita. Che tipo di società si realizza quando si danno come priorità la competitività globale e il commercio internazionale? Quando le persone mi dicono che non hanno nulla e quindi non possono fare nulla, io rispondo: ‘guardate ancora’.” Siamo abituati all’alta intensità energetica. Come possiamo pensare di continuare ad avere sufficiente benessere con una minore intensità energetica? “Diamo per scontata l’alta intensità energetica e il fatto d’averne bisogno. Un esempio. All’industria serve energia per produrre aria compressa, ma la pompa dell’aria più efficiente del pianeta è la balena che è in grado di comprimere centinaia di litri d’aria con sei volt d’elettricità e senza manutenzione per 80 anni. Chi è quell’ingegnere che oggi può raggiungere l’efficienza della balena? Questo è ciò che dobbiamo realizzare. Noi pensiamo in maniera inefficiente e siamo molto lontani da ciò che fanno le altre specie. Pompando l’aria come fanno le balene potremmo risparmiare il 90% dell’energia impiegata nell’operazione. E non si tratta di una cosa da poco visto che
“Whales” di Simon Child, the Noun Project
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Un’economia diversa non solo è possibile, ma è anche l’unica via per avere la piena occupazione.
Think Tank
la compressione d’aria rappresenta il 10% dei consumi industriali. Quindi possiamo passare dal 10 all’1% imparando dalle balene, risparmiando energia e costi. Noi crediamo d’essere efficienti solo quando non facciamo una comparazione dei nostri standard d’efficienza con quelli della natura. Penso che abbiamo creato il bisogno di un’elevata intensità energetica perché abbiamo accettato come usuale una progettazione energeticamente inefficiente.” Bene le balene e i processi industriali. Ma nel quotidiano? “La casa ha delle enormi possibilità. L’80% di tutto ciò che usiamo nelle nostre abitazioni oggi è alimentato da corrente continua, ma utilizziamo la corrente alternata a 220 volt. Questo perché vogliamo produrre elettricità in maniera centralizzata trasmettendola per lunghe distanze, tutto ciò è molto inefficiente. Prendiamo, per esempio, il caso dei led alimentati dai pannelli fotovoltaici. Il fotovoltaico genera corrente continua che viene convertita in alternata e riconvertita in continua per alimentare i led. Una doppia conversione che è un doppio spreco. Nelle nostre case non abbiamo piccole reti in corrente continua per cui perdiamo il 20-30% dell’elettricità nelle conversioni. Si tratta di una cosa senza senso quando si hanno pannelli fotovoltaici sul tetto.” Come possiamo diffondere queste idee, questa visione alle imprese e convincerle? “Occorre coinvolgere i leader di mercato. In Olanda, per esempio, la seconda compagnia distributrice d’elettricità, la Eneco, ha deciso di promuovere la fornitura di corrente continua nelle nuove aree urbane. E le città sono molto interessate a usare nel migliore modo possibile la propria elettricità, a loro non importa trasportarne una grande quantità per lunghe distanze. Alle città preme avere elettricità al prezzo più basso,
in maniera stabile e magari da fonti rinnovabili. Anche le grandi aziende di elettrodomestici stanno guardando con interesse alla corrente continua e hanno ingegneri specializzati in corrente continua che studiano come usarla e abbandonare la corrente alternata. Poi è necessario sviluppare la domanda da parte dei consumatori per incoraggiare questa transizione. I centri urbani, per esempio, possono promuovere l’utilizzo di sistemi a led senza inverter e trasformatori, imponendo rapidamente questi nuovi standard per incrementare l’efficienza. Ma manca una connessione: la maggior parte degli studenti d’ingegneria non impara quasi nulla sulla corrente continua e i suoi vantaggi. Se non stimoliamo e formiamo in questa direzione le menti della prossima generazione di creativi potremmo perdere questa e altre sfide.” Per finire. Lei ha sei bambini: c’è qualcosa che si può fare, oltre a ciò che mi ha già detto, per le generazioni future? “Penso che come padre la più grande responsabilità che ho non è quella d’insegnare cose ai miei figli, ma quella di ispirarli. Noi dobbiamo stimolare i bambini con idee che oggi non sono in televisione, che non sono pubblicizzate. Siamo diventati esperti nel diffondere, anche ai nostri figli, solo cattive notizie, come l’estinzione di molte specie, la distruzione di intere foreste alle quali ora si aggiungono quelle sull’economia, sul lavoro. L’urgenza verso la prossima generazione è quella di raccontare le cose incredibili che sono possibili e che la nostra generazione non ha fatto. Dobbiamo dedicare ogni giorno tre minuti a ispirare i bambini, per narrare storie, per condividere. Credo che questo mondo possa andare nella direzione giusta se noi ci lasciamo alle spalle i politici internazionali, i banchieri, i trader di Borsa. E iniziamo a ispirare i nostri bambini.”
L’urgenza verso la prossima generazione è quella di raccontare le cose incredibili che sono possibili e che la nostra generazione non ha fatto.
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per reinventare le città Intervista a Victor Olgyay
Al Rocky Mountain Institute, a Boulder, in Colorado, un centro d’eccellenza tra cime di 4.000 metri. Qui studiano come applicare l’economia circolare alla progettazione e manutenzione degli edifici: quelli nuovi e quelli esistenti, quelli grandi e quelli piccoli. Un business che può far guadagnare energia e denaro. a cura di Emanuele Bompan
Victor Olgyay è architetto, esperto del Rmi sull’utilizzo di energia negli edifici commerciali, sia nuovi sia esistenti. Ha lavorato a centinaia di progetti, tra cui il retrofit energetico profondo del gigantesco Empire State Building.
Brett Bridgeland, senior staff Rmi, specializzato in smart buildings.
Boulder, Colorado. Le montagne circondano per metà questa piccola cittadina ai piedi delle Montagne Rocciose. Non lontano risplendono le vette più alte, alcune delle quali raggiungono i 4.000 metri di altezza. Questa incredibile catena montuosa e la sua bellezza selvaggia hanno ispirato 30 anni fa la creazione di uno dei più interessanti think-tank americani sulla risoluzione dei problemi nel settore energetico: il Rocky Mountain Institute (Rmi) fondato da Amory Lovins, fisico, scienziato ambientale e scrittore americano. Materia Rinnovabile lo ha visitato per incontrare Victor Olgyay, figlio del famoso e omonimo architetto autore del primo libro sull’architettura bioclimatica. Victor è architetto, esperto del Rmi sull’utilizzo di energia negli edifici commerciali, sia nuovi sia esistenti. Ha lavorato a centinaia di progetti, tra cui il retrofit energetico profondo del gigantesco Empire State Building: un esempio di quanto il ruolo degli edifici già esistenti sia estremamente importante nelle pratiche di risparmio energetico. Brett Bridgeland, senior staff Rmi, specializzato in smart buildings, si è unito alla nostra piacevole discussione su come l’edilizia possa rientrare in una visione di economia circolare.
Rocky Mountains ©WikiCommons / Wolf Wiggum
TRA LE MONTAGNE
Victor Olgyay ©BompanEmanuele
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Think Tank Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008.
Rocky Mountain Institute, www.rmi.org
Amory Lovins, Reinventare il fuoco, Edizioni Ambiente 2012; tinyurl.com/hphbae7
Quando guardiamo un edificio non vediamo che cos’è in realtà: una fonte di materiali (le acque di scolo, i materiali da costruzione, i prodotti di scarto come moquette, finestre ecc.), e un’opportunità di ridurre il consumo energetico e di tagliare le emissioni. “Al Rocky Mountain Institute cerchiamo di considerare gli edifici non come un singolo oggetto, ma come un ecosistema più ampio: consideriamo una costruzione in rapporto alle altre e all’infrastruttura urbana e valutiamo la sua relazione con l’energia elettrica e la mobilità. Nel libro Reinventare il fuoco, di Amory Lovins, descriviamo il ruolo delle costruzioni rispetto ai servizi energetici, alla mobilità e all’industria. Oggi la maggior parte delle persone non considera un edificio attraverso un approccio integrato, ma vede questi elementi scollegati e in rapporto di dipendenza lineare, invece che sistematicamente interdipendenti. In Reinventare il fuoco dimostriamo che un approccio sistemico offre l’opportunità di eliminare il ricorso a petrolio e carbone, e ci permette di sviluppare una solida economia basata su efficienza ed energia rinnovabile. Per esempio edifici e automobili dovrebbero essere visti come interconnessi, con le auto elettriche che possono fare da deposito energetico per gli stabili. Oggi abbiamo tantissime costruzioni inefficienti che rappresentano una grande opportunità per risparmiare energia e denaro e possono dar vita a nuovi business che affrontino il problema dell’efficienza con interventi profondi o leggeri.” State dicendo che l’immenso campo dell’edilizia, ora ad alta intensità energetica,
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La gestione corretta degli immobili è la chiave del risparmio energetico operativo. Per le nuove costruzioni, invece, è necessario innovare il design.
Progetto Residential Energy+, www.rmi.org/ residentialenergyplus
può diventare più efficiente anche con interventi di retrofit leggero? “Se arriviamo ad aumentare del 20% l’efficienza energetica in un gran numero di edifici, possiamo ricavarne un impatto enorme. Per questo ora Rmi sta cercando di capire come ottenere un ritorno ampio e rapido sugli investimenti nella ristrutturazione in larga scala degli edifici. Devono essere interventi semplici, che non diventino un grattacapo per i proprietari. Progetti poco impegnativi, da realizzarsi con molta facilità e con un rapido rientro dell’investimento compiuto, diventerebbero molto popolari e avrebbero un’ampia diffusione. Naturalmente consideriamo anche le opportunità offerte dal retrofit profondo. Stiamo lavorando su comunità, reti e campus che stanno diventando altamente efficienti dal punto di vista energetico e indipendenti dalla rete e, in alcuni casi, producono perfino più energia di quanta ne consumano: possono rappresentare una risorsa per la rete elettrica, un diverso nodo nel sistema. Gruppi interconnessi di edifici possono immagazzinare l’energia termica ed elettrica, rispondere al fabbisogno energetico, regolare la frequenza di erogazione e svolgere altri servizi utili per aiutare la rete elettrica a funzionare meglio. Paradossalmente, però, il retrofit leggero è abbastanza complesso. Non è facile arrivare a un intervento ampio, veloce e facile da realizzare. Bisogna convincere molte persone, con una varietà di edifici che hanno schemi di utilizzo energetico differenti. Crediamo, però, che vi sia una reale opportunità di realizzare retrofit su larga scala attraverso l’ottimizzazione e il potenziamento della infrastruttura informatica degli edifici. Ci stiamo concentrando su sistemi informatici che ci permettano di comprendere meglio come far funzionare gli edifici in modo efficiente. Oggi ci sono molti processi automatizzati, ma spesso non sono correttamente gestiti o manutenuti. Dobbiamo imparare a far funzionare bene le nostre costruzioni. Invece di spendere molto denaro in materiali innovativi o in costose ristrutturazioni dell’involucro esterno degli edifici, dobbiamo capire come utilizzare in modo intelligente dati e computer.” Perciò suggerite di innovare la gestione degli edifici piuttosto che innovare i materiali? “Assolutamente sì per quanto riguarda gli edifici già esistenti. La gestione corretta degli immobili è la chiave del risparmio energetico operativo. Per le nuove costruzioni, invece, è necessario innovare il design. Le nostre case possono essere più funzionali grazie a un design migliore. Progettare sulla base del clima può far risparmiare molta energia. Per ottenere una significativa riduzione dei consumi energetici basta costruire semplici murature ben isolate e funzionali, pensare alla circolazione dell’aria, utilizzare infissi di qualità che siano in ombra d’estate e che lascino passare il calore del sole quando lo si desidera. Tutte queste cose sono a costo zero: è una questione di progettazione smart. Già con i materiali che
Già il design dovrebbe includere il potenziale riutilizzo della struttura dell’edificio, anziché la sua demolizione. Per esempio, il parcheggio del Boston Convention Center è stato progettato in modo da poter essere eventualmente trasformato in uffici.
abbiamo oggi a disposizione possiamo costruire case a consumo energetico zero, non abbiamo bisogno di materiali super-efficienti. Naturalmente alcuni prodotti come i pannelli fotovoltaici hanno portato a impressionanti miglioramenti nell’efficienza energetica e hanno subito un auspicata riduzione di costo. Sono materiali ottimi, e vi è una certa quantità di altri buoni prodotti in arrivo sul mercato che possono rendere l’efficienza energetica più semplice ed economica.” Noi esseri umani siamo essenziali per una buona gestione dei nostri edifici, che permetta di farli vivere più a lungo e in modo efficiente. “Il nostro comportamento è fondamentale. La cosa interessante è che di solito le persone non sono consapevoli dell’energia utilizzata dagli edifici. Sanno quanto consuma la propria automobile, ma non conoscono il consumo energetico delle proprie case. Senza un qualche tipo di indicazione visibile di quanta energia utilizziamo, non siamo incentivati ad adottare comportamenti efficienti. E questo è un peccato, perché l’efficienza energetica si conteggia in Negawatt (o energia risparmiata), una potente e invisibile soluzione che può ampiamente ridurre le emissioni di gas a effetto serra.” Che cosa si può fare? “Abbiamo un progetto chiamato Residential Energy+, un’iniziativa del Rocky Mountain Institute che permette ai protagonisti del settore di intercettare opportunità di mercato nel campo della riqualificazione energetica residenziale per 150 miliardi di dollari, e rispondere a quello che è il principale bisogno – ancora insoddisfatto –
Think Tank ci sarà comunque una componente umana. Stiamo raccogliendo sempre più dati: sugli edifici dobbiamo ottenerne sempre di più e in una forma che li renda facilmente utilizzabili dalle persone.”
Brett Bridgeland ©BompanEmanuele
Concentriamoci sugli Stati Uniti. L’interesse per il retrofit leggero è in aumento? “Sì. E cresce quando le persone scoprono come gli altri stanno risparmiando energia. A Chicago stiamo lavorando con la Chicago Retrofit Initiative che ha l’obiettivo di arrivare in 5 anni a un risparmio energetico del 20%. Il proprietario di un edificio ha installato un sistema di controllo energetico smart riuscendo a risparmiare il 18% di energia nel primo anno. ‘Se l’avessi saputo prima – ha dichiarato – l’avrei fatto molto tempo fa’. E quando si è sparsa la voce, molti altri proprietari di immobili lo hanno immediatamente imitato.”
Il nostro comportamento è fondamentale. La cosa interessante è che di solito le persone non sono consapevoli dell’energia utilizzata dagli edifici. Sanno quanto consuma la propria automobile, ma non conoscono il consumo energetico delle proprie case.
dei proprietari di case: migliorare la performance energetica domestica. L’edilizia residenziale rappresenta circa un quinto delle emissioni di gas a effetto serra negli Stati Uniti, con un potenziale di riduzione pari a più di 300 milioni tonnellate di CO2 l’anno. Nonostante i progressi e gli sforzi significativi da parte di diversi protagonisti del settore, il mercato dell’efficienza energetica residenziale non ha ancora raggiunto la scala necessaria per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Perciò Rmi cerca di motivare i proprietari di case in tutti gli Stati Uniti e metterli così in condizione di investire nella riqualificazione energetica delle proprie abitazioni – grazie all’uso delle rinnovabili e a interventi di efficientamento – come parte della ristrutturazione delle loro proprietà. Quando le persone hanno accesso alle informazioni diventano consapevoli e agiscono. Lo chiamiamo ‘effetto Prius’, dal nome della famosa autovettura ibrida: quando osservi gli effetti del tuo stile di guida cambi automaticamente il tuo comportamento. Nel settore residenziale in particolar modo è necessario che la visualizzazione del consumo energetico divenga altrettanto semplice. Forse attraverso un’app: a noi piacciono i giochi e i gadget, quindi perché no?” I sensori e l’automazione possono evitare gli sprechi energetici dovuti ai nostri comportamenti scorretti? “Non sempre. Il sistema di riscaldamento programmato via computer non sempre soddisfa i reali bisogni. Non sempre i sensori di luce funzionano bene: a volte si rompono oppure non vengono sottoposti ad adeguata manutenzione. Quindi anche nel caso di edifici automatizzati
In che modo l’edilizia può rientrare nel modello di economia circolare? “Come ho scritto in una pubblicazione del Rmi, noi cataloghiamo gli edifici secondo tre componenti: struttura (cemento, acciaio, legno); prodotti (mobili, finiture, moquette) e funzionamento. Vogliamo che ciascuno di questi componenti diventi circolare. Partiamo dalla struttura. Già il design dovrebbe includere il potenziale riutilizzo della struttura dell’edificio, anziché la sua demolizione. Per esempio, il parcheggio del Boston Convention Center è stato progettato in modo da poter essere eventualmente trasformato in uffici. Chi progetta deve pensare prima a come sarà possibile riutilizzare la struttura mantenendola intatta. A Boston sanno che il Centro Conferenze potrebbe rivitalizzare il quartiere, quindi utilizzare in modo diverso il parcheggio potrebbe costituire un’opportunità economicamente valida di adattarlo a un utilizzo con un valore commerciale maggiore. Per quanto riguarda i prodotti, pensate per esempio alla moquette: nel tempo si logora e deve essere sostituita. Quindi è fondamentale scegliere un materiale che possa essere facilmente rimosso, smontato e riutilizzato per produrre nuovi materiali, in questo caso nuova moquette. Ma ci sono tanti altri esempi possibili. Per quanto riguarda il funzionamento dell’edificio, è necessario che l’immobile resti “al passo con i tempi”, che funzioni in maniera efficiente e che il software e i componenti del sistema siano aggiornati per ridurre i consumi il più possibile.” La lungimiranza è fondamentale… “E pensare in modo circolare. Per esempio la possibilità di utilizzare componenti prefabbricati nell’edilizia può dare una forte spinta al flusso circolare dei materiali. Quando industrializziamo il modo in cui produciamo i sistemi murari, possiamo costruire componenti standard (migliorando la qualità della costruzione) che contribuiscono a ridurre il consumo di materiali e promuoverne il riutilizzo. Così risparmiamo materiali ed energia. C’è un mondo nuovo che ci aspetta.”
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HA 45 ANNI
ma non li dimostra Spesso i segni più famosi nascondono storie curiose che non conosciamo. Dietro di loro ci sono non solo tecnici ma persone vere, e la cultura del loro tempo. di Mauro Panzeri
Versione in bianco e nero con effetto tridimensionale
È un simbolo “comune”, un oggetto iconico riconosciuto che fa parte del nostro immaginario pre-ecologico. Detto tra parentesi, per i grafici questo simbolo è detto “marchio” e non “logo” perché non contiene testo; anche se “logo” per gli anglosassoni significa “marchio”, e qui mi fermo.
sovvenzionato dal 1937 la rinascita del Bauhaus negli Usa (The New Bauhaus, poi divenuta Illinois Institute of Technology) e aveva chiamato a sé il grafico tedesco Herbert Bayer a fondare la Design Conference di Aspen nel 1951. Paepcke e Bayer sono, insomma, nomi chiave per capire da dove viene il simbolo di cui parliamo. Ma manca ancora un nome.
Questo marchio del riciclo compie 45 anni: è nato negli Usa nel 1970, lo stesso anno in cui fu proclamato il primo Earth Day. Quell’anno la Cca (Container Corporation of America, oggi SmurfitStone Container Corporation), un’azienda di grandi dimensioni per la produzione di imballaggi in carta riciclata, decide di distribuire nei college e università una Call for Entries per un concorso di graphic design il cui scopo era progettare un simbolo per i prodotti in carta riciclata che contenesse un richiamo ambientale, utilizzabile da tutti coloro che ne avessero avuto necessità (public domain). Il responsabile di queste intuizioni sul design e la comunicazione della Cca era allora Walter Paepcke, suo presidente ma soprattutto filantropo, che già aveva
Aderiscono al concorso 500 giovani designer. Alla conferenza di Aspen dello stesso anno (Aspen Institute o Idca tuttora attivo), in giuria tra gli altri lo stesso Bayer e Saul Bass, viene proclamato il vincitore: è Gary Anderson (Hawaii, 1947), giovane architetto urbanista della University of Southern California. Questa università – e questo vale per tutta la formazione di quegli anni – partecipa al Modernismo, ai programmi e all’estetica del riformato Bauhaus. Il marchio vincitore, secondo la critica di allora, è di fatto in linea con i dettami dei grandi maestri: geometrico e funzionale. In realtà Gary Anderson ha sì quella formazione, ma contemporaneamente è partecipe dei movimenti controculturali dell’epoca e delle nuove estetiche, e trae ispirazione per questo marchio
Think Tank Una pagina di Google, oggi: le trasformazioni illustrative del simbolo originale
Gary Anderson (a destra)
Il nastro di Möbius; Foto di David Benbennick, C.C.3.0
dai nastri di Möbius e da M.C. Escher, dalla psichedelia di Haight-Ashbury, a San Francisco. Ed è in questa doppia lettura culturale, tra Modernismo e nuove culture visive, che si colloca e si coglie appieno la dimensione estetica di questo marchio: un simbolo di passaggio tra due mondi. Mentre il marchio entra in uso, Anderson lascia gli Usa e, dopo un tentativo non riuscito da parte della Cca di registrare il simbolo, la sua creazione viene attribuita genericamente al dipartimento grafico della Cca e il marchio diventerà di pubblico dominio, come peraltro nelle intenzioni originali del concorso. Sarà solo negli anni ’90 che la storia verrà ricostruita appieno, grazie a un articolo su Print, la riconosciuta rivista americana. E Gary Anderson, oggi settantenne e affermato urbanista che ha visto il mondo, vincitore di premi e con un curriculum professionale e accademico importante, torna in pieno possesso “morale” della sua creatura; e noi con lui. Mentre la cultura iconica contemporanea si è appropriata del simbolo e lo ha trasformato all’infinito, quello originale, per uso specifico e non illustrativo, resta comunque valido e in gran forma.
La notizia del ritrovamento dell’autore, da Resource Recycling, 1999
Il simbolo originale di Gary Anderson
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Dalla Grande accelerazione
al Modello iceberg di Marta Ceroni
Il mondo del business deve tornare a riflettere sul suo ruolo nella società e ridefinire i confini della sua responsabilità sociale. Solo così riuscirà a trasformare le sfide che richiedono più coraggio – come i cambiamenti climatici – in opportunità economiche.
Marta Ceroni è Executive Director del Donella Meadows Institute, organizzazione che promuove l’ideazione di sistemi per la progettazione di economie sostenibili. Ecologa forestale, ha lavorato come Research professor al Gund Institute for Ecological Economics della University of Vermont.
I ricercatori dello Stockholm Resilience Center la chiamano la “Grande accelerazione”. Si tratta di un’impennata che a partire dagli anni ‘50 è stata rilevata nei dati sulla popolazione, sullo sfruttamento delle risorse, l’uso di fertilizzanti, l’inquinamento da carbonio, l’impoverimento delle riserve ittiche, la perdita di biodiversità e altro. Prima di quegli anni, invece, gli effetti delle attività umane erano poca cosa, quasi impercettibili.
1. Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile, Edizioni Ambiente 2009 (ed. orig. Blessed Unrest, 2007); online: www. edizioniambiente.it/ libri/279/moltitudineinarrestabile/ 2. Andrew S. Winston, The Big Pivot: Radically Practical Strategies for a Hotter, Scarcer, and More Open World, Harvard Business review Press, 2014.
“In un tempo pari alla durata di una vita, l’umanità è diventata una forza geologica su scala planetaria”, dice Will Steffen che ha guidato lo studio in collaborazione con l’International Geosphere-Biosphere Programme. Nel frattempo la International Commission on Stratigraphy sta valutando se aggiungere l’Antropocene come era geologica, che potrebbe ufficialmente finire nei libri di scuola vicino all’Olocene e al Pleistocene. L’Antropocene è anche un periodo di maggiore consapevolezza globale che vede la nascita di un grande movimento sociale (Paul Hawken parla di almeno un milione di organizzazioni dedite al cambiamento sociale in tutto il mondo)1 e l’inizio delle economie circolari e biobased. È anche un periodo senza precedenti per quanto riguarda la convergenza transnazionale evidenziata dagli accordi climatici di Parigi, dal lancio dei Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite e dall’ enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco. In questo speciale momento di accelerazione e di impegni transnazionali per la sostenibilità, il mondo del business sta sempre più riflettendo sul suo ruolo nella società e ridefinendo i confini della sua responsabilità sociale. Una nuova
consapevolezza sta filtrando nella comunità del business, che comincia a interrogarsi sui bilanci convenzionali, gli stili di leadership, gli spazi di lavoro. E sulla fondamentale convinzione che sia necessario crescere indefinitamente (pensate alla campagna di Patagonia “Don’t buy this shirt” che ha portato a un’impennata delle vendite). Nel frattempo, inondazioni, siccità e disordini sociali connessi ai cambiamenti climatici stanno appesantendo parecchio il costo del business. Secondo Unilever – multinazionale anglo-olandese i cui prodotti arrivano nelle case di due miliardi di persone – la siccità, la ridotta produzione agricola e il conseguente aumento dei prezzi del cibo costano all’azienda 400 milioni di dollari l’anno. Di fronte a queste mega-sfide molti nel settore privato sono preoccupati che gli impegni presi dalla politica non siano sufficienti a innescare un’azione immediata. Il “consumo verde”, seppure in aumento, non è riuscito a diventare una forza trasformativa in grado di plasmare una produzione sostenibile. Da qui il bisogno e l’urgenza sentite dalle aziende socialmente responsabili di un ruolo più attivo e lungimirante da parte del business. Qual è, allora, il prossimo passo importante per la responsabilità sociale delle imprese? Andrew Winston nel suo libro The Big Pivot riconosce che questo – per il settore privato – è un momento unico, adatto per ridiscutere la visione del mondo e la ragione fondamentale per cui le aziende esistono.2 Secondo Winston il ruolo del business dovrebbe essere quello di affrontare un problema e poi usare l’ingegnosità per rendere la soluzione redditizia, invece di creare prima di tutto problemi (pensiamo per esempio alle epidemie di diabete in parte
Think Tank Donella Meadows Institute, www.donellameadows.org Stockholm Resilience Center, www. stockholmresilience.org International GeosphereBiosphere Programme, www.igbp.net
3. Peter Senge, Hal Hamilton, John Kania, “The Dawn of System Leadership”, Stanford Social Innovation Review, inverno 2015, online: tinyurl.com/h6osp98 4. Donella H. Meadows, Thinking in Systems: a Primer (a cura di da Diana Wright), Chelsea Green Publishing, 2008. 5. Donella H. Meadows, “Leverage Points: Places to Intervene in a System”, per gentile concessione del Donella Meadows Institute, online: tinyurl.com/oooxto5
collegate alle bevande zuccherate disponibili sul mercato). Se il business si considera sempre più come parte della soluzione, possiede la leadership, la visione e gli incentivi per arrivare a questo alto livello di problem solving? La grande maggioranza delle aziende pubbliche, specialmente negli Stati Uniti, esercita ancora una forte pressione per massimizzare i profitti a breve termine. E, nonostante gli sforzi di un numero sempre crescente di compagnie per ridurre la loro impronta ambientale, solo in pochi casi questi interventi riflettono un approccio sistemico, influenzato da una comprensione della realtà e dell’entità della trasformazione necessaria. Henk Hadders, accademico e imprenditore sociale, descrive così la sfida: “Continuiamo a costruire le stesse vecchie istituzioni per risolvere nuovi e complessi problemi con lo stesso vecchio set di regole, guidati dalla stessa vecchia cultura con la maggior parte degli stessi manager di vecchia scuola ancora al loro posto”. Questo invece si sta dimostrando un momento cruciale in cui le imprese di maggior successo saranno quelle che non solo riusciranno a stare a galla nella crescente incertezza, ma sapranno aprire le porte a modelli innovativi e alla trasformazione delle sfide che richiedono più coraggio, come i cambiamenti climatici, in opportunità economiche. Non è un percorso facile e pianificato: richiede una nuova leadership in armonia con il funzionamento dei sistemi complessi, capace di immaginare futuri alternativi e in grado di generare forza e visione.
“Il Modello iceberg, ispirato dal lavoro Donella Meadows, è sempre un promemoria che mi ricorda di andare oltre quello che si vede in superficie nella definizione di un problema e nella ricerca dei punti di intervento.” Grafica di Sarah Parkinson, per gentile concessione del Donella Meadows Institute.
Questo insieme di abilità sono state definite da Peter Senge, Hal Hamilton e John Kania “leadership di sistema”.3 Nei leader di sistema spiccano tre qualità: saper leggere il sistema nel suo complesso (e non solo le sue parti); avere la capacità di facilitare riflessioni autentiche; essere in grado di passare dalla soluzione dei problemi alla co-creazione di un futuro differente. Chiunque voglia intraprendere il percorso della crescita personale e della leadership di sistema incontrerà sulla sua strada Donella “Dana” Meadows, principale autrice nel 1972 de I limiti dello sviluppo (Limits to Growth). Questo Rapporto – che rappresenta una delle analisi di sistema più note (e accessibili) mai pubblicate – si focalizza niente meno che sul destino dell’umanità come popolazione, sull’economia e sulla crescente estrazione di risorse sul nostro pianeta finito. Lo studio fu ingiustamente accusato di catastrofismo perché prevedeva il collasso della civiltà umana in un momento indeterminato successivo agli anni 2020-2030 a meno che l’umanità non avesse rallentato il tasso di crescita economica e demografica. A distanza di 20/30 anni gli autori hanno confermato questa direzione preoccupante, ma si rendono conto che i dati da soli – per quanto accurati e riproducibili – non sono sufficienti a scuotere la volontà politica ed economica. Secondo Meadows un grande potenziale è presente in alcune qualità umane che catalizzano il cambiamento profondo: la visionarietà, la capacità di creare una rete di persone con obiettivi comuni, quella di creare nuovi flussi di informazione e trasparenza, di rimanere umili e aperti all’apprendimento, e infine la capacità di amare. Meadows dedica un intero libro, Thinking in Systems, pubblicato postumo nel 2008, a queste qualità e alla comprensione pratica dei sistemi da parte dei creatori del cambiamento.4 “Via via che il nostro mondo continua a cambiare rapidamente e a diventare sempre più complesso, la progettazione dei sistemi ci aiuterà a gestire, adattare e vedere l’ampio spettro di scelte che abbiamo di fronte”, scrive Meadows. Molte di queste scelte hanno a che fare con il riconoscimento della forza dei fulcri di un sistema. “Questi sono posti all’interno di un sistema complesso (un’azienda, un’economia, un organismo vivente, una città, un ecosistema) in cui un piccolo cambiamento in una cosa può produrre grandi cambiamenti nel sistema”.5 Un punto di leva analogo, molto spesso ignorato, è l’obiettivo finale di un sistema. Da non confondersi con l’obiettivo dichiarato di un sistema, che è ciò che il sistema alla fine produce come risultato del suo processo lavorativo. Poiché siamo nati all’interno di sistemi e li ereditiamo dalle generazioni precedenti, raramente ci chiediamo qual è lo scopo di una famiglia, una scuola, un’altra azienda, un sistema monetario o un’economia. “Se definiamo l’obiettivo di una società in termini di Pil” scrive Meadows “questa farà del suo meglio per generare Pil. Non produrrà benessere, equità, giustizia o efficienza a meno che non
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Think Tank Punti di intervento in un sistema (in ordine crescente di efficacia ) 12. Costanti, parametri, numeri (come sussidi, tasse, standard) 11. Le dimensioni dei buffer e altre scorte stabilizzanti, relative ai loro flussi 10. La struttura degli stock di materiali e i flussi (come le reti di trasporto e le strutture per età della popolazione) 9. La lunghezza dei ritardi, relativa alla frequenza di cambiamento del sistema 8. La forza dei loop di retroazione negativi, relativi agli impatti cui stanno cercando di porre rimedio 7. Il guadagno intrinseco alla generazione di loop di retroazione positiva 6. La struttura dei flussi di informazione (chi ha o non ha accesso all’informazione) 5. Le regole del sistema (come incentivi, punizioni, obblighi) 4. Il potere di aggiungere, cambiare, evolvere, o auto-organizzare la struttura del sistema 3. Gli obiettivi del sistema 2. L’approccio mentale o paradigma dal quale il sistema – i suoi obiettivi, la sua struttura, le sue regole, ritardi e parametri – scaturisce 1. La capacità di trascendere i paradigmi
6. È possibile leggere la lettera all’indirizzo web: www.statoil.com/ en/NewsAndMedia/ News/2015/Downloads/ Paying%20for%20 Carbon%20letter.pdf 7. Shannon Hall, “Exxon Knew about Climate Change Almost 40 Years Ago”, Scientific American, 26 ottobre, 2015; online: www.scientificamerican. com/article/exxon-knewabout-climate-changealmost-40-years-ago/ 8. Ray Anderson, MidCourse Correction: Toward a Sustainable Enterprise, The Interface Model, Peregrinzilla Press, 1999.
si definisca un obiettivo, si misuri e si renda conto regolarmente sullo stato del benessere, dell’equità, della giustizia o dell’efficienza”.
Donella Meadows
Pagina accanto: La grande accelerazione. Reference: W. Steffen, Broadgate W., L. Deutsch, O. Gaffney e C. Ludwig (2015). Map & Design: Felix Pharand_Deschenes / Globaia.
Gli obiettivi espliciti e le loro misurazioni sono qualcosa che le aziende socialmente responsabili hanno compreso da molto tempo scegliendo un approccio a tripla bottom line. Ma c’è qualcosa di particolarmente trasformativo, dal punto di vista dei sistemi, nel rendere più semplice alle aziende seguire linee guida alternative. Trenta Stati Usa hanno approvato leggi che permettono la formazione di benefit corporations, società che non hanno l’obiettivo di massimizzare profitti e possono decidere di reinvestire nella comunità e nell’ambiente senza il rischio di essere ostacolate o rallentate dagli azionisti. Al momento si stima che in 42 Stati ci siano 1.400 benefit corporations, tutte impegnate a ridefinire i confini del loro successo e della loro responsabilità sociale. Un’altra leva per il cambiamento che Meadows mette ai primi posti nella sua lista degli interventi, è rappresentata dalle regole di un sistema. “Se volete comprendere i malfunzionamenti più profondi di un sistema, fate attenzione alle regole, e a coloro che hanno potere su di esso”, scrive Meadows. Una regola che le aziende stanno iniziando a sostenere con più vigore che in passato, è stabilire un prezzo per il carbonio. E una cosa è vedere Ben & Jerry’s, l’azienda ultra progressista del Vermont produttrice di gelati, fare questo tipo di campagna, un’altra è vedere
sei grandi compagnie petrolifere – Bp Plc, Royal Dutch Shell Plc, Total Sa, Statoil Sa, Eni spa e Bg Group – scrivere a Christiana Figueres, Executive Secretary della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, per chiedere che venga imposto un prezzo alle emissioni di carbonio.6 Nel frattempo, Exxon Mobil, tenendo nascoste al pubblico le sue stesse informazioni critiche e spendendo milioni stava promuovendo la disinformazione.7 Ecco come Meadows descrive il ruolo critico dei flussi di informazione: “Se potessi, aggiungerei un undicesimo comandamento: non distorcerai, ritarderai o nasconderai informazioni. Potete mandare in tilt un sistema intorbidendo i suoi flussi di informazione. Potete farlo lavorare al meglio e con facilità sorprendente se date informazioni tempestive, accurate e complete”. Ma il maggiore potenziale di cambiamento, e anche il più difficile da rimuovere, è legato all’approccio mentale dal quale poi scaturiscono gli obiettivi, le regole e i processi di sistema. Nel 1994 Ray Anderson, l’ultimo Ceo di Interface Carpet, compagnia leader nella ideazione e produzione di moquette, si rese conto che la sua azienda non era altro che la diretta estensione dell’industria petrolchimica e – a 60 anni di età – decise di cambiare strada. Nel suo libro Mid-Course Correction8 scrive: “Tra i punti di intervento di Dana Meadows, abbiamo scelto quello più difficile ed efficace per cercare di fare la differenza. La reinvenzione di Interface riflette una nuova e più accurata visione della realtà, un nuovo approccio mentale per un nuovo sistema industriale. Stiamo perseguendo con ambizione questa reinvenzione, aspirando a diventare il modello di azienda sostenibile per la prossima rivoluzione industriale”. Questo nuovo “approccio mentale”, che riconosce i limiti della capacità degli ecosistemi di assorbire inquinanti, che guarda lontano e tiene conto dei costi ambientali, ha portato l’azienda (5.000 dipendenti) a trasformare completamente la sua catena di produzione e distribuzione. Tanto che nel 2020 sarà vicina a raggiungere il traguardo zero emissioni di carbonio. Ma Meadows ci ricorda che il nuovo approccio mentale consiste anche nell’abbracciare la complessità a livello profondo e a liberarsi dell’idea che, una volta ridotti ai loro elementi costitutivi essenziali, i sistemi hanno un funzionamento prevedibile e controllabile. “Non possiamo imporre la nostra volontà a un sistema. Possiamo ascoltare quello che dice e scoprire come le sue proprietà e valori possono collaborare per portare avanti qualcosa di gran lunga migliore di quanto possa essere prodotto dalla nostra sola volontà”. In definitiva, in un mondo in accelerazione e sulla strada per condurre i Big nella responsabilità sociale delle aziende, la questione non sarà in che misura il business sia parte della soluzione, ma come si riorganizzerà per essere veicolo di cambiamento del sistema.
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Ma quanto ci costa davvero produrre
OLIO di PALMA? 100.000 incendi da gennaio a oggi, danni sanitari per le popolazioni, devastazioni ambientali e perdita di biodiversità. Per mettere fine a tutto ciò l’unica alternativa è spingere su una produzione sostenibile, oggi ferma al 20% del totale.
Policy
di Roberto Giovannini
Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.
Serve a tutto, lo si trova dappertutto: detergenti, cosmetici, saponi, biscotti, merendine, cibi pronti, Nutella, gelati. Parliamo dell’olio di palma, uno degli alimenti più versatili e utilizzati al mondo, ma anche uno dei più discussi. Perché la palma e le sue bacche dove matura l’olio – una pianta originaria dell’Africa, ma trapiantata a scopo commerciale nel Sudest asiatico ormai oltre cento anni fa – prospera alle latitudini tropicali, è relativamente facile da coltivare in una piantagione industriale, e cresce vigorosa sui terreni “liberati” dall’uomo dalla foresta umida tropicale, che è uno dei principali serbatoi di biodiversità del pianeta. Il risultato è che nel giro di pochi anni sono state cancellate centinaia di migliaia di ettari di foresta primaria. Come raccontano le cronache di questi giorni, ancora oggi i terreni vengono “liberati” principalmente appiccando degli incendi incontrollati. Da gennaio si sono contati oltre 100.000 incendi, concentrati nelle foreste delle isole di Borneo e Sumatra: le immagini satellitari mostrano da settimane una miriade di fuochi, che per molto tempo si è allungata ricoprendo di un fastidioso fumo Singapore, la Malesia e il sud della Thailandia. Il disastro è acuito dal fatto che quelle foreste sorgono su depositi di torba, che bruciando rilascia CO2, e che sono difficilissimi da spegnere. Un disastro anche sanitario: si parla di problemi respiratori seri per almeno mezzo milione di persone; e un gravissimo disastro ambientale, considerando le emissioni di CO2 e la devastante distruzione di biodiversità. Insomma, l’olio di palma va condannato toutcourt come una delle principali calamità generate dalla cupidigia umana? Il discorso è un po’ più complicato: come accade per tutti i problemi complessi, a volte non è facile trovare le soluzioni semplici e nette. Sempre che esistano.
Roundtable on Sustainable Palm Oil Rspo www.rspo.org/about
Questa fondamentalmente è la tesi di Rspo, la Roundtable on Sustainable Palm Oil, la “Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile”, un’associazione volontaria costituita nel 2004 per cercare di dar vita a una produzione di olio di palma meno distruttiva. L’idea è quella di coinvolgere tutti gli attori della filiera globale dell’olio (dai coltivatori ai raffinatori, dall’industria manifatturiera ai distributori, dalle banche ai consumatori alle Ong) per stabilire degli standard di sostenibilità della produzione. Chi rispetta i criteri e le politiche stabilite da Rspo, può legittimamente utilizzarne la certificazione. Finora l’associazione ha certificato oltre 12,5 milioni di tonnellate di olio di palma, circa il 20% della produzione mondiale. L’obiettivo è quello
di aumentare decisamente questa percentuale, per esempio raggiungendo quota 100% di olio di palma sostenibile per le importazioni sul mercato europeo. Perché come spiegano i portavoce di Rspo, “l’unica alternativa all’olio di palma è l’olio di palma sostenibile”. Ma non tutti, come vedremo, la pensano allo stesso modo. Molte associazioni ambientaliste già in linea di principio definiscono la stessa idea di “olio di palma sostenibile” un ossimoro (ovvero una contraddizione in termini, un’impossibilità filosofica). Altri criticano con maggiore o minore radicalità alcune delle procedure e delle politiche attuate da Rspo, auspicandone una riforma. Altri ancora, infine, hanno costituito un’associazione alternativa di certificazione dell’olio di palma sostenibile, basata su criteri più rigidi. Resta il fatto che la filiera industriale dell’olio di palma esiste, dà lavoro e reddito a 3,5 milioni di persone soltanto in Indonesia e Malesia. E – volente o nolente – rappresenta per l’economia di questi due paesi un fattore fondamentale impossibile da cancellare con un tratto di penna senza creare sconquassi di ogni tipo. Senza considerare poi che esiste una gigantesca domanda mondiale per quest’olio, una domanda che a breve termine dovrebbe essere comunque soddisfatta, magari da altri paesi che si troverebbero a subire le stesse conseguenze ambientali. E sempre che cancellare la palma non si riveli un rimedio peggiore del male: la palma da olio, infatti, ha una resa altissima rispetto a ogni tipo di olio vegetale. Un ettaro di terreni coltivati a palma produce quasi 3,6 tonnellate di olio, vale a dire dieci volte più dell’olio di soia o dell’olio d’oliva, e cinque volte rispetto all’olio da colza. In altri termini, per produrre l’olio utilizzato dall’industria rinunciando alla palma e usando altre tipologie di piante produttrici, ci vorrebbero molti più terreni, molta più chimica, molta più energia, molta più deforestazione, spiega Stefano Savi, direttore Global Outreach and Engagement di Rspo. Ricapitoliamo intanto il perché del successo davvero impressionante dell’olio di palma negli ultimi decenni. Come ha fatto quello di palma a diventare l’olio vegetale più utilizzato al mondo? La prima ragione, abbiamo già detto, è rappresentata dal costo e la resa, più vantaggiosi rispetto alle alternative vegetali. La seconda invece è di tipo sanitario-alimentare: in passato le varie industrie adoperavano i cosiddetti grassi idrogenati (un esempio è la margarina) che vengono prodotti con un processo chimico a partire da alcuni oli, e che sono facilmente conservabili per lunghi
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materiarinnovabile 08. 2016 periodi e poco costosi. Il problema è che tali grassi idrogenati contengono acidi grassi trans, nocivi per la salute, e a partire dal 2005-2006 sono stati bocciati sempre più dai consumatori, e poi anche dai governi dei paesi dell’Unione europea e degli Usa. L’olio di palma, invece, non presenta questi rischi, anche se come tutti i grassi saturi il suo uso non controllato ha conseguenze negative. La terza ragione poi è di tipo industriale. “L’olio di palma – spiega Savi – è quasi solido a temperatura ambiente, e quindi può essere usato per preparazioni in cui non possono essere utilizzati oli come quello di oliva o di semi, per esempio per i biscotti o le paste spalmabili”. Certamente Rspo non nega che la diffusione delle coltivazioni di olio di palma si sono accompagnate a pesanti processi di deforestazione, come
Il sistema dei cosiddetti certificati “Greenpalm” permette a chi utilizza olio di palma “sporco” di apparire come un produttore o un utilizzatore di olio “sostenibile”.
testimonia il recente haze di fumi di incendio che, pur allontanatosi da Singapore e Kuala Lumpur, continua a essere preoccupante. “Certo dipende in parte dalle stagioni – spiega Savi – la stagione secca favorisce gli incendi. Comunque la pratica del cosiddetto slash and burn (taglia e brucia, ndr) purtroppo è diffusa da sempre in molte zone del pianeta a clima tropicale e in via di sviluppo. Il problema aggiuntivo è che l’Indonesia vede una diffusa presenza di torbiere: la torba è il materiale organico che si deposita per anni nelle zone umide e paludose. È uno strato di terreno altamente infiammabile, che quando brucia produce molto fumo e anidride carbonica, ed è difficilissimo da spegnere”. In realtà sia in Indonesia sia in Malesia è vietato utilizzare queste pratiche per trasformare la foresta in piantagioni industriali, e sulla carta per poterlo fare bisogna avere una speciale concessione da parte del ministero addetto. Ma naturalmente in paesi tanto vasti e poco sviluppati (e, aggiungiamo noi, ad alto tasso di corruzione) è pressoché impossibile controllare e verificare. “Noi di Rspo – prosegue l’esponente dell’associazione – in ogni caso imponiamo che dove c’è una concessione regolare la coltivazione di palma deve comunque mantenere parte delle foreste primarie e di quelle secondarie ad alto valore di conservazione. Le nostre linee guida indicano chiaramente che il fuoco non può essere utilizzato per sviluppare una concessione, e non va usato mai se non in casi estremi, come quando ci sono invasioni di parassiti che minacciano la piantagione. Casi che comunque vanno affrontati con degli incendi controllati, e sempre comunicati a Rspo”. E se si verificano incendi anche nelle piantagioni certificate? “Ovviamente, un meraviglioso sistema di controllo serve a poco se intorno alla concessione infuriano gli incendi, come sta avvenendo ora. In ogni caso quando viene identificato un possibile incendio, Rspo chiede al membro interessato di dirigersi in loco con una fotocamera collegata a un Gps per verificare l’effettiva situazione sul campo”, è la risposta di Savi. Vero è che a parte i casi in cui c’è un’effettiva verifica in loco, normalmente Rspo si limita a utilizzare immagini satellitari – peraltro le più aggiornate risalgono al dicembre del 2013, visto che i governi di Indonesia e Malesia non rendono disponibili per monitoraggio pubblico quelle più recenti – incrociate con delle banche dati geolocalizzate. “Il grosso del nostro lavoro di controllo si fa via satellite e non con una presenza fisica – chiarisce Savi – poi i membri devono mandare dei report che successivamente possono essere controllati sul territorio da noi o da personale delle organizzazioni esterne presenti sul territorio che aderiscono a Rspo, come le Ong”. Dunque, a volte sembra quasi che il lavoro di Rspo sia simile al tentativo di svuotare l’oceano con un secchiello, anche se Savi sostiene che ci sono stati progressi importanti, e che esaminando le immagini satellitari degli hotspot degli incendi, negli ultimi mesi le performance delle piantagioni certificate sono molto superiori rispetto a quelle
Policy non certificate. Quel che è certo è che Rspo è un’associazione di tipo volontario: “l’unica penalità che possiamo dare a un membro che non collabora e non rispetta i nostri vincoli è quella di espellerlo dall’organizzazione”. Una punizione che però non soddisfa appieno la direzione di Rspo, che preferisce altri metodi. “Da una parte l’allontanamento di chi non rispetta gli standard va bene per tutelare la nostra immagine e la nostra credibilità, ma non è la soluzione giusta per riuscire a trasformare in senso sostenibile il mercato, che è la nostra vision come organizzazione. Noi vogliamo influenzare i membri ad abbandonare le pratiche sbagliate. Per questo, finché vediamo che c’è una genuina volontà di voler cambiare le cose, cerchiamo di essere comprensivi con i nostri membri”.
Palm Oil Innovation Group (Poig), poig.org/
Si riuscirà a fermare il meccanismo economico che rende conveniente la deforestazione selvaggia pur di avere un olio a prezzo più basso di quello “sostenibile”?
Un atteggiamento moderato che non ha convinto tutti. Per esempio Greenpeace, che ha accusato apertamente Rspo di limitarsi a “certificare la distruzione” delle foreste, e che insieme ad altre associazioni, ad alcuni produttori e utilizzatori industriali ha contribuito a fondare un altro organismo di certificazione, la Palm Oil Innovation Group (Poig), con standard più rigidi. I critici affermano che Rspo non si oppone alla conversione delle foreste; che non si interessa delle emissioni di gas serra connesse alle piantagioni di palma; che fa poco per prevenire gli incendi di boschi e torbiere; che è troppo tollerante nei confronti di palesi violazioni dei propri standard. E soprattutto che attraverso il sistema dei cosiddetti certificati “Greenpalm” permette a chi utilizza olio di palma “sporco” di apparire come un produttore o un utilizzatore di olio “sostenibile”. La maggioranza della produzione globale di olio di palma “sostenibile” (il 72% nel 2012) in realtà è “Greenpalm”. Ovvero scambiata sulla base di certificati – che teoricamente sarebbero legati a un’effettiva quantità di olio prodotto in modo “sostenibile” – che gli utilizzatori finali possono acquistare liberamente su di un mercato a un modesto costo aggiuntivo. Il risultato è che un’industria dolciaria per esempio può rifornirsi tranquillamente di olio “sporco”, pagare un extraprezzo per acquistare i certificati, e dichiarare che invece utilizza un olio “Greenpalm”, che si intende come “pulito”. “Attenzione – replica Stefano Savi – è vero che il certificato Greenpalm è virtuale, ma è anche vero che ogni certificato è legato a una tonnellata di olio di palma sostenibile veramente prodotta. Il caso più tipico è quello di un piccolo coltivatore, che non ha accesso fisico a un mulino certificato che gli possa comprare la produzione e assegnare un certificato Rspo. In questo caso l’unica opzione che ha è mettere sul mercato la sua produzione come non certificata, e parallelamente vendere online un Greenpalm per ogni tonnellata di olio di palma che ha prodotto nella sua piantagione certificata. I retailer, la distribuzione o le industrie possono a quel punto acquistare un Greenpalm, e associarlo a una tonnellata di olio di palma non
certificato che viene utilizzato in uno dei passaggi della filiera. Certamente non si può dire che quel prodotto contiene olio di palma sostenibile, ma comunque in giro c’è una corrispondente quantità di olio sostenibile”. E i consumatori, non rischiano di essere ingannati, immaginando di acquistare un bene che è solo “indirettamente” sostenibile? “Rspo – è la risposta – ha stabilito regole molto chiare: sulla scatola dei vari prodotti, a seconda dei vari passaggi, si può scrivere che si è utilizzato olio sostenibile Rspo, oppure che acquistando quel prodotto si sta supportando la produzione di olio sostenibile”. Ma si è in grado di affermare che non sono mai avvenuti episodi di certificazioni superficialmente concesse a produzioni “sporche”? “La certificazione è controllata, dopodiché come tutti i sistemi anche quello Rspo può avere delle pecche. Ma se si pensa che ci sia qualcosa che non va è possibile fare ricorso a un complaint panel al quale presentare le prove, e che giudica pubblicamente, diffondendo sul sito tutte le informazioni”. Più in generale, comunque Rspo non chiude la porta alle critiche. “Qualunque movimento che si impegni per un olio di palma sostenibile è ben accetto – afferma Savi – noi pensiamo che per ottenere un cambiamento effettivo, non di nicchia, occorre un coinvolgimento inclusivo di tutti i protagonisti della filiera, quelli migliori come quelli meno efficienti. Tuttavia ci siamo resi conto che ci sono effettivamente alcuni produttori che per le condizioni in cui operano, o perché riescono a esprimere delle pratiche migliori, vogliono effettivamente dimostrare di essere in grado di saper fare qualcosa di più. Quest’anno dunque il Board of Governors di Rspo presenterà un’iniziativa chiamata ‘Rspo Next’, linee guida volontarie che rispondono a queste nuove esigenze sullo stop alla deforestazione, sugli incendi, e su alcune misure di carattere sociale”. Infine, un altro interrogativo delicato. Si riuscirà, e come, a fermare il meccanismo economico che rende conveniente la deforestazione selvaggia pur di avere un olio a prezzo più basso di quello “sostenibile”? La realtà è che oggi c’è una domanda per l’olio sostenibile e più caro – visto che comunque i coltivatori vanno economicamente incentivati, e rimborsati dei maggiori costi inevitabili per la certificazione – ma in certi mercati continua a prevalere il prezzo basso. L’Europa, per esempio, è un mercato ottimo per l’olio Rspo: per il 2020 si punta a raggiungere una quota del 100% di olio certificato, e i segnali dell’industria, dei consumatori e dei governi sono positivi. Paesi come Cina, India e la stessa Indonesia invece sono ancora parecchio indietro. Molto dipenderà dall’evoluzione green dell’opinione pubblica dei paesi emergenti. Sarebbe importante che nell’ambito delle intese globali su clima e ambiente si riescano a trovare forme di valorizzazione del capitale naturale dei paesi tropicali, che li incentivi a tenere in piedi le foreste e non ad abbatterle.
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Economia circolare:
gli ambientalisti criticano il pacchetto Ue Nuovi obiettivi per il riciclo e riutilizzo dei rifiuti urbani, riduzione degli sprechi alimentari, ridefinizione del concetto stesso di rifiuto. L’analisi dei punti salienti del testo Ue sul quale però i giudizi vanno da un cauto ottimismo a un netto disappunto. di Joanna Dupont-Inglis
Joanna Dupont-Inglis dal febbraio del 2009 è entrata a far parte di EuropaBio, l’associazione europea delle bioindustrie, e dall’aprile 2011 dirige il settore delle biotecnologie industriali.
Piano d’azione Ue per l’economia circolare, www.reteambiente.it/ normativa/23203/
Poche settimane fa – il 2 dicembre scorso – la Commissione europea ha presentato il suo nuovo pacchetto sull’economia circolare che comprende oltre alla comunicazione, un elenco di misure e quattro proposte legislative sui rifiuti. Quando si parla di economia circolare generalmente si intende un sistema in cui i prodotti – e i materiali che li compongono – hanno un valore elevato, al contrario dei prodotti caratteristici del modello economico tradizionale lineare basato sullo schema “prendi-produci-consumagetta”. Il modello di produzione e consumo dell’economia circolare si basa su due circuiti complementari, che si ispirano ai cicli organici: uno per i materiali “biologici” (quelli che possono essere decomposti da organismi viventi) e uno per i materiali “tecnici”. In entrambi i casi però l’obiettivo è limitare il più possibile la dispersione di risorse. Mentre la maggior parte degli stakeholder continua a occuparsi dei dettagli del testo, dalle quattro proposte legislative, invece, emergono diversi
punti salienti. Tra questi, la definizione dei nuovi obiettivi sulla gestione dei rifiuti da raggiungere entro il 2030. In particolare: portare al 65% la percentuale di riutilizzo e riciclo dei rifiuti urbani; riciclare il 75% dei rifiuti da imballaggi già creati per essere riutilizzati e riciclati (con obiettivi specifici per i diversi materiali utilizzati nell’imballaggio), ridurre gradualmente la percentuale dei rifiuti urbani destinati a finire in discarica, puntando a scendere al 10%. La Commissione, inoltre, ha proposto di stabilire requisiti minimi per gli schemi di responsabilità estesa del produttore (Epr), e di differenziare i contributi pagati dai produttori sulla base dei costi necessari a trattare i prodotti alla fine del loro ciclo di vita. Infine, sono stati delineati gli strumenti attraverso cui contribuire a chiudere il cerchio delle risorse, in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (SDGs) adottati nel 2015: ovvero il monitoraggio del rispetto degli obiettivi da parte degli Stati membri attraverso sistemi quali l’allerta precoce, una particolare attenzione al riuso e alla prevenzione e la revisione della definizione stessa di rifiuto. Da quando la Commissione europea ha proposto un primo pacchetto di economia circolare
Policy nel luglio del 2014, e successivamente ha ritirato la proposta legislativa sui rifiuti inclusa nel pacchetto del febbraio 2015, le speranze e le aspettative hanno avuto molto tempo per alimentarsi, nell’attesa di una proposta pioneristica e trasformativa. Molti erano anche ottimisti sul fatto che la nuova proposta si sarebbe concentrata su un approccio “dalla culla alla culla” indirizzato al design circolare dei prodotti, oltre che sulla fine del loro ciclo vitale. Le differenze tra il pacchetto di economia circolare originario del luglio del 2014 e quello nuovo presentato nel dicembre 2015 hanno portato ad alcune polemiche all’interno della comunità degli stakeholder dell’Unione europea. E, sia a Bruxelles sia altrove, a seconda delle persone interpellate il giudizio su tali modifiche andava da un cauto ottimismo a un deciso disappunto. È vero, infatti, che gli obiettivi sulla gestione dei rifiuti sono stati rivisti al ribasso, sono state introdotte deroghe per cinque Stati membri ed è stato abbandonato l’obiettivo trasversale di aumentare la produttività delle risorse del 30% entro il 2030. Così come è scomparso dalle proposte legislative l’obiettivo di ridurre i rifiuti alimentari di almeno il 30% entro il 2025. D’altra parte, però, il piano di azione contiene molte nuove iniziative che riguardano aspetti non direttamente collegati alla gestione dei rifiuti, ma comunque essenziali per la transizione verso un’economia circolare: quali la produzione, il consumo, le materie prime secondarie o l’innovazione. In cinque settori prioritari – tra cui le plastiche, i rifiuti alimentari, le materie prime critiche, la costruzione e la demolizione, la biomassa e i prodotti biobased – il piano d’azione presenta misure. Per quanto riguarda i rifiuti marini, viene mantenuto l’ambizioso obiettivo stabilito nel 2014, ovvero di ridurli del 30% entro il 2030. Sui rifiuti alimentari, invece, la Commissione indica il proprio impegno a mantenere per il 2030 il target stabilito negli Obiettivi di sviluppo sostenibile: “dimezzare i rifiuti alimentari pro capite a livello di rivenditori e di consumatori”, sviluppando tra l’altro una metodologia comune per misurare tali rifiuti e rendere più chiara la legislazione europea su rifiuti, cibo e mangimi. Nelle aree e settori prioritari diverse sono le misure proposte. Ci sono misure legislative, per esempio il nuovo Regolamento sui fertilizzanti, e misure più “soft”, quali il sostegno attraverso la comunicazione e la segnalazione di iniziative, e con l’attuazione, la guida, e la creazione di indicatori, standard e misure che possano rendere più semplice l’accesso ai finanziamenti. Oltre a ciò la Commissione intende prendere in considerazione sia il bisogno di assicurare la non-tossicità dei materiali riciclati sia il contributo della bioeconomia per la transizione verso un’economia circolare.
Ecco come gli stakeholder giudicano il pacchetto sull’economia circolare Anche se le reazioni della comunità degli stakeholder al nuovo pacchetto sono state molto diverse, sono state soprattutto le Ong a schierarsi apertamente in modo critico. Il gruppo ombrello di Ong European Environmental Bureau (Eeb), che rappresenta gli interessi di una serie di organizzazioni non governative, ha definito la proposta “uno specchietto per le allodole”. Il Direttore delle policy per il settore Prodotti e Rifiuti dell’organizzazione, Stéphane Arditi, ha dichiarato che “la Commissione non è stata in grado di tener fede alla promessa di arrivare a una proposta più ambiziosa. Il fatto che vi siano state aggiunte alcune buone iniziative non compensa l’evidenza che il nucleo giuridicamente vincolante del pacchetto, ossia gli obiettivi sui rifiuti, è più debole rispetto all’ultima proposta. Ci siamo ritrovati con un anno sprecato e una proposta meno ambiziosa. Abbassare gli obiettivi di riciclaggio rispetto all’anno scorso significa che più rifiuti finiranno nelle discariche o negli inceneritori. Questa è un’opportunità persa, perché il riciclaggio crea più posti di lavoro e porta a meno emissioni sia dalle discariche che dagli inceneritori”.
European Environmental Bureau (Eeb), www.eeb.org
Ancor più critica è stata l’organizzazione Friends of the Earth Europe, secondo cui la proposta della Commissione non tiene fede alle promesse, e suggerisce che sia stata vittima del progetto della Commissione noto come “Legiferare Meglio”. Magda Stoczkiewicz, Direttore di FoE Europe, ha commentato: “Questo è stato un anno di ritardo immotivato. Dietro alla maschera del Legiferare Meglio la Commissione ha totalmente minato qualsiasi pretesa di coraggio, annacquando le misure vincolanti e offrendo agli Stati membri una scusa per non affrontare la nostra crisi di sovraconsumo. Rispetto al precedente, questo pacchetto piuttosto che con il Legiferare Meglio ha a che fare con un miope Legiferare Male”.
Friends of the Earth Europe, www.foeeurope.org
Anche Zero Waste Europe ha lamentato il fatto che la proposta non ha affrontato il tema della prevenzione e del riutilizzo, spingendosi al punto di eliminare gli obiettivi sui rifiuti alimentari e sulla riduzione dei rifiuti marini. Inoltre, secondo questa organizzazione il pacchetto è ancor meno ambizioso nella separazione dei biorifiuti, e abbassa gli obiettivi sul riciclaggio.
Zero Waste Europe, www.zerowasteeurope.eu
Toni decisamente più concilianti, invece, sono stati mostrati dal settore industriale. Secondo Markus J. Beyrer, Direttore generale di Business Europe “il nuovo approccio è un buon passo in avanti per sostenere il mondo imprenditoriale nella sua agenda di transizione a lungo termine. L’accelerazione dell’economia circolare comporta un impegno maggiore e un approccio collaborativo tra governi, mondo imprenditoriale, scienza e consumatori, oltre a una maggiore cooperazione lungo tutta la catena del valore”.
Business Europe, www.businesseurope.eu
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materiarinnovabile 08. 2016 Eurochambres, www.eurochambres.eu
Cefic, www.cefic.org
Sitra, www.sitra.fi/en
EuropaBio, www.europabio.org
European Bioplastics, en.european-bioplastics. org/
Anche Ben Butters, Direttore Affari Ue per Eurochambres, l’associazione delle Camere di commercio e industria europee, ha accolto positivamente il nuovo pacchetto. “Ci sono state – ha commentato – lunghe discussioni precedenti all’adozione del nuovo pacchetto sul grado di ambizione conseguente al ritiro dell’anno scorso. Ma fondamentalmente, se deve raggiungere i propri obiettivi la legislazione Ue deve essere praticabile, quindi all’ambizione deve unirsi il pragmatismo. Questa è la ragione per la quale il pacchetto sull’economia circolare deve tenere conto delle condizioni finanziarie e operative del business alle quali sarà obbligato a conformarsi, e anche delle previsioni economiche generali per l’Europa, che restano molto prudenti. Crediamo che nell’insieme la proposta della Commissione abbia raggiunto un buon equilibrio tra ambizione e pragmatismo, e adesso ci aspettiamo che il Parlamento si comporti analogamente”. Hubert Mandery, Direttore generale di Cefic, l’associazione europea delle industrie chimiche, ha osservato: “Massimizzare l’efficienza e minimizzare i rifiuti sono buone pratiche per le imprese, ed è del tutto sensato considerare come questi principi si possano applicare all’economia nel suo insieme”. Mandery si è però detto scontento del fatto che la Commissione sembra non aver colto l’opportunità di chiarire la definizione di rifiuto, e ha auspicato che ciò sarà fatto per essere certi che risorse preziose per l’economia non vadano perse per colpa di barriere normative. Osservando poi che la comunicazione identifica il bisogno di facilitare la tracciabilità e la gestione del rischio delle sostanze chimiche nei processi di riciclaggio, Mandery ha aggiunto: “L’industria chimica europea si impegna ad assicurare un utilizzo sicuro delle sostanze chimiche. Saremo lieti di lavorare con la Commissione e altri stakeholders per fare in modo che gli stessi standard elevati si applichino a ciascuno stadio dell’economia circolare”. Tuttavia alcune preoccupazioni sono state sollevate dai pionieri del settore delle rinnovabili: mettono in dubbio il fatto che il pacchetto abbia riconosciuto le potenzialità e la necessità di premiare chi all’interno dell’Unione europea raggiunge migliori prestazioni nel campo dell’innovazione. Kari Herlevi, responsabile senior per l’economia circolare di Sitra, il Fondo finlandese per l’innovazione, ha commentato: “Il nuovo programma sull’economia circolare della Commissione europea include importanti indirizzi di policy ed è più completo della prima versione, ma c’è bisogno di maggiori incentivi. Per esempio indicatori chiari, incentivi fiscali e strumenti di finanziamento per gli investimenti accelererebbero la transizione verso l’economia circolare. L’obiettivo comune del pacchetto sull’economia circolare è ovvio e benvenuto se si intende migliorare la competitività dell’Europa attraverso l’efficienza delle risorse. In più sono necessari in tempi rapidi incentivi e obblighi per
dare impulso all’innovazione delle aziende, al comportamento dei consumatori e agli appalti pubblici”. Inoltre Herlevi mette in guardia sul fatto che “l’economia circolare e la sua importanza nella prevenzione dei cambiamenti climatici hanno attirato troppo poca attenzione. Questo denota la mancanza di volontà di comunicazione da parte della politica, anche se è evidente che non è possibile prevenire i cambiamenti climatici senza un utilizzo accorto delle risorse naturali. La bioeconomia (per esempio i bioprodotti quali le nuove forme di biocarburanti rinnovabili o le sostanze chimiche bio) e la digitalizzazione sono una parte rilevante dell’economia circolare. È molto importante passare alla sperimentazione e alle azioni concrete”. EuropaBio, l’associazione europea delle bioindustrie, ha ben accolto l’attenzione rivolta dalla Commissione agli appalti pubblici, alle campagne di comunicazione e consapevolezza e agli incentivi per l’utilizzo di prodotti e processi rinnovabili e sempre più efficienti dal punto di vista delle risorse. Ma il Segretario generale Nathalie Moll ha anche sottolineato gli ostacoli che le industrie biobased si trovano ad affrontare nella creazione di un’economia circolare: “Stiamo cercando di emergere in un mercato in cui nel 2015 l’industria dei combustibili fossili ha ricevuto sussidi per una cifra stimata intorno ai 5,3 trilioni di dollari, che secondo il Fondo monetario internazionale corrispondono al 6,5% del Pil (riferiti ai Post-tax energy subsidies: Fmi Working Paper “How Large Are Global Energy Subsidies?”). A rendere la situazione ancora più sbilanciata, i prodotti da combustibili fossili sono raramente (se mai lo sono) costretti a dimostrare la propria sostenibilità, a differenza delle alternative rinnovabili biobased prodotte nell’Unione europea. Una strategia europea per l’economia circolare ha senso solo nel contesto di una seria presa di coscienza di questa situazione, e del bisogno di creare un sistema di supporto a lungo termine e misure che permettano ai suoi protagonisti migliori di emergere”. Anche la European Bioplastics (Eubp), l’associazione europea che rappresenta l’industria delle bioplastiche lungo tutta la sua catena di valore, ha accolto positivamente la proposta della Commissione Ue che ha saputo riconoscere come “i materiali biobased presentano vantaggi in quanto rinnovabili, biodegradabili e compostabili. Il nucleo della proposta è stato ampliato se paragonato a quelle precedenti”, ha dichiarato Hasso von Pogrell, Amministratore delegato della Eubp. “Comunque il legame tra la bioeconomia e l’economia circolare deve essere ulteriormente approfondito. Devono essere identificati compiti concreti che possano guidare lo sviluppo di un’autentica economia circolare, un’economia circolare biobased”. In una prima reazione al testo della proposta della Commissione Martin Reynolds, Presidente
Policy
Europen, www.europen-packaging.eu
Fead, www.fead.be
dell’Europen, l’organizzazione europea per gli imballaggi e l’ambiente, ha affermato che “i membri di Europen sono impegnati nel continuo miglioramento delle performance ambientali dei prodotti confezionati in termini di sostenibilità. Potersi avvantaggiare del mercato interno dell’Unione europea è stato cruciale nello sbloccare gli investimenti nella filiera degli imballaggi e indirizzarli verso innovazioni efficienti dal punto di vista delle risorse. Perciò sosteniamo fortemente il perseguimento della salvaguardia del mercato interno, che resta di vitale importanza affinché la nostra industria possa raggiungere un’economia circolare competitiva ed efficiente dal punto di vista delle risorse”. Virginia Janssens, Direttore generale di Europen, ha aggiunto: “Accogliamo con soddisfazione l’intenzione della proposta di migliorare la trasparenza e la messa in atto dei programmi già esistenti di responsabilità estesa del produttore (Epr), oltre al principio di responsabilità dei diversi attori nell’applicazione della Epr. In linea con questa responsabilità estesa, valuteremo adesso le implicazione di alcuni dei testi proposti, in particolare quelli legati ai contributi finanziari dei produttori a questi schemi Epr”. Dando voce al bisogno di misure relative alla domanda di mercato nell’economia circolare, il Presidente David Palmer Jones della Federazione europea per la gestione dei rifiuti e per i servizi ambientali, la Fead, ha dichiarato che “se l’Europa crede veramente nei vantaggi economici, sociali e ambientali di un’economia circolare deve riconoscere che le forze del mercato e le misure rivolte all’offerta da sole non saranno sufficienti”. Ha poi aggiunto che “l’economia europea può essere realmente circolare solo se sono disponibili mercati forti per le materie prime secondarie prodotte dai settori del riciclaggio e del ritrattamento. I mercati attuali sono instabili e disincentivano la produzione
secondaria di materie prime e il loro assorbimento da parte dell’industria europea. Se i materiali secondari sono in diretta competizione con materiali vergini a basso costo, non potremmo garantire un’economia più circolare in Europa, anche quando nell’insieme la domanda di materie prime è forte, a meno che il costo ambientale legato all’uso di materie prime primarie si rifletta meglio nel loro prezzo”. Al momento a Bruxelles gli stakeholder stanno studiando attentamente i dettagli dei testi e formulando le loro liste di emendamenti, mentre il pacchetto passa al Consiglio europeo e al Parlamento. L’opinione più diffusa però, è che difficilmente verrà raggiunto un accordo politico in tempi rapidi, dato che probabilmente il Parlamento europeo cercherà di porre obiettivi più stringenti per i rifiuti, mentre alcuni Stati membri ritengono che gli obiettivi attuali siano già troppo ambiziosi. Nel frattempo si intensifica il dibattito fra coloro che pensano che il futuro è nelle mani di misure di “traino” del mercato che creino domanda per le materie prime secondarie, e coloro che invece vorrebbero che l’attenzione fosse posta alle misure di “spinta”, incentivando piuttosto la raccolta. L’Olanda si sta attrezzando per fare dell’economia circolare uno dei fulcri della propria presidenza del Consiglio dell’Unione europea nella prima metà del 2016, e cercherà di presentare le conclusioni sul pacchetto del proprio Consiglio prima di passare la leadership alla Slovacchia nella seconda metà del 2016. In generale era prevedibile che vi sarebbero state reazioni diverse, dato che la transizione verso un futuro circolare comporterà sconvolgimenti e trasformazioni, creando vincitori e vinti. Da lungo tempo Bruxelles è un campo di battaglia per le lotte fra i sostenitori dell’ambiente e dell’industria, ma nel nostro futuro circolare chi avrà successo dovrà necessariamente trovare un perfetto equilibrio fra i due.
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FUTURO
Il dell’economia biobased Le ragioni del ritardo e le prospettive di rilancio in Europa. di Michael Carus, Achim Raschka, Kerstin Iffland, Lara Dammer, Roland Essel, Stephan Piotrowski (nova-Institute)
nova-Institute, www.nova-institut.de
Economia biobased: cosa ci possiamo aspettare? Nel settore dei materiali l’idea di un’economia biobased è decisamente avvincente. Annuncia l’introduzione di nuove sostanze chimiche, di intermedi chimici (building blocks) e di polimeri con inedite possibilità di utilizzo. Ma anche la possibilità di sviluppare innovativi processi tecnologici come la biotecnologia industriale e di offrire soluzioni per la chimica verde e per l’economia circolare. Si ritiene infatti che ciò potrebbe contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici attraverso la sostituzione dei prodotti petrolchimici con materiali con un livello inferiore di emissioni di gas a effetto serra. Inoltre l’economia biobased potrebbe portare nuove opportunità economiche, nuovi investimenti e posti di lavoro nelle aree rurali, favorire lo sviluppo locale e sostenere le piccole e medie imprese. Infine l’utilizzo delle biomasse potrebbe essere ottimizzato attraverso bioraffinerie di nuova concezione. Già nel 2012 la Commissione europea affermava che “le bioraffinerie dovrebbero adottare un approccio a cascata nell’utilizzo dei propri input, favorendo i prodotti con il maggior valore aggiunto ed efficienti dal punto di vista delle risorse, quali i prodotti e i materiali industriali biobased, oltre la bioenergia”. Inoltre la Commissione sosteneva che “i vantaggi di tali prodotti rispetto a quelli tradizionali spaziano da processi produttivi più sostenibili, a maggiore funzionalità (i detergenti a base di enzimi, per esempio, funzionano più efficacemente a basse temperature, risparmiano energia e sostituiscono il fosforo), e a migliori caratteristiche (biodegradabilità e inferiore tossicità)”. Secondo un recente documento – il Communiqué del primo Global Bioeconomy Summit tenutosi nel 2015 a Berlino – “la bioeconomia è la produzione basata sulla conoscenza e l’utilizzo
di risorse biologiche, processi e principi biologici innovativi per fornire beni e servizi in modo sostenibile a tutti i settori economici. […] I processi di innovazione dovranno concentrarsi sull’implementazione e il mantenimento del valore biobased. […] In molti paesi le piccole e medie imprese sono il motore principale dell’innovazione biobased. […] Le policy relative alla bioeconomia dovrebbero pertanto favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese allo sviluppo della bioeconomia” (GBS 2015). Che cosa abbiamo ottenuto finora? Non molto! Negli ultimi dieci anni la quantità di bioplastica utilizzata dall’industria chimica e plastica nell’Unione europea non ha registrato incrementi significativi. Solo nel settore della bioenergia e dei biocarburanti si è registrato un certo sviluppo grazie a un forte quadro normativo e agli incentivi previsti dalle leggi nazionali basate sulla direttiva sulle energie rinnovabili (Red, Renewable Energy Directive) e sul sistema di scambio delle emissioni (Ets, Emission Trading System). Questa disparità di condizioni è ben nota, e il suo impatto sullo sviluppo dell’industria chimica e plastica è rilevante, portando ad avere prezzi più alti e un accesso più difficile alle biomasse. Oggi nel settore biobased lo strumento di traino del mercato più importante è il Red, che crea una domanda artificiale di bioenergia e biocarburanti. In termini di volume di investimenti e di mercato la direttiva sulle energie rinnovabili è stata un successo, sebbene negli ultimi anni siano emerse diverse problematiche (Carus et al. 2015): •• molti Stati membri sono in ritardo nel raggiungimento della propria quota di energie rinnovabili; •• la certificazione di sostenibilità delle materie prime è solo una parziale risposta alla pressione esercitata sugli ecosistemi. Inoltre, non risolve la questione riguardante il cambio di destinazione
Policy d’uso indiretto dei terreni e la perdita di biodiversità; •• il sistema di duplicazioni del computo per alcune materie prime rimane un problema, così anche la loro classificazione come rifiuto, residuo o co-prodotto; •• a causa dell’aumento e dello squilibrio della domanda di biomassa nel settore dei materiali biobased si sono verificate delle strozzature nel settore delle materie prime; •• l’attuale struttura del Red non tiene conto dell’efficienza delle risorse, del loro possibile utilizzo a cascata e dell’economia circolare. Addirittura può contraddire questi concetti: per esempio attraverso gli incentivi diretti all’utilizzo energetico della biomassa, e soprattutto per il fatto che alcuni tipi di biomassa vengono classificati come rifiuti quando invece potrebbero essere riutilizzati per produrre altri materiali. In breve, nonostante il suo elevato valore l’economia biobased non sta prendendo piede. Ciò è dovuto tra l’altro alle condizioni strutturali create dal Red, che impedisce sistematicamente nuovi sviluppi e investimenti in applicazioni a più alto valore aggiunto, quali le sostanze chimiche e i materiali biobased, perché sostiene unicamente l’utilizzo energetico delle biomasse (Carus et al. 2015). Un punto di vista che trova conferma in una recente ricerca del progetto Bio-Tic (2015) nell’ambito del Fp7 (Settimo programma quadro): “Ciò significa per esempio che gli incentivi per la bioenergia […] potrebbero ostacolare l’utilizzo più efficiente della biomassa che consiste nel suo impiego materiale, dal maggior valore aggiunto. Bisognerebbe favorire il sistema ‘a cascata’ garantendo parità di condizioni, perché il mercato lasciato a se stesso assicurerà il massimo valore d’uso unicamente alla biomassa. Laddove i sussidi distorcono il mercato fino a diventare un problema per le altre attività industriali, la questione andrebbe affrontata a livello regionale o nazionale”. Dal punto di vista ambientale, la vincente espansione di bioenergia e biocarburanti deve essere meglio regolamentata per evitare impatti negativi, quali i cambiamenti diretti e indiretti nella destinazione d’uso dei terreni (Luc, Land Use Changes, e iLuc), l’insicurezza alimentare e la deforestazione negli Stati Uniti per la produzione di pellet o per coprire la domanda del settore europeo della bioenergia: “Ogni anno i paesi europei importano milioni di tonnellate di pellet in legno da utilizzare come combustibile. […] La domanda di pellet in legno in Europa è aumentata esponenzialmente con l’introduzione da parte dell’Unione europea nel 2009 della direttiva europea sulle energie rinnovabili. Dato che il settore forestale è fortemente regolamentato in Europa, i paesi europei si sono rivolti al sudest degli Stati Uniti per soddisfare la propria crescente domanda di combustibile. […] Questa domanda è in aumento costante. Alcune stime sostengono che entro cinque anni l’Europa importerà una quantità pari a 70 milioni di tonnellate di legna
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Figura 1 | Dati sull’occupazione e sul volume di affari nell’economia europea biobased* Ue-28 nel 2013 TASSO DI OCCUPAZIONE
5%
1% 3%
VOLUME DI AFFARI 2%
3%
20%
8%
13%
8%
24% 30%
Totale 600 miliardi di euro
Totale 3,2 milioni 43%
12%
27%
Biocarburanti
Carta e prodotti cartacei
Bioenergia
Sostanze chimiche e plastiche
Materie e prodotti tessili
Prodotti farmaceutici
Industria forestale
da ardere. È possibile soddisfare una domanda di tali proporzioni astronomiche senza che le foreste americane ne vangano danneggiate? […] Non tutto il biocarburante a base di legno proviene da fonti sostenibili quali la segatura e il legno di scarto, semplicemente perché non ve ne è a sufficienza. Molte fabbriche per la produzione di pellet nel sudest degli Stati Uniti si riforniscono da foreste vallive mature di alberi a legno duro. Mississippi, Alabama, Georgia, Carolina del Nord e Virginia sono tra gli stati più colpiti. Spesso più industrie si riforniscono dallo stesso lotto boschivo, creando una zona critica in cui il taglio di alberi esercita una pressione insostenibile. Le foreste vallive di alberi a legno duro costituiscono un tipo di ecosistema umido con caratteristiche uniche, che si forma intorno a fiumi e torrenti. […] Il degrado e la distruzione della foresta, specialmente nel caso di zone umide altamente produttive come queste, può avere un impatto enorme e talvolta imprevedibile sul ciclo del carbonio. Gli sforzi dell’Europa per ridurre le emissioni di anidride carbonica potrebbero avere nuovi effetti negativi sul ciclo del carbonio stesso” (Yoon 2015). Status La bioenergia e i biocarburanti hanno registrato uno sviluppo molto positivo grazie al Red, ma in molti Stati membri gli incentivi sono stati ridotti e i nuovi investimenti sono pochi o subiscono ritardi. A seconda della percentuale raggiunta, nei diversi paesi il volume della bioenergia e dei biocarburanti è in crescita, si mantiene costante oppure è in calo. Nell’industria chimica la percentuale complessiva biobased è rimasta stabile intorno al 10-12% da molti anni, non mostrando alcun aumento rilevante. La figura 1 illustra i dati sull’occupazione e sul volume di affari nei diversi settori dell’economia biobased. Colpisce il fatto che,
*esclusi i prodotti derivanti da agricoltura, silvicoltura, pesca, e dalla produzione alimentare, di bevande e di tabacco. Fonte: dati Eurostat.
Entro cinque anni l’Europa importerà una quantità pari a 70 milioni di tonnellate di legna da ardere. È possibile soddisfare una domanda di tali proporzioni astronomiche senza che le foreste americane ne vangano danneggiate?
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materiarinnovabile 08. 2016 nonostante gli sviluppi descritti, il livello di impiego nell’industria chimica biobased sia maggiore rispetto ai due settori di bioenergia e biocarburanti messi insieme, e che i settori che utilizzano il legno nella produzione materiale hanno una percentuale occupazionale e un volume di affari superiore rispetto al settore della bioenergia che utilizza il legno come biomassa (vedi figura 2). La figura 2 mostra il livello occupazionale per milioni di tonnellate di frazione secca di materie prime (tdm) nei diversi settori dell’economia biobased. La quota in verde mostra il livello di occupazione nel settore agricolo e forestale. Come previsto vi è un livello decisamente maggiore di impiego legato a un milione di tdm di biomassa agricola piuttosto che a un milione di tdm di legno. Tutte le applicazioni materiali della biomassa che comportano un ulteriore lavorazione per arrivare all’applicazione finale (quota in blu) determinano un livello occupazionale di molto superiore a quello legato a bioenergia o biocarburanti. La figura 3 mostra l’andamento – dal 2003 al 2013 – dell’industria dei pannelli in legno e della bioenergia. In quest’ultimo settore il tasso occupazionale è cresciuto costantemente, grazie soprattutto al programma di incentivi. Al contrario, nell’industria dei pannelli in legno l’occupazione ha subito un calo costante. La stretta competitiva del settore della bioenergia sui prodotti secondari delle segherie non ne è l’unico motivo, ma uno dei principali. Gli incentivi alla bioenergia hanno fatto aumentare il costo del legname, e l’industria europea dei pannelli in legno – che non riceve incentivi – ha serie difficoltà a pagare prezzi più elevati quando
è in competizione con il mercato globale dei pannelli. La figura 3 a sinistra riporta il livello occupazionale in entrambi i settori: è interessante notare che tale livello è rimasto lo stesso nel 2003 e nel 2013. Ancor più significativo è il fatto che per raggiungere questo livello occupazionale con una percentuale molto più alta di bioenergia (il 70% nel 2013 invece del 25% del 2003), l’industria ha bisogno di 80 milioni di tdm in più di legno come materia grezza, che corrisponde a un incremento del 45%! (figura 3 a destra). Previsioni In effetti, un numero sempre crescente di esperti politici sono arrivati alla conclusione che favorire una tale disparità all’interno dell’economia biobased è stato un errore. Ci si aspetta che il prossimo programma per le energie rinnovabili per il periodo successivo al 2020 ridurrà gli incentivi per questo settore, mentre resta da vedere se dopo il 2020 gli Stati membri saranno vincolati o meno al raggiungimento di determinati obiettivi. Dunque, quale deve essere il prossimo passo? Spesso si dice che i biocarburanti, soprattutto il bioetanolo, sono precursori di possibili applicazioni chimiche, e che intorno a essi si stanno creando il volume e le infrastrutture necessarie all’economia biobased. Sembrerebbe un fatto positivo, ma dobbiamo stare attenti a non fare subito un altro errore. Il bioetanolo è usato principalmente come precursore delle sostanze chimiche drop-in (drop-in è un termine con cui si intende un prodotto chimico a base biologica che può essere utilizzato direttamente in processi e applicazioni al posto di prodotti petrolchimici standard, ndr). Ma per la stragrande maggioranza dei nuovi intermedi chimici (building blocks), l’etanolo non è per nulla
Figura 2 | Confronto tra i livelli occupazionali per milione di tonnellate di frazione secca (tdm) di materie prime nei diversi settori dell’economia biobased (media Ue-28, 2013)* 50
*I dati riguardano unicamente l’occupazione nell’Unione europea.
Occupazione in migliaia di unità
45 40 35 30
Occupazione in manifattura
25
Occupazione in agricoltura e silvicoltura
20 15 10 5 0 Prodotti biobased in gomma e plastica
Sostanze e prodotti chimici biobased
Bioetanolo
Biodiesel
Biogas
Pannelli in legno
Polpa di legno e carta
Biomassa solida (bioenergia)
Fonte: dati Eurostat.
Policy
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Figura 3 | Occupazione e domanda di legno grezzo nell’industria dei pannelli in legno e nella produzione di bioenergia (Ue-28, 2003-2013) Numero degli occupati
Milioni di tonnellate di materia secca di legno
16 4. 00 0
180.000 160.000 140.000
25 9
300
200.000
250
80.000 60.000 40.000
150 100
82
80 84 .0 .0 00 00
100.000
17 6
200
120.000
50
20.000
0
0 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
Confronto tra i livelli occupazionali nell’industria dei pannelli in legno e nel settore della bioenergia Industria dei pannelli in legno
un precursore. Ancora una volta le policy avranno un grande impatto sullo sviluppo dell’economia biobased, e sarebbe importante che fossero orientate al futuro. Le sostanze chimiche di base drop-in sono il prossimo passo in avanti o rappresentano un’altra strada senza uscita? A prima vista le sostanze chimiche di base drop-in non sembrano una cattiva idea (Mathijs et al. 2015). Per i seguenti motivi: • possono sostituire direttamente gli intermedi chimici basati su combustibili fossili in rapporto 1:1, per cui sono in grado di utilizzare con facilità il valore e le catene di produzione esistente come anche le infrastrutture dell’industria petrolchimica; • ciò significa che la loro adozione può essere rapida e con investimenti relativamente bassi; • esistono già mercati maturi con un volume di sostituzione potenzialmente alto come quello dell’etilene (dall’etanolo), del propilene (dall’etanolo e dal biogas) e i loro derivati Pe, Pp, Pet e Pvc; • in molti casi le loro emissioni di gas a effetto serra sono inferiori a quelle delle loro controparti petrolchimiche. Ma uno sguardo più attento rivela che le sostanze chimiche di base drop-in presentano alcune criticità (Mathijs et al. 2015, Iffland et al. 2015): • l’efficienza d’uso della biomassa (BUE) dalla materia prima al prodotto finale (ossia quanta della biomassa utilizzata finisce effettivamente nel prodotto) ha una percentuale bassa, compresa tra il 25 e il 50% (Iffland et al. 2015); • per le sostanze chimiche di base drop-in si rendono necessarie tecnologie dell’isolamento
2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
Confronto tra il fabbisogno di legno grezzo nell’industria dei pannelli in legno e nella settore della bioenergia Bioenergia
Totale
e della purificazione. In molti casi le tecnologie per il frazionamento e la conversione sono ancora agli esordi; • le sostanze drop-in non offrono alcuna funzionalità aggiuntiva rispetto ai prodotti petrolchimici; • devono competere direttamente con i petrolchimici che sono prodotti a basso costo; • garantiscono poco valore aggiunto alla biomassa; • per ridurre i costi occorre una produzione su larga scala (procurarsi le materie prime a livello locale è quasi impossibile, la loro disponibilità è soggetta a variabili, la biomassa ha un costo elevato ed è impiegata anche in altri settori); • anche una produzione su larga scala però avrà costi più elevati per le materie prime e per la lavorazione rispetto ai prodotti petrolchimici e non sarebbe quindi competitiva, almeno con un elevato prezzo del greggio; • la loro messa in produzione necessita di un forte sostegno da parte della policy e incentivi a lungo termine, oltre a una forte motivazione da parte dei cittadini che dovranno affrontare costi più elevati per un lungo periodo. Non sarebbe meglio produrre sostanze chimiche pregiate con funzioni nuove per i mercati emergenti, con un processo di conversione della biomassa più efficiente? “La biomassa è limitata e dovrebbe essere utilizzata in modo più efficiente: più valore aggiunto e più occupazione con meno biomassa” (Carus et al. 2011). Le sostanze chimiche di base drop-in biobased sono i fratelli e sorelle dei biocarburanti. Ciò è allo stesso tempo un bene e un male: dovremmo esserne consapevoli e considerare con cura le possibili alternative, che potrebbero avvicinarsi
Fonte: dati Eurostat.
La biomassa è limitata e dovrebbe essere utilizzata in modo più efficiente.
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materiarinnovabile 08. 2016 maggiormente alle promesse originarie dell’economia biobased. Due recenti pubblicazioni sostengono questo punto di vista sulle sostanze chimiche drop-in biobased: “Bisognerebbe riuscire a ricavare valore da ogni aspetto del legno, e i processi per ‘estrarre’ questo valore dovrebbero essere studiati per ottenere il massimo della sinergia. In una bioraffineria pienamente integrata, qualsiasi fase si basa sulla precedente e prepara la successiva. È però difficile che queste bioraffinerie all’avanguardia si facciano strada finché sono guidate dall’idea di creare dei prodotti drop-in che sostituiscano semplicemente (in rapporto 1:1) quelli tradizionalmente forniti dall’industria petrolchimica. [...] Concentrandosi sul drop-in i produttori sono stati incapaci di costruire quel tipo di processo integrato che utilizza tutti i side stream e i sottoprodotti, e in questo modo si sono trovati ad affrontare costi più elevati. […] Insistere nell’adeguare la produzione ai drop-in comporta un costo troppo elevato per la preparazione e la lavorazione dei biomateriali, con una considerevole perdita di biomassa. Molto meglio sarebbe orientare lo sviluppo della bioraffineria verso il riconoscimento del carattere variegato della biomassa, e ricavarne valore attraverso un modello olistico e integrato. Crediamo che questa sia la strada attraverso la quale le bioraffinerie e i bioprodotti possono diventare competitivi senza necessitare di sussidi” (NISCluster 2015). Molto meglio sarebbe orientare lo sviluppo della bioraffineria verso il riconoscimento del carattere variegato della biomassa, e ricavarne valore attraverso un modello olistico e integrato.
Anche la German Chemical Industry Association non crede nelle commodity drop-in come soluzione ottimale per la biomassa: “Il potenziale per coltivare ulteriore biomassa in Europa è molto basso rispetto al resto del mondo. Perciò il costo elevato del trasporto di biomassa a bassa densità di energia ci fa pronunciare a sfavore dell’importazione di grandi quantità di materie prime rinnovabili in Europa per la produzione di beni” (VCI 2015). Nel 2015 James Philp ha avanzato un’interessante e sorprendente proposta per le sostanze chimiche drop-in biobased. Pur essendo consapevole dei punti deboli delle commodity drop-in di cui abbiamo parlato, egli osserva come a un alto volume di produzione possa potenzialmente corrispondere la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra: “Per il policy maker la sostituzione del barile di petrolio richiede alternative biobased ai principali petrolchimici, per esempio l’etilene o altri olefinici a catena corta. La produzione di grandi quantità di un biobased che possa sostituire il petrolchimico incontra però due grandi ostacoli: 1. nel corso degli anni l’equivalente petrolchimico ha visto perfezionare il proprio processo di produzione e la propria filiera, e i costi degli stabilimenti petrolchimici sono stati ammortizzati: il petrolchimico quindi trae ora enormi benefici da un’economia di scala; 2. i bioprocessi sono notoriamente inefficienti quando si tratta di raggiungere un livello di produzione che possa influenzare il mercato [...]. [James Philp propone di offrire] sostegno minore
a un volume di produzione minore, e sostegno maggiore a un volume maggiore. Tutti ciò ha senso nell’attuale contesto politico in quanto: •• un maggior volume di produzione comporta un maggior contributo al raggiungimento degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra; •• dovrebbe agire come stimolo tanto ambito nel campo di Ricerca e Sviluppo per le aziende, che le spinga a migliorare i propri processi in modo da ridurre ulteriormente le emissioni di gas a effetto serra. [La proposta] si riferisce in modo specifico alle sostanze chimiche ad alto volume di produzione e a basso valore, perché queste hanno un maggiore impatto nella sostituzione dei barili di petrolio e nella riduzione delle emissioni. Sono però esattamente il tipo di sostanze chimiche che non hanno attrattiva per la giovane industria biobased, dato che è estremamente difficile sintetizzarle in modo efficace su larga scala, in competizione con l’industria petrolchimica” (Philp 2015). Se si parte dalla necessità di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, questa proposta è assolutamente logica. Sembra però paradossale offrire incentivi a lungo termine a processi industriali su larga scala inefficienti e ad alto volume di produzione, invece che ad applicazioni innovative, efficienti e specializzate, adatte anche alle piccole e medie imprese. Inoltre il volume potenziale delle nuove soluzioni non-drop-in e dei prodotti chimici fini drop-in non dovrebbe essere sottovalutato. Bisogna però considerare se la riduzione del volume assoluto dei gas a effetto serra debba effettivamente essere l’unico criterio decisionale che guiderà il futuro quadro normativo dell’economia biobased. Non dovremmo piuttosto domandarci se vale davvero la pena di promuovere la chimica biobased tout-court, dato che diversi studi hanno dimostrato chiaramente che ci sono sistemi molto più vantaggiosi economicamente per ridurre le emissioni di gas a effetto serra, quali l’isolamento termico delle case? Se consideriamo altri parametri – quali il risparmio relativo di gas a effetto serra per tonnellate di biomassa, l’alta efficienza di utilizzo della biomassa (che significa meno biomassa e aree coltivate per la stessa quantità di prodotto finale), l’innovazione, gli investimenti e la competitività – appare privo di senso dedicare incentivi esclusivamente alle commodity drop-in, tra cui dobbiamo includere anche i prodotti chimici fini drop-in e le nuove sostanze chimiche. Le gigantesche raffinerie a biomassa lignocellulosica rappresentano la prossima frontiera? O sono un altro vicolo cieco? Una delle grandi speranze dell’economia biobased europea consiste nelle grandi raffinerie a biomassa lignocellulosica. Ancora una volta la domanda è se queste possano effettivamente costituire una soluzione o se ci portino in un altro vicolo cieco.
Policy Il modo in cui queste raffinerie sono state concepite ha molti punti deboli, che sono anche il motivo per cui la loro realizzazione va così a rilento: •• le bioraffinerie lignocellulosiche di recente costruzione produrranno costosi zuccheri C5 e C6 per i processi fermentativi, il cui prezzo è molto più elevato di quelli derivati dalla barbabietola da zucchero o dalla canna da zucchero; •• questo svantaggio relativo al costo dovrà essere bilanciato dall’utilizzazione della lignina, cosa al momento quasi irrealizzabile; •• data la situazione, alcuni esperti propongono di passare a una scala di produzione enorme: per superare il problema del costo in un’economia di scala occorre utilizzare uno o anche due milioni di tonnellate di biomassa all’anno; •• ciò significa che sono necessari grandi investimenti e che non sarà possibile rifornirsi a livello locale. Possibili localizzazioni di bioraffinerie di dimensioni così notevoli sarebbero limitate principalmente a grandi porti, come Rotterdam, Anversa o Amburgo. Ci sarebbe comunque il rischio di non riuscire a vendere i prodotti a prezzi competitivi, in particolar modo la lignina; •• queste bioraffinerie si concentrano soprattutto sulla produzione di sostanze chimiche di base drop-in come il bioetanolo, principalmente a causa del volume di produzione, delle strutture già esistenti e degli incentivi. Per realizzare tale produzione, i complessi polimeri di cellulosa devono essere scomposti per essere trasformati in beni a basso valore. I vantaggi e gli svantaggi dei drop-in sono stati discussi nel precedente paragrafo; •• per realizzare queste bioraffinerie occorrono incentivi a lungo termine da parte del settore pubblico. Uno dei motivi principali per sostenere la creazione di bioraffinerie lignocellulosiche è il raggiungimento di un’alta efficienza nell’utilizzo della biomassa, e l’eliminazione di bio-flussi di rifiuti inutilizzati. Ma si tratta di un’argomentazione ancora sostenibile? Se le bioraffinerie lignocellulosiche produrranno principalmente sostanze chimiche di base drop-in, l’efficienza nell’utilizzo della biomassa potrebbe essere molto limitata. Non dovremmo dimenticare che le industrie di produzione di zucchero e amido fanno già un utilizzo altamente efficiente della biomassa, come anche le industrie della pasta di legno e della carta. Questi impianti di produzione già esistenti devono essere considerati bioraffinerie ad alta efficienza e funzionano senza alcun tipo di incentivi: utilizzano tutte le parti della biomassa non lasciando alcun biorifiuto. Smart, piccolo e intelligente: nuovi intermedi chimici biobased e percorsi innovativi per utilizzare a pieno il potenziale delle piattaforme molecolari funzionalizzate Oggi la produzione di sostanze chimiche biobased genera un volume di affari pari a circa 48 miliardi di euro nella sola Unione europea (figura 1).
Per la maggior parte non si tratta di sostanze chimiche drop-in, ma di sostanze biobased specializzate. Questa cifra potrebbe aumentare notevolmente attraverso l’impiego di tecnologie innovative o già note come la biotecnologia, le modificazioni chimiche e l’estrazione, e anche attraverso i nuovi intermedi chimici biobased e le loro innovative funzioni. Le strategie emergenti riguardano nuovi intermedi e sostanze chimiche, nuove catene di valore e investimenti in stabilimenti e infrastrutture. Questi nuovi intermedi chimici spesso vengono prodotti attraverso processi innovativi, specialmente dalla biotecnologia industriale che utilizza lieviti/funghi, batteri ed enzimi per produrre efficientemente sostanze chimiche quali l’acido succinico o lattico. Le nuove strategie emergenti basate sulla biomassa possono approfittare dell’utilizzo di livelli più alti di strutture già esistenti in natura. La biotecnologia industriale sta diventando un’importante tecnologia di trasformazione della biomassa: trasformazioni altamente specifiche possono essere ottenute in condizioni di reazione moderate e con rendimenti spesso molto elevati. Attualmente solo il 5-10% di tutti i processi per la trasformazione della biomassa nel settore chimico e materiale avviene seguendo un approccio biotecnologico, ma la tendenza è in forte crescita (Mathijs et al. 2015) Oltre alla biotecnologia industriale, un altro importante percorso di utilizzo – che spesso può aver luogo prima o parallelamente ad altri percorsi di impiego – è costituito dall’estrazione di biomolecole complesse di alto valore. Sono già disponibili e parzialmente in uso composti estraibili da diverse fonti di biomassa, waste stream e residui. Questo vale in particolar modo per le sostanze chimiche derivanti dal pino, che vengono estratte da residui lignei e da flussi di rifiuti provenienti dall’industria della polpa di legno e della carta. Si tratta, in particolare, di sostanze chimiche derivate dal tallolio che vengono utilizzate come detergenti, solventi, lubrificanti, vernici, adesivi e così via. Un altro esempio è costituito dai residui dell’uva
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materiarinnovabile 08. 2016 che contengono resveratrolo, polifenoli e tannini e sono utilizzati nelle vernici, nella conciatura e come nutraceutici. Vi sono molti altri esempi possibili che riguardano composti estraibili sempre di alto valore e con diverse possibili aree di utilizzo (Mathijs et al. 2015). Paragonati alle sostanze chimiche di base dropin, i percorsi biobased di utilizzo dedicati sono più efficienti, perché non sfruttano solo il carbonio della biomassa, ma la biomassa intera (carbonio, ossigeno, idrogeno e azoto). Ciò si riflette in un’alta efficienza di utilizzo della biomassa (figura 4). La maggior parte dei nuovi intermedi chimici si trova nella parte superiore del diagramma, mentre la maggior parte dei drop-in ne occupa quella inferiore (Iffland et al. 2015). Vi è però un altro interessante gruppo di sostanze chimiche drop-in, che sono in parte prodotti chimici fini, ma anche alcune commodity minori ad alta efficienza di utilizzo. Per queste sostanze chimiche i tradizionali percorsi petrolchimici sono complessi e lunghi, mentre i percorsi
delle nuove biotecnologie possono risultare brevi ed efficienti. I calcoli della BUE, pur riflettendo un approccio teoretico, hanno varie implicazioni nella vita reale: per esempio servono a misurare l’efficienza di diverse sostanze chimiche biobased utilizzate nei terreni agricoli (Iffland et al. 2015). “I prodotti biobased con una BUE più alta necessitano di aree di coltivazione inferiori per ottenere lo stesso output, paragonati a quelli con una BUE inferiore. Ciò dimostra che la BUE è in relazione diretta con l’efficienza del terreno e la quantità di terreno necessaria a coltivare un certo prodotto. Per esempio, per produrre la stessa quantità di Pe (polietilene) o di Pla (acido polilattico) dalla canna da zucchero, l’area di coltivazione della Pe deve essere almeno doppia rispetto a quella della Pla” (Iffland et al. 2015). La normale capacità di produzione per le sostanze chimiche biobased dedicate va dalle 20.000 alle 40.000 tonnellate l’anno (come nel caso del nuovo
Figura 4 | Confronto fra i diversi livelli realisticamente più alti di efficienza nell’utilizzo della biomassa (BUEH) Fonte: Iffland et al. 2015.
Polimeri da amido Derivati dalla cellulosa Combustibili da oli vegetali Biodiesel (da oli vegetali) Acido lattico (dal glucosio) Alchilpoliglucoside PA11 (con eptano+valorizzazione del glicerolo; da acido ricinoleico) Acido succinico (da glucosio) Acido acetico (processo one-step; da glucosio) BDO (da glucosio) Cellulosa rigenerata MEG (sintesi diretta; da glucosio) Oli lubrificanti e idraulici (da oli vegetali) HVO/NExBTL (da oli vegetali) PLA (da glucosio) HMF (da glucosio) PBS (da glucosio) Acido acetico (Produzione con etanolo come intermedio; da glucosio) PEF (da glucosio) FDCA (da glucosio) PA11 (da acido ricinoleico) PDO (da glucosio) Bioetanolo (da glucosio) P3HB (da glucosio) Bioetanolo (da cellulosa) Acido Acrilico (da glucosio) MEG (via etilene; da glucosio) PE (da glucosio) Etilene (da glucosio) BTL (=ottano; da glucosio) Biometano (da cellulosa) Isoprene (da glucosio) BTL (=carburante sintetico: CH2; da cellulosa) PET (da glucosio) pX (da glucosio) TPA (ossidazione pX, da glucosio) TPA (via acido acrilico+isoprene; da glucosio) 0%
10%
20%
BUEH - percentuale realisticamente più alta di biomassa utilizzata che si ritrova nel prodotto desiderato (in %)
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
Percentuale della perdita di biomassa (realistica)
Policy BioAmber, il cui impianto in Canada fornisce 30.000 tonnellate di acido succinico l’anno), anche se ora esistono stabilimenti più piccoli (< 5,000 t/a) che producono specialità dall’alto valore commerciale. Negli impianti di piccola e media dimensione la domanda di biomassa può essere soddisfatta a livello locale: ciò significa che molti luoghi situati vicino alla zona di origine della biomassa locale sono adatti alla collocazione di impianti di produzione. “È di fondamentale importanza che la biomassa sia di produzione locale se le bioraffinerie integrate devono essere realmente connesse all’ambiente circostante” (Cayuela 2015). Attualmente molte piccole e medie imprese sono impegnate in processi di produzione biobased dedicati: “le piccole aziende che cercano di produrre una sostanza chimica biobased commerciabile spesso optano per sostanze dall’alto valore commerciale e con un basso volume di produzione”. Intermedi chimici, polimeri e materiali dedicati e ricavati da biomassa oggi più promettenti sono elencati di seguito (basato su Mathijs et al. 2015 e altre fonti). Fra le nuove sostanze chimiche biobased: •• glicerolo e derivati, acido hydropropionico e aldeidi, acido itaconico, farnesene, furano (Hmf, Furfurale, Fdca), acido lattico, acido levulinico, sorbitolo, acido succinico, xilitolo; •• Pef, Pha, Pla; Pa (10,10, 10,12 e 12,12); •• lubrificanti e tensioattivi biobased (che registrano già un incremento annuale tra il 5 e il 10%, per esempio nel caso di soforo e ramnolipidi e di alkylpolyglycoside); •• fibre di cellulosa (con un incremento annuale tra il 5 e il 10%), nano e micro cellulosa. Sostanze chimiche drop-in prodotte attraverso nuovi percorsi di biotecnologia e dall’alto efficiente di utilizzo della biomassa: •• acido acetico, acido acrilico, acido adipico, butanediolo, butadiene, isoprene; •• Pa (6,6), Pdo, Pbs. Queste sostanze chimiche e polimeri soddisfano le aspettative dell’economia biobased attraverso l’aumento e mantenimento del valore biobased, nuove funzionalità (a seconda della sostanza chimica/polimero: meno prodotti indesiderati derivati, meno tossicità per l’ambiente, biodegradabilità), processi nuovi e migliorati (biotecnologia, estrazione, nuovi processi catalitici, migliore resa spazio/temporale, meno fasi di reazione e/o energia richiesta perché le reazioni possono aver luogo a temperature intorno ai 37° senza il bisogno, per esempio, di metalli rari come catalizzatori e di solventi tossici), soluzioni per la chimica verde e sostenibile e per l’economia circolare, contributo alla mitigazione dei cambiamenti climatici attraverso la sostituzione dei petrolchimici, che producono più emissioni di gas a effetto serra. Inoltre esse offrono nuove opportunità imprenditoriali, di investimento e di
impiego nelle aree rurali, favorendo lo sviluppo a livello regionale e le piccole e medie imprese. Infine, ottimizzano l’utilizzo della biomassa nel suo insieme, attraverso una nuova concezione di bioraffineria integrata. Dal nostro punto di vista, un’economia biobased di successo, che venga accettata sia dal pubblico sia dalle Ong, dovrebbe concentrarsi sulle sostanze chimiche biobased dedicate e sui materiali che abbiamo descritto, offrendo al consumatore e all’ambiente vantaggi comprovati, come la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Il grande interrogativo sulle materie prime sostenibili: biomasse alimentari o non-alimentari per i prodotti biobased? Una recente strategia a sostegno della sicurezza alimentare consiste nell’utilizzo di flussi di rifiuti e residui finora inutilizzati nella produzione di prodotti biobased. Il problema è che la maggior parte dei flussi di rifiuti provenienti da biomassa sono già utilizzati e che quelli non utilizzati sono più limitati – per volume e per proprietà – di quanto non ci si aspetti. Dato che i produttori contano su un approvvigionamento costante di materie prime in quantità sufficiente, di una certa qualità e a costi ragionevoli, la produzione di prodotti biobased è strettamente legata alla biomassa legnosa o agricola. Quando si parla di prodotti agricoli, l’aspetto più importante è se esista terra disponibile per la loro coltivazione, e non la loro natura di produzioni alimentari o non alimentari. L’utilizzo di biomassa non alimentare non implica una maggiore sicurezza alimentare; su questo aspetto è stata già svolta un’analisi approfondita (Carus et al. 2013). Immaginate un’enorme bioraffineria con una domanda di biomassa che necessita approssimativamente la coltivazione di 50.000 ettari di terreno. Che cosa è meglio in termini di sicurezza alimentare? Coltivare varietà non alimentari, che spesso necessitano di ancor più terreno per la stessa quantità di molecole adatte, o coltivare varietà alimentari in quantità superiore, che in caso di crisi alimentare possono essere utilizzate come cibo? La miglior soluzione sembra essere quella di utilizzare biomassa locale in impianti di produzione di piccole o medie dimensioni, di servirsi di flussi di rifiuti da biomassa, di varietà alimentari coltivate in quantità superiori al necessario (soprattutto per processi dedicati e ad alta efficienza), di biomassa lignocellulosica di seconda generazione e anche di alghe di terza generazione, per applicazioni specifiche e di alto valore commerciale. La scelta migliore dipende dal territorio e dal tipo di processo e prodotto in questione (Bruins e Sanders 2012). “Oggi le materie prime di prima generazione come la canna da zucchero, la barbabietola, il mais e la cassava prodotti a livello industriale sono utilizzati per la produzione di acido lattico. Sono coltivati seguendo i principi dell’agricoltura
37
materiarinnovabile 08. 2016 Figura 5 | Concetto comprensivo di economia circolare Fonte: nova-Institute 2016.
CO2
Biomassa
Metalli
Minerali
da attività minerarie, agricole, dalla cattura e utilizzo del carbonio (CCU) C fossile
da riciclaggio
MATERIE PRIME
Ge
rar
UTILIZZO DEL PRODOTTO
RACCOLTA
chi
Condivisione/ manutenzione Riuso/ ridistribuzione
ad
Rigenerazione
Biodegradabili
Un’illustrazione che per la prima volta integra pienamente il settore biobased nell’economia circolare.
ei r
Riciclaggio
FINE DEL CICLO DI VITA DEL PRODOTTO
RECUPERO DELL’ENERGIA
asc
COMMERCIO/ DISTRIBUZIONE
ata
MANIFATTURA DEI PRODOTTI
Ac
38
ifiu
Riciclaggio organico
ti
Riciclaggio CO2 Discarica
CO2
sostenibile e hanno un’alta resa per ettaro di terreno utilizzato. Queste materie prime altamente efficienti sono, e probabilmente rimarranno, una buona alternativa per la produzione di acido lattico e polilattico (Pla). La Corbion Purac è la prima azienda al mondo ad aver ricavato Pla da materie prime di seconda generazione, ottimizzando la fermentazione dell’acido lattico per adattarle alle specifiche caratteristiche della biomassa. In futuro queste materie prime alternative potrebbero avere un notevole impatto sulle industrie biochimiche e della bioplastica” (Corbion 2015). Oltre alle materie prime descritte, l’utilizzo diretto di CO2 insieme a batteri, alghe o processi chimici, sta diventando un reale alternativa nella produzione di alcune sostanze chimiche e di polimeri, ma soprattutto per i carburanti. Sarà importante analizzare dal punto di vista ambientale ed economico per quali percorsi è più adatta la CO2, e per quali sarà invece la biomassa
a costituire la scelta migliore anche nel futuro a lungo termine. Uno sguardo sul futuro dell’economia circolare Nello sviluppo dell’economia circolare, l’Europa deve tenere a mente che l’economia biobased ha sì alcune problematiche specifiche, ma anche che è più integrata nella nostra vita di tutti i giorni segnata dall’economia lineare di quanto non pensino molti ricercatori e policy maker. Come sottolineato in precedenza, l’utilizzo a cascata della biomassa è chiaramente un forte legame tra l’economia biobased e quella circolare, che non è però supportato dal contesto politico attuale. Attualmente gli incentivi sono rivolti solo alla bioenergia e ai biocarburanti e ciò costituisce un ostacolo all’utilizzo a cascata della biomassa, più efficiente dal punto di vista delle risorse.
Policy Quando la Commissione europea ha ufficialmente lanciato il proprio pacchetto sull’economia circolare nel dicembre 2015, il tema dell’utilizzo della biomassa e il suo uso a cascata comparivano in due sezioni. “In un’economia circolare l’utilizzo a cascata delle risorse rinnovabili, con diversi cicli di riuso e riciclo, dovrebbe essere incoraggiato laddove appropriato. I materiali biobased, come per esempio il legno, possono avere molteplici utilizzi, ed essere riusati e riutilizzati diverse volte. Questo si accompagna all’applicazione della gerarchia dei rifiuti e, più generalmente, alle opzioni che danno il miglior risultato complessivo dal punto di vista ambientale. Le misure adottate a livello nazionale, quali i programmi di responsabilità estesa al produttore per i mobili o gli imballaggi in legno o la raccolta differenziata del legno, possono avere un impatto positivo. [...] Il settore biobased ha anche dimostrato il proprio potenziale innovativo nei nuovi materiali, nelle sostanze chimiche e nei processi, che possono diventare una parte integrante dell’economia circolare. Realizzare questo potenziale dipende in particolare dagli investimenti nelle bioraffinerie integrate, in grado di trattare la biomassa e i biorifiuti per diversi utilizzi finali. L’Ue sta sostenendo tali investimenti e altri progetti innovativi basati sulla bioeconomia attraverso il finanziamento della ricerca” (Commissione europea 2015). “La Commissione promuoverà l’utilizzo efficiente delle risorse biobased attraverso una serie
Bibliografia •• ACHEMA 2015, Sintesi rivisitata dell’evento “EUBioeconomy e HORIZON 2020: How far have we come since ACHEMA 2012?”, Francoforte, 18 giugno 2015 •• BiofuelDigest 2016, “The 30 Hottest Molecules survey”, gennaio 2016 (www.biofuelsdigest.com) •• BIO-TIC 2015, “A roadmap to thriving industrial biotechnology sector in Europe”, Progetto FP7 (www.industrialbiotecheurope.eu) •• Bruins, M. E., Sanders, J. P. (2012). “Small-scale processing of biomass for biorefinery”, Biofuels, Bioproducts and Biorefining, 6(2), 135-145 •• Carus, M., Carrez, D., Kaeb, H., Ravenstijn, J., Venus, J. 2011, “Level Playing Field for Biobased Chemistry and Materials”, nova paper #1 sull’economia biobased, Hürth, luglio 2011. Scaricabile da www.biobased.eu/nova-papers
•• Carus, M. e Dammer, L. 2013, “Food or nonfood: Which agricultural feedstocks are best for industrial uses?”, nova paper #2 sull’economia biobased, Hürth, luglio 2013. Scaricabile da www. bio-based.eu/nova-papers •• Carus, M., Eder, A., Beckmann, J. 2014, “GreenPremium prices along the value chain of biobased products”. Hürth 2014, nova paper #3 sull’economia biobased, Hürth, maggio 2014. Scaricabile da www.biobased.eu/nova-papers •• Carus, M., Dammer, L., Essel, R. 2015, “Options for Designing the Political Framework of the European Biobased Economy”, nova paper #6 sull’economia biobased, Hürth, giugno 2015. Scaricabile da www.biobased.eu/nova-papers •• Cayuela, R. 2015: “La nuova chimica vale 80 mila miliardi di dollari. intervista a Rafael Cayuela”, in
di misure, tra cui la guida e la disseminazione di best practice sull’utilizzo a cascata della biomassa e il sostegno all’innovazione nella bioeconomia. La proposta legislativa riveduta e corretta sui rifiuti contiene un obiettivo per il riciclaggio degli imballaggi in legno e un provvedimento per assicurare la raccolta differenziata dei biorifiuti” (Commissione europea 2015). Compiere un’analisi dettagliata di ciascun aspetto che dovrebbe essere affrontato se l’Europa aspirasse a una solida integrazione dell’economia biobased nell’economia circolare andrebbe oltre agli obiettivi di questo articolo. Il grafico riportato in figura 5 costituisce però il nostro contributo al dibattito, offrendo un’illustrazione che per la prima volta integra pienamente il settore biobased nell’economia circolare. Alcuni dei grafici attualmente più diffusi che descrivono la futura economia circolare differenziano, per esempio, i cicli dei materiali biologici da quelli tecnici (Ellen MacArthur 2013), cosa che non descrive con precisione gli attuali flussi delle risorse. Per questa ragione il nostro grafico include tutti i tipi di flussi materiali e mostra tutte le possibili strade di utilizzo che appartengono all’economia circolare. Il riciclo organico (ossia la biodegradabilità) e anche la cattura e l’utilizzo della CO2 prodotta attraverso processi industriali o presente nell’atmosfera sono inclusi per offrire un “concetto autenticamente comprensivo di economia circolare”.
Materia Rinnovabile. Rivista internazionale sulla bioeconomia e l’economia circolare, n. 4, giugno 2015 •• Corbion 2015, “Corbion Purac successfully develops PLA resin from second generation feedstocks”, comunicato stampa del 13 ottobre 2015 •• Ellen MacArthur Foundation 2013, “Towards the Circular Economy. Opportunities for the consumer goods sector”, Isle of Wight 2013 •• Commissione europea 2012, “Innovating for Sustainable Growth – A Bioeconomy for Europe”, Commissione europea, Direzione Generale per la Ricerca e l’Innovazione, Bruxelles 2012 •• Commissione europea 2015, “Closing the loop – An EU action plan for the circular economy”, Commissione europea, Bruxelles, dicembre 2015 •• GBS 2015, “Communiqué Global Bioeconomy Summit 2015
– Making Bioeconomy Work for Sustainable Development”, Berlino, novembre 2015 •• Iffland, K., Sherwood, J., Carus M., Raschka, A., Farmer, T., Clark, J. 2015, “Definition, Calculation and Comparison of the Biomass Utilization Efficiency (BUE) of Various Biobased Chemicals, Polymers and Fuels”, nova paper #8 sull’economia biobased, Hürth, novembre 2015. Scaricabile da www.biobased.eu/nova-papers •• Mathijs, E. 2015, “Sustainable Agriculture, Forestry and Fisheries in the Bioeconomy – A Challenge for Europe”, 4th SCAR Foresight Exercise, Bruxelles, ottobre 2015 •• NISCluster 2015, “The bioeconomy must move away from drop-in thinking!”, newsletter del NISCluster, Finlandia, novembre 2015 •• Philp, J. 2015, Balancing the bioeconomy: supporting biofuels and biobased
materials in public policy, The Royal Society of Chemistry, agosto 2015 •• Pietikäinen, S. 2015,: “Stacchiamo la spina ai dinosauri industriali. Intervista a Sirpa Pietikäinen” a cura di Joanna Dupont-Inglis, in Materia Rinnovabile. Rivista internazionale sulla bioeconomia e l’economia circolare, n. 4, giugno 2015 •• VCI (Verband der Chemischen Industrie) 2015, Basischemie 2030 – Aktualisierte Analyse zur Zukunft der Basischemie, VCI, Francoforte, ottobre 2015 •• Yoon, A. 2015, “Increasing Demand for Wood-Based Biofuel Threatens U.S. Forests”, TriplePundit 17, novembre 2015 (www.triplepundit. com/2015/11/increasingdemand-wood-basedbiofuel-threatens-u-sforests/)
39
40
materiarinnovabile 08. 2016
1.270 MILIARDI DI EURO: tanto vale la bioeconomy nella Ue5
Più di 7 milioni sono gli occupati nella bioeconomia nei maggiori paesi europei. Mentre a livello globale le esportazioni ammontano a 2.396 miliardi di dollari, pari al 12,6% del commercio mondiale. La fotografia del settore nello studio di Intesa Sanpaolo. a cura della redazione
Secondo Rapporto Intesa Sanpaolo Assobiotec “La bioeconomia in Europa”, dicembre 2015, tinyurl.com/z2l9vaq
Oltre 1.270 miliardi di euro di valore della produzione e 7 milioni di lavoratori. Sono i numeri della bioeconomia nei cinque maggiori paesi dell’Unione europea (Germania, Francia, Italia, Regno Unito e Spagna), secondo l’indagine “La bioeconomia in Europa” condotta dal Centro Studi di Intesa Sanpaolo, il maggior gruppo bancario in Italia e uno dei maggiori in Europa, in collaborazione con l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie (Assobiotec). L’analisi, alla sua seconda edizione, è stata presentata lo scorso dicembre a Torino e ci consegna una fotografia del valore della bioeconomia in ciascuno dei cinque paesi presi in esame. Una fotografia che per il settore chimico è in parte reale e in parte solo potenziale: infatti non tutti i composti chimici che potrebbero essere prodotti già oggi da risorse biologiche lo sono effettivamente. Come spiegano le due autrici del Rapporto, Stefania Trenti e Serena Fumagalli, “per quanto riguarda agricoltura, silvicoltura, pesca, alimentare e industria del legno e della carta le statistiche ufficiali mettono già a disposizione
i principali dati sul valore della produzione e dell’occupazione e sul commercio con l’estero. Più complesso, invece, è stato stimare il contributo fornito dal settore chimico. L’analisi si è avvalsa perciò del supporto fondamentale di un chimico esperto in biotecnologie, a cui abbiamo chiesto di individuare dei prodotti di matrice chimica che possono potenzialmente essere realizzati attraverso l’utilizzo di risorse rinnovabili, sulla base delle tecnologie attualmente esistenti. Ciò ci ha consentito, basandoci sul massimo livello di disaggregazione disponibile, di isolare non tanto quanto è attualmente prodotto con materie prime rinnovabili quanto piuttosto il potenziale producibile, in modo economicamente sostenibile, con la tecnologia attualmente disponibile”. Nel dettaglio dell’analisi è emerso che la Germania si conferma paese leader nella bioeconomia europea, con un valore della produzione di oltre 343 miliardi di euro e 1,847 milioni di addetti. Alle sue spalle, la Francia con 295 miliardi e 1,51 milioni di occupati, l’Italia con 244 miliardi e 1,54 milioni, la Spagna con 219 miliardi e 1,24 milioni e il Regno Unito con circa 171 miliardi di euro e 888.000 addetti.
Policy “Il nostro studio – sottolineano le autrici – fa emergere la rilevanza della bioeconomia in Spagna, dove raggiunge l’11,9% del valore della produzione nazionale. Un peso significativo che è frutto soprattutto del settore agricolo e alimentare, ma anche della produzione di biochemicals che risulta più elevata rispetto alla media dei cinque paesi Ue. Discorso analogo si può fare per Francia e Italia, dove viene registrato un peso della bioeconomia sulla produzione totale del 7,9%, legato alla filiera agroalimentare. Spagna e Francia risultano, inoltre gli unici paesi a evidenziare un saldo positivo significativo di commercio con l’estero per il complesso dei prodotti della bioeconomia, grazie soprattutto alla dinamica
del settore agro-alimentare: 10,6 miliardi il saldo francese, 9,1 miliardi quello spagnolo. In terreno positivo – spinta dai settori manifatturieri – anche la Germania con 853 milioni. Mentre Italia e Regno Unito registrano un saldo negativo, rispettivamente di 13,2 e 35,4 miliardi”. “Da notare – spiegano le autrici dell’indagine – come il peso della biochimica sul totale della produzione chimica dei diversi paesi vari da un minimo del 29,8% del Regno Unito a un massimo del 40% circa per Francia e Italia. Ma ricordiamo che si tratta non tanto del valore delle produzioni esistenti (ancora limitate e in molti casi ancora allo stato sperimentale) quanto di ciò che
La bioeconomia: il valore della produzione (milioni di euro, 2013) Fonte: stime Intesa Sanpaolo su dati Eurostat.
Agricoltura, silvicoltura e pesca di cui:
Agricoltura
Silvicoltura
Pesca
Alimentare
Legno
Carta
Biochimica
Totale bioeconomia
Totale economia
Peso bioeconomia sul totale
ITALIA
GERMANIA
FRANCIA
REGNO UNITO
SPAGNA
UE5
59.646
53.463
85.854
33.197
49.710
281.870
56.363
48.187
78.573
29.837
N. D.
N. D.
1.566
4.903
5.006
1.392
N. D.
N. D.
1.717
373
2.275
1.969
N. D.
N. D.
128.502
182.004
156.692
102.879
132.666
702.743
14.324
23.704
10.277
7.928
6.387
62.620
21.097
37.726
16.251
13.997
12.217
101.288
20.456
46.613
26.745
12.971
18.344
125.129
244.024
343.510
295.819
170.973
219.324
1.273.650
3.085.769
5.206.683
3.768.136
3.618.844
1.946.070
17.625.501
7,9%
6,6%
7,9%
4,7%
11,3%
7,2%
41
42
materiarinnovabile 08. 2016 potenzialmente si potrebbe produrre a tecnologia già presente ed economicamente sostenibile”. Inoltre, l’indagine di Intesa Sanpaolo prende in considerazione le statistiche internazionali sul commercio estero di prodotti della bioeconomia, così come classificati dal Centro Studi della banca italiana. Nel 2014 le esportazioni mondiali ammontavano a 2.396 miliardi di dollari, ovvero il 12,6% del commercio globale, una quota in netta espansione rispetto al 9,8% del 2007. I prodotti alimentari, con circa 1.115 miliardi, pesano per il 46,6% circa sul totale delle esportazioni. E la filiera agroalimentare nel suo complesso raggiunge i due terzi del totale, seguita dai
biochemicals che pesano per il 14,5% delle esportazioni. Tra i principali esportatori – scrivono Trenti e Fumagalli – figurano gli Stati Uniti, stabili al primo posto con una quota del 10,9%, la Germania (7,5%) e l’Olanda (6,6%), in recupero sul 2010. Si posiziona al quarto posto la Cina, con una quota di circa il 6%, superando la Francia scesa al 5% dal 5,5% del 2010. Seguono Brasile, Canada, Belgio, Spagna. L’Italia, risulta il decimo esportatore mondiale con una quota del 3% circa, evidenziando solo un lieve ridimensionamento rispetto al 2010. Seguono poi alcuni paesi emergenti del Far East, come Thailandia e Indonesia, con una quota del 2,3
Occupazione nella bioeconomia (migliaia di addetti, 2013); il peso della bioeconomia sulla produzione nazionale (%, 2013) Fonte: stime Intesa Sanpaolo su dati Eurostat.
ITALIA Occupati
Agricoltura, silvicoltura e pesca di cui:
Agricoltura
Silvicoltura
Pesca
Alimentare
Legno
Carta
Biochimica
Totale bioeconomia
Totale economia
Peso
GERMANIA Occupati
Peso
FRANCIA Occupati
Peso
REGNO UNITO Occupati
Peso
SPAGNA Occupati
Peso
Occupati
1,9
641
1,0
757
2,3
356
0,9
736
827
1,8
597
0,9
709
2,1
325
0,8
N. D. N. D.
N. D. N. D.
38
0,1
39
0,1
30
0,1
19
0,0
N. D. N. D.
N. D. N. D.
27
0,1
5
0,0
18
0,1
12
0,1
N. D. N. D.
N. D. N. D.
449
4,2
922
3,5
625
4,2
401
2,8
407
6,8
2.804
4,0
129
0,5
137
0,5
66
0,3
78
0,2
59
0,3
469
0,4
73
0,7
147
0,7
62
0,4
53
0,4
42
0,6
377
0,6
29
0,7
50
0,9
25
0,7
16
0,4
31
0,9
151
0,7
1.544
7,9
1.847
6,6
1.510
7,9
888
4,7
1.244
11,3
7.033
7,2
17.948
100,0
100,0
42.328
100,0
27.197
100,0
30.044
100,0
3.382
Peso
892
24.323
2,6
UE5
141.840
1,6
100,0
Policy e 2,2% rispettivamente. Oltre alla Cina, si osserva un incremento delle quote di mercato anche per India e Polonia. In sintesi, nel periodo 2010-2014 il quadro dei principali esportatori mondiali nel settore della bioeconomia è rimasto sostanzialmente immutato, con la sola eccezione del balzo della Cina.
43
quote della maggior parte dei paesi maturi si contrappone la crescita di quelli emergenti: oltre alla Cina anche il Messico, la Corea del Sud, Hong Kong e l’India. L’indagine considera nello specifico il mercato mondiale dei prodotti chimici originati da risorse biologiche anche solo potenzialmente. In questo comparto Usa e Germania appaiono come gli attori principali, con elevate quote sulle esportazioni mondiali (rispettivamente pari a 13,3 e 11,2%). Per entrambi i paesi emerge un saldo commerciale positivo. In disavanzo, invece, la Cina, che con 55,4 miliardi di dollari di import, si posiziona al primo posto evidenziando un saldo
Sul fronte import, la Cina è stata nel 2014 il principale importatore mondiale con una quota vicina al 10% delle importazioni complessive, in netta crescita rispetto al dato del 2008. Seguono i paesi più industrializzati con percentuali in calo, salvo Usa e Olanda. Al ridimensionamento delle
Le esportazioni e le importazioni della bioeconomia (milioni di euro, 2013) Fonte: stime Intesa Sanpaolo su dati Eurostat.
Agricoltura, silvicoltura e pesca di cui:
Agricoltura
Silvicoltura
Pesca
Alimentare
Legno
Carta
Biochimica
Totale bioeconomia
Totale economia
Peso bioeconomia sul totale
ITALIA
GERMANIA
FRANCIA
REGNO UNITO
SPAGNA
UE5
Export
Import
Export
Import
Export
Import
Export
Import
Export
Import
Export
Import
5.985
12.780
10.548
29.525
16.385
12.140
3.102
13.088
13.945
9.838
49.965
77.371
5.669
11.462
9.947
28.177
15.487
10.504
2.092
12.377
13.195
8.621
46.391
71.141
105
345
334
776
381
226
211
973
267
571
517
1.410
27.423
28.207
57.046
48.152
43.307
36.800
1.513
2.895
6.039
5.477
1.860
3.437
6.234
6.342
18.723
14.752
6.181
9.616
13.763
37.980
32.924
50.772
63.986
130.336
390.233
361.002
1.093.160
13,0%
17,7%
11,9%
79
125
210
157
1.108
1.630
930
586
540
1.060
2.466
4.600
37.547
24.043
380
3.871
1.180
9.078
2.904
7.932
20.088
17.391
11.885
129.483
87.821
77.210
894.005
437.439
513.114
14,5%
20,1%
15,0%
20.769
172.589
170.168
978
10.972
16.658
4.294
4.055
38.336
42.159
12.729
8.319
9.555
87.889
86.362
39.040
74.456
51.782
42.671
359.751
386.488
407.060
496.977
239.314
256.455
9,6%
15,0%
21,3%
19.461
16,6%
17.625.501
14,0%
2.521.553
15,3%
44
materiarinnovabile 08. 2016 Peso della biochimica sul totale del settore chimico (%, 2013) REGNO UNITO
GERMANIA
SPAGNA
ITALIA
FRANCIA
29,8%
34,3%
36,6%
39,9%
39,9%
Fonte: stime Intesa Sanpaolo su dati Eurostat.
Le esportazioni di prodotti della bioeconomia (miliardi di dollari e peso %) % sul totale 14,0
Fonte: elaborazioni Intesa Sanpaolo su dati Unctad e Wto.
Miliardi di $ 3.000
13,0
2.500
12,0
2.000
11,0 10,0
1.500
9,0
1.000
8,0
500
7,0 6,0
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
0
Esportazioni mondiali nella bioeconomia (2014) MILIARDI DI USD Agricoltura, silvicoltura e pesca di cui:
Agricoltura
Silvicoltura
Pesca
Alimentare
Legno
Carta
Biochimica
Totale bioeconomia
COMPOSIZIONE %
556,8
23,2
523,0
21,8
32,9
1,4
0,9
0,0
1.115,4
46,6
139,9
5,8
235,5
9,8
347,8
14,5
2.395,4
100%
commerciale negativo di 42 miliardi di dollari. Tra gli esportatori buono il posizionamento di Belgio, Olanda e Francia, mentre l’Italia è dodicesima, con una quota di mercato del 2,7% e un deficit pari a 3,5 miliardi di dollari nel 2014. La chimica biobased oggi Resta da chiarire quanto è reale e quanto è potenziale la chimica biobased. L’Ocse stima che nel 2030 il 35% dei prodotti chimici e dei materiali deriverà da fonti biologiche. Ci troviamo perciò nel mezzo del cammino. Tra i composti chimici già oggi sviluppati grazie all’impiego di biomassa, molti appartengono alla categoria degli acidi. E tra questi, quello che vede più progetti in corso è l’acido succinico, con protagonisti Reverdia (joint venture tra Royal Dsm e Roquette) con uno stabilimento in Italia a Cassano Spinola, Succinity GmbH (joint venture tra Basf e Corbion Purac) con un impianto produttivo a Montmelò in Spagna e BioAmber con uno stabilimento in Canada nella regione della Sarnia. L’acido succinico è stato sempre prodotto dal petrolio o dal gas naturale: viene utilizzato in ambito farmaceutico, alimentare e nella produzione di polimeri a elevate prestazioni, quali resine alchidiche e poliesteri per vernici. Reverdia, il cui acido succinico Biosuccinium è stato certificato negli Stati Uniti come 99% biobased, si sta focalizzando sul suo impiego per ottenere 1,4 butandiolo (Bdo), resine poliuretaniche e biopolimeri come il polibutilene succinato (Pbs), che sono materiali destinati a vernici e coating, plastiche per interni auto e usi tessili.
Policy Nel campo dell’1,4 butandiolo (Bdo) biobased, componente essenziale dei prodotti biodegradabili nel settore del coating, degli adesivi e degli elastomeri (pneumatici), sono attive anche Basf – in partnership con l’americana Genomatica – e Novamont. Attualmente la società chimica tedesca produce 1,4 butandiolo a Ludwigshafen (Germania), Geismar (Louisiana, Usa), Chiba (Giappone), Kuantan (Malesia) e Caojing (Cina), con una capacità produttiva complessiva annua di 650.000 tonnellate. Il bio-butandiolo viene utilizzato da Basf per arrivare a un politetraidrofurano biobased (Poli-THF® 1000) impiegato nel settore tessile per sviluppare fibre sintetiche elastiche utilizzate nell’abbigliamento sportivo, nautico e biancheria intima. E anche come base chimica per produrre poliuretano termoplastico, usato negli scarponi da sci, nelle suole delle scarpe e nell’industria automobilistica. Novamont, attraverso la propria controllata Mater Biotech, ha in corso la riconversione di una fabbrica chimica dismessa nel nord-est del paese in un impianto per la produzione di bio-butandiolo. La società che ha il proprio quartier generale a Novara, attraverso Matrìca (joint venture con Eni-Versalis) in Sardegna produce da risorse biologiche acido azelaico e acido pelargonico. Il primo è un costituente base delle plastiche rinnovabili e/o compostabili, oltre che intermedio nella produzione di plastificanti per il Pvc o nella sintesi di esteri complessi utilizzati nel settore della lubrificazione. Il secondo – l’acido pelargonico – viene utilizzato come intermedio nella sintesi di biolubrificanti e di emollienti per
il settore cosmetico, ma è anche un’importante materia prima nella produzione di candeggianti e di fragranze per alimenti. Inoltre è un’erbicida di origine naturale e – come tale – utilizzato nella formulazione di fitosanitari. Secondo il Dipartimento dell’Energia Usa l’acido levulinico è uno dei principali biochemicals del futuro. A sviluppare acido levulinico da biomasse è l’italiana GF Biochemicals, che nel proprio stabilimento di Caserta, nel 2015 ne ha prodotte 2.500 tonnellate e punta a raggiungere nel 2019 una capacità produttiva di 50.000 tonnellate. Se attualmente il costo al chilo dell’acido levulinico da petrolio si aggira intorno ai 4-5 dollari, l’obiettivo dell’azienda italiana è di poter offrire nel giro di pochi anni l’acido levulinico biobased a un dollaro al chilo. Numerose le sue applicazioni: come intermedio chimico è impiegato nei settori della detergenza, della cura personale, della farmaceutica, delle plastiche, del coating, degli aromi e fragranze, dell’alimentare, dove agisce come regolatore del pH per gli ingredienti e inibisce la crescita dei microbi. Diversi sono anche i polimeri già sviluppati da fonti biologiche. Uno di questi è il polietilene furato (Pef) 100% biobased dell’olandese Avantium, grazie alla propria tecnologia YXY, atteso sul mercato entro il 2020. Il Pef ha grandi opportunità nel mercato odierno, soprattutto per il confezionamento alimentare prestandosi alla realizzazione di vaschette, vassoi e contenitori per carni, frutta, formaggi e yogurt. In questo senso Avantium ha già accordi con colossi del calibro di Coca-Cola e Danone.
I principali esportatori e importatori mondiali di prodotti della bioeconomia (quote % in dollari correnti) ESPORTATORI
IMPORTATORI
Stati Uniti
Cina
Germania
Stati Uniti
Olanda
Germania
Cina
Regno Unito
Francia
Francia
Brasile
Giappone
Canada
Olanda
Belgio
Italia
Spagna
Belgio
Italia
Canada
Thailandia
Russia
2014
Indonesia
Spagna
2010
Regno Unito
Messico
India Polonia
Fonte: elaborazioni Intesa Sanpaolo su dati Unctad.
Corea del Sud Hong Kong India
10
8
6
4
2
0
0
2
4
6
8
10
45
46
materiarinnovabile 08. 2016 Intervista
Ridisegnare i modelli di business a cura di Mario Bonaccorso
Ellen MacArthur Foundation, www.ellenmacarthur foundation.org/
Massimiano Tellini, responsabile del progetto per l’Economia circolare di Intesa Sanpaolo
“L’economia circolare – che in sostanza è un nuovo paradigma di sviluppo svincolato dallo sfruttamento delle risorse naturali esauribili – è oggi una nuova frontiera, senza dubbio ambiziosa. Essa pone la sostenibilità al centro delle strategie di crescita del futuro. E dunque richiede, anche alle imprese, di ridisegnare i propri modelli di business. Ecco quindi il ruolo centrale che un Gruppo come il nostro, impegnato nel supporto alle imprese e all’economia reale, sente la responsabilità di giocare a sostegno degli ingenti sforzi finanziari che la transizione verso questo nuovo paradigma richiede. E siamo pronti a fare la nostra parte.” È quanto dichiara Massimiano Tellini, responsabile del progetto per l’Economia circolare di Intesa Sanpaolo, il maggior gruppo bancario italiano e uno dei principali a livello europeo, in questa intervista esclusiva con “Materia Rinnovabile”. Lo scorso dicembre la banca che divide il proprio quartier generale tra Milano e Torino ha reso noto di essere diventata Global Partner della Fondazione Ellen MacArthur. Un ruolo che vedrà Intesa Sanpaolo al fianco della Fondazione per ridefinire le strategie di business in cerca di nuove opportunità e per assicurare investimenti finalizzati a ridisegnare il sistema industriale. Ma cosa c’entra una banca come Intesa Sanpaolo con l’economia circolare? “Da sempre il Gruppo Intesa Sanpaolo porta avanti concretamente il proprio impegno di responsabilità sociale e ambientale. Come ha di recente sottolineato il nostro Amministratore delegato, Carlo Messina, dal 2007 al 2014 abbiamo favorito investimenti per l’ambiente e le fonti rinnovabili con oltre 11 miliardi di euro. Intesa Sanpaolo ha inoltre dedicato, nel 2014, oltre il 2,3% del totale delle proprie erogazioni al sostegno di energie rinnovabili e ai settori dell’agricoltura e della tutela ambientale. A conferma del nostro impegno per un’economia sempre più sostenibile. Da poco più di un anno il Gruppo ha istituito, a diretto riporto dell’Ad, la figura del Chief Innovation Officer (Cio, ndr), impegnata nella diffusione a livello di Gruppo dei trend d’innovazione più rilevanti per il nostro business e per quello dei nostri clienti. Proprio grazie alla leadership del Cio, Maurizio Montagnese, il Gruppo ha deciso di approfondire le implicazioni di business legate all’economia circolare e ha saputo costruire un rapporto privilegiato con uno degli attori più rilevanti su questo tema a livello globale, la Fondazione ideata e presieduta dalla leggendaria velista Ellen MacArthur. Ecco perché una banca come Intesa Sanpaolo è oggi impegnata sul tema
della Circular Economy: per noi rappresenta un’indiscutibile opportunità d’innovazione strategica per le imprese e, come tale, abbiamo la responsabilità di monitorarne e facilitarne la diffusione negli ambiti più rilevanti della nostra attività.” In termini concreti cosa significa essere Global Partner della Ellen McArthur Foundation? “Essere Financial Services Global Partner ci attribuisce un ruolo esclusivo a livello globale coerente con le nostre ambizioni e dà la cifra della responsabilità che riteniamo opportuno assumerci. Ovvero, essere fra gli attori sistemici in grado di sostenere nel nostro comportamento aziendale (sia verso l’interno sia verso l’esterno) tutti gli sforzi che i nostri stakeholder rilevanti riterranno opportuno mettere in campo per favorire la transizione verso modelli circolari di creazione del valore. In termini concreti, a livello interno, il Gruppo sta avviando un percorso di analisi delle proprie Procurement Policy teso a identificare le aree che potrebbero essere oggetto di ulteriore evoluzione, grazie a processi di miglioramento dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse. Anche se sappiamo di essere già tra i leader a livello internazionale in questi ambiti, come riconosciutoci a Davos nel 2014, e l’unica azienda italiana tra le prime 100 al mondo. A livello esterno, nel perseguimento della missione a sostegno dello sviluppo di ecosistemi d’innovazione orientati all’economia circolare, stiamo studiando soluzioni di supporto alle start-up che decidano di operare in questo ambito. Stiamo anche valutando programmi di cooperazione con le amministrazioni pubbliche per verificare obiettivi comuni e definire possibili programmi di intervento che facilitino l’implementazione di soluzioni innovative e condivise. Sono solo due esempi, ma danno l’idea di quanto ampio sia lo spazio di opportunità che una visione nuova e sistemica come quella della Circular Economy apre a tutti gli operatori impegnati a sostegno dello sviluppo condiviso e sostenibile nel lungo periodo.” Fondazione Ellen MacArthur e McKinsey ci dicono che con l’economia circolare l’Ue potrà avere un beneficio netto di 1.800 miliardi di euro da qui al 2030, veder crescere il reddito medio delle famiglie di 3.000 euro e incrementare il Pil dell’11%, rispetto al 4% delle previsioni attuali. Come sarà possibile tutto ciò? “Sono numeri importanti che aiutano a comprendere la rilevanza delle opportunità e la dimensione della responsabilità che il mondo del business e della finanza hanno davanti in un contesto storico che
Policy si preannuncia irripetibile. Per restare ai numeri, il trilione e 800 miliardi di euro citati sono riferiti al risparmio di costi operativi che le imprese manifatturiere in Europa possono conseguire fino al 2030 grazie a un approccio Circular. Basato, cioè, su tre driver precisi: (a) utilizzo esclusivo di energie rinnovabili; (b) re-design di processi e prodotti con l’introduzione di componenti modulari e smontabili per facilitarne la rigenerazione; (c) ambizione di arrivare gradualmente a zero rifiuti. E si badi che sono stime comunque prudenziali, ovvero riferite alle imprese di soli tre settori industriali quali l’alimentare, le costruzioni e l’automotive. La ragione per la quale questi sono i tre settori individuati è che essi cumulano in media circa il 60% della spesa media di un cittadino europeo di oggi. In prospettiva, un orizzonte così delineato lascia intravedere le dinamiche capaci di originare il risparmio di cui godranno anche le famiglie europee, altro dato rilevante per tutti noi cittadini europei. Siamo quindi tutti chiamati a partecipare alla costruzione di un nuovo modello di sviluppo che sappia premiare gli imprenditori più innovativi e le famiglie curiose di ripensare i propri modelli di consumo e fruizione di servizi.” Le banche europee sono state accusate in questi anni di crisi di non supportare con finanziamenti adeguati il sistema delle imprese. Oggi voi vi presentate come la banca dell’economia circolare. Come avete in mente di finanziare le imprese? “Durante gli anni della crisi Intesa Sanpaolo non ha mai fatto mancare il proprio sostegno all’economia reale. Abbiamo continuato a erogare credito a medio e lungo termine a famiglie e imprese: 27 miliardi nel 2014, che sono ulteriormente cresciuti fino a 40 miliardi nel 2015. Qui credo sia premiante evidenziare, seppure in estrema sintesi, un aspetto che aiuta a comprendere la portata della novità rappresentata dalla Circular Economy. La crisi che dal 2008 ha attraversato tutte le economie industrializzate è, di fatto, una crisi di paradigma. Ha infatti messo in seria discussione le dinamiche alla base dell’attuale modello economico, contribuendo a generare crescente incertezza sui processi di acquisto di materie prime sui mercati mondiali. La variabilità dell’andamento dei prezzi, unita alle tensioni geopolitiche in aree del pianeta considerate strategiche per l’approvvigionamento di intere filiere produttive, ha iniziato a impattare negativamente sui bilanci di imprese di dimensioni rilevanti. E se consideriamo i contestuali danni ambientali generati da uno sviluppo industriale incentrato sulla logica del consumismo, capiamo quanto difficile sia il contesto di riferimento in cui gli operatori economici hanno dovuto lavorare in questi anni. Ora, la ripresa economica che sta iniziando a dispiegare i suoi primi effetti positivi rappresenta però allo stesso tempo un’ineguagliabile opportunità. Ed è qui che, a mio avviso, entra in gioco la soluzione offerta dall’economia circolare. Essa consente alle imprese di slegare le proprie
attività da rischi di approvvigionamento crescenti e di ‘mettere in sicurezza’ il proprio core business attraverso una ridefinizione degli obiettivi strategici e dei modelli di business conseguenti. E qui il legame con la bioeconomia credo sia centrale.” In sostanza qual è il ruolo della banca? Che tipo di sostegno sarete in grado di dare alle imprese più innovative della bioeconomia? “Facciamo riferimento all’industria chimica, che in questi anni ha dimostrato di saper guardare oltre la crisi, proprio grazie allo sviluppo di imprese impegnate sulla frontiera della bioeconomia, amiche della natura e legate al territorio, impegnate nell’affermazione di un nuovo modello imprenditoriale di filiera, sostenibile e innovativo. A inizio novembre, la Commissione Ue ha ospitato il summit europeo per il sostegno finanziario al settore, brillantemente documentato dalla vostra rivista. Proprio in quella sede, il Commissario europeo all’agricoltura, Phil Hogan, ha invitato tutti gli operatori della bioeconomia a considerarla come il ‘motore verde della Circular Economy’. Credo che questo invito da solo sia sufficiente a comprendere il grande impegno che verrà richiesto alle istituzioni finanziarie. E il nostro Gruppo intende fare la propria parte. Su questo tema, ricordo il supporto che forniamo costantemente alle imprese che puntano sull’innovazione come, tanto per citare un nome, il gruppo Novamont. Con loro siamo al lavoro proprio in questi giorni per l’individuazione di attività congiunte a sostegno della bioeconomia, non solo in Italia.” Sul tema dell’economia circolare, l’Unione europea ha cominciato a muovere i primi passi. Come li giudica? “In questi mesi la Commissione Ue ha dimostrato una vera leadership sul tema della bioeconomia, culminata con la conferenza di novembre. Ma anche sulla Circular Economy sta dimostrando la stessa determinazione a garantire all’Europa un ruolo di leadership. Personalmente sono propenso a inquadrare in questo contesto anche il recente esito della conferenza Cop21 di Parigi. Non a caso, proprio il Presidente della Banca europea degli investimenti, Werner Hoyer, in vista di Cop21, ha insistito perché l’economia circolare fosse considerata come una delle proposte politiche distintive della Ue al tavolo del negoziato. Negli stessi giorni e con ancor più convinzione, in occasione dell’emanazione del Circular Economy Package, Frans Timmermans (primo Vicepresidente della Commissione Ue) ha avuto modo di affermare che il modello dell’economia circolare rappresenta per l’Unione europea ‘il solo modello di sviluppo che abbia senso nel medio-lungo periodo’. Se dunque è ancora troppo presto per dire se l’Europa saprà davvero cogliere appieno le opportunità offerte dall’economia circolare, credo sia però indiscutibile la responsabilità che ciascuno di noi ha oggi, nell’ambito di uno sforzo collettivo a livello internazionale, nel costruire una nuova storia di successo.”
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materiarinnovabile 08. 2016
Un sostegno alle imprese per rilanciare l’economia circolare Da una costola della rivista Materia Rinnovabile parte una nuova scommessa rivolta direttamente alle aziende. Il Centro Materia Rinnovabile è una struttura nata per fornire orientamenti e soluzioni concrete alle imprese che vogliono migliorare la valorizzazione dei flussi di rifiuti prodotti dalla loro attività. Un supporto che si realizza integrando competenze che nello scenario attuale si presentano separate; ricreando un dialogo tra vincoli normativi e opportunità economiche, innovazioni tecnologiche e soluzioni di sostenibilità ambientale, conoscenza dei materiali e conversione energetica, esperienza e innovazione. Il Centro Materia Rinnovabile, CMR, è nato esattamente a misura di questa sfida, unendo le figure e le squadre più autorevoli a livello nazionale per trasformare alcune tipologie di rifiuti in nuovi flussi di materia, con vantaggi misurabili anche nel breve periodo.
Ecco il percorso che CMR propone per raggiungere una valorizzazione vantaggiosa dei flussi di rifiuti: • analisi delle condizioni di conformità alle norme in rapporto al flusso prescelto • censimento dei migliori impieghi possibili del materiale in rapporto alla destinazione attuale (esplorazione puntuale delle tecnologie più efficaci disponibili, del loro costo, delle innovazioni in corso) • valutazione, in termini economici e autorizzativi, del percorso più conveniente (in proprio, tramite terzi, o avviando attività sperimentali) • seconda verifica di conformità a conclusione del progetto e analisi delle procedure richieste • valutazione delle ottimizzazioni tecniche ed economiche per lo smistamento delle diverse frazioni (quote a recupero di materia, quote a recupero di energia, quote a smaltimento) • reperimento dei soggetti in grado di “chiudere il cerchio”, cioè dei destinatari finali, eventualmente compratori, nel rispetto della massima ecoefficienza della filiera
CMR è una società consortile fondata nel dicembre 2015 da queste sei strutture: Edizioni Ambiente, casa editrice che da vent’anni raccorda iniziative editoriali e di ricerca sui temi della sostenibilità e oggi pubblica la rivista Materia Rinnovabile / Renewable Matter. Eda Pro, società di servizi legata a Edizioni Ambiente e specializzata nella normativa ambientale. Exalto Energy & Innovation, società che opera nella consulenza strategica a imprese e istituzioni, per l’efficienza energetica, la progettazione e costruzione di impianti, gli edifici a emissioni zero, la gestione delle materie prime. Interseroh Service Italia, società di consulenza e supporto alle imprese
con competenze nella gestione dei materiali di imballaggio, prevenzione, eco-design, ottimizzazione degli adempimenti e nelle soluzioni di valorizzazione e riciclo. Remedia Tecnologie e Servizi per il riciclo, società che supporta gli enti e le aziende nella gestione dei rifiuti tecnologici e delle apparecchiature usate, nella logistica e nella ricerca di soluzioni di valorizzazione dei materiali. Silverback, agenzia di comunicazione e produzione di strumenti multimediali in campo ambientale, specializzata nei temi della green economy e dell’economia circolare.
Via Leonardo Bistolfi, 49 20134 Milano T +39 02 83634975
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materiarinnovabile 08. 2016
Scende in campo il COMPOST In Italia ogni anno 252 impianti di compostaggio producono 1 milione di tonnellate di compost. Un alleato prezioso per un’agricoltura più sostenibile e un suolo più fertile.
di Roberto Rizzo
Residui di frutta, verdura, carni, caffè, uova. Ma anche fazzoletti di carta e scarti di giardino come rami, foglie, erba e paglia. Tutto materiale utile per fare il compost, il fertilizzante organico naturale che può prendere il posto dei fertilizzanti minerali. Ma non solo. Il compost può contribuire a fronteggiare la perdita di sostanza organica nei suoli, un fenomeno provocato dai cambiamenti climatici e dalle coltivazioni intensive che colpisce diverse zone del Sud Europa, fra cui anche l’Italia. Un valore aggiunto di cui la politica finora ha fatto fatica a rendersi conto.
tradizionali, ma può ricoprire anche un ruolo nella protezione dei suoli entrando a far parte della sostanza organica dei terreni. La sostanza organica, infatti, è la principale responsabile della fertilità del suolo. Formata da organismi viventi presenti nel terreno e dai resti di organismi morti in vari stadi di decomposizione, è la sostanza organica che accresce la capacità del terreno di assorbire gli elementi nutritivi. E il suo ruolo non si ferma qui, visto che riduce il rischio di compattazione ed erosione superficiale dei suoli in quanto può assorbire notevoli quantità di acqua, e contribuisce allo smaltimento delle sostanze inquinanti che si possono infiltrare nei terreni.
Roberto Rizzo è un giornalista scientifico esperto di tematiche energetiche e ambientali e dal 2010 insegna al Master di Giornalismo Scientifico della Sissa di Trieste.
Il compost è un ottimo fertilizzante organico naturale che può sostituire integralmente i fertilizzanti minerali a base di fosforo e potassio e in parte quelli a base di azoto. Il processo di produzione del compost, che è di tipo aerobico e dura alcune settimane, si auto-innesca a partire dalla triturazione del materiale e dall’azione dei batteri, grazie ai quali si raggiungono temperature dell’ordine dei 60-70°. Non richiede, quindi, sostanze chimiche, additivi o fonti energetiche esogene, a differenza di quanto avviene nel caso dei fertilizzanti di sintesi. Non solo il compost aiuta a rendere più sostenibile l’agricoltura limitando l’utilizzo dei fertilizzanti
Il carbonio nei suoli Negli ultimi decenni il fenomeno della perdita progressiva di sostanza organica nei suoli si è intensificato a causa principalmente di due fattori: l’innalzamento della temperatura provocato dai cambiamenti climatici (a temperature più elevate la sostanza organica si decompone con maggiore rapidità) e le pratiche agricole intensive, che portano a frequenti lavorazioni e al sovrasfruttamento dei terreni. In base ai dati del JRC-Joint Research Centre della Commissione europea, quasi la metà dei suoli europei è caratterizzata da un basso contenuto di sostanza
Policy
organica, in particolare nell’Europa meridionale e in alcune zone di Francia, Regno Unito e Germania. Inoltre, meno sostanza organica nel terreno significa anche più CO2 in atmosfera. Quando si forma la sostanza organica, il terreno assorbe anidride carbonica dall’atmosfera: si stima che il suolo contenga circa il doppio del carbonio presente in atmosfera e tre volte quello trattenuto dalla vegetazione (i suoli europei contengono circa 75 miliardi di tonnellate di carbonio organico). Viceversa, quando la sostanza organica si decompone, il terreno rilascia anidride carbonica verso l’atmosfera. “In alcune zone d’Italia la quantità di sostanza organica nel suolo si è dimezzata negli ultimi 30 anni: ciò vuol dire che si sono ridotti della metà il potenziale biologico, la fertilità e il valore del terreno stesso”, afferma Massimo Centemero, direttore generale del Consorzio italiano compostatori (Cic). “La situazione è allarmante anche in altri paesi dell’Europa del sud: è necessario ritornare al valore di sostanza organica ideale, anche se non è un processo immediato perché servono decenni per ricreare la sostanza organica. E qui entra in gioco il compost che, unitamente a pratiche agronomiche più sostenibili, rappresenta uno degli elementi che può riportare carbonio organico al suolo contribuendo ad
arricchire il pool di sostanza organica, garantendo al terreno alti livelli di fertilità naturale. Si tratta di una tematica ignorata dal decisore politico, visto che non è mai stata presa un’iniziativa concreta sulla necessità di sfruttare la risorsa compost in tal senso, se non sporadicamente in passato in alcune regioni relativamente a piani di sviluppo rurale”. “Non so dire”, prosegue Massimo Centemero, “se la chiave di volta possa essere l’introduzione di un sistema incentivante come quello adottato per le fonti rinnovabili, ma il decisore politico dovrebbe rendersi conto che le aziende del nostro consorzio producono in realtà fertilizzanti rinnovabili. La nostra filiera è stata trascurata dalla politica, come confermato dal fatto che il Cic è un consorzio nato poco più di 20 anni fa dall’impegno volontario di alcune imprese. Nel corso degli anni la filiera dell’organico è cresciuta così come le attività consortili. Nessuno ha pensato a strutturare questo sistema, lo stiamo facendo noi su base volontaria: il settore è quindi nato, si è sviluppato ed è cresciuto basandosi unicamente sulle proprie forze”. Il marchio di qualità Il compost in commercio non è tutto uguale: può essere suddiviso in due classi. La prima è quella del “compost verde”, che deriva dagli scarti vegetali del verde pubblico e privato e va
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materiarinnovabile 08. 2016 La raccolta dell’organico
65%
target Ue
60%
popolazione nazionale coinvolta nella raccolta dell’organico
a sostituire le torbe d’importazione, entrando soprattutto nel mercato del florovivaismo. La seconda è rappresentata dal “compost misto”, prodotto a partire dagli scarti sia dell’umido di cucina sia del verde pubblico e dei giardini; è molto ricco di elementi nutritivi ed entra nelle formulazioni dei fertilizzanti per l’agricoltura. Per orientare gli acquirenti nella scelta del compost, il Consorzio italiano compostatori ha introdotto nel 2004 un marchio di qualità legato al prodotto (dunque non al processo produttivo). Nel 2014 tale marchio ha riguardato il 37% della produzione nazionale: in Italia nei 252 impianti di compostaggio si producono più di 1 milione di tonnellate di compost ogni anno. “Sono quasi 50 le aziende che si possono fregiare del marchio: noi ci occupiamo del coordinamento, mentre il campionamento mensile e le analisi di laboratorio sono condotte da soggetti terzi”, precisa Centemero. “Tutto il compost in commercio in Italia deve ovviamente rispettare la normativa sui fertilizzanti per quanto riguarda le caratteristiche chimico-fisiche, ma il valore aggiunto del nostro marchio è rappresentato dall’elevato numero di campionamenti e dalla terzietà delle analisi. Grazie alle 2.500 analisi che abbiamo condotto in tutti questi anni, siamo riusciti a costruire una base statistica enorme. Di recente, nel nostro paese stanno aumentando gli impianti di digestione anaerobica (46 a fine 2014), nei quali oltre al compost si produce anche biogas ed energia elettrica in cogenerazione. Anche se con investimenti cospicui, la nuova frontiera è rappresentata dalla trasformazione del biogas in biometano, utilizzabile sia in rete sia per l’autotrazione”. La raccolta dell’organico cresce da vent’anni In effetti, quello del trattamento degli scarti organici per la produzione del compost è un settore che sembra non aver risentito della crisi economico-finanziaria, ma che anzi ha garantito una buona redditività agli investitori: una parte consistente di questi guadagni è stata investita in innovazione tecnologica. Se un tempo ci si limitava a produrre il compost solo dagli scarti vegetali, successivamente è stato introdotto il trattamento dei rifiuti umidi di cucina e infine la digestione anaerobica per produrre il biogas. E i numeri dimostrano tutto questo. Nel 2014 il totale di raccolta differenziata di rifiuti urbani è stato di 13,4 milioni di tonnellate: la componente maggiore è rappresentata dalla raccolta di rifiuti organici (5,7 milioni tonnellate) pari al 42,5% del totale. Tra il 2013 e il 2014 la raccolta dell’organico è cresciuta del 9,5%, ma il trend è positivo da 20 anni a questa parte, con un valore sempre superiore al 5% da un anno con l’altro. Questo incremento si spiega con il fatto che un numero sempre maggiore di comuni effettua la raccolta differenziata, specie dell’organico. La grossa crescita del 2014, che ha
Policy
sfiorato il 10%, è stata influenzata dalla raccolta dell’organico ora attiva in tutta la città di Milano, che con i suoi 1,3 milioni di abitanti ha inciso in modo significativo sul dato dell’intero paese. “A livello nazionale stiamo arrivando a valori di raccolta dell’organico assai elevati, addirittura superiori, come intercettazione per abitante, a quelli di alcune nazioni del centro e nord Europa”, spiega Massimo Centemero. “Oggi la raccolta dell’organico coinvolge tra i 35 e i 40 milioni di italiani, circa il 60% della popolazione nazionale: dobbiamo riuscire a intercettare la parte restante di popolazione se vogliamo raggiungere il target comunitario del 65% di raccolta differenziata complessiva, visto il contributo determinante della raccolta dell’organico. Manca all’appello gran parte del Mezzogiorno: in alcune zone del Sud la raccolta differenziata è praticamente inesistente, soprattutto in Sicilia e Calabria, anche se in altre (per esempio in Campania, nelle province di Salerno, Avellino e Benevento) si raggiungono valori di raccolta molto buoni. Occorre sviluppare la raccolta anche nelle grandi città, dove è più difficile condurla a causa del grado di urbanizzazione: occorre riprogettare gli orari e adeguare i mezzi di raccolta. L’esperienza di Milano ha però dimostrato che non è impossibile effettuare la raccolta dell’organico: i cittadini hanno risposto molto bene. Sono loro gli artefici principali del successo della raccolta differenziata a Milano, come altrove”. Lo sviluppo della filiera del compost L’azione più urgente è quindi quella di riuscire a penetrare nei territori dove oggi la raccolta
Consorzio italiano compostatori, www.compost.it European Compost Network, www. compostnetwork.info
dell’organico non raggiunge i livelli desiderati. Ma qual è la strategia migliore da adottare? “Si devono muovere insieme sia il mondo industriale, con la costruzione degli impianti di compostaggio, sia quello politico, con lo sviluppo dei sistemi di raccolta differenziata”, conclude Centemero. “Se la raccolta dell’umido è attiva ma mancano gli impianti di trattamento, è un grosso problema perché in tal caso è necessario trasportare il rifiuto anche per centinaia di chilometri fino all’impianto più vicino e questo alla lunga potrebbe costituire un freno allo sviluppo del settore. Viceversa, la presenza di impianti senza materiale da trattare sarebbe ugualmente deleteria. Non esiste una scelta ottimale che vada bene in tutti i casi: esistono esempi virtuosi che hanno preso avvio da iniziative sia pubbliche, sia private. Nel nord Italia, partendo dall’emergenza rifiuti di diversi anni fa, gran parte delle province si sono strutturate e organizzate e sono stati costruiti gli impianti dedicati, con un’infrastruttura che al momento è sufficiente ma potrebbe essere potenziata perché ci sono zone, come la Liguria e alcuni ambiti territoriali, che non sono coperte da servizi di raccolta della frazione organica. Poi esiste anche la necessità di creare politiche incentivanti legate all’impiego del compost che, è bene ricordare, riporta al suolo fertilità organica ed elementi nutritivi che hanno un valore rilevante. Oltre al valore economico, che è legato al prezzo di mercato con variazioni da zona a zona, non dimentichiamo il valore ambientale che può assumere il compost nel riportare carbonio al suolo, in piena coerenza con i principi dell’economia circolare che stanno indirizzando le decisioni delle imminenti normative europee”.
Il Consorzio che promuove il compost di qualità Il Consorzio italiano compostatori (Cic) è una struttura senza fini di lucro che riunisce imprese ed enti pubblici e privati attivi nella produzione del compost. I circa 100 soci rappresentano il 90% del compost prodotto in Italia. Tra gli obiettivi del Consorzio: la promozione della produzione di materiali compostati, con particolare riferimento a quelli di alta qualità e di qualità controllata; il corretto utilizzo dei prodotti di alta qualità nelle attività agricole; la tutela e il controllo delle corrette metodologie e procedure di produzione dei materiali compostati; attività di ricerca, studio e divulgazione; organizzazione di corsi di formazione e di aggiornamento sul compostaggio e sull’impiego dei prodotti. Il Consorzio partecipa ai tavoli tecnici di lavoro presso ministeri e assessorati locali
ed è membro dell’associazione dei compostatori europei (European Compost Network). “Abbiamo promosso un Manifesto per il Mediterraneo, che va anche nella direzione di proteggere la sostanza organica nel terreno”, spiega Massimo Centemero. “Inoltre abbiamo creato il Mediterranean Compost Network nei paesi dell’area del Mediterraneo, un bacino che racchiude territori con caratteristiche climatiche simili: estati calde, inverni miti, problemi di carenza di sostanza organica, fenomeni di predesertificazione, territori orientati al turismo. L’associazione europea nel 2016 avrà molto da fare, dovendosi occupare del pacchetto sull’economia circolare, della nuova normativa europea sui fertilizzanti e delle classificazione degli end-of-waste”.
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EMILIA-ROMAGNA Le Regioni
dell’economia circolare Minimizzare la produzione di rifiuti indifferenziati. Con questo obiettivo è partita in Emilia-Romagna una vera rivoluzione copernicana in tema di gestione di Rsu. di Silvia Zamboni
Legge regionale EmilaRomagna 5 ottobre 2015, n. 16 www.reteambiente. it/normativa/22846/
È l’Emilia-Romagna la prima regione in Italia ad aver assunto, per legge, l’economia circolare come stella polare della propria politica dei rifiuti. Obiettivo: ridurre la produzione di Rsu non differenziati e recuperare più materia possibile da inviare a riciclo. Lo ha fatto con gli undici articoli della Legge 16 entrata in vigore il 5 ottobre scorso, il cui titolo funge, per così dire, da sintetico manifesto programmatico: “Disposizioni a sostegno dell’economia circolare, della riduzione della produzione di rifiuti urbani, del riuso dei beni a fine vita, della raccolta differenziata e modifiche alla legge regionale 19 agosto 1996 n. 31 (Disciplina del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi)”. Per attuare concretamente questa svolta “filosofica”, la legge ha istituito il Forum permanente per l’economia circolare, a cui parteciperanno le istituzioni locali, i rappresentanti della società civile, le organizzazioni economiche
di rappresentanza delle imprese e le associazioni ambientaliste. Per quanto riguarda la gestione degli Rsu, il provvedimento assegna ai Comuni obiettivi minimi alquanto ambiziosi da raggiungere al 2020. Infatti, rispetto alla produzione di rifiuti urbani registrata nel 2011, il target ora in vigore è ridurli del 20-25%, per raggiungere una media di 150 chili annui per abitante al 2020. Per la raccolta differenziata, invece, l’asticella è fissata al 73%, di cui almeno il 70% da inviare a effettivo riciclo. Fin qui i numeri. Con un’annotazione, prima di passare all’esame puntuale dei diversi articoli: il testo approvato è figlio di due proposte di legge di iniziativa popolare e di un intenso percorso partecipativo che ha coinvolto Comuni e associazioni ambientaliste fin dal passato mandato amministrativo. “Un aspetto che va sottolineato perché ha caratterizzato il contenuto della legge e l’attività di confronto con il territorio”, riconosce la consigliera regionale del Partito democratico Lia Montalti, relatrice del provvedimento in Commissione ambiente. Prima di approdare all’esame dell’Assemblea regionale, infatti,
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PIACENZA PARMA
dei rifiuti non è più la percentuale di differenziata raggiunta – che, come sostiene Belosi, può essere “taroccata” per esempio includendovi gli enormi quantitativi di inerti derivanti dalle demolizioni – bensì la diminuzione della frazione indifferenziata non inviata a riciclo.
FORLÌ
MODENA
Silvia Zamboni, giornalista professionista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.
le due proposte di iniziativa popolare – redatte da un esperto dell’Ecoistituto di Faenza, Natale Belosi – erano state votate dai consigli comunali di 60 Comuni grandi e piccoli (tra cui Forlì, Modena, Parma e Piacenza) e dalla Provincia di Reggio Emilia. Una “massa critica istituzionale” rappresentativa del 60% della popolazione dell’Emilia-Romagna e che, insieme a Legambiente, Wwf e vari comitati locali, e a otto consiglieri regionali di maggioranza della passata legislatura, ha premuto sulla Regione perché approvasse il provvedimento. Così, in appena un paio di mesi, si è arrivati a definire il testo della Legge 16 che, ammette Belosi, per certi aspetti integra e migliora le proposte votate dai Comuni, che comunque sono state accolte al 50%. È l’obiettivo di minimizzare la produzione di indifferenziati, prioritario anche rispetto al recupero di energia negli impianti di incenerimento, a costituire la “rivoluzione copernicana” nella gestione degli Rsu. In pratica, rovesciando il criterio adottato finora, la bussola in base alla quale orientare, incentivare e valutare l’efficacia delle politiche comunali di gestione
Per consentire ai Comuni di raggiungere i target fissati al 2020, la Legge 16 ha istituito tre strumenti volti a premiare le amministrazioni locali e i residenti che ottengono i migliori risultati di riduzione della produzione di indifferenziati. E – viceversa – a penalizzare i più spreconi. Il primo di questi strumenti è il Fondo d’ambito di incentivazione alla prevenzione e riduzione dei rifiuti, finalizzato per metà ad abbassare il costo del servizio di gestione degli Rsu a carico dei cittadini-utenti nei Comuni che raggiungono un alto livello di riduzione degli indifferenziati (per l’esattezza, la quota prodotta per abitante equivalente – considerati quindi anche city user e turisti – deve essere inferiore al 70% della media regionale). L’altro 50% del Fondo è invece destinato a finanziare, sotto forma di incentivo progressivo e automatico, i progetti e gli investimenti dei Comuni dedicati all’incremento della raccolta differenziata, alla riduzione della produzione dei rifiuti. Ma anche alla creazione dei Centri comunali di riuso, dove i beni conferiti dai cittadini verranno sottoposti ad adeguata manutenzione per renderne possibile il reimpiego. In questo modo alle amministrazioni locali più virtuose andranno maggiori risorse e i residenti potranno risparmiare sulla bolletta. Fino al 2020 resterà in vigore questo schema di ripartizione del Fondo, mentre successivamente i due terzi saranno utilizzati per ridurre le bollette e un terzo per finanziare i progetti dei Comuni. Il secondo strumento è il Tributo speciale per il conferimento in discarica degli Rsu, nonché per lo smaltimento dei rifiuti tal quali in impianti di incenerimento senza recupero di energia: tale tributo va a incrementare la preesistente ecotassa sullo smaltimento istituita per legge nel 1996. La ratio che motiva l’incremento è intuitiva: rendere l’opzione smaltimento economicamente poco appetibile e spianare quindi la strada alla chiusura delle discariche attive in Emilia-Romagna. Anche in questo caso saranno penalizzati i Comuni meno virtuosi che producono più indifferenziati, i quali subiranno pertanto un incremento maggiore dell’ecotassa da versare alla Regione. Il terzo strumento innovativo – la tariffazione puntuale – introduce un altro criterio di equità: i cittadini pagheranno la tassa sui rifiuti in ragione della frazione di indifferenziata conferita. Finiscono così in soffitta i sistemi di calcolo basati sulla superficie dei locali dell’abitazione o sul numero dei componenti del nucleo familiare. In questo modo si colma il vuoto normativo che finora aveva impedito ai Comuni di adottare questa metodologia tariffaria che “sulla base delle esperienze esistenti, ha dato prova di contribuire in maniera efficace
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I cittadini pagheranno la tassa sui rifiuti in ragione della frazione di indifferenziata conferita. Finiscono così in soffitta i sistemi di calcolo basati sulla superficie dei locali dell’abitazione o sul numero dei componenti del nucleo familiare.
a ridurre la produzione di rifiuti”, commenta Montalti. “Ora la legge impone a tutti i Comuni di adottarla entro il 2020. Inoltre la tariffa puntuale consentirà alle imprese di recuperare l’Iva sul servizio pagato”, opportunità che in regime di tassa sui rifiuti non esisteva. Tra le politiche regionali introdotte nell’orizzonte dell’economia circolare c’è il dichiarato impegno a promuovere lo sviluppo dell’impiantistica collegata al riuso e al riciclo sia della frazione differenziata sia di quella indifferenziata. E anche “il sostegno alla ricerca sulla frazione di rifiuto residuale, al fine di riuscire a modificare a monte la produzione dei beni attualmente non riciclabili e di favorire così il recupero di materia” sottolinea Michele Giovannini, sindaco di Castello d’Argile (BO) che ha guidato la pattuglia dei colleghi nel confronto con la Regione. Inoltre, per ridurre al massimo la produzione di rifiuti organici e gli impatti ambientali derivanti dalla loro gestione, viene promosso il compostaggio domestico e di comunità, a partire dalle utenze che risiedono in aree agricole o in abitazioni sparse. Anche il sistema di finanziamento del Fondo di incentivazione risponde a un criterio di equità, dal momento che “i Comuni che producono più indifferenziati contribuiranno in maniera maggiore ad alimentarlo”, puntualizza Montalti. Il Fondo infatti (articolo 3 della legge) verrà finanziato in parte con una percentuale che va dal 5 al 15% del costo complessivo di smaltimento degli indifferenziati a carico dei Comuni (costo esplicitato nei piani economico-finanziari comunali e coperto dalla bolletta pagata dagli utenti); in parte (articolo 7) con una quota della succitata ecotassa incassata dalla Regione, percentuale che non è stabilita nella norma e che verrà decisa anno per anno dalla Giunta. Poiché nel testo approvato non è specificata la soglia di dotazione complessiva del fondo, nel corso del dibattito in Assemblea con un collegato alla legge è stato dato mandato alla Giunta di garantire, con proprie risorse, il raggiungimento del tetto minimo di 10 milioni di euro l’anno. Sulla tipologia di raccolta delle frazioni differenziate la Legge 16 non è restrittiva: “Tenuto conto delle esperienze già in corso sul territorio, il provvedimento parla sia di porta a porta sia di sistemi equipollenti in termini di risultato, per evitare di entrare a gamba tesa sul terreno dell’autonomia dei Comuni”, spiega Montalti. Nelle more dell’intervento statale, come metodo di calcolo delle rese della raccolta differenziata al 31 dicembre 2020 verrà comunque assunto quello elaborato da Ispra. Un aspetto interessante della legge riguarda l’allentamento delle maglie in relazione al percorso di affidamento del servizio ambientale: Infatti, recita l’articolo 6 “il gestore del servizio di raccolta potrà essere diverso da quello degli impianti di smaltimento dei rifiuti”, neutralizzando così la tentazione per il gestore unico di scegliere
modalità di raccolta funzionali all’impiego dei propri impianti di incenerimento e discariche, anziché al recupero di materia. Un’altra innovazione riguarda l’arrivo degli ispettori ambientali per la guerra al “rifiuto selvaggio”: ai dipendenti del gestore del servizio di raccolta degli Rsu viene infatti attribuito il ruolo di agenti accertatori: potranno quindi contestare agli utenti i comportamenti che contravvengono alle modalità di raccolta dei rifiuti impartite dai Comuni. Venendo ora al comparto delle imprese, per quelle che innovano ciclo produttivo e prodotti con l’obiettivo di ridurre la produzione di rifiuti, la legge (comma 2 dell’articolo 3) richiama gli incentivi previsti da altri provvedimenti regionali, per esempio per l’assegnazione di fondi europei. Inoltre (comma 3), stabilisce che nel regolamento relativo al corrispettivo del servizio di gestione dei rifiuti si possano prevedere delle agevolazioni per le aziende che attuano azioni finalizzate alla prevenzione della produzione di rifiuti. Ciò con esplicito riferimento sia alle attività benefiche e sociali sia alle iniziative che abbiano ottenuto la formale certificazione del punto vendita sotto il profilo ambientale ed energetico nell’ambito di protocolli di intesa sottoscritti con la Regione (il primo di questi è stato firmato a novembre con Legacoop e altre catene della Grande distribuzione organizzata cooperativa emiliano romagnola). Anche in questo caso si è colmato un vuoto normativo che in passato ha impedito ai Comuni di premiare le imprese del territorio che attivavano iniziative per la riduzione dei rifiuti e il recupero di beni e materia. Approvata la legge, il prossimo passo legislativo che devono ora affrontare Giunta regionale e Assemblea legislativa sarà incardinare nel Piano rifiuti regionale, attualmente in discussione, i nuovi target di riduzione dell’indifferenziata, di raccolta differenziata e riciclo, con particolare riferimento alla revisione della programmazione impiantistica prevista dal piano vigente approvato nel 2011. “Rispetto alla tempistica del nuovo Piano rifiuti ha deliberatamente prevalso la volontà politica di approvare prima la Legge 16 che promuove la riduzione della produzione di indifferenziati e pone obiettivi di differenziata e riciclo più spinti”, sottolinea Montalti. “L’adozione del nuovo Piano richiederà un intenso lavoro perché quello in vigore prevede che delle 30 discariche oggi attive ne rimangano 4, un numero su cui si sta lavorando per renderlo coerente con gli obiettivi della Legge 16. E si sta spingendo anche in materia di inceneritori: la Giunta sta facendo incontri a livello locale poiché si punta a chiuderne alcuni, rivedendo la precedente previsione di piano, come è ovvio che sia alla luce dei nuovi target”.
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Focus
GERMANIA
Riconosciuta come la locomotiva dellâ&#x20AC;&#x2122;economia europea la Germania punta ad affermarsi anche nella bioeconomia. Due le parole chiave: visione e strategia. E un lavoro di squadra che coinvolge imprese, universitĂ e istituzioni partito nel 2010 quando Berlino ha messo sul tavolo 2,4 miliardi di euro per finanziare attivitĂ di ricerca e sviluppo in questo settore.
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la capitale mondiale della bioeconomia?
Visione, strategia e lavoro di squadra: ecco la ricetta vincente tedesca. di Mario Bonaccorso
Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.
Clib2021, www.clib2021.de/en Clariant, www.clariant.com
Wachstum und Stabilität. È su questo binomio che si basa l’economia tedesca dai tempi della Repubblica di Weimar. Crescita e stabilità per un paese che da anni è ormai riconosciuto come la locomotiva dell’economia europea e che oggi punta con decisione ad affermarsi anche nella bioeconomia attraverso una strategia e un lavoro di squadra che coinvolge imprese, università, centri di ricerca e istituzioni. Certo il cosiddetto Dieselgate che ha travolto la Volkswagen potrebbe costare molto caro all’intero sistema industriale tedesco. Si tratta di una botta tremenda per un paese che ha sempre fatto un vanto della propria affidabilità e che rischia di pesare anche sul futuro sviluppo della bioeconomia, soprattutto – dice Manfred Kircher, membro dell’Advisory Board del cluster Clib2021 – “in termini di credibilità percepita da parte delle autorità e dell’opinione pubblica”. Ma che potrebbe anche avere un effetto positivo, spingendo per esempio verso l’alto la crescita dei biocarburanti avanzati. Quest’ultima è almeno la previsione di Hariolf Kottmann, amministratore delegato di Clariant, il colosso chimico attivo in Baviera nella produzione di biocarburanti da scarti agricoli.
I numeri parlano chiaro: il prodotto interno lordo della Germania rappresenta il 29% di quello totale dell’Unione monetaria e il 21% di quello dell’Unione a 28 paesi, con un tasso di crescita che nel 2014 si è attestato all’1,5%. Sul fronte delle finanze pubbliche, il 2014 si è concluso con il secondo maggiore avanzo di bilancio dalla riunificazione a oggi, pari quasi a 12 miliardi di euro. Come conseguenza, il mercato del lavoro continua a dare segnali di ottima salute e rappresenta un fattore stabilizzante dell’economia: il numero degli occupati ha raggiunto nel 2014 il valore più alto negli ultimi otto anni, pari a 42,7 milioni di persone (0,9% in più rispetto al 2013), con un tasso di disoccupazione del 6,7% (febbraio 2014). La Germania è il paese più ricco e industrializzato d’Europa e guarda al futuro con una forza e una visione presi a modello da molti governanti europei. L’industria continua a innovare, a fondersi con le università e viceversa. La contrapposizione tra scienza e filosofia – ha scritto il grande storico italiano Carlo M. Cipolla – i tedeschi l’hanno risolta nell’Ottocento con le Technische Hochschulen (le Università tecniche), creando personaggi come Franz von Baader, l’ingegnere minerario di Monaco di Baviera le cui opere filosofiche influenzarono la filosofia della natura di Friedrich Schelling.
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O Rudolf Diesel, proprio l’inventore dell’omonimo motore protagonista dello scandalo Volkswagen, famoso anche per la sua filosofia internazionalista. Nel 2010, ben prima che fosse presentata la strategia europea sulla bioeconomia (febbraio 2012), Berlino ha messo sul tavolo 2,4 miliardi di euro di fondi per finanziare attività di Ricerca e Sviluppo fino al 2016 nel campo della bioeconomia, all’interno della propria “Strategia di ricerca nazionale Bioeconomia 2030”, che ha posto le basi per un cambiamento nella società e nell’industria fondato sull’impiego delle risorse biologiche. Un lavoro di squadra che ha coinvolto i ministeri della Ricerca, dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, dell’Economia e della Tecnologia, dell’Ambiente, dello Sviluppo economico, della Salute e degli Interni, con la consapevolezza che la bioeconomia come meta-settore richiede una visione strategica di insieme. Un esempio? L’impiego di fondi della ricerca per dare impulso a una maggiore sostenibilità nel settore agricolo attraverso la protezione e la preservazione del suolo. E ancora: il sostegno all’interno della strategia “Biotechnology 2020+” a nuove forme di cooperazione tra le scienze della vita e l’ingegneria per arrivare a creare i prodotti biobased del futuro.
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DI CRESCITA
La collaborazione tra ministero della Ricerca e ministero dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, coadiuvata dall’istituzione – già nel 2009 – del Consiglio per la bioeconomia come organismo consultivo indipendente, ha portato poi alla definizione di una roadmap delle bioraffinerie presenti sul territorio tedesco, dando una rappresentazione molto specifica delle più importanti tecnologie per l’impiego delle risorse rinnovabili a scopi energetici e industriali, e identificando al tempo stesso i principali ostacoli e i bisogni per implementare adeguate politiche di ricerca. Nell’estate del 2013 il Governo federale guidato da Angela Merkel ha presentato la Strategia politica nazionale sulla bioeconomia, con la quale sono stati definiti “obiettivi, approcci strategici e misure per l’impiego di tutto il potenziale utile a generare valore aggiunto e occupazione come parte di una gestione sostenibile e a supportare il cambiamento strutturale verso una bioeconomia”. Al Consiglio si affianca oggi un gruppo di lavoro interministeriale, per una cabina di regia che sviluppi politiche per la ricerca, l’innovazione, l’industria, l’energia, l’agricoltura, l’ambiente e i cambiamenti climatici in grado di far competere la Germania a livello internazionale.
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BioEconomy cluster, en.bioeconomy.de/
Al piano nazionale sono seguite via via singole strategie regionali che hanno posto la bioeconomia al centro dei piani di finanziamento della ricerca. E la bioeconomia si è rafforzata come un punto focale della ricerca di università e istituzioni, come l’Associazione Helmholtz, l’Associazione Leibniz, la Max Planck Society e il Fraunhofer. Dunque tutto rose e fiori? No, ovviamente. “È vero – lamenta, infatti, una manager di una grande impresa tedesca – abbiamo visione e programmazione, ma poi le stesse istituzioni perdono tantissimo tempo per implementare politiche efficaci per il settore. Stiamo ancora aspettando, per esempio, una legge come quella italiana che metta al bando i sacchetti di plastica, nonostante se ne discuta da anni. Alla fine ciò che pesa realmente sono i rapporti di forza tra l’industria che impiega risorse fossili e quella che impiega risorse biologiche”. Il ministero della Ricerca, a ogni modo, presenta
Trend del mercato mondiale delle biotecnologie industriali
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Simboli di questo sistema di collaborazione tedesca sono i cluster. In Germania si trova l’unico cluster in Europa che si richiama direttamente alla bioeconomia: il BioEconomy cluster di Halle, che accoglie un’ampia varietà di attori accademici e industriali di diversi settori integrandoli nel polo chimico già consolidato nell’area. Il parco industriale di Leuna è il più vasto sito chimico della Germania e le prime bioraffinerie a dimensione dimostrativa sono state realizzate qui. Mentre Clib2021, che ha la propria sede a Düsseldorf in Renania settentrionale-Vestfalia, è focalizzato sulle biotecnologie industriali e mette insieme catene di valore non solo intersettoriali ma anche transfrontaliere, con il 30% degli associati che ha sede fuori dalla Germania.
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la Germania come un hub della bioeconomia e i finanziamenti sono indirizzati in via prioritaria al tema della “bioeconomia come cambiamento sociale” all’interno di un programma quadro denominato “Ricerca per la sostenibilità” fondato su quattro pilastri: trasformare la ricerca in innovazione tecnologica, sviluppare un monitoraggio sociale, promuovere gruppi di ricerca junior, finanziare gruppi di ricerca interdisciplinari sui temi sociali, economici e scientifici correlati. Un approccio ancora una volta olistico che punta a mettere insieme tutti gli attori rilevanti nella filiera dell’innovazione attraverso piattaforme e reti che consentano la condivisione di competenze e conoscenze: piccole e medie imprese, grandi gruppi industriali, università, centri di ricerca, cluster, agricoltori, ma anche consumatori, investitori e autorità di certificazione. Questa collaborazione passa anche attraverso le Innovation Alliances, forme di cooperazione strategica tra scienza e impresa con un focus su aree di applicazione specifica o sui mercati del futuro. Il loro scopo è di realizzare un effetto leva degli investimenti impegnando l’industria a un investimento a lungo termine di 5 euro per ogni euro di finanziamento in ricerca ottenuto dal governo federale.
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Il ruolo trainante dell’industria chimica A trainare la bioeconomia made in Germany è l’industria chimica, che condivide l’obiettivo di affrancarsi gradualmente dall’impiego delle limitate risorse fossili e dalla volatilità dei prezzi del petrolio, ma soprattutto di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra nel pianeta. Secondo i dati forniti dall’Associazione di settore (VCI), la Germania nel 2013 è stata il quarto mercato al mondo per la chimica in termini di fatturato, superata solo da Cina, Stati Uniti e Giappone. Ed è di gran lunga il primo mercato europeo, con una quota (circa 200 miliardi di euro) che supera il 25% del fatturato complessivo. A livello mondiale è il primo esportatore di prodotti chimici: con 160 miliardi di euro nel 2013 ha preceduto Stati Uniti, Belgio e Cina. Nello stesso anno gli investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo hanno raggiunto gli 11 miliardi di euro (erano 8 nel 2010). È tedesco
Policy il primo produttore chimico al mondo, Basf con un fatturato mondiale di 74,326 miliardi di euro nel 2014. Ma tedeschi sono anche Bayer (42,239 miliardi), Henkel (16,428), Evonik (12,917), Merck (11,501) e Lanxess (8,006). Secondo Gunter Festel, fondatore e amministratore delegato della Festel Capital, il mercato mondiale dei prodotti chimici derivati dall’impiego di biotecnologie industriali è destinato a crescere dai 92 miliardi di dollari del 2010 ai 228 miliardi del 2015, fino ad arrivare a 515 miliardi del 2020. Ciò significa un incremento annuo di circa il 20%. La chimica sarà quindi sempre più biobased. E le imprese tedesche stanno movimentando il mercato non solo investendo in Ricerca e Sviluppo, ma anche animando le operazioni di Mergers & Acquisitions. Nel novembre del 2013 Basf ha messo le mani sul produttore di enzimi statunitense Verenium per 48 milioni di euro, facendo così il proprio ingresso nel fondamentale mercato degli enzimi fino a quel momento dominato dalla danese Novozymes e dall’americana Dupont. Mercato che, secondo le previsioni della società di ricerca francese ReportLinker, dovrebbe passare da 4,2 miliardi di dollari del 2014 a 6,2 miliardi nel 2020. Nel gennaio del 2012, il colosso chimico di Ludwigshafen ha investito 30 milioni di dollari nell’americana Renmatix, proprietaria della tecnologia Plantrose, che consente di produrre zucchero industriale da biomassa lignocellulosica a costi competitivi. E a fine 2013, con la stessa società ha siglato un accordo per lo scale-up industriale e la futura commercializzazione della tecnologia. Sempre oltre Atlantico, la compagnia chimica tedesca ha siglato un accordo con Genomatica per la produzione di 1,4 butandiolo (BDO) biobased. L’accordo di licenza consente a Basf di costruire un impianto produttivo di scala mondiale per produrre 75.000 tonnellate di bio-BDO all’anno. Il butandiolo e i suoi derivati sono utilizzati per produrre plastica, solventi, fibre elastiche per il packaging, l’industria automobilistica e tessile. Altra partnership di Basf è quella con l’olandese Corbion Purac, che ha dato vita alla joint-venture Succinity GmbH per la produzione di acido succinico biobased. Nel marzo del 2014 le due società hanno reso noto l’avvio positivo del primo impianto di produzione commerciale a Montmelò, in Spagna. Restando nel campo dell’acido bio-succinico, Covestro (ex Bayer Material Science) ha annunciato a ottobre 2015 una partnership con Reverdia (anche questa una joint-venture tra la francese Roquette e l’olandese Royal Dsm) per la produzione di un poliuretano termoplastico (Desmopan) da fonti rinnovabili utilizzabile nell’industria calzaturiera e nell’elettronica di consumo. Nello specifico, Covestro impiegherà nel processo produttivo l’acido bio-succinico Biosuccinium di Reverdia, che lo scorso anno ha ottenuto negli Stati Uniti lo Usda Certified Biobased Product Label, un’etichetta che certifica il suo contenuto biobased al 99%. E le biotecnologie sono parte integrante anche della strategia di crescita
di Evonik, il cui portafoglio prodotti già oggi include aminoacidi, biocatalizzatori per la produzione di biocarburanti e biochemicals, poliammidi e poliesteri biobased. L’attrazione degli investimenti Ma la Germania attrae anche investimenti esteri. La società biotech francese Global Bioenergies ha nel polo chimico di Leuna il proprio impianto dimostrativo per la produzione di isobutene da fonti rinnovabili, per il quale ha ricevuto dal ministero tedesco per la Ricerca un grant di 5,7 milioni di euro. I test vengono svolti in collaborazione con Audi. La svizzera Clariant nel 1997 ha incorporato il business delle specialità chimiche della Höchst e nel 2011 ha concluso l’acquisizione per 1,4 miliardi di euro della bavarese Süd-Chemie, specializzata nello sviluppo di prodotti chimici destinati alle fonderie, resine speciali, componenti per batterie, catalizzatori e imballaggi di precisione. Ma soprattutto proprietaria della bioraffineria lignocellulosica di Straubing, dove Clariant ha continuato a sviluppare il procedimento sunliquid® per la produzione sostenibile di etanolo cellulosico e biochemicals da residui agricoli. La Süd-Chemie è stata incorporata nel Gruppo Biotechnology di Clariant, dedicato esclusivamente alle biotecnologie industriali, con particolare attenzione allo sviluppo di procedimenti e prodotti da risorse rinnovabili. E lo scorso ottobre a Planegg, vicino a Monaco di Baviera, è stato inaugurato ufficialmente il Group Biotechnology Research Center (6.000 metri quadrati di uffici e laboratori totalmente dedicati alle biotecnologie industriali), che si affianca al Clariant Innovation Center di Francoforte. Ogni anno la società svizzera spende 30 milioni di euro per aumentare la capacità del proprio stabilimento bavarese di produrre bioetanolo da paglia di grano. “Se tra qualche anno misureremo l’impatto globale della vicenda Volkswagen, troveremo che ha spinto la diffusione dei biocarburanti”, ha dichiarato al giornale tedesco Euro am Sonntag Hariolf Kottmann, l’amministratore delegato di Clariant. Il quale si è detto anche convinto che tra due-quattro anni le vendite e gli utili legati al bioetanolo avranno un’impennata.
“Se tra qualche anno misureremo l’impatto globale della vicenda Volkswagen, troveremo che ha spinto la diffusione dei biocarburanti.”
La Germania al centro del mondo con il Global Bioeconomy Summit Per ribadire la propria ambizione di guidare la bioeconomia made in Eu, Berlino ha ospitato a fine novembre il Global Bioeconomy Summit, patrocinato dalla Fao e dalla Commissione europea: 700 delegati provenienti da tutto il mondo (tra cui Colombia, Malesia, Argentina, Brasile e persino dallo Stato Pontificio) per discutere di strategie a sostegno della nuova economia basate sulle risorse biologiche. Perché la Germania sa che la bioeconomia si può sviluppare solo a livello globale, condividendo visione e governance per uno sviluppo sostenibile del pianeta.
Global Bioeconomy Summit 2015, gbs2015.com/home/
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materiarinnovabile 08. 2016 Intervista
Strategia e forte base industriale: le chiavi del successo green made in Germany Manfred Kircher, membro del Comitato consultivo di Clib2021
“Una delle conseguenze dello scandalo delle VW sarà che le autorità non crederanno più alle aziende. Le autorità controlleranno con maggiore scrupolo le dichiarazioni delle aziende per quanto riguarda le performance. Questa potrebbe diventare la prassi per qualsiasi dichiarazione di rilevanza industriale, inclusa la riduzione di emissioni di gas serra attraverso l’utilizzo di biocombustibili e le materie prime biologiche. La bioindustria dovrebbe cercare di evitare di fornire alle autorità e al pubblico qualsiasi informazione non realistica e fuorviante.” La riflessione è di Manfred Kircher, membro dell’Adivisory Board di Clib2021, il cluster tedesco delle biotecnologie industriali, una delle voci più influenti della bioeconomia tedesca ed europea. In questa intervista con “Materia Rinnovabile”, Kircher parla non solo delle conseguenze che potrà avere il cosiddetto Dieselgate sulla bioeconomia in Germania, ma anche dei punti
Il Consiglio per la bioeconomia Nel 2009, il Ministero federale per l’Istruzione e la Ricerca (Bmbf) e il Ministero federale dell’Alimentazione, dell’Agricoltura e la Protezione dei consumatori (Bmelv) crearono il Consiglio per la bioeconomia come ente di consulenza indipendente per il governo federale tedesco. Il compito principale degli attuali 17 membri del Consiglio, le cui competenze coprono l’intero spettro della bioeconomia, è di trovare metodi e mezzi per soluzioni sostenibili e di presentare le loro idee in un contesto globale. Il Consiglio per la bioeconomia si riunisce regolarmente per redigere dichiarazioni di posizione e fornire consulenze specialistiche, organizzare incontri su tematiche attinenti e promuovere la visione della bioeconomia all’intera società. Le attività sono orientate sia verso obiettivi di lungo periodo sia verso i requisiti della politica in vigore. All’inizio del 2012, come previsto, il Consiglio per la bioeconomia ha completato il suo primo periodo di attività; l’estate seguente, il governo federale ha nominato un nuovo comitato con lo stesso nome che ha iniziato la sua attività nell’autunno dello stesso anno. Nella scelta dei membri è stata data pari importanza all’area dell’economia, della scienza e della società. (Fonte: www.biooekonomierat.de)
di forza di un sistema che da tempo si è dotato di una strategia e di ciò che adesso Berlino si aspetta dall’Unione europea per favorire lo sviluppo ulteriore di questo meta-settore. Quali sono stati finora i principali risultati ottenuti dalla bioeconomia in Germania? “Le bioindustrie tedesche sono attive in tutti i principali settori: farmaceutico (Sanofi a Francoforte è il leader mondiale nella produzione di insulina), additivi alimentari e per mangimi (Evonik è l’unica azienda che produce L-amminocidi per l’industria), enzimi per alimenti, mangimi, applicazioni per beni di consumo e industriali, platform chemical biologici, polimeri, lubrificanti, adesivi, biocombustibili. E biogas, settore dove la Germania è il numero uno con oltre 8.000 impianti produttivi. A produrre tutti questi beni sono aziende come Basf, Evonik, Henkel, ma anche piccole e medie imprese molto conosciute come Brain, evocatal e c-LEcta, giusto per fare qualche nome. Poiché la bioeconomia è diventata una materia di studio all’università, stanno nascendo sempre più start-up promettenti.” Quanto è importante la presenza di una strategia nazionale per lo sviluppo della bioeconomia in Germania? “La strategia nazionale gioca un ruolo fondamentale nell’armonizzazione dei dati sia a livello federale sia statale, come pure nei programmi di settore e in quelli privati inter-istituzionali. Inoltre, aiuta anche
Policy Mappa delle bioraffinerie Da anni in Germania ci si occupa di bioraffinerie. Pertanto sono in diverse fasi di realizzazione tutta una serie di attività che mirano a esplorare e sviluppare vari modelli di bioraffinerie. Ecco alcuni esempi: • Bioraffinerie per lo zucchero/amido utilizzando cereali/barbabietole da zucchero. Aziende: Südzucker/ CropEnergies a Zeitz (Sassonia-Anhalt). • Bioraffineria per materiale lignocellulosico derivante da legno gestita da un consorzio coordinato da Dechema come parte del Fraunhofer Center for ChemicalBiotechnological Processes nel polo chimico di Leuna (Sassonia-Anhalt). • Bioraffineria di materiale lignocellulosico derivante da paglia del Group Biotechnology della Clariant a Monaco di Baviera e Straubing (Baviera). • Bioraffineria verde per foraggio insilato della Biowert a Brensbach (Hesse). • Bioraffineria verde per foraggio insilato della Biopos a Selbelang (Brandeburgo). • Bioraffineria per gas di sintesi da paglia della Kit a Karlsruhe (Baden-Württemberg). (Fonte: www.bundesregierung.de)
i ministeri coinvolti (Agricoltura, Economia, Ecologia) a semplificare le attività di finanziamento pubblico. Nel complesso, la strategia nazionale funziona come linea guida ben accetta da tutte le parti interessate.” Qual è il ruolo del Consiglio per la bioeconomia in Germania? “Il Consiglio per la bioeconomia funge da interfaccia tra i portatori d’interesse pubblici e privati. Il Consiglio non solo elabora la strategia nazionale consultandosi con le autorità governative e le associazioni che rappresentano l’industria, la comunità scientifica e la società civile, ma la comunica anche alle parti interessate.” Quali tipi di bioraffinerie ci sono in Germania? “Ci sono tre tipi di bioraffinerie. 1) Impianti di produzione singoli: per esempio raffinerie dello zucchero (derivati dello zucchero), oleifici (lubrificanti, biodiesel), fabbriche di prodotti chimici (polimeri biologici), impianti di fermentazione (medicinali) e per i biogas ecc. 2) Poli chimici con unità produttive biobased che utilizzano in cascata l’intero flusso di materiali: ne è un esempio Frankfurt-Hoechst dove tutto il flusso di materiali confluisce nel più grande impianto industriale per la produzione di biogas d’Europa; fornisce gas persino alla rete pubblica. 3) Nuove bioraffinerie da integrare nei poli chimici, come l’impianto pilota della Fraunhofer a Leuna che si concentra esclusivamente sulla produzione di platform chemical da biomassa legnosa.”
Secondo lei, cosa rende la Germania così attraente per gli investimenti nella bioeconomia? “Credo – tra le altre cose – che gli investitori apprezzino il mercato interno, l’accesso ai mercati globali e i costi di produzione. Per quanto riguarda il mercato interno, i prodotti biologici sono ben accettati e poiché la Germania è un asso dell’esportazione è anche posizionata bene nei mercati esteri. Benché alcuni costi di produzione, come quelli per il personale, siano più elevati in Germania rispetto ad altre regioni, il paese può contare su altri pilastri della concorrenza. Per esempio, infrastrutture eccellenti, qualità del personale, un sistema politico e amministrativo affidabile e favorevole. Da questo punto di vista, anche il Consiglio per la bioeconomia può essere considerato come un fattore concorrenziale.” La Clariant ha dichiarato che lo scandalo della Volkswagen favorirà la diffusione del biodiesel. Lei cosa ne pensa? Quali sono – e quali saranno – i benefici di questo evento per la bioeconomia sia in Germania sia a livello globale? “Una delle conseguenze dello scandalo della VW sarà che le autorità non crederanno più alle aziende. Le autorità controlleranno con maggiore scrupolo le dichiarazioni delle aziende per quanto riguarda le performance. Questa potrebbe diventare la prassi per qualsiasi dichiarazione di rilevanza industriale, inclusa la riduzione di emissioni di gas serra attraverso l’utilizzo di biocombustibili e materie prime organiche. La bioindustria dovrebbe evitare di fornire alle autorità e al pubblico qualsiasi informazione non realistica e fuorviante.” Alla fine di novembre, la Germania ha ospitato il Global Bioeconomy Summit. Dal punto di vista tedesco, cosa dovrebbe fare l’Unione europea per sostenere ulteriormente la bioeconomia e diventare competitiva a livello mondiale? “Primo, i prodotti della bioeconomia devono diventare competitivi di per sé. Però i processi e i prodotti biologici non possono competere fin dall’inizio con le alternative fossili i cui costi si sono ridotti nei decenni. I prodotti biologici devono avere l’opportunità di sfruttare la curva di apprendimento dell’ottimizzazione dei processi. Il finanziamento di impianti pilota e dimostrativi attraverso l’attuale programma Horizon2020 è dunque la strada da seguire, ma dovrebbero anche essere eliminate le barriere al coinvolgimento dei privati. Secondo, oltre alle (limitate) biomasse, i nuovi bioprocessi di riciclo del carbonio da fonti gassose forniscono un’altra possibilità per sostituire il carbonio fossile. Nonostante queste tecnologie non facciano differenza tra carbonio di origine biologica o fossile, questo riciclo del carbonio dovrebbe essere accettato come sostenibile dalla normativa in materia. Terzo, benché i prodotti chimici in termini economici generino un valore aggiunto in media 7 volte superiore rispetto agli investimenti in energia e inoltre creino più posti di lavoro, le politiche europee danno priorità ai biocarburanti e all’energia. Sarebbe opportuno sostenere entrambi i settori in modo più equilibrato.”
Benché alcuni costi di produzione, come quelli per il personale, siano più elevati in Germania rispetto ad altre regioni, il paese può contare su altri pilastri della concorrenza. Per esempio, infrastrutture eccellenti, qualità del personale, un sistema politico e amministrativo affidabile e favorevole.
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Focus Germania
Le nuove frontiere della BIOECONOMY Intervista a Christine Lang a cura di Mario Bonaccorso
Christine Lang è una delle fondatrici e direttore generale di ORGANOBALANCE GmbH. Presidente dal 2012 del Consiglio tedesco per la bioeconomia, dal 1993 insegna Genetica e Biotecnologia alla Technische Universität di Berlino.
ORGANOBALANCE GmbH, www. organobalance.de/en/ index.html
“La bioeconomia non può più essere vista unicamente come mezzo per sostituire le materie prime fossili. Si basa sulla combinazione di risorse rinnovabili e innovazione e fa da traino all’efficienza delle risorse e alla crescita verde.” Ad affermarlo, in questa intervista con Materia Rinnovabile, è Christine Lang, presidente del Consiglio per la bioeconomia tedesco. Con Lang abbiamo discusso della bioeconomia in Germania, della strategia del governo federale tedesco, del ruolo del Consiglio e della percezione dell’opinione pubblica tedesca. “È importante – sostiene Christine Lang – agire e discutere con onestà nel contesto del dibattito pubblico e comunicare benefici e sfide in modo trasparente”. La Germania detiene una posizione leader a livello internazionale nell’avviamento della bioeconomia. Alla fine del 2010 il suo paese è stato uno tra i primi a pubblicare la ricerca interdipartimentale National Research Strategy BioEconomy 2030 che abbracciando un arco temporale di sei anni, ha definito così la rotta per una trasformazione biobased dell’industria e della società. Qual è la situazione attuale della bioeconomia in Germania? “La bioeconomia in Germania ha un forte sostegno da parte del governo federale. Ciò è dovuto – non da ultimo – alla National Research Strategy Bioeconomy 2030, che ha ricevuto fondi per 2,4 miliardi di euro, e alla National Policy Strategy Bioeconomy. In una recente pubblicazione che analizza la competitività della bioeconomia in Germania, il Consiglio sostiene che l’economia è indietro nell’uso delle risorse rinnovabili. Secondo la nostra analisi ciò è dovuto all’eccezionale forza economica della Germania che rende
difficile per le aziende modificare la propria struttura. Il Consiglio si sta appellando con forza affinché le aziende guardino avanti anticipando il cambiamento necessario nell’utilizzo delle risorse.” Quali sono i pilastri della strategia tedesca? “La Research Strategy 2030 illustra cinque campi d’azione: sicurezza alimentare globale, produzione agricola sostenibile, sana alimentazione, utilizzo industriale delle risorse rinnovabili e bioenergia. I dibattiti più recenti indicano che il dialogo e il monitoraggio all’interno della società potrebbero svolgere un ruolo più rilevante in futuro, e ci aspettiamo una nuova strategia dopo le scadenze del 2016. Tuttavia, dopo un intenso dibattito, l’utilizzo della bioenergia come materia prima sarà – più o meno – basato unicamente su scarti e rifiuti.” In questo contesto qual è il ruolo del Consiglio per la bioeconomia in Germania? “Il Consiglio ha tre priorità: innanzitutto consulenza alla policy su come migliorare le condizioni strutturali per la bioeconomia in Germania, principalmente offrendo una prospettiva internazionale; in secondo luogo promuovere la cooperazione internazionale e infine continuare e portare avanti il dialogo con la società.” La bioeconomia richiede anche una trasformazione culturale. Come è percepita la bioeconomia dall’opinione pubblica tedesca? “Non abbiamo dati a disposizione, ma la mia opinione personale è che solo una minima parte della popolazione tedesca sa esattamente cos’è
Policy
ricavati dal tarassaco. Si impara di più toccando con mano i prodotti della bioeconomia che non leggendo libri...”
Consiglio per la bioeconomia (Bioökonomierat), www. biooekonomierat.de/en/
Ministero federale tedesco dell’istruzione e della ricerca (BMBF), National Research Strategy BioEconomy 2030, Berlino 2011; tinyurl.com/z9aaqp3
Ministro federale tedesco dell’alimentazione e dell’agricoltura (BMEL), National Policy Strategy Bioeconomy, Berlino 2014; tinyurl.com/je24s8q
la bioeconomia. Il termine tedesco porta poi a fraintendimenti, perché tende a far confondere l’ecologia con l’economia, e in effetti la bioeconomia non è né una né l’altra, ma in qualche modo sta a metà tra le due. La bioeconomia non può più essere vista unicamente come mezzo per sostituire le materie prime fossili. Si basa sulla combinazione di risorse rinnovabili e innovazione e fa da traino all’efficienza delle risorse e alla crescita verde. È importante agire e discutere onestamente nel contesto del dibattito pubblico e comunicare benefici e sfide in modo trasparente. Il Consiglio ha ottenuto reazioni molto positive in seguito a una mostra di prodotti biobased, per esempio una gonna prodotta dal latte o pneumatici
Gli interrogativi fondamentali del ventunesimo secolo non riguardano l’eventuale inizio dei cambiamenti climatici, la misura della crescita della popolazione mondiale e la definizione di quanto le emissioni di combustibili fossili debbano essere abbassate, ma come l’economia e la società saranno in grado di affrontare questi sviluppi nel migliore dei modi, e come la ricerca e l’innovazione possono contribuire in questo senso. Dal suo punto di vista, com’è possibile mettere insieme ecologia ed economia? “È chiaro che senza modifiche sostanziali, il continuare con le emissioni di gas a effetto serra e i relativi cambiamenti delle condizioni climatiche danneggeranno in modo irreversibile l’ecosistema globale, comportando rischi economici incalcolabili. Nonostante ciò, come scienziata resto ottimista sul fatto che l’innovazione porterà a nuove soluzioni e che i più pressanti problemi globali potrebbero essere risolti. Però dobbiamo agire adesso. Uno dei più grandi problemi contemporanei è costituito dalle ineguaglianze globali, che portano a insoddisfazione, guerre e migrazione. La bioeconomia ha il potenziale di aggiungere soluzioni alla lotta alla povertà e alla fame. Tutto ciò è stato oggetto di discussione durante il Global Bioeconomy Summit organizzato dal Consiglio tedesco il 25-26 novembre scorso. L’esito della conferenza è stato un comunicato che definiva i fondamenti di una bioeconomia sostenibile e globale. Aspiriamo a un’agenda globale che renda la bioeconomia parte del dibattito trasversale sullo sviluppo sostenibile e sulla mitigazione dei cambiamenti climatici.” I temi della bioeconomia sono fortemente interconnessi a quelli dell’economia circolare. Che misure sta prendendo il governo tedesco in questo ambito? “L’economia circolare è un argomento molto importante nel campo dell’efficienza delle risorse. Tre anni fa il governo tedesco ha modificato la ‘Kreislaufwirtschaftsgesetz’, la legge più rilevante per il trattamento dei rifiuti e per sostenere il riciclaggio, la conservazione e l’efficienza delle risorse. Pensiamo che sia un compito importante allineare i principi di una bioeconomia sostenibile a quelli dell’economia circolare.” Quali sono i principali ostacoli alla realizzazione della bioeconomia in Germania e nell’Unione europea? “La mancanza di capitale, la difficoltà nell’applicazione industriale e nella diffusione del concetto di bioeconomia all’interno della società.”
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AUTOMOBILE:
il design strizza l’occhio ai nuovi materiali
di Marco Capellini
Bambù, sughero, lino, lana, legno. Ma anche bucce pomodoro. Sono solo alcuni dei materiali sperimentati da molte case automobilistiche per produrre vetture più efficienti, leggere e con consumi ridotti. Il design e la progettazione dei nuovi veicoli sono sempre più rivolti alla ricerca di soluzioni di performance legate a consumi e materiali. Da una parte la necessità di produrre motori sempre più efficienti, in grado di consumare meno carburante e di
contenere le emissioni di CO2. Dall’altra la scelta di materiali performanti e leggeri al fine di ridurre il più possibile il peso del veicolo. Consumi e materiali sono un binomio che negli ultimi anni ha visto lo sviluppo di soluzioni progettuali
Case Histories
Marco Capellini, tra i primi a occuparsi in Italia di design per la sostenibilità. Ceo di Matrec – Sustainable Materials & Trends.
che hanno portato a significativi miglioramenti dal punto di vista dei consumi. In questo contesto molte case automobilistiche hanno iniziato a sviluppare e utilizzare materiali a elevata valenza ambientale, spesso sperimentandone di nuovi, di origine naturale o riciclati. Queste soluzioni progettuali, introdotte nei veicoli di diverse case automobilistiche, sono la dimostrazione che qualcosa è veramente cambiato. Rispettando le rigide norme di sicurezza a tutela del veicolo e del guidatore, l’innovazione sostenibile è una strada percorribile anche in un
settore complesso come quello degli autoveicoli. Nell’ultimo anno abbiamo condotto diverse ricerche sul tema dei materiali ambientalmente sostenibili per veicoli, collaborando con aziende del settore automotive che sono alla ricerca di nuove soluzioni. Bambù, caffè, sughero, lino, lana, legno e canapa sono solo alcuni dei materiali oggetto di sperimentazioni per componenti di arredo del veicolo o di impiego strutturale. E sono molte le soluzioni, adottate per veicoli già in commercio o sviluppate per progetti di concept car, che aiutano a comprendere lo stato dell’arte in termini di ricerca dei materiali.
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Rispettando le rigide norme di sicurezza a tutela del veicolo e del guidatore, l’innovazione sostenibile è una strada percorribile anche in un settore complesso come quello degli autoveicoli.
Pensata per l’ambiente urbano e con trazione esclusivamente elettrica, la BMW i3 è una vettura che nasce includendo tutti i concetti di sostenibilità. A partire già dal fatto che nello stabilimento di produzione del veicolo viene utilizzata solo energia autogenerata da fonte rinnovabile. Gli interni della vettura sono caratterizzati dall’uso di materiali naturali e rinnovabili: fibra di kenaf per i rivestimenti delle portiere, pelle conciata al naturale per i sedili e parti di rivestimento, sedili realizzati con tessuti composti anche fino al 100% da fibre riciclate. Altre sperimentazioni di BMW hanno portato all’impiego di pelle di salmone derivata dal riciclo dell’industria alimentare per alcuni rivestimenti interni, di bambù e legno certificato per i piani di appoggio e parti del cruscotto. Anche Ford ha avviato da anni sperimentazioni in tal senso utilizzando nuovi materiali. I diversi risultati di queste sperimentazioni sono già presenti in alcuni veicoli, per esempio tessuti riciclati e componenti in bioplastica. Inoltre i ricercatori di Ford in collaborazione con quelli di Heinz (azienda conosciuta per il Tomato Ketchup) hanno sviluppato una tecnologia per ricavare bioplastiche dalle fibre del pomodoro: le bucce dei pomodori essiccate potrebbero diventare staffe
Gli interni della Peugeot Exalt sono realizzati riciclando il quotidiano francese “Le Figaro” tanto che in alcuni punti sono ancora visibili le lettere stampate del giornale.
di supporto dei cavi dell’impianto elettrico o piccoli vani portaoggetti. Grazie a una progettazione – in alcuni casi – molto spinta, anche Peugeot ha proposto diverse concept car a valenza ambientale. Ne è un esempio Exalt, realizzata con una particolare attenzione nella scelta dei materiali impiegati al fine di garantire un approvvigionamento il più vicino possibile ai mercati di vendita del veicolo. In pratica, nel mercato cinese gli interni sono realizzati in legno di ebano (scelta adottata vista l’abbondante presenza di questi alberi in Asia), mentre in quello europeo si è preferito utilizzare il NewspaperWood, materiale realizzato con carta di giornali riciclati. Nello specifico gli interni della Peugeot Exalt sono realizzati riciclando il quotidiano francese Le Figaro – dal colore e dall’aspetto molto simile al legno scuro – tanto che in alcuni punti sono ancora visibili le lettere stampate del giornale. Con la stessa filosofia, Peugeot 208 Natural, ideata e progettata dal team styling presso il centro tecnico di San Paolo, utilizza materiali riciclati, alcuni dei quali reperiti localmente. Tra questi: fibra di carbonio proveniente dal settore aeronautico, pelle di pesce Pirarucu trattata con tinture vegetali, bambù e carta riciclata. Ricerca e sviluppo sono dunque in continua evoluzione e portano a progetti come quello nato dalla collaborazione tra la Jaguar Land Rover e il compaundatore tecnico Luxus, co-finanziato dall’iniziativa Eco-innovation dell’Unione europea, al fine di promuovere la commercializzazione di una gamma di composti a base di polipropilene leggero, con oltre il 60% di contenuto riciclato. Questo materiale sarà destinato al mercato dei rivestimenti interni delle auto in Europa, consentendo al settore automobilistico di aumentare l’impiego di polimeri riciclati, al fine di rispettare gli obiettivi legislativi fissati per i veicoli a fine vita (Elv). Infine da segnalare Biofore, una concept car realizzata con biomateriali innovativi
Case Histories per il settore automobilistico. La maggior parte delle componenti tradizionali a base di materie plastiche, è stata sostituita con nuovi biomateriali prodotti da Upm Formi e Upm Grada. I due materiali, il primo in fibra di cellulosa composita e plastica rinforzata e il secondo in legno certificato, sono riciclabili
e contribuiscono a migliorare significativamente le prestazioni ambientali complessive del veicolo considerando l’intero ciclo di vita. Sicuramente l’introduzione di norme a favore del principio di un’economia circolare aiuterà a rendere più credibili anche per i nuovi veicoli che andremo a guidare le soluzioni sostenibili adottate a oggi per le concept car.
Info www.matrec.com
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GERMOGLI di bioeconomia di Giorgio Lonardi
Giorgio Lonardi, giornalista di economia e finanza.
Raccolta differenziata dei fondi di caffè poi utilizzati come fertilizzante per orti e fiori. Recupero di aree degradate riportate a orti grazie a pratiche virtuose. Sostituzione nelle mense scolastiche della plastica tradizionale con quella biodegradabile. Questi alcuni dei progetti sostenuti da Fondazione Cariplo per unâ&#x20AC;&#x2122;economia piĂš collaborativa e sostenibile.
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“La nostra strategia ha una serie di princìpi ispiratori. A cominciare dalla tutela del capitale naturale, un tema che ci sta molto a cuore. E dalla gestione efficiente delle risorse e dei beni comuni che deve essere condivisa perché le risorse naturali, come l’acqua, l’aria, il suolo, sono beni di assoluto interesse per le comunità.” Parla schiettamente Elena Jachia, direttore dell’Area Ambientale di Fondazione Cariplo. Ed espone quei princìpi che da una parte indicano le linee guida degli investimenti della Fondazione a difesa dell’ambiente. Mentre dall’altra spiegano come per la Fondazione stessa la crescita della bioeconomia faccia parte di questo disegno complessivo. “Salvaguardare il capitale naturale”, afferma Jachia, “significa anche sviluppare quelle attività economiche che contribuiscono alla salvaguardia stessa”. Poi precisa: “Noi puntiamo a una economia più collaborativa, più sostenibile, a un’economia circolare che sia attenta all’uso delle risorse, a evitare gli sprechi e al recupero e al riutilizzo di tutti i materiali e le risorse.” Insomma, per Fondazione Cariplo la tutela del capitale naturale è la cornice in cui inquadrare il sostegno nei confronti di quei progetti che sono in grado di sviluppare elementi o “germogli” di bioeconomia. Fondazione Cariplo è un soggetto filantropico che concede contributi a fondo perduto alle organizzazioni del terzo settore per la realizzazione di progetti di utilità sociale. Ed è in assoluto il maggior donatore nel panorama nazionale finanziando iniziative nei settori dell’arte e della cultura, della ricerca scientifica e dei servizi alla persona oltre che nell’ambiente. A questo proposito va ricordato che nel 2014 la Fondazione ha investito in Lombardia e nelle province di Novara e Verbania più di 11 milioni di euro solo nell’area ambientale: il 2,8% in più dell’anno precedente.
Certo, è difficile individuare una quota destinata espressamente all’economia circolare e alla bioeconomia. Tuttavia non mancano iniziative che vanno in questo senso. Un bell’esempio dell’impegno di Fondazione Cariplo nell’ambito della bioeconomia è offerto da “Caffè in campo! Verso la strategia zero rifiuti”, iniziativa che ha coinvolto cinque comuni del Parco Agricolo Sud Milano ed è stata finanziata tramite il bando “Costruire comunità sostenibili” il cui obiettivo era: “Contribuire allo sviluppo di iniziative finalizzate a una gestione del ciclo delle risorse efficiente e sostenibile nelle comunità locali”. A guidare questa esperienza è stato il consorzio Cantiere Aperto mentre “Venti sostenibili”, un’associazione di giovani ingegneri esperti di sostenibilità, design e informatica, ha avuto un ruolo più operativo. Al progetto hanno inoltre partecipato la Sasom, la società che gestisce il verde pubblico e i rifiuti nel sudovest milanese, e la Scuola Agraria del Parco di Monza. Il risultato più interessante di “Caffè in campo” è stato la creazione di una rete per la raccolta differenziata dei fondi di caffè che ha coinvolto una sessantina di esercenti pubblici fra alberghi, bar, mense e ristoranti. Fino al punto di raccogliere ogni mese circa due quintali di caffè esausto. “Il nostro scopo”, spiega Giulia Detomati, fondatrice di Venti Sostenibili, “è stato intanto quello di differenziare meglio i rifiuti organici in modo che possano passare dall’essere un costo per la comunità – come lo sono ora – a una risorsa. E quindi in grado di creare nuove filiere di business. Ecco perché abbiamo puntato sui fondi di caffè, particolarmente adatti a concimare le terre locali vocate all’orticoltura”. E in effetti quei due quintali di fondi di caffè recuperati ogni mese sono stati utilizzati come fertilizzanti per fiori e orti. “Ma anche per la coltivazione di funghi commestibili”,
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Gli orti resilienti di Carate Brianza oltre a costituire di fatto un’integrazione al reddito per molte famiglie in difficoltà educano gli abitanti a vivere all’interno di una filiera produttiva biosostenibile.
precisa Detomati, “come il Pleurotus ostreatus. Abbiamo costruito una filiera produttiva corta coinvolgendo alcune cascine della zona che hanno imparato ad apprezzare le qualità di questo nuovo concime del tutto naturale”. Purtroppo, però, l’esperimento del Parco Agricolo Sud Milano ha avuto un limite: quello di essere stato, appunto, solo un esperimento. Le normative attuali, infatti, non riconoscono ai fondi di caffè lo status di “materia prima seconda” impedendo quindi la creazione di una rete stabile di questo processo. Ma Giulia Detomati rimane convinta della bontà dell’iniziativa. Dice: “Intanto il test è stato positivo: abbiamo verificato che quello che veniva considerato un rifiuto può essere utilizzato a vantaggio di tutti come materia prima seconda. E questo ci darà forza per un altro tipo di battaglia tesa a modificare la normativa a vantaggio dell’ambiente e delle comunità. Abbiamo anche sviluppato e promosso un’app ‘Junker’ che aiuta gli abitanti dei cinque comuni a orientarsi meglio per quanto riguarda la raccolta differenziata. Junker, infatti, risponde a una semplice domanda: dove lo butto? Il progetto si è sviluppato attraverso un contatto continuo con il territorio, la popolazione, gli enti locali e i pubblici esercenti. Ci sono stati incontri sul compostaggio, sul raggiungimento dell’obiettivo rifiuti zero e ovviamente sul caffè”. In effetti il coinvolgimento attivo delle comunità locali è uno degli elementi che accomuna i
progetti finanziati da Fondazione Cariplo. Lo confermano anche i bandi sulle “Comunità resilienti” che di fronte al rischio di shock ambientali si propongono “di definire nuove strategie che integrino obiettivi di tutela del capitale naturale e di sviluppo sostenibile con efficaci azioni di mitigazione e adattamento”. E quindi puntano a “rafforzare la resilienza dei sistemi territoriali, cioè la loro capacità di assorbire shock e stress, reagendo attraverso azioni appropriate che consentano di moderare i danni e far fronte alle conseguenze”. Anche in questi casi la Fondazione “ritiene indispensabile un approccio che preveda il coinvolgimento delle comunità e permetta di individuare le soluzioni più adeguate ai contesti locali”. Lo sa bene Arnaldo Barni, alla guida di Demetra Onlus, capofila del progetto “Orti resilienti di Carate Brianza”, condotto in partnership con l’Associazione Vivere Giovani Acli, l’Associazione Socio Culturale Cca e il Comune di Carate Brianza. “Il nostro obiettivo”, afferma, “non è stato solo quello di recuperare aree degradate utilizzate in passato come orti per riportarle alla funzione originaria ricorrendo a pratiche virtuose come il compostaggio, la permacultura e la riduzione progressiva e quindi l’eliminazione dei pesticidi con la contemporanea riduzione dei rifiuti in una logica di economia circolare. Ma anche di aumentare la socialità e la collaborazione fra i cittadini di Carate”. A sostegno di questa tesi,
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©WikiCommons / Andrea from Vancouver
Per Fondazione Cariplo la tutela del capitale naturale è la cornice in cui inquadrare il sostegno nei confronti di quei progetti che sono in grado di sviluppare elementi o “germogli” di bioeconomia.
Barni sottolinea che su 28 orti 18 sono stati riservati agli anziani, otto alle famiglie e due alla comunità. “Il vincolo che abbiamo posto nel progetto”, precisa Barni, “è che tutti coloro che ottengono la conduzione di un orto s’impegnino a coltivare almeno per un’ora alla settimana le aree comuni”. Ma non è tutto. Perché gli orti resilienti di Carate Brianza oltre a costituire di fatto un’integrazione al reddito per molte famiglie in difficoltà educano gli abitanti a vivere all’interno di una filiera produttiva biosostenibile. E destinano la sovraproduzione a organizzazioni benefiche come la Caritas. Un altro esempio interessante è offerto dal progetto dedicato alla “Capra bionda dell’Adamello” che vede come capofila Gal Vallecamonica Val di Scalve. Questo progetto si muove più chiaramente all’interno di una logica di mercato: accanto all’esigenza di scongiurare l’estinzione di una specie considerata a rischio dalla Ue e che per secoli è stata una risorsa importante per la Vallecamonica e la Valsaviore, si punta alla costruzione di una filiera economica sostenibile. Da qui la scelta di costruire un centro polifunzionale per la tutela di questa razza autoctona che sviluppi un piano di selezione e ripopolamento. E che nel contempo sia uno spaccio e un caseificio per la produzione e la commercializzazione del “fatulì”, famoso formaggio della zona.
Un caso a parte, infine, è quello di “Ri-Ponte”, un progetto localizzato nel quartiere milanese di Ponte Lambro e affidato come capofila a Fondazione Lombardia per l’Ambiente. L’iniziativa coinvolge la popolazione e numerosi attori locali: da Amsa, l’azienda che gestisce i rifiuti e la pulizia della strade in città, a Milano Ristorazione, la società del Comune che fornisce 80.000 pasti al giorno agli alunni delle scuole, il Comune stesso, quindi Ecoistituto della Lombardia e il Laboratorio di quartiere. Nel quadro di Ri-Ponte, come racconta Mita Lapi, responsabile dell’Area di ricerca Sviluppo Sostenibile per Fondazione Lombardia per l’Ambiente, ci sono state decine di iniziative per fare di Ponte Lambro un quartiere resiliente che punta a ridurre la produzione di rifiuti plastici. Ebbene, due delle iniziative di “Ri-Ponte” rientrano a pieno titolo in una logica bioeconomica. La prima riguarda la vendita di detersivi ecologici sfusi presso il Mercato coperto comunale: un esperimento che ha coinvolto la popolazione mettendola a contatto con una forma nuova di consumo. Il secondo esperimento, più ambizioso, è stato condotto assieme a Milano Ristorazione e ha riguardato la sostituzione della plastica nella mensa scolastica con una bioplastica biodegradabile. Sarà una coincidenza ma – quasi contemporaneamente al test di Ponte Lambro – proprio Milano Ristorazione ha adottato i piatti biodegradabili e compostabili nelle mense di tutte le scuole della città.
Info www.fondazionecariplo.it/ it/index.html www.caffeincampo.it
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Rubriche Profondo blu
Piccole aziende blu crescono Ilaria Nardello è direttore esecutivo del Centro europeo risorse biologiche marine (Embrc), l’infrastruttura europea per la ricerca scientifica e applicata sulla biologia e gli ecosistemi marini.
Cambiamento climatico e degrado ambientale, approvvigionamento sostenibile di cibo ed energia, salute umana e invecchiamento della popolazione: queste alcune delle sfide che i paesi europei si trovano ad affrontare oggi. In questo contesto, la biotecnologia marina può – e deve – dare un contributo importante alla ripresa economica, alla crescita, alla creazione di posti di lavoro e allo sviluppo delle economie intelligenti e green d’Europa. Il progetto Atlantic Blue Tech ha esaminato la maturità di questo settore, nelle regioni atlantiche della Francia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Regno Unito. Caratterizzato da piccole e micro imprese, la biotecnologia marina è un settore ancora relativamente giovane e molto dinamico, nel quale le realtà più vecchie risalgono al massimo agli anni ’80 e numerose sono le aziende nate negli ultimi 15 anni. In questo contesto, l’innovazione è una necessità per la stessa sopravvivenza delle imprese.
Progetto Atlantic Blue Tech, tinyurl.com/ooe86jv
Strategia Crescita Blu della Commissione europea, tinyurl.com/ox8o6lz
Insieme ai cluster industria-università e ai progetti dell’Ue, la cooperazione
industria-ricerca appare come uno dei principali driver per l’innovazione. D’altra parte, invece, l’accesso alla tecnologia – insieme alla disponibilità di risorse finanziarie – è stato individuato come uno dei principali ostacoli alla crescita e all’innovazione. Sono dunque necessari maggiori incentivi per incoraggiare i collegamenti tra il mondo accademico e l’industria per lo sviluppo congiunto di tecnologia e processi innovativi. Spesso la protezione della proprietà intellettuale operata dagli apparati universitari rappresenta un ostacolo per il trasferimento delle idee dal mondo accademico alle realtà produttive. Decisiva per creare un’interfaccia funzionale tra industria e mondo accademico potrebbe essere un’infrastruttura di ricerca dedicata al settore delle risorse biologiche marine a livello transnazionale. Le raccomandazioni del progetto Atlantic Blue Tech comprendono il sostegno ai programmi di collaborazione nel settore dell’istruzione; così come lo sviluppo di collegamenti tra accademia e industria attraverso la co-localizzazione dei parchi innovazione. Sostenere lo sviluppo di cluster transdisciplinari di biorisorse del mare, costruiti attorno a un “erogatore di conoscenza” di riferimento, dovrebbe essere una priorità per gli enti pubblici. Inoltre, secondo le line suggerite dalla Strategia Crescita Blu della Commissione europea, per lo sviluppo sostenibile e socialmente inclusivo nel settore delle biorisorse marine, la creazione di partnership industria-università in materia di istruzione e iniziative di ricerca guidate dall’industria darebbero un contributo significativo al miglioramento socioeconomico e alla specializzazione intelligente delle regioni atlantiche d’Europa.
Rubriche
Capitale naturale
L’insostenibile pesantezza delle fabbriche di cibo Gianfranco Bologna è direttore scientifico e Senior Advisor di Wwf Italia. Segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia.
Fao, Natural Capital Impacts in Agriculture. Supporting Better Business Decision-making, giugno 2015; tinyurl.com/q5b3kh7
Costanza R. et al., “Changes in the global value of ecosystem services”, Global Environmental Change, v. 26, maggio 2014; tinyurl.com/m9l4t6n
3.000 miliardi di dollari annui, una cifra imponente superiore al Pil della Gran Bretagna: indica i costi ambientali derivanti dalle pratiche agricole intensive e industriali utilizzate ogni anno nel mondo. È lo sconcertante dato che emerge dallo studio pubblicato dalla Fao (Natural Capital Impacts in Agriculture. Supporting Better Business Decisionmaking), con la collaborazione dei consulenti di Trucost, un team di specialisti dedicato a fornire supporto a compagnie e investitori per comprendere i riflessi delle problematiche ambientali nei termini del mondo del business. Ma lo studio, oltre a stimare i costi ambientali causati dalle pratiche della produzione alimentare insostenibile, indica metodi per avviare approcci alternativi all’agricoltura intensiva in grado di fornire risultati migliori dal punto di vista ambientale e del valore economico totale dell’attività agricola. Esiste, infatti, una vasta gamma di possibilità concrete per adottare pratiche agricole più sostenibili che riducano gli impatti e aiutino le nazioni a soddisfare la sfida dell’incremento della produzione alimentare, garantendo al contempo le necessità di una popolazione in crescita. Oggi le attività agricole e zootecniche occupano il 38% della superficie delle terre emerse: la cifra più significativa della trasformazione fisica causata dalla pressione umana agli ecosistemi terrestri. Tali attività dipendono da beni e servizi disponibili gratuitamente grazie ai sistemi naturali che offrono un suolo vitale, un clima stabile e una buona disponibilità di acqua. L’analisi effettuata dalla Fao e da Trucost ha studiato le pratiche agricole e zootecniche di oltre 40 paesi che coprono l’80% di quattro produzioni agricole (mais, riso, frumento e soia) e le quattro commodities più significative del comparto zootecnico (carne bovina, latte, maiale e pollame). In particolare è stato analizzato il valore finanziario dei benefici economici derivanti da un range di metodi agricoli e zootecnici alternativi in quattro casi studio: le farm di bestiame in Brasile, la produzione di riso in India, quella di soia negli Stati Uniti e di frumento in Germania. Dallo studio è emerso che oggi i costi della produzione del bestiame si aggirano sui 1.810 miliardi di dollari. Solo in Brasile la produzione di carne bovina genera un impatto ambientale quantificabile in quasi 600 milioni di dollari, dovuti soprattutto ai danni causati dalla deforestazione. In Cina, invece, produrre carne di maiale costa 327 milioni di dollari derivati dalla conversione dell’uso
dei suoli legata alla produzione di mangimi. 1.150 miliardi di dollari, invece, è il costo complessivo annuo connesso alla produzione dei raccolti. In testa la Cina, con 130 milioni di dollari per il mais, a seguire gli Usa con 90 milioni di dollari dovuti soprattutto alle modificazioni di uso del suolo e all’inquinamento dell’acqua. E la Germania dove produrre grano costa 62 milioni di dollari legati in particolare all’inquinamento delle acque dai fertilizzanti azotati. Ma – come dimostra la ricerca – questi costi ambientali si possono contenere con approcci alternativi. Per esempio, potrebbero diminuire dell’11% riducendo il numero e la concentrazione dei capi di bestiame in Brasile, consentendo alla vegetazione di ricrescere. Se il mondo economico e finanziario cominciasse a comprendere quanto costerebbe sostituire gli stock e i servizi che la natura ci offre, si valuterebbe meglio l’impatto economico del degrado dell’ambiente. Secondo un recente studio realizzato da Robert Costanza e da altri noti economisti ecologici, tra il 2007 e il 2014 – a causa del degrado degli ecosistemi – l’umanità ha perso servizi ambientali per circa 20.000 miliardi di dollari l’anno. Tra l’altro lo studio ha considerato solo i servizi ecosistemici “diretti”: l’acqua dolce per produrre il cibo, la qualità del suolo, il valore del legno ecc. Senza considerare le funzioni ecologiche “indirette” come il mantenimento dei predatori apicali nelle catene alimentari degli ecosistemi, fondamentali per garantire che gli stessi rimangano produttivi e resilienti. O degli insetti impollinatori necessari per mantenere vitale l’agricoltura. Ma anche così, è evidente che l’intera economia mondiale è profondamente sovvenzionata dalla natura. Se i settori economici produttivi dovessero pagare per questi servizi, sebbene valutati per difetto, si avrebbe una riduzione di almeno il 27% dell’output netto dell’economia mondiale. Per questo occorre diffondere i risultati di tanti autorevoli programmi internazionali tra cui il Teeb (The Economics of Ecosystems and Biodiversity), l’Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystems Services (Ipbes), il Natural Capital Project. Tutte queste analisi dimostrano come la gestione sostenibile degli ecosistemi rappresenti un elemento cruciale e vantaggioso per ogni nazione e attività economica. È fondamentale avviare una nuova economia basata sulla centralità del capitale naturale e della sua cura, altrimenti non avremo alcuna alternativa di sviluppo e di benessere.
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materiarinnovabile 08. 2016
Pillole di innovazione
Il maialino da Pechino Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.
Un racconto accurato e spettacolare sui temi che tratta questa nostra rivista quando parla di materiali che si possono ricavare da tutto ciò che è food: ecco, uno spazio dedicato a questo scenario, fondamentale per gli equilibri energetici, ci sarebbe stato bene.
Suppergiù è grande come Snoopy, e un po’ più di un gatto. Peso intorno ai 15 chilogrammi, e quindi molto – ma molto meno – dei 100 che normalmente raggiunge un maiale. Ma è un maiale. Un porcellino, però non d’India perché lo fanno a Pechino, al Beijing Genomics Institute (Bgi). Il mercato sarebbe quello degli animali da compagnia. Funziona, dicono, perché – questo è vero – il maialino (anche il maialone, per molti aspetti) è un animale che ci piace. E ai bambini, quei rari bambini che riescono a incontrare un maialino in campagna, piace sempre moltissimo. Il progetto nasce da un intervento sul gene della crescita operato su una specie di maiale asiatico, il Bama, che è già di taglia piccola, sebbene si tratti di un animale intorno ai 35 chilogrammi. Bloccando il gene della crescita, come dicevo, si sono ottenuti degli esemplari del peso di circa 15 chili. E questi si sono fatti accoppiare con femmine normali, diciamo così, del tipo Bama. La prole che ne è uscita, com’era prevedibile, si è divisa in modelli large e in modelli small. A questo punto fanno sesso solo gli small e via, raggiunto l’obiettivo. Non sono mancate critiche. Quelle etiche e culturali: perché fare esperimenti genetici per soddisfare il nostro disneyano desiderio di animalità? Non è che il disneysmo sia da condannare, ma si dovrebbe essere in grado di separare quei bellissimi elefanti blu topazio dei cartoni animati da progetti industriali nei quali si fa fare sesso a rane Blue Arrows con elefantesse nane, ovvero di solo due tonnellate (che se poi acquisiscono l’attitudine al salto, la cosa si fa spessa). Dietro a questa riflessione ce ne sta pure un’altra. La genetica è uno strumento dalle grandi potenzialità, positive: una tecnica che può, fra l’altro, ottenere risultati notevoli mettendo da parte quel bricolage selvaggio (quanti sono al corrente di questo aspetto?) che gli umani hanno praticato per millenni. Le pannocchie di granoturco – ce lo raccontano le tracce fossili – erano lunghe tre centimetri. E quanti sanno che il bassotto, il levriero, il pastore bergamasco e il San Bernardo, non sono specie diverse ma tutte più o meno “inventate” dall’uomo a partire dal lupo? Ma è del tutto evidente,
e comprensibile, che se con la genetica ci spostiamo sul mercato dei gadget viventi, ecco che le diffidenze aumenteranno. Infine, ci sono anche le critiche di tipo tecnico, in merito al maialino. È più piccolo, ma resta un maiale. Sappiamo tutti che la storia dell’indole zozzona del porcello è completamente falsa. Gli hanno sempre dato, per secoli, da mangiare spazzatura e l’hanno sempre tenuto nel fango ma perché faceva comodo, e lui/lei hanno accettato pazientemente, essendo, invece, soggetti intelligenti che apprezzano – eccome – dei pastoni ben cucinati. Però il maiale è notoriamente un animale molto attivo con le zampe e con il muso, dotato di una dentatura un po’ disordinata ma potente. Un animale pieno di curiosità esplorative. Questo per dire che anche stando sui 15 chili, il piccolo Bama – che non è ancora uscito dai laboratori del Bgi – tenuto in appartamento, potrebbe creare disastri in tutti i settori dell’arredamento, cavi, panni stesi, scarpe, piante, impedendo ogni tradizione a partire dall’albero di Natale. Sappiamo come è finita la moda dei coniglietti, con la loro passione per i fili elettrici. Una sciocchezza a confronto delle potenzialità dei mini-Bama. Quindi: un sacco di maialini abbandonati qua e là. Forse è bene che la nostra rivista già fin d’ora si preoccupi di trovare forme di recupero di questi maialini…
Rubriche
Impegni di sostenibilità
IL PROGETTO CAP21 Gli effetti dei cambiamenti climatici sulla risorsa idrica sono una realtà con la quale oggi tutti siamo chiamati a confrontarci. E un’azienda come il Gruppo CAP, che della gestione sostenibile dell’acqua ha fatto la propria mission, ha il dovere di essere in prima linea per individuare le soluzioni tecnologiche più innovative ed efficaci per proteggerla e prendersene cura al meglio. Nasce da qui CAP 21, il programma che ci impegnerà per tutto il 2016 e oltre: vale a dire 21 impegni di sostenibilità, che abbiamo deciso di assumere per raccogliere la sfida del clima che cambia. CAP 21 è la nostra risposta – concreta, quotidiana, ambiziosa e appassionata – ai temi posti da COP 21, la conferenza sul clima di Parigi destinata a condizionare il dibattito internazionale dei prossimi anni.
#Acquadarisparmiare
#Acquadabere
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WATER SAFETY PLAN (WSP) TELECONTROLLO PIANO INFRASTRUTTURALE ACQUEDOTTI (PIA)
#Acquadarecuperare
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MEMBRANE MBR E FITODEPURAZIONE GESTIONE DELLE ACQUE PARASSITE AZOTO E FOSFORO
#Acquadavalorizzare
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FONTANE 2.0 POZZI DI PRIMA FALDA ACQUA DEL RUBINETTO A SCUOLA
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ENERGY SAVING OBIETTIVO 2018 SEDE A IMPATTO ZERO MOBILITÀ SOSTENIBILE
#Acquadainnovare
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WATER PiPP WEBGIS PROGETTO ELECTROSLUDGE, LIFE 2014
#Acquadasostenere
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BILANCIO AMBIENTALE GREEN PUBLIC PROCUREMENT PAPERLESS POLICY
#Acquadacostruire
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CANTIERI PARTECIPATI TECNOLOGIE NO DIG ACQUE METEORICHE
www.gruppocap.it @gruppocap
Facciamo crescere i nostri impegni di sostenibilità
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14 - 17 March 2016 Amsterdam ACCELERATING PARTNERSHIPS & INNOVATION IN THE BIO BASED ECONOMY