Materia Rinnovabile #10

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 10 | maggio-giugno 2016 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Kate Raworth vs Giorgos Kallis: la parola decrescita (non) mi convince •• Carl Folke: viviamo un nuovo Rinascimento •• Tidyman, la storia di un omino venuto da lontano

Dossier Regno Unito/Bioeconomia: una partenza in salita •• Quando riparare una lavatrice diventa un illecito •• Uniti da una scrivania •• Utrecht: è ora di passare dalle parole ai fatti •• Economia circolare ed Epr: un matrimonio che può funzionare

Chi ha detto che le mosche sono inutili?

Euro 12,00 - Versione online gratuita su www.materiarinnovabile.it

•• Lettere d’alluminio •• Lombrichi contro ecomafia •• Seguite quel rifiuto! •• I confini dell’acqua

Come progettare il recupero dell’inutile •• Non possiamo perdere il mare




A B B I A M O T O LT O UN PESO INIMMAGINABILE D A L L E S P A L L E D E L F U T U R O.

Noi di Ecopneus in soli 4 anni abbiamo recuperato 1 milione di tonnellate di pneumatici fuori uso, il peso di 8 navi da crociera. E le abbiamo trasformate in qualcosa di più. Grazie a un lavoro etico e trasparente, 100 milioni di pneumatici fuori uso hanno fatto sudare e divertire tantissimi sportivi diventando campi di basket, tennis e calcio. Hanno ridotto il rumore negli uffici plasmandosi in pareti fonoassorbenti. Hanno protetto migliaia di bambini come gomma antiurto nei parchi giochi. Hanno rivestito chilometri di strade con manto gommato e attenuato le vibrazioni di numerose linee ferrotranviarie. Hanno dato energia sostenibile ad aziende in Italia e all’estero. Ma soprattutto, hanno fatto una cosa inestimabile: reso il nostro Paese un posto più vivibile per le generazioni future.


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The European Forum for Industrial Biotechnology and the Bioeconomy

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Event Organisers:


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Sostenitori

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Eventi


Editoriale

Rinnovabilità a tutto campo di Antonio Cianciullo

Mentre stiamo chiudendo questo numero di Materia Rinnovabile, da New York arriva la notizia che al Palazzo di Vetro i leader di 175 nazioni hanno firmato l’accordo di Parigi. È un passo in avanti concreto perché, come era accaduto per il padre di questa intesa, il Protocollo di Kyoto, il patto per difendere la stabilità del clima entrerà in vigore solo quando sarà ratificato da almeno 55 paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra. Nel caso del Protocollo di Kyoto ci sono voluti più di 7 anni perché la diplomazia europea, all’epoca piuttosto isolata, riuscisse a chiudere la partita e a far entrare in vigore l’accordo. Adesso le prospettive sono ben diverse e si prevede che i tempi saranno molto più stretti. Una prima verifica sugli obiettivi assunti volontariamente dagli Stati si avrà entro il 2018, nel 2020 scatterà la partenza operativa con revisione quinquennale per mettere meglio a fuoco le strategie. Secondo Todd Stern, il capo dei negoziatori climatici di Obama, si tratta di una svolta storica perché “stabilisce il primo regime universale e non transitorio sul clima”. Si è parlato molto dei punti deboli e dei punti forti di questo accordo. Nella prima categoria figurano la mancanza di sanzioni contro i paesi che non dovessero rispettare gli impegni assunti (erano presenti nel Protocollo di Kyoto); i tempi troppo dilatati (gli scienziati chiedono azioni rapide e radicali); i target insufficienti (anche se tutti rispettassero gli obiettivi dichiarati la temperatura globale subirebbe un aumento globale compreso tra 2,7 e 3 gradi rispetto all’era preindustriale). Nella seconda categoria, quella degli aspetti positivi, troviamo invece il fatto che per la prima volta tutti i governi hanno deciso di indicare obiettivi per la difesa del clima (a Kyoto si impegnò solo l’Ocse); la clausola che vieta a ogni paese di rinnegare per almeno 4 anni l’accordo firmato (in questo modo si evita che un cambio di guardia politico possa portare a un rapido dietrofront); la radicalità degli obiettivi assunti (fare ogni sforzo perché l’aumento della temperatura non superi 1,5 gradi a fine secolo). L’interpretazione positiva dell’accordo di Parigi è rafforzata da segnali forti che arrivano sul piano economico. È stato varato un fondo da 100

miliardi di dollari per lo sviluppo delle tecnologie a basso impatto ambientale nei paesi a scarsa industrializzazione. E nel 2015 gli investimenti sulle rinnovabili hanno stabilito un nuovo primato arrivando a 286 miliardi di dollari, contro i 130 miliardi a cui si sono fermati i fondi per i combustibili fossili. Dunque – anche grazie alle evidenze sempre più drammatiche del cambiamento climatico in corso – il dibattito sta ormai dando per scontati gli aspetti tecnici della questione e si sta concentrando sulle difficoltà politiche che potrebbero sbarrare la strada all’accordo. Per esempio il rischio legato all’elezione di un repubblicano alla Casa Bianca nel 2017. Ma c’è un aspetto di merito che è stato sottovalutato rischiando di produrre un’asimmetria nella cura climatica: il recupero delle decine di miliardi di tonnellate di materia sprecate ogni anno. Il concetto di rinnovabilità non può essere declinato a senso unico: c’è molta – giusta – attenzione sull’energia. Poca – troppo poca – sulla materia. Materia Rinnovabile è nata proprio per contribuire a colmare questa lacuna, perché per arrivare al riequilibrio climatico bisogna passare per un riequilibrio dell’attenzione. Il pacchetto sull’economia circolare – presentato dalla Commissione europea in simbolica coincidenza con la conferenza Onu sul clima – è l’occasione per ridurre il ritardo perché l’economia lineare, anche se sostenuta da un minor uso dei combustibili fossili, non è compatibile con il salto culturale e produttivo che la sfida di Parigi indica. Bisogna passare dall’energia usa e getta e dai materiali pensati per la discarica a un’economia che rimette continuamente in circolo l’energia, la materia e l’intelligenza creando reti e opportunità per una crescita collettiva. Lo sviluppo in linea orizzontale, che passa per il coinvolgimento dei territori e per una distribuzione più equa dei benefici, costituisce infatti un’altra delle condizioni per l’abbandono del modello fortemente gerarchico che caratterizza l’era dei fossili e dello spreco. È una battaglia globale ma si gioca paese per paese e arrivare prima vuol dire guadagnare competitività.


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M R

10|maggio-giugno 2016 Sommario

MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014

Antonio Cianciullo

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Rinnovabilità a tutto campo

Kate Raworth

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Decrescita: perché questa parola non funziona

Giorgos Kallis

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Decrescita: perché questa parola funziona

Emanuele Bompan

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Il nuovo Rinascimento Intervista a Carl Folke

Mauro Panzeri

16

Piccoli uomini crescono

a cura di Antonio Cianciullo

20

Il giardino e la roccia brulla Intervista a Giovanni Curatola

Alessandro Farruggia

24

Quando riparare una lavatrice diventa un illecito

Sofia Mannelli

26

Una pericolosa miopia

Giovanni Corbetta

28

Economia circolare e responsabilità del produttore: un matrimonio che può funzionare

Mario Bonaccorso

32

È ora di passare dalle parole ai fatti

Mario Bonaccorso

36

Dossier Regno Unito Una partenza in salita

Silvia Zamboni

42

Uniti da una scrivania

Direttore responsabile Antonio Cianciullo

Hanno collaborato a questo numero Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Ilaria N. Brambilla, Giovanni Corbetta, Giovanni Curatola, Giuliana Da Villa, Alessandro Farruggia, Sergio Ferraris, Paola Ficco, Carl Folke, Alessandro Gandini, Giorgos Kallis, Ilaria Nardello, Sofia Mannelli, Mauro Panzeri, Federico Pedrocchi, Antonio Pergolizzi, Simone Raskob, Marco Ravasi, Andrea Razzini, Kate Raworth, Matteo Reale, Roberto Rizzo, David Röttgen, Alessandro Russo, Brieuc Saffré, Maggie Smallwoood, Gianluca Tettamanti, Simonetta Tunesi, Silvia Zamboni

Think Tank

Direttore editoriale Marco Moro

Ringraziamenti Dario Bolis, Ilaria Catastini, Raffaella Ciceri, Matteo Colle, Riccardo Porro, Angelika Siepmann, Luca Zocca Caporedattore Maria Pia Terrosi Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini

Design & Art Direction Mauro Panzeri Impaginazione Michela Lazzaroni Traduzioni Laura Coppo, Franco Lombini, Mario Tadiello

Policy

Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi


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Coordinamento generale Anna Re

Simonetta Tunesi

Case Studies

Marco Moro

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Conservare il valore: l’analisi dei flussi dei rifiuti

Lettere d’alluminio

Emanuele Bompan

54

I confini dell’acqua

Sergio Ferraris

58

Il legume è circolare

Antonio Pergolizzi

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Lombrichi contro ecomafia

Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabili relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers

Rubriche

Brieuc Saffré

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Così si gioca a Circulab

Ilaria N. Brambilla

70

Chi ha detto che le mosche sono inutili?

Sergio Ferraris

74

Seguite quel rifiuto!

Ilaria Nardello

78

Profondo blu Non possiamo perdere il mare

Federico Pedrocchi

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Pillole di innovazione Astuti e laterali

Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright ©Edizioni Ambiente 2015 Tutti i diritti riservati

In copertina Immagine di Panma Bolec


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materiarinnovabile 10. 2016

Decrescita: perché questa parola

NON FUNZIONA di Kate Raworth

Poco chiara, inadeguata, fonte di malintesi: ecco perché secondo Kate Raworth la parola decrescita – esaurito l’effetto provocatorio – va abbandonata. Cercando invece un’alternativa che definisca positivamente questa teoria economica. Ecco il mio problema con la decrescita: non riesco proprio a chiamarla così. Non fraintendetemi: io penso che il movimento per la decrescita stia affrontando i più profondi interrogativi economici del nostro tempo. Credo che le economie nate per perseguire un’infinita crescita del Pil mineranno alla base i sistemi che rendono possibile la vita su questo pianeta e dai quali dipendiamo. Questa è la ragione per cui dobbiamo trasformare i modelli di governo, business e finanza che stanno alla base delle nostre economie e che sono totalmente dipendenti dalla crescita. Da questo punto di vista condivido ampiamente le analisi del movimento per la decrescita, e sostengo le sue proposte politiche di base. Non ho alcun problema con le sue posizioni teoriche: il problema è il nome.

Kate Raworth, economista ribelle all’Environmental Change Institute dell’Università di Oxford, al momento sta scrivendo Doughnut Economics: seven ways to think like a 21st century economist che sarà pubblicato da Random House.

Per gentile concessione dell’autore. Testi pubblicati originariamente sul blog di Oxfam From Poverty to Power; www.oxfamblogs.org/ fp2p/?s=Kate+raworth

Ecco i cinque motivi. Superare i missili. I miei amici sostenitori della decrescita mi dicono che questa parola è stata scelta intenzionalmente e in modo provocatorio come “parola missile” proprio per alimentare il dibattito. Capisco e concordo sul fatto che lo shock e la dissonanza possano essere validi strumenti per sostenere una causa. Ma, per esperienza, ho verificato nel corso delle mie discussioni sui possibili futuri economici con un’ampia gamma di persone, che il termine “decrescita” si è rivelato essere un tipo molto particolare di missile: una bomba fumogena. Lanciatela in una conversazione e causerà una diffusa confusione ed errate supposizioni. Se stai cercando di convincere qualcuno che la sua visione di un mondo centrata sulla crescita è ben più che antiquata, è necessario argomentare con attenzione. Ma ogni volta che sbuca la parola “decrescita”, si passa

il resto della conversazione a cercare di chiarire equivoci sul suo significato. Questa non è una strategia efficace a sostegno del cambiamento. Se vogliamo davvero rovesciare il dominio del pensiero economico centrato sulla crescita, semplicemente la parola “decrescita” non è all’altezza. Definire la decrescita. Devo ammettere che non sono mai riuscita a capire veramente cosa significhi questa parola. Secondo degrowth.org, il termine indica “un ridimensionamento della produzione e dei consumi che accresca il benessere umano e migliori le condizioni ecologiche e l’equità sul pianeta”. Suona bene, ma non è abbastanza chiaro. Stiamo parlando di decrescita del volume materiale dell’economia – le tonnellate di cose consumate – o del suo valore monetario, misurato attraverso il Pil? Questa differenza è davvero importante, ma raramente viene esplicitata. Se intendiamo ridimensionare il throughput materiale, allora anche i sostenitori della crescita verde condividerebbero questo obiettivo, e quindi la decrescita deve specificare meglio che cosa intende per potersene distinguere. Se intendiamo invece la riduzione del Pil (e qui la green economy e la decrescita si distanziano nettamente), allora decrescita significa un congelamento, un ridimensionamento del Pil, essere indifferenti a quanto succede al Pil o piuttosto dichiarare che non dovrebbe essere proprio misurato? In nome della decrescita ho sentito sostenere tutti questi argomenti, ma si tratta di aspetti parecchio diversi fra loro, con conseguenze strategiche molto differenti. Se non si fa maggior chiarezza non so proprio come utilizzare questa parola. Imparare da Lakoff: i contesti negativi non sono vincenti. Lo scienziato cognitivo George Lakoff è un’autorità per quanto riguarda la natura e il potere dei contesti, ossia delle


Think Tank

Decrescita: perché questa parola

FUNZIONA

Oggi l’ideologia della crescita è più diffusa che mai. Per questo – replica Giorgos Kallis a Kate Raworth – è ancora utile parlare di decrescita: ci ricorda che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. La mia amica Kate Raworth “non riesce proprio a usare il termine decrescita”. Ecco le nove ragioni per cui io, invece, lo utilizzo. 1. Definizione chiara. Il termine “decrescita” non può essere più chiaro di così. Del resto sicuramente non è meno chiaro di “uguaglianza” o “crescita economica” (si tratta di crescita del benessere o delle attività? Di quelle monetizzabili o di tutte le attività? E se solo di quelle monetizzabili, a chi importerebbe?). Al di là della critica dell’assurdità di una crescita perpetua, decrescita significa ridurre l’impronta globale del carbonio e quella materiale partendo dai più ricchi. Anche i sostenitori della crescita verde desiderano una tale decrescita, ma sostengono che la crescita del Pil sia necessaria o compatibile con questo obiettivo. La decrescita la pensa diversamente: con tutta probabilità anche il Pil subirà una riduzione. Se facciamo le cose giuste per il nostro benessere, come fissare un tetto alle emissioni di anidride carbonica, se trasformiamo l’economia del profitto in un’economia della cura e della solidarietà, l’economia del Pil subirà una riduzione. Anche Kate si appella per “un’economia che ci faccia prosperare, indipendentemente dal fatto che vi sia crescita o meno”, e sostiene che sia necessario “liberarsi” dalla “prigione” della crescita. I tedeschi la chiamano “post-crescita” e a me sta bene, ma in qualche modo ingentilisce quello che ci aspetta in realtà: dimezzare il nostro utilizzo di energia o materiali e trasformare e stabilizzare un’economia in contrazione (e non semplicemente “che non cresce”). Con il suo elemento di shock la “de”-crescita ci ricorda che non potremo avere la botte piena e la moglie ubriaca. 2. La giusta conversazione con le persone giuste. Conosci la sensazione “che cosa ci faccio io nella stessa stanza con queste persone?”. Che effetto fa quando si sente l’espressione “win-win” e si osservano grafici in cui la società,

di Giorgos Kallis

l’ambiente e l’economia si abbracciano in triangoli amorosi, mentre i mercati internalizzano le “esternalità” (sic)? Bene, non verrai invitato in queste stanze se lanci il missile della decrescita, e questo è un bene. A Marx non importerebbe di sedersi al tavolo con i capitalisti per convincerli della bontà del comunismo. Perché fingere che siamo tutti d’accordo? Non ho mai avuto una conversazione noiosa o confusa sulla decrescita (e anche questa conversazione ne è una prova). Le persone si appassionano, l’atmosfera si surriscalda, si sollevano questioni fondamentali (abbiamo perso qualcosa a causa del progresso? Cosa c’è nel passato che ci può servire per il futuro? È possibile cambiare il sistema, e come?). Ma per fare questi discorsi è necessario conoscere (e difendere) la decrescita. 3. Missione non-compiuta. Kate ci ha chiesto di immaginare che il “missile sia atterrato e abbia funzionato”. Il problema è che il missile è atterrato, ma non ha funzionato, quindi non è ancora ora di andare oltre. Basti dire che il correttore automatico di Microsoft continua a sostituire degrowth con regrowth. La decrescita è un anatema per la destra come per la sinistra. Gli economisti impallidiscono quando sentono parlare di decrescita. Gli eco-modernisti si guadagnano i titoli di prima pagina con un futuro di abbondanza alimentato dal nucleare e nutrito dagli Ogm. Un libro recentemente pubblicato definisce i sostenitori della decrescita “malthusuani”, eco-austeri e “dipendenti dalla pornografia del collasso”. Un partito radicale come Syriza ha come slogan “crescita o austerità”. L’ideologia della crescita è più forte che mai. Negli anni ’70 la critica alla crescita era diffusa, i politici la affrontavano e gli economisti sentivano almeno il dovere di rispondervi. 4. Esiste una vivace comunità, e questo è un fatto irreversibile. A Barcellona spesso 20 o 30 di noi si incontrano per leggere e parlare

Giorgos Kallis, professore di Economia ecologica all’Icrea di Barcellona e Leverhulme e visiting professor al Soas di Londra, è uno degli autori di Decrescita: vocabolario per una nuova era (ed. it. Jaca Book, 2015).

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materiarinnovabile 10. 2016

Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale di Tim Jackson, Edizioni Ambiente 2011; www.edizioniambiente. it/libri/572/prosperitasenza-crescita/

visioni di mondo che attiviamo (di solito inconsapevolmente) attraverso le parole e le metafore che scegliamo. Come ha documentato nel corso dei decenni, difficilmente avremo la meglio in un dibattito se cerchiamo di prevalere utilizzando lo stesso contesto del nostro avversario. Il titolo del suo libro Don’t Think of an Elephant (ed. it. Non pensare all’elefante! Fusi orari, 2006), evidenzia proprio questo aspetto, perché ci porta immediatamente a pensare a un… sapete che cosa. Come funziona questo meccanismo in politica? Prendiamo per esempio il dibattito sulle tasse. È difficile argomentare contro la “riduzione della pressione fiscale” (altrimenti detta “taglio delle tasse ai ricchi”), perché il contesto positivo della “minor pressione” suona così desiderabile: argomentare a suo sfavore significa solo rinforzare il contesto che sostiene che le tasse sono un peso. Molto più saggio è riadattare la questione in un contesto positivo, per esempio appellandosi alla “giustizia fiscale”. La decrescita cade in questa trappola? Di recente ho avuto l’occasione di porre la domanda a George Lakoff in persona, durante un webinar. Stava criticando il contesto economico dominante della “crescita”, e quindi gli ho domandato se il termine “decrescita” potesse costituire un’utile alternativa. “Per nulla” è stata la sua risposta immediata, “Innanzitutto è come ‘non pensare a un elefante!’, ossia ‘non pensare alla crescita!’. Usandolo attiviamo la nozione di crescita. Quando si nega qualcosa se ne rafforza il concetto”. So che il movimento per la decrescita sostiene molte cose positive ed emancipanti. Il libro Decrescita: vocabolario per una nuova era, a cura di Giacomo D’Alisa, Federico De Maria e Giorgos Kallis è ricco di sfumature e di ottimi spunti sui temi della giustizia ambientale, della convivialità, delle cooperative, della semplicità, dell’autonomia e della cura, tutte collocate in un contesto positivo. Non è il contenuto, ma è l’etichetta di “decrescita” che rifiuto. Sono pronta ad adottare il resto del vocabolario, ma non il titolo.

di parole, può provare a trovare qualcosa che similmente possa essere fonte di ispirazione. Naturalmente non è facile, ma è necessario farlo.

È ora di cambiare aria. Concediamo solo per un attimo al termine “decrescita” il beneficio del dubbio e supponiamo che il missile sia atterrato e abbia funzionato. Il movimento sta crescendo e ha a disposizione siti internet, libri e conferenze dedicati a promuovere ulteriormente le proprie idee. Ottimo. C’è un disperato bisogno di questi dibattiti e di idee economiche alternative. Ma viene il momento in cui è necessario che il fumo si disperda e una luce ci guidi attraverso la nebbia: qualcosa di positivo a cui aspirare. Non un missile, ma un faro. E dobbiamo dare un nome a questo faro. In America Latina lo chiamano buen vivir, traducibile come “vivere bene”, ma che significa molto di più. Nell’Africa del sud parlano di Ubuntu, la fede in un legame universale di condivisione che unisce tutta l’umanità. Sicuramente il mondo che parla inglese, una lingua che arriva a contare più di un milione

Dobbiamo ricollocare questo dibattito in un contesto che invogli sempre più persone a farsi coinvolgere, se vogliamo creare la massa critica necessaria a cambiare la narrativa economica dominante. Quindi questi sono i cinque motivi per cui penso che la decrescita abbia superato la propria definizione. Credo che alcuni dei miei amici della decrescita risponderanno a questo blog (il mio piccolo missile) con irritazione, frustrazione o con un sospiro. Ci risiamo, dobbiamo spiegare di nuovo tutto da capo. Se è così prendetene nota, perché quando ci si trova a dover spiegare continuamente tutto da capo, e a chiarire ripetuti malintesi, significa che c’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui le idee vengono presentate. Credetemi, la risposta sta nel nome. C’è bisogno di un nuovo contesto.

Tim Jackson ha suggerito “prosperità”, che letteralmente significa “le cose che vanno nel modo auspicato”. La New Economics Foundation (NEF) – e molti altri – lo definisce in termini di “star bene”. Christian Felber propone “economia per il bene comune”. Altri (a partire da Aristotele), hanno parlato di “prosperità umana”. Io penso che nessuna di queste definizioni abbia fatto centro, ma sicuramente sono orientate nella giusta direzione. C’è troppo in gioco e troppo da discutere. I dibattiti che hanno avuto luogo finora sotto l’egida della decrescita sono tra i dibattiti economici più importanti del 21° secolo. Ma molte persone non se ne rendono conto perché sono scoraggiati dal nome. Dobbiamo urgentemente elaborare una visione positiva e alternativa di economia che sia ampiamente coinvolgente. Questo è il modo migliore che ho trovato per esprimerla. Abbiamo un’economia che necessita di crescita, indipendentemente dal fatto che questa ci faccia prosperare o meno. Abbiamo bisogno di un’economia che ci faccia prosperare, indipendentemente dal fatto che ci sia crescita o meno. Si tratta di decrescita? Non saprei. Ma quello che so è che ogni volta che la propongo in questo modo nei dibattiti le persone annuiscono, e la discussione procede rapidamente arrivando ad affermare che siamo chiusi in un’economia della crescita obbligata a causa degli attuali modelli di governo, business, finanza e politica. Passando poi ad analizzare cosa dovremmo fare per liberarci da questa gabbia per poter perseguire piuttosto la giustizia sociale unita all’integrità ecologica.


Think Tank di decrescita, cucinare e bere, andare per boschi e protestare. Siamo in disaccordo pressoché su tutto, tranne che sulla decrescita, che è quello che ci unisce. Alla quarta conferenza internazionale a Lipsia c’erano 3.500 partecipanti, la maggior parte studenti. Dopo la sessione plenaria conclusiva in molti si sono diretti verso le strade dello shopping con un gruppo musicale, hanno innalzato cartelli contro il consumismo e bloccato le attività di una fabbrica di carbone. Ci sono giovani da tutto il mondo che vogliono studiare la decrescita a Barcellona. Se fai esperienza di questa energia incredibile ti accorgi che decrescita è una parola bellissima. Ma comprendo la difficoltà di utilizzarla in un contesto diverso: dopo sei mesi a Londra mi sento di essere io quello strano che insiste sulla decrescita. 5. Io vengo dal Mediterraneo. Qui il progresso appare diversamente: la civiltà ha raggiunto il proprio apice secoli fa. Serge Latouche dice che la “decrescita è intesa come negativa, qualcosa di imperdonabile in una società nella quale a tutti i costi bisogna ‘pensare positivo’”. “Essere positivi” è un’invenzione nordamericana. Per favore, cerchiamo di essere “negativi”. Non ce la faccio a reggere tutta quella felicità. Sofferenza, sacrificio, cura, onore: la vita non è tutta una questione di sentirsi “meglio”. Per coloro che sono meridionali nel cuore, che provengano dal nord globale, dall’oriente o dall’occidente, questa idea di un continuo progresso e miglioramento è sempre suonata strana. Sprecare noi stessi e i nostri prodotti in modo irrazionale, rifiutarsi di migliorare e di essere “utili” ha un suo fascino. Rifiutare l’idea che siamo così importanti è un antidoto contro l’etica protestante che sta al centro della crescita. Resistiamo alla pretesa di essere positivi! 6. Non sono un linguista. Chi sono io per contestare al professor Lakoff l’idea che non possiamo dire alle persone “non pensare a un elefante!” perché sarà proprio quello il loro pensiero? Però va detto che gli atei hanno avuto un bel successo nella loro battaglia contro gli dei. E così hanno fatto quelli che volevano abolire la schiavitù. O, sfortunatamente, così è andata ai conservatori con la deregulation. Trasformando qualcosa di negativo nel loro grido di battaglia hanno disarmato la pretesa bontà della rivendicazione dei loro nemici. Il queer movement (movimento degli omosessuali) ha trasformato un insulto in un motivo di orgoglio. Questa è l’arte del sovvertire. Esiste una teoria linguistica che lo spieghi? La critica di Lakoff ai democratici americani è una cosa diversa. I democratici hanno accettato lo stesso contesto dei repubblicani, offrendo alternative soft (per esempio meno austerità). La “crescita verde” è proprio questo; la decrescita è una negazione sovversiva della crescita: una lumaca, non un elefante più snello. Steven Poole, editorialista del The Guardian che si occupa di linguaggio, definisce la decrescita “carina”.

Quando la maggior parte delle persone saranno d’accordo con lui, e troveranno la lumaca carina, saremo sulla strada di una “grande transizione”. 7. Non può essere cooptata. Il concetto di buen vivir suona favoloso. Chi non vorrebbe “vivere bene”? E infatti l’America Latina l’ha preso a cuore: l’autostrada inter-amazzonica che collega Brasile ed Ecuador, con le sue città creative impiantate nel bel mezzo, il programma di energia nucleare della Bolivia e una carta di credito in Venezuela. Tutto in nome del buen vivir. Cosa che mi ricorda la “Ubuntu Cola”. Nessuno costruirebbe un’autostrada o un reattore nucleare, o rilascerebbe ulteriori carte di credito, o venderebbe cola in nome della decrescita. Nelle parole di George Monbiot, il capitalismo può vendere di tutto, ma non di meno. La decrescita potrebbe essere cooptata dai sostenitori dell’austerity? È plausibile, ma improbabile; l’austerità viene sempre giustificata per il bene della crescita. Il capitalismo perde legittimità senza crescita. Da coloro che si oppongono all’immigrazione? Inquietante ma non impossibile, è stato tentato in Francia. Questa è la ragione per cui non possiamo abbandonare il termine decrescita: dobbiamo svilupparlo e difenderne il contenuto. 8. Non è un fine. Decrescere all’infinito è tanto assurdo quanto crescere. Il punto è abolire il dio della crescita e costruire una società diversa con un’impronta più bassa. Per questo esiste un “faro”: i commons (beni comuni). In una versione ridotta però. Con una produzione tra pari, o un’economia della condivisione di materiali ed elettricità. La decrescita ricorda che è impossibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, anche se fabbricata digitalmente. 9. Focalizza la mia ricerca. Dedico i miei sforzi a discutere con gli eco-modernisti, i sostenitori della crescita verde, gli economisti della crescita o i Marxisti sostenitori dello sviluppo sulla (in)sostenibilità della crescita. Questa perseveranza nel difendere la decrescita è produttiva: obbliga ad affrontare domande che nessun altro pone. Certo, in teoria possiamo usare meno materiali; ma perché allora l’impronta materiale continua a crescere? Come sarebbero il lavoro, la sicurezza sociale, il denaro in un’economia in contrazione? Chi è convinto della bontà della crescita verde non si pone questi interrogativi, ma Kate non lo è: lei concorda con le nostre dieci proposte politiche per la decrescita: il lavoro condiviso, la remissione del debito, il denaro pubblico, il reddito minimo. Ma si domanda perché farlo in nome della decrescita. La ragione è perché non possiamo permetterci di essere agnostici. La differenza è grande, sia in termini di ricerca sia di progettazione, se si approcciano questi aspetti come strumento di stimolo e nuova crescita o come modo di gestire e stabilizzare la decrescita. Decrescita rimane un termine necessario.

La “decrescita è intesa come negativa, qualcosa di imperdonabile in una società nella quale a tutti i costi bisogna ‘pensare positivo’”.

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Think Tank

Il nuovo

RINASCIMENTO Intervista a Carl Folke di Emanuele Bompan

Bisogna tornare ad avere un approccio olistico alla realtà che consideri le interazioni esistenti tra economia umana, biosfera, clima. Per comprendere questa complessità non basta la razionalità, serve anche l’intuizione e la creatività.

Carl Folke è uno scienziato ambientale transdisciplinare e membro della Royal Swedish Academy of Sciences. È specialista in economia, resilienza e sistemi socio-ecologici. È direttore scientifico dello Stockholm Resilience Centre e direttore del Beijer Institute of Ecological Economics della Royal Swedish Academy of Sciences.

Pochi hanno saputo applicare il pensiero integrato e l’approccio transdisciplinare agli studi ambientali come Carl Folke. Autore di 12 libri e 200 articoli scientifici, tra cui 15 pubblicati su Science and Nature, è considerato uno tra i 10 scienziati più citati al mondo nel campo di ambiente ed ecologia ed è caporedattore di Ecology and Society. Materia Rinnovabile lo ha raggiunto nel suo studio di Stoccolma per comprendere la profonda interconnessione tra essere umani, sistemi della biosfera, resilienza, arte e scienza.

Negli ultimi 11.000 anni l’umanità ha vissuto una fase di inusuale stabilità della Terra, cosa che ci ha permesso di prosperare. Ma adesso siamo la causa della sua destabilizzazione. Cosa potrebbe succedere se uscissimo da questa fase di stabilità? “Abbiamo raggiunto un notevole livello di attività per essere una singola specie che supera i sette miliardi di esemplari (probabilmente saranno nove o Royal Swedish Academy of Sciences, www.kva.se/en dieci entro il 2050) che vivono in una società globalizzata. Stiamo Stockholm Resilience Centre, davvero oltrepassando il limite www.stockholmresilience.org e compromettendo la possibilità di un nostro futuro sulla Terra. Beijer Institute of Ecological Economics, Naturalmente la Terra continuerà www.beijer.kva.se

a evolversi come organismo finché il Sole starà al suo posto, là nella biosfera, ma la questione è se noi ci saremo ancora o meno, e in certa misura questo dipende da noi. Si è trattata di un’eccezione nella storia climatica della Terra, che molti pensano possa durare ancora a lungo, ma ciò accadrà solamente se non tiriamo troppo la corda e non destabilizziamo le operazioni di base del sistema.” Qual è l’anello più debole per la stabilità del nostro pianeta? “Abbiamo molti elementi sensibili. Immaginando che l’intera superficie della Terra sia un unico grande paese direi che il nostro sistema di produzione alimentare ci ha privato di gran parte della capacità di adattarci a cambiamenti inaspettati. In questi 11.000 anni la produzione alimentare è stata sostenuta da un clima abbastanza stabile e siamo in grado di prevedere le piogge anno dopo anno. Abbiamo un sistema ben collaudato di raccolti che vendiamo sul mercato globale. E abbiamo semplificato l’intero ecosistema, rendendolo più vulnerabile ai cambiamenti, così adesso è meno resiliente.” Comprendere i cambiamenti e il modo di diventare resilienti implica l’analisi delle complicate interazioni tra economia

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Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008.

umana, biosfera, clima, acque e sistemi culturali. Come si possono rappresentare queste interazioni? “Penso che ci troviamo ancora in una fase esplorativa per quanto riguarda la capacità di mettere in relazione questi ambiti così diversi. Naturalmente sono stati fatti molti progressi in diversi settori, ma combinarli fra loro è difficile. Stiamo cercando di fare qualcosa di simile a quanto è accaduto in passato nella medicina. Un paio di decenni fa i medici erano specializzati solo su alcune malattie specifiche. Oggi invece consideriamo il corpo come un sistema integrato: nella medicina la nostra prospettiva è diventata molto più interdisciplinare rispetto a quella che avevamo nei cento anni precedenti. Certo, comprendere tutte le interconnessioni è quasi impossibile, quello che dovremmo fare è scoprire quali strade non dobbiamo intraprendere, quali strade dello sviluppo non sono sostenibili.” La comunità scientifica sta lavorando in modo interdisciplinare per risolvere tali questioni? “Secondo me ci sono molti validi scienziati e gruppi di ricerca che ci stanno provando. Ma penso che il sistema universitario non si stia adattando rapidamente a questi cambiamenti. Lo stesso accade in Italia, dove l’università è stata divisa in dipartimenti di scienze sociali, materie umanistiche e scienze naturali: dobbiamo rimediare a questo errore.”

Oggi ci troviamo in una specie di nuovo Rinascimento o nuova Età dei Lumi, in cui stiamo cominciando a riconnetterci con il pianeta su cui viviamo.

Dovremmo essere più simili agli scienziati del 17° secolo, quando le specializzazioni erano rare e gli scienziati tendevano ad avere un approccio olistico alla realtà? “Proprio così. Ci stiamo muovendo in quella direzione, quindi probabilmente tra qualche decennio sarà più evidente. Oggi l’umanità si trova in una dimensione globale ed è necessario comprendere tutti i tipi di connessione. Non penso che sia possibile trovare un singolo luogo sul pianeta che – in un modo o nell’altro – non sia connesso. Un altro elemento importante è la velocità di trasformazione, un nuovo tipo di velocità che prima non esisteva prima. L’ultimo aspetto riguarda l’incredibile rapidità con cui la connettività fa viaggiare veloci le cose, sarebbe bene utilizzare questa capacità per orientare il nostro futuro verso cammini molto più sostenibili.” Quindi essere resilienti significa anche rendersi consapevoli di questa velocità e di queste interazioni per poter reagire. Può darmi la sua definizione di resilienza? “Per resilienza intendiamo, fondamentalmente, il modo in cui possiamo affrontare il cambiamento, come possiamo continuare a progredire con il cambiamento: se hai intrapreso una strada che ti piace cerchi di adattarti ‘cambiando’. Ma se sei su una cattiva strada

cerchi di modificare direzione per creare un nuovo cammino: questo è ciò che chiamiamo una trasformazione. La resilienza per noi è davvero un concetto che guarda al futuro. La resilienza permette di creare nuove cose o di innovare. Visto che non si può innovare a partire dal nulla, bisogna basarsi su un retaggio o su più retaggi che possano essere combinati per arrivare a creare innovazione. Questo è il fulcro della resilienza: persistere, adattarsi e trasformare. Se vogliamo che 9 o 10 miliardi di persone riescano a vivere sulla Terra, come comunità scientifica dobbiamo trasformare i nostri attuali percorsi in altri più sostenibili. Dobbiamo integrare lo sviluppo economico e sociale con la capacità che ha la biosfera di sostenerci.” Quindi se un governo chiedesse il suo consiglio, domandando quali passi vanno compiuti per rendere il proprio paese più resiliente, che cosa gli direbbe? “Primo: cercate di mettere in relazione e integrare l’economia, la società e la biosfera. Secondo: promuovete istituzioni e strutture che possano creare innovazione orientata alla resilienza. Terzo: continuate a sviluppare l’energia verde. I paesi stanno iniziando ad abbandonare le risorse basate sui combustibili fossili a favore di quelle verdi. Per esempio, quando ero piccolo a Stoccolma tutte le case venivano riscaldate a gasolio, con cisterne che si tenevano in cantina. Adesso non ci sono più cisterne di gasolio, ma le persone usano l’energia geotermica, eolica o solare. Si tratta di un cambiamento che ha avuto luogo nel corso della mia vita, e questo tipo di trasformazioni stanno accadendo ovunque. Penso che oggi ci troviamo in una specie di nuovo Rinascimento o nuova Età dei Lumi, in cui stiamo cominciando a riconnetterci con il pianeta su cui viviamo.” Cosa dovrebbe fare invece un’azienda privata per integrare la resilienza nella sua strategia di sviluppo a lungo termine? “Penso che per molte aziende adesso questa stia diventando una questione veramente strategica. Una persona proveniente dal mondo del business una volta ha dichiarato: ‘non si possono fare buoni affari su un pianeta morto’. Penso che ciò abbia a che fare con il fatto di non precludersi delle possibilità: se sei in affari devi essere flessibile per poter rispondere ai cambiamenti, che siano un crollo finanziario, un cambio di governo ecc. E per questo è necessaria la resilienza, la capacità di vivere con i cambiamenti. Quando si tratta del pianeta molte aziende, soprattutto le più grandi, stanno davvero comprendendo che non è solo di marketing sulla responsabilità sociale di impresa, piuttosto di una forte convinzione che non possiamo continuare a prosperare sulla terra se non


collaboriamo con il pianeta di cui siamo parte. La nostra ricerca sulle aziende marittime a livello globale mostra che solo il 20% lavora per ridurre i rischi ambientali, il che vuol dire aver davvero perso ogni interesse per la produzione sostenibile. Ma sono ottimista: le aziende iniziano a mostrare crescenti segnali di consapevolezza e impegno, cosa che non accadeva prima. Non si tratta solo di un cambiamento di mentalità, ma di qualcosa di più profondo: per molte persone è impossibile andare avanti in questo modo.” Comunicare come è importante ragionare in termini di resilienza è uno degli aspetti di fondamentale importanza... “La resilienza richiede di pensare in modo complesso e richiede soprattutto complicati sistemi di adattamento, che possono coinvolgere aspetti scientifici che vanno dalla fisica all’archeologia. Per comprendere questa complessità non si può utilizzare solamente il pensiero razionale efficiente, ma è necessario attivare l’altra parte del cervello, quella collegata all’intuizione. Abbiamo bisogno di mostre di artisti creativi, di film, quadri e installazioni, come anche del giornalismo, che aiutino le persone a riconnettersi con il pianeta sul quale viviamo.” Pensa che l’arte e la narrazione di storie possano servire a raggiungere questo obiettivo? “Penso che siano parte di questo processo di cambiamento a lungo termine in cui ci troviamo proprio adesso. Pensiamo a questa intervista: il fatto che lei mi abbia chiesto della resilienza è un esempio del processo di trasformazione in atto proprio ora.” Quindi lei è ottimista su questa trasformazione: pensa che questo Rinascimento sia in atto e che si estenderà a tutto il mondo? “Se non fossi ottimista non sarebbe così piacevole trovarsi qui adesso, è facile farsi trascinare verso il basso da pensieri deprimenti. Ma penso davvero che possiamo mobilitare le nostre capacità intuitive e creare nuovi cammini di sviluppo, per fare in modo che il maggior numero di persone possibile ne tragga beneficio.” Resilience Alliance, www.resalliance.org

Lei lavora con la Resilience Alliance: qual è l’obiettivo di questo gruppo? “Vogliamo capire meglio le interazioni tra persone e ambiente. Ci lavorano almeno 20 gruppi di ricerca, network creati circa 20 anni fa. La resilienza non è un concetto che è stato inventato a livello teorico, piuttosto è emersa dall’osservazione. Comunicare questo aspetto è molto importante, perché molti pensano che sia un concetto teorico, ma in realtà è un’interpretazione di come funziona il mondo.”


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PICCOLI UOMINI crescono Tidyman, il bravo cittadino che contribuisce a un ambiente pulito, è stato una felicissima invenzione grafica e un simbolo semplice riconosciuto da tutti. E oggi va in discarica. Ma tanti piccoli uomini sono da tempo parte della nostra cultura visiva, come nelle infografiche di cui anche questa rivista è costellata: una breve storia di pittogrammi e simboli a uso educativo. di Mauro Panzeri

Keep Britain Tidy, www.keepbritaintidy.org

Tidyman nasce negli anni ’50 e, a quanto se ne sa, negli Stati Uniti, veicolato inizialmente da un produttore di birra, con l’intento pedagogico di promuovere contemporaneamente raccolta vuoti e modelli virtuosi di comportamento. Tidyman diventa ben presto un vero personaggio, dalla efficace vocazione internazionale: è simpatico, parla a tutti, grandi e bambini, e senza bisogno di testi che lo accompagnino. Simbolo di qualunque rifiuto, negli anni ’70 diviene icona di Keep Britain Tidy (una Charity Organization) che lo introduce nelle sue campagne sociali. L’autore, di fatto, non è noto: tale Sarah Williams, in un post rintracciato in rete, ne fa risalire il disegno al padre Raymond, incaricato da Robert Worley, chairman di Keep Britain Tidy Group.

l’autore. Perché ben presto e con grande anticipo sulla progettazione di marchi e simboli che promuovono comportamenti responsabili, Tidyman è de facto un simbolo di tutti e l’appropriazione è collettiva, senza un vero autore. Questo ometto stilizzato con la testa a pallina, un pittogramma quindi, con la schiena curva nell’atto di depositare delicatamente un rifiuto in un cestino vecchio stile, diviene compagno di giochi negli spazi pubblici, lo trovi agli angoli delle strade e ovunque lo si possa applicare. È un segno di modernità e civismo. E il suo utilizzo si amplia: viene stampato sulle confezioni dei prodotti alimentari, cosa che tutti ricordiamo. Tidyman è infatti un simbolo in libero utilizzo non regolato (public domain) e ha una lunga vita che giunge quasi fino a oggi, tra usi propri e impropri, come nel caso delle infinite e libere rielaborazioni e parodie.

Ma non esisteva negli Stati Uniti già negli anni ’50? Forse il punto – per una volta – non è rintracciare

La sua genericità però, in un’era di raccolte differenziate, lo ha reso un po’ obsoleto.


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Il nuovo Tidy, www.peterberrecloth.com/?project=04-tidyman

A sinistra: Tidyman nuova versione, ©Keep Britain Tidy Pagina accanto: Tidyman vecchia versione, ©Keep Britain Tidy

In basso: Le evoluzioni di Tidyman, nei disegni del suo autore Peter Berrecloth

Così nel 2010 Keep Britain Tidy decide di abbandonarlo. Al suo posto il senior designer dell’associazione, Peter Berrecloth, ne propone una variante, meno invasiva e più giocosa mentre Brand Catalyst ne coordina la nuova identità. L’omino diventa verde, sta a fianco del cestino ma in posizione eretta, poi cambia posizione, si anima, si “specializza” e un grande cuore gli pulsa in petto. Il nuovo simbolo è parte attuale della campagna di sensibilizzazione Love Where you Live. In realtà Keep Britain Tidy non sta cancellando il vecchio simbolo: sta invece rivedendo la propria mission e adeguando il proprio intervento, anche perché i dati confermano che il lavoro di sensibilizzazione è ancora necessario mentre i comportamenti sociali richiamano nuove modalità di comunicazione e viceversa. È quindi la definitiva trasformazione di un modello di comunicazione, non solo di un’icona.

Il vecchio Tidyman finisce in discarica, da un disegno anonimo in rete

Tidyman antinazista

Il grafico polacco Lex Drewinski reinterpreta Tidyman. E ne sovverte il senso. Particolare del poster

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materiarinnovabile 10. 2016 A sinistra: Una tavola Isotype dove si descrive il fenomeno della trasformazione del lavoro nell’industria tessile inglese dal 1820 al 1880. Gli uomini neri lavorano a casa, i rossi in fabbrica. L’indice di alfabetizzazione è indicato dalla riga di libri in blu

Isotype, www.gerdarntz.org/isotype

Il sito di Keep Britain Tidy, da visitare e navigare, è un grande mondo di iniziative e qualità organizzative, a oggi ineguagliato. Qua e là nel sito l’omino ricompare, ma è quello nuovo di zecca ed è solo una piccola traccia nel contesto. Mentre il vecchio simbolo, quello nero, anche se finito in discarica, lo troveremo sempre e ovunque nel web e in giro per il mondo, soprattutto quel mondo “indifferenziato” che ne ha più che bisogno. Anche perché è di tutti e nessuno potrà mai cancellarlo, il vecchio Tidyman. Ma da dov’è venuta quest’idea di disegnare omini-simbolo così astratti, utili a una comunicazione semplice e diretta? L’idea viene da lontano, per essere più precisi dalle teorie della Wissenschaftliche Weltauffassung (Concezione scientifica del mondo, del Circolo di Vienna). Siamo negli anni ’20 e a Vienna appunto, laboratorio di modernità e progetto politico di emancipazione sociale. L’idea di inventare pittogrammi è di Otto Neurath, scienziato, filosofo e sociologo di impronta socialista, che nel 1936 scrive: “Le parole dividono, le immagini mettono in contatto”. Neurath fonda una lingua per immagini di grande ambizione: l’idea è che sia chiara, leggibile, internazionale; la chiama Isotype, acronimo di International System Of TYpographic Picture Education. Il progetto, poi sviluppato con la moglie Marie e il graphic designer Gerd Arntz che

A sinistra: Gerd Arntz, uomini e professioni secondo Isotype

A sinistra: Gerd Arntz, le razze umane secondo Isotype

In basso: Ricostruzione grafica del marchio Isotype di Otto Neurath


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In basso: Percezione visiva: non può essere una toilette. Cos’è?

“Le parole dividono, le immagini mettono in contatto.”

In basso, a destra: Otl Aicher, programma giornaliero delle Olimpiadi di Monaco, 1972

A destra: Otl Aicher, pittogrammi per le Olimpiadi di Monaco, 1972

ne disegnò migliaia di simboli, ha una missione: permettere in modo semplice ed efficace a chi è poco o per nulla scolarizzato una facile lettura e visualizzazione di temi di importanza storica e sociale. Di fatto, un linguaggio visivo ausiliario, un’utopia. Quest’idea farà poi breccia nel clima modernista postbellico e il mondo intero la porterà con sé, spogliata però dei connotati più sociali e innovativi a favore dell’International Style. Basti pensare alle segnaletiche stradali (il Dipartimento dei trasporti statunitense ne è un ottimo esempio), ai segnali per i luoghi pubblici e di lavoro, ai simboli delle specialità sportive (tra i più belli quelli di Otl Aicher per le Olimpiadi di Monaco del 1972), fino alla rappresentazione dei dati nell’infografica di oggi. Una storia aperta quindi, se pensiamo a quanti designer si stanno dedicando ancora oggi al suo sviluppo e ottimizzazione. Neurath ha scritto: “Un’immagine che fa un buon uso del sistema deve trasmettere tutte le informazioni importanti riguardo all’elemento che rappresenta. Al primo sguardo si vedono gli elementi più importanti, al secondo i meno importanti, al terzo i dettagli. Al quarto, non dovrebbe cogliersi più nulla”. Facciamo allora un esercizio, per capire se

questo progetto “universalista” in realtà funziona: prendiamo il simbolo più conosciuto di tutti, quello della toilette. Questa coppietta divisa da una riga verticale, cosa vorrà mai dire? “Toilette” è ovvio, direte voi, per maschi e femmine. Ed è vero, siamo abituati a leggerla così (e spesso a cercarne l’indicazione con ansia all’aeroporto) ma pensiamo per assurdo a chi potrebbe non aver mai visto quest’insegna (un marziano): perché dovrebbe pensare a una toilette e non a un divorzio o chissà cos’altro? Provate a giocare con la vostra fantasia: e se ci fossero due uomini e una donna oppure due uomini soltanto? Si chiude così la storia del nostro piccolo uomo. I simboli non sono sempre adeguati e di facile interpretazione: molto dipende dal loro uso diffuso e convenzionale, dal contesto e dall’abilità del progettista. E questo vale per tutte le immagini, che non sono un linguaggio universale, ahimè, con buona pace del buon Neurath. E mentre l’infografica diventa pervasiva in ogni campo visuale, in questa rivista di cui abbiamo a cuore chiarezza e qualità di scrittura e grafica, spesso ci chiediamo se, oltre la moda del momento, tutto questo disegnare omini e dati sia sempre efficace. Forse Tidyman, antesignano di una cultura visiva dominante, ci porterà a una riflessione.

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IL GIARDINO Immagini fotografiche ŠGiovanni Curatola

e la roccia brulla


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a cura di Antonio Cianciullo

Nella cultura islamica l’uomo è un amministratore dei beni della natura. La ricchezza di acqua e il ritorno del ciclo vitale sono il premio di un comportamento corretto; la desertificazione punisce chi sbaglia. C’è un filo che unisce questa attenzione alla Laudato si’. Giovanni Curatola lo mostra.

Giovanni Curatola è un orientalista che si è formato alla scuola veneziana di Cà Foscari e si è perfezionato a Londra e Oxford. Docente all’Università di Udine e alla Cattolica di Milano, è tra i maggiori esperti di arte islamica e profondo conoscitore dell’Iran.

C’è un filo che unisce gli opposti? Da una parte l’aspirazione europea al governo del divenire, a un’economia circolare in cui materia ed energia entrano in un ciclo virtuoso creando un paradiso tecnologico. Dall’altra la visione islamica di un universo stabile, scandito una volta per tutte dal volere di Allah sigillato nel Corano, un mondo in cui la luce del bene arriva dalle nostre spalle. Il “sol dell’avvenire” delle lotte operaie e la parola immutabile divulgata dal Profeta. Può esistere un’intesa? “Innanzitutto non si può parlare di Islam come se fosse un unico blocco. Ci sono tanti Islam, uno per ogni storia, per ogni cultura, per ogni tradizione. Per capire cosa è successo e cosa sta succedendo in Medio Oriente conviene leggere l’adesione a questa religione in termini identitari”, risponde Giovanni Curatola, una vita spesa per la conoscenza del mondo islamico. Curatola è docente di Archeologia e Storia dell’arte musulmana, consulente Unesco, curatore di grandi mostre sull’arte islamica, saggista. Ha accettato di farci da guida nella ricerca di un ponte tra sensibilità apparentemente opposte. “Oggi naturalmente il tema dell’Islam è legato all’offensiva di Daesh, ma per provare a capire se la questione ambientale separa o divide le due sponde del Mediterraneo bisogna avere uno sguardo più ampio”, continua Curatola.

“Nel 2003-2004, quando ero a Bagdad per lavorare al recupero dei musei danneggiati dalla seconda guerra del Golfo, i disastri ambientali provocati nell’arco di poco più di un decennio erano uno dei temi all’ordine del giorno. Saddam aveva usato le armi chimiche nel nord dell’Iraq, nel Kurdistan, mentre nel sud, per colpire gli sciti poco allineati, aveva devastato un’area di straordinaria importanza ecologica e storica, le paludi alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate. L’aver quasi distrutto il luogo che alcuni indicano come il modello che ha ispirato l’idea di paradiso è uno degli atti di accusa importanti contro l’ex dittatore iracheno.” Esiste in Medio Oriente una sensibilità ambientale che va al di là delle polemiche su un singolo atto? “Se vogliamo parlare di spiritus loci, dobbiamo dire che lo spirito del luogo di questo lembo di Medio Oriente va oltre una singola fede. Qui sono nate le tre grandi religioni monoteiste, figlie del deserto, di uno spazio infinito che riporta all’Uno: miliardi e miliardi di granelli di sabbia compongono un’unità.” In Occidente la teoria dell’Uno, applicata agli ecosistemi, ha prodotto l’idea di un pianeta vivente, Gaia, ma non ha impedito forme

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Quando, all’inizio del Novecento, Kemal Atatürk iniziò la laicizzazione della Turchia, una delle riforme che introdusse fu la collocazione di un orologio pubblico nelle piazze. Prima la giornata era ritmata dalle cinque preghiere. E il tempo della preghiera era il tempo della natura.

sempre più invasive di inquinamento, fino ad arrivare alla minaccia globale del dissesto climatico. Ora abbiamo la necessità di governare in corsa il disastro prodotto e l’enciclica Laudato si’ contiene un messaggio potente che va in quella direzione. C’è una spinta analoga nelle comunità islamiche? “Dal punto di vista dottrinale bisogna aver chiaro che nel mondo islamico il Corano ha un peso superiore a quello della Bibbia in Occidente: ci si rifà direttamente alla parola di Dio e il ruolo dell’interpretazione del testo è più ridotto. Dal punto di vista della sensibilità attuale, gli Islam del Medio Oriente vivono una grande contraddizione. Sulla sponda nord del Mediterraneo vediamo la modernità come un possibile aiuto nel riequilibrio del percorso di industrializzazione. Sulla sponda meridionale e orientale è più difficile coltivare questa speranza perché la modernità, là dove è arrivata, spesso ha aumentato le disuguaglianze, ha imposto un ritmo e un modo di vita percepiti come innaturali, oltre che ambientalmente negativi: non è facile ora rivalutare il processo offrendo una direzione più promettente. Sono difficoltà evidenti anche in Iran, che è un paese molto particolare, con una grande cultura preislamica. Un paese cerniera, una delle poche grandi civiltà che non è nata lungo un fiume ma si è sparsa su un largo territorio perché aveva fin dall’inizio una forte vocazione di scambio, di dialogo. Quando l’Iran si è convertito all’Islam lo ha fatto mantenendo una diversità, cioè imboccando la via scita e differenziandosi così dalla maggioranza sunnita: una spaccatura che ancora oggi rimane alla base di buona parte dei problemi che stiamo vivendo in quell’area.” In queste tensioni pesa anche il fatto che l’Islam sconta un ritardo nella separazione tra potere religioso e potere temporale: il Cristianesimo si è lasciato le guerre religiose alle spalle da qualche secolo. “Fino a un certo punto, se pensiamo che la guerra tra cattolici e protestanti in Irlanda è andata avanti fino a pochi anni fa. Ma, tornando all’Iran, volevo sottolineare che la grande rivoluzione del 1979, di Khomeini, è stata una reazione alla modernizzazione a tappe forzate che aveva finito per accentuare gli squilibri sociali.” Quali sono state le caratteristiche principali di questa modernizzazione forzata? “Uno degli elementi chiave è l’alterazione del tempo, che non ha riguardato solo l’Iran. Quando, all’inizio del Novecento, Kemal Atatürk iniziò la laicizzazione della Turchia, una delle riforme che introdusse fu la collocazione di un orologio pubblico nelle piazze. Prima la giornata era ritmata dalle cinque preghiere. E il tempo della preghiera era il tempo della natura, scandito dalla semina, dai raccolti, dai grandi eventi di un ciclo eterno. La dimensione della natura era ben presente nel mondo tradizionale che si concedeva il tempo dell’osservazione: l’Islam nasce in una cultura nomade in cui spazio e tempo sono fondamentali.

Gli spostamenti avvenivano con le carovane, erano lenti, si viaggiava immersi nel contatto con gli animali e con il deserto.” E quindi per contrapposizione nasce l’idea di un paradiso pieno di acqua. “Non solo acqua: la parola persiana per paradiso è firdaws, un giardino difeso da un muro che tiene lontano il deserto e attraversato da un corso d’acqua. L’immagine del giardino coranico attraversato da quattro fiumi che compongono una croce, uno di acqua, uno di miele, uno di latte e uno di vino, ha trovato applicazione nel 16° e 17° secolo nei giardini costruiti attorno ai grandi mausolei, in particolare indiani. La loro composizione è molto interessante: ogni quadrato, distinto dalla croce formata dai fiumi, rappresenta una stagione. Ma all’interno di ogni quadrato c’è uno spazio dedicato alle altre stagioni: l’inverno ospita l’estate, la primavera e l’autunno. E viceversa. Macrocosmo e microcosmo dialogano. E il risultato è straordinariamente dinamico: dà l’idea di un meccanismo circolare eternamente in moto, in cui in ogni momento la vita affiora.” Una connessione potente tra la forza della natura e la forza del governo dell’uomo. “Certo, anche dal punto di vista emozionale. Questi giardini sono un tripudio di sensazioni: colori, profumi, il canto degli uccelli, lo scorrere dell’acqua. Ogni senso viene sollecitato. È un contesto che ha aiutato a far maturare una percezione della vicinanza alla natura ancora oggi avvertita. In Iran per esempio c’è un registro degli alberi storici. Ricordo che una volta notai un bellissimo cipresso, come toscano sono sensibile ai cipressi; mi sono avvicinato e ho visto che aveva una targhetta che lo catalogava e lo proteggeva.” La tradizione islamica considera l’uomo come vicario di Dio, custode della Terra, un punto di vista molto simile a quello del Cristianesimo. “Sì, l’uomo come amministratore dei beni della natura. Questo insegnamento è molto radicato nella tradizione. Negli anni ’70, girando l’Iran a piedi, ho visitato i villaggi più sperduti. Quando mi offrivano il tè, e dovevano preparare le tazzine, facevano bollire un po’ d’acqua e la passavano prima in un bicchierino e poi in un altro, senza cambiarla. Dal punto di vista igienico sanitario non era il massimo, ma non si sprecava nulla: un grande rispetto per le risorse naturali.” In che modo l’arte islamica riflette il punto di vista della tradizione? “Se prendiamo il genere più comunemente identificato con l’arte islamica, le miniature, vediamo che nell’epoca in cui in Italia fioriva il Rinascimento, nell’Islam non si utilizzava la prospettiva. La si conosceva, ma non la si usava perché dare troppo realismo alla rappresentazione, confonderla con il reale, veniva considerato una mancanza di rispetto di Dio,


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quasi un voler rivaleggiare con l’autore del creato. Invece di usare la prospettiva, si sceglieva di vedere lo stesso oggetto in maniera scomposta, da più punti di vista: per esempio dall’alto a volo di uccello e poi da un lato. L’unità attraverso più immagini.” Quasi una pittura cubista. “Molto in anticipo però. E con finalità diverse. È una visione che prende le distanze dall’oggetto: il mondo è lasciato nelle mani di Dio, un Dio che usa più la parola della visione per mostrare la via da seguire. E che si fa rappresentare dal creato, dalla natura che dà molto a chi la

sa interpretare e punisce chi abusa delle sue risorse. Nelle parabole questo legame con la natura emerge in modi estremamente attuali. Per esempio quando nel Corano si legge ‘di lui sarà come d’una roccia coperta di terriccio, che la colpisce un acquazzone e la lascia nuda: così quelli non avranno alcun potere su ciò che hanno guadagnato, chè Dio non guida gente infedele! Invece di quelli che donano dei loro beni bramosi solo di soddisfare Iddio e di confermare se stessi, sarà come di un giardino sopra un’altura, che lo colpisce un acquazzone e produce i suoi frutti due volte tanti. E se non lo colpirà un acquazzone vi cadrà leggera la rugiada’.”

In Iran per esempio c’è un registro degli alberi storici. Ricordo che una volta notai un bellissimo cipresso […] mi sono avvicinato e ho visto che aveva una targhetta che lo catalogava e lo proteggeva.

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Quando riparare una lavatrice

DIVENTA UN ILLECITO L’eccesso di norme crea confusione e incertezza in cui si annidano errori e cattive pratiche. Con l’assurdo di sanzionare comportamenti virtuosi. Molti materiali di scarto sono diventati risorse, ma per la legge sono ancora rifiuti. di Alessandro Farruggia

Per l’Italia che sogna l’economia circolare la vita non è affatto semplice. Consumatori, aziende, gestori, consorzi di riciclaggio devono districarsi in una giungla, nella quale le buone intenzioni di prevedere tutto e di regolare tutto, creano muri, divisioni minuziose, a volte artificiose. Ma anche infidi spazi interstiziali nei quali tornano a infilarsi cattive pratiche.

Alessandro Farruggia, giornalista, si occupa prevalentemente di ambiente ed esteri. Dalla fine degli anni ’80 segue le principali conferenze internazionali sulle tematiche ambientali. Per i suoi reportage dall’Antartide ha vinto il premio Saint Vincent di giornalismo.

Nella gestione dei rifiuti ci sono condotte virtuose passibili di infrazione che sono ormai tollerate. E altre non peggiori che non lo sono. Ci sono troppe norme, alcune in contraddizione tra di loro. E di mezzo rischiano di andarci i cittadini e gli operatori del settore. In qualche caso si è trovata una soluzione, come per le batterie per piccoli apparecchi elettrici, per le quali si era storicamente aperto un problema. Non pochi negozianti avevano realizzato nei loro esercizi commerciali, per venire incontro alle esigenze dei clienti e raccogliere pragmaticamente un rifiuto pericoloso, degli stoccaggi temporanei “di fatto”, che sono stati resi legali, senza prevedere registrazione e autorizzazione, solo dall’articolo 6 del decreto legislativo 188 del 2008, che recepisce la direttiva comunitaria 2006/66/CE. Per un problema al quale è stata trovata soluzione, parecchi altri rimangono aperti. Resta ancora irrisolta la questione dei punti di raccolta dei toner e delle cartucce, tecnicamente rifiuti speciali da stampa informatica esausti, che di fatto è una gestione che non potrebbe essere

effettuata senza autorizzazione dai negozi che vendono “consumabili” da ufficio, e che è quindi – quando l’autorizzazione manca – passibile di infrazione, anche se di fatto viene tollerata. Da notare che se i privati possono conferire alle isole ecologiche, le aziende e i titolari di partite Iva no. È previsto, infatti, per tutti i titolari di partita Iva l’obbligo di avvalersi di recuperatori-rigeneratori autorizzati al trattamento: e non conta se si è uno studio professionale che consuma tre toner all’anno o una azienda che ne usa mille. La Corte di Cassazione ha ribadito (sentenza n. 23971/2011) la corresponsabilità del produttore dei rifiuti “che non si avvale di soggetti autorizzati, non ottempera alla preventiva verifica di tutte le autorizzazioni e che non si accerti dell’effettiva e oggettiva attività di recupero o smaltimento dei rifiuti prodotti, principi posti dall’articolo 178, comma 3, Dlgs 152 del 2006”. Ma per ora, almeno per i privati, prosegue la pratica di lasciare il toner nel negozio che vende la cartuccia nuova. Un altro interessante caso di condotte virtuose che rischiano di essere sanzionate si è aperto con la nascita delle ecopiazzole, prevista dal decreto ministeriale dell’8 aprile 2008. La norma, al punto 37, prevede che gli inerti (miscele di cemento, mattoni, ceramiche) possano essere portati nelle isole ecologiche solo nel caso di “piccoli interventi di rimozione eseguiti direttamente dal conduttore dell’abitazione”. Perché il conduttore ma non il locatore? Mistero. Come è passibile delle più ampie interpretazioni anche il successivo punto 38, che stabilisce che – sempre nel caso di “piccoli


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interventi di rimozione eseguiti direttamente dal conduttore” – sia possibile conferire “rifiuti misti dell’attività di demolizione e costruzione”. Come dire, un mondo. Tutto questo crea disordine, e nel disordine c’è spazio per chi cerca di fare le cose per bene, ma anche per chi se ne approfitta. Un bel problema per i gestori delle isole ecologiche. Un esempio è il recupero e smaltimento degli pneumatici. Il decreto apposito prevede che giustamente nelle isole ecologiche possano essere recuperati solo pneumatici provenienti da utenze domestiche. Ma se, poniamo, un cittadino poco scrupoloso abbandona due copertoni fuori dall’ingresso dell’isola ecologica il gestore dell’impianto o il Comune non può prenderli e portarli nell’isola: deve chiamare lo smaltitore autorizzato. Anche se gli pneumatici sono proprio davanti all’ingresso. Ma è tutto il sistema a risentire di una mancanza di flessibilità che è figlia della stratificazione di leggi e decreti che, nel tentativo di normare tutto il possibile, hanno creato una selva di microcategorie e di disposizioni nelle quali l’errore è dietro l’angolo.

C’è un eccesso di normazione del quale non si sente il bisogno. Ma ormai è un processo irreversibile: si complica quello che potrebbe essere semplice.

“C’è un eccesso di normazione – osserva Paola Ficco, giurista ambientale, già componente del Comitato Ecolabel Ecoaudit Sezione Emas Italia, nonché esperto legislativo del ministero Attività produttive, del ministero dell’Ambiente e membro dell’Albo gestori ambientali – del quale non si sente il bisogno. Ma ormai è un processo irreversibile: si complica quello che potrebbe essere semplice. E nulla sembra indicare che questa tendenza possa invertirsi. È in arrivo uno schema di decreto sui Raee con altre definizioni di stoccaggi. E i problemi si moltiplicano. C’è uno scollamento tra quanto previsto dalla normativa e gli stili di vita. E spesso il legislatore non capisce che una cosa è una condotta a livello industriale, altra sono i comportamenti dei cittadini: sono due piani diversi che andrebbero normati diversamente”. Prendiamo l’esempio delle biciclette. Una bici abbandonata è considerata rifiuto, quindi non può essere riutilizzata se non dopo controllo, pulizia e preparazione. Che gli operatori non professionali non fanno. Altra questione delicata, gli elettrodomestici. Una lavatrice senza spina elettrica è un Raee. Se la gestisce uno smaltitore, tutto bene; ma se la prende un piccolo laboratorio, la ripara e rimette la spina, commette un illecito, e non tutti ne sono consapevoli. Da notare che la nuova direttiva 2012/19/Ue sui Raee, che regola lo smaltimento dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, tende a incentivare il più possibile l’affidamento a smaltitori autorizzati, stabilendo il principio dell’“uno contro zero”, cioè la possibilità per il consumatore di consegnare in negozio lampadine e piccoli elettrodomestici anche senza doverne comperare di nuovi. E per il consumatore è un indubbio vantaggio perché riduce la tentazione di rivolgersi a smaltitori non autorizzati.

Ma talvolta, come nel caso degli abiti usati il confine è sottile. Su questa materia è spesso intervenuta la magistratura, che ha cercato di fornire interpretazioni innovative. In una sentenza la Cassazione penale (30/07/2013, n. 32955) ha confermato la sussistenza del reato di traffico illecito di rifiuti in una fattispecie consistente nella “illecita condotta di una pluralità di soggetti che aveva organizzato la raccolta di abiti dismessi e accessori, prodotti come rifiuti urbani da parte di privati e, previo trasporto presso ditte che fungevano da centro di smistamento, li avevano affidati alla vendita presso il mercato interno ed estero, in assenza del trattamento legislativamente previsto per il recupero, configurando così i reati di associazione a delinquere, attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e falso”. La stessa sentenza ha anche stabilito che gli indumenti usati possono essere considerati come rifiuto soltanto dopo operazioni di raccolta differenziata e, in generale, di dismissione da parte dei precedenti proprietari. In tutti gli altri casi, nei quali non esiste una volontà di dismetterli, ma al contrario c’è il riutilizzo in un diverso ciclo di consumo, non si può parlare di rifiuti ma di vere e proprie merci. Il che significa che occorre una contestualizzazione. “La nozione di rifiuto – precisò la Corte di giustizia europea nel 1997, sentenza Tombesi – va interpretata dinamicamente. Ciò implica che la definizione di rifiuto va interpretata in senso lato”. Ma questo dovrebbe essere recepito anche dalla normativa, specie se si vuole davvero far partire l’economia circolare. “Per avviare dei cicli virtuosi – osserva Paola Ficco – le leggi devono cambiare. Oggi il rifiuto può essere solo smaltito o recuperato, il che significa che per il suo riutilizzo serve una preparazione che deve essere autorizzata mediante una procedura complessa in carico a Regioni e Province. Si devono pagare fidejussioni, va predisposto un formulario, si devono utilizzare trasportatori autorizzati. Ciò va bene per l’industria del riciclo. Ma per piccole attività, per piccoli numeri, non è fattibile. Anche perché espone chi si mette in gioco, spesso in perfetta buona fede, a un fortissimo rischio. È chiaro – prosegue Paola Ficco – che la definizione di rifiuto, se davvero si vuole l’economia circolare, deve cambiare e si deve tornare al concetto di abbandono. Bisogna riposizionare i termini della questione, essere sereni nei confronti dei rifiuti considerandoli davvero delle risorse. E poi la normativa è troppo farraginosa: le norme vanno rese più chiare, senza una serie infinita di eccezioni. Quali condotte sono lecite e quali no, io lo devo sapere prima e in maniera semplice.” Ancora una volta uno dei problemi è l’Europa, perché nella bozza di direttiva sull’economia circolare la definizione di rifiuto non cambia. E così, da un lato si dice che molti materiali sono risorse e non rifiuti, ma per la norma sono ancora rifiuti. E il sospetto è che di circolare, nella gestione dei rifiuti, per adesso c’è solo la burocrazia.

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Una pericolosa

La normativa – europea e italiana – non sembra tenere il passo con lo sviluppo che sta vivendo la chimica verde, continuamente sollecitata alla ricerca e innovazione. Il rischio è che si scontri con il concetto di riutilizzo di uno scarto e con quello dell’uso a cascata.

di Sofia Mannelli

Sofia Mannelli, presidente di Chimica Verde Bionet dal 2012 si occupa da 15 anni di bioenergie e chimica verde. Ha co-redatto il Piano di settore interno al tavolo di filiera nazionale sulle bioenergie promosso dal Mipaaf ed è stata consigliere per le bioenergie di tre ministri delle Politiche agricole.

Comunque lo si osservi, il criterio stesso di bioraffineria implica innovazione: dalla scelta del luogo di produzione – spesso in aree industriali dismesse – alla tipologia di materia prima, sia essa da filiere dedicate o da utilizzo di residui, dalle tecniche colturali all’impiego di packaging almeno parzialmente rinnovabile. Non solo. Tutta la filiera produttiva è sollecitata verso la ricerca costante di nuove soluzioni per ridurre gli sprechi nei processi, per impiegare il materiale in ingresso all’impianto secondo il principio “a cascata” così da estrarre sequenzialmente tutti i possibili composti ad alto valore aggiunto, e solo in ultimo utilizzare i sottoprodotti finali per recuperare energia e calore. Ormai ci sono innumerevoli esempi che testimoniano il forte grado di innovazione nelle tecnologie di produzione della chimica verde: frammentazione tramite pretrattamento meccanico

Illustrazione di Michela Lazzaroni

MIOPIA

o a microonde, frazionamento attraverso trattamenti meccanico-fisici (per esempio steam explosion) o biologici (enzimi), liquefazione tramite idrolisi enzimatica o acida, liquefazione idroterma, catalitica e non, pirolisi lenta (carbonizzazione) o veloce (flash), catalitica e non. Tutte tecnologie sviluppate in tempi relativamente recenti e adattate specificatamente allo sviluppo dell’industria biobased. L’Italia è tra i paesi più avanzati in questo settore, sia come tecnologie e brevetti, sia come prodotti innovativi e capacità di acquisto intelligente da parte del consumatore. Ma a questo poderoso sviluppo non si accompagna una normazione europea – e soprattutto nazionale – in grado di far crescere il comparto o almeno di non ostacolarlo. Occorre riconoscere che in Europa, almeno con le precedenti Commissioni, sono stati fatti molti passi avanti e si è cercato di stimolare gli Stati membri con strategie innovative e progressiste.


Policy Purtroppo però l’attuale Commissione ha molto affievolito questa enfasi. Strategie come i “Mercati guida: un’iniziativa per l’Europa” del 2007 o il “Pacchetto clima energia” del 2009 o ancora “Una strategia per una bioeconomia sostenibile per l’Europa” del 2012 sono stati passaggi importantissimi per rimuovere il veto posto allo sviluppo della bioeconomia da molte lobbies legate al passato. L’Italia ha avuto un rapidissimo momento magico già nel 2006 quando, grazie a un emendamento dell’allora senatore Francesco Ferrante alla legge Finanziaria 2007 (n. 296/2006), venne approvato il blocco alla commercializzazione dei sacchetti non biodegradabili e non compostabili. Sempre in quegli anni sono nate varie norme di forte incentivazione per le prime filiere di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile distribuita. Si trattò di leggi lungimiranti, promosse con forte determinazione contro molti comparti industriali più obsoleti, ma necessarie per dare il primo impulso a un intero settore che adesso vanta successi e tecnologie estremamente competitive. Furono fatti errori, ma successivamente fu migliorato il sistema e le cose funzionarono. Tra gli errori, il tentativo di decreto bioraffinerie, malfatto e inservibile, che non ha certo fatto bene al settore. Dopo quasi il buio.

Questa miopia legislativa si scontra frontalmente con il concetto di riutilizzo di uno scarto, con il criterio innovativo dell’uso “a cascata”, con tutte quelle tecnologie utilizzate per l’estrazione delle molecole ad alto valore aggiunto che non hanno niente della normale pratica industriale.

Ma adesso a che punto siamo sia in Europa sia in Italia? Accenno a una sola tematica, quella dei cosiddetti sottoprodotti, perché la ritengo determinante anche alla luce del nuovo testo della direttiva rifiuti proposto dalla Commissione europea nell’ambito della strategia Ue sull’economia circolare, denominata “l’anello mancante”. Nonostante la reiterata volontà europea di riduzione e riutilizzo degli scarti alimentari e non, la normativa italiana per la corretta classificazione dei sottoprodotti è molto ambigua, e ciò ha determinato notevoli difficoltà a parecchie filiere produttive, provocando, in non pochi casi, anche eclatanti risvolti giudiziari a carico di imprenditori agricoli. La definizione di sottoprodotto compare per la prima volta in termini di diritto positivo nell’articolo 5 della nuova direttiva 2008/98/CE. In sintesi, una sostanza per definirsi sottoprodotto deve provenire regolarmente da un processo di produzione del quale però non sia il prodotto primario; deve essere certo il suo riutilizzo; non deve subire alcun “trattamento diverso dalla normale pratica industriale”; e – infine – il suo uso non deve arrecare alcun danno all’ambiente o all’uomo. L’aspetto più controverso in questa definizione è proprio il principio di “normale pratica industriale”, sul quale vi sono molte interpretazioni in conflitto tra loro. A seconda dell’interpretazione dominante, cambia la classificazione di ciò che è sottoprodotto e di ciò che non lo è. Secondo la maggioranza dei giuristi, i trattamenti della “normale pratica industriale” possono definirsi come il complesso di operazioni

o fasi produttive che caratterizza un dato ciclo di produzione di beni in base a una “prassi consolidata” nel settore specifico di riferimento. Tali operazioni non devono incidere sull’identità e sulle qualità merceologiche e ambientali del sottoprodotto, qualità che sussistono, per definizione, sin dal momento della sua produzione (e dunque in una fase precedente). Siamo quindi all’interno di un bel ginepraio. Negli ultimi anni il ministero dell’Ambiente ha cercato di elaborare due proposte di decreto, nate sotto diversi governi – una pare sia in sosta alla Presidenza del Consiglio – per agevolare il settore imprenditoriale nell’utilizzo dei sottoprodotti. Ma nessuna delle due è intesa a recepire l’importanza del concetto di innovazione, connaturato al criterio di bioraffineria. La normale pratica industriale, di cui tratta la giurisprudenza, riconosce solo la pratica ordinariamente in uso nello stabilimento che utilizzerà il sottoprodotto e le operazioni consentite non possono che identificarsi con quelle che l’impresa normalmente attua sulla materia prima tradizionale. Addirittura vi sono interpretazioni più restrittive secondo le quali ogni eventuale trattamento consentito del residuo non deve mai comportare una trasformazione della sostanza o dell’oggetto. Purtroppo anche il nuovo pacchetto di misure sull’economia circolare proposto dalla Commissione europea e pubblicato a dicembre 2015 non rileva questo problema, nonostante la strategia comunitaria sia “incentrata sulla promozione della economia circolare tecnologicamente avanzata e in grado di utilizzare le risorse in modo efficiente”. Anzi lo aggrava perché rimuove l’intervento degli Stati membri, i quali non avranno più la possibilità di “adottare misure per stabilire i criteri da soddisfare affinché sostanze od oggetti specifici siano considerati sottoprodotti e non rifiuti” che è stato lo strumento legale attraverso il quale il ministero dell’Ambiente si è mosso nel suo tentativo. In pratica la Commissione revoca a sé tutti i provvedimenti. Questa miopia legislativa si scontra frontalmente con il concetto di riutilizzo di uno scarto, con il criterio innovativo dell’uso “a cascata”, con tutte quelle tecnologie utilizzate per l’estrazione delle molecole ad alto valore aggiunto che non hanno niente della normale pratica industriale e che spesso sono il recentissimo frutto di lunghi e costosi progetti di ricerca e sviluppo. Dopo un trattamento con queste nuove tecnologie i sottoprodotti all’interno di una bioraffineria sono pronti per essere sequenzialmente utilizzati in altri impianti collegati tra loro e organizzati in “simbiosi industriale” per essere trasformati in un ampio spettro di bioprodotti. Ora, alla luce della norma, ogni residuo che deriva da un processo di lavorazione potrebbe essere potenzialmente un rifiuto, dato che certamente subirà dei trattamenti non riferibili alla normale pratica industriale. Con tutto ciò che un rifiuto comporta per gli adempimenti burocratici, i costi e le fortissime restrizioni al suo impiego.

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materiarinnovabile 10. 2016

Economia circolare e responsabilità del produttore:

un matrimonio che può funzionare

Chi produce un bene deve gestirne l’intero ciclo di vita, occupandosi anche di quando tale prodotto diventa un rifiuto. Solo così si possono evitare distorsioni e inefficienze che metterebbero a rischio l’obiettivo di realizzare un modello economico circolare. di Giovanni Corbetta

Giovanni Corbetta è direttore generale di Ecopneus.

L’esperienza di alcuni anni nella gestione degli pneumatici fuori uso ci ha confermato che, per raggiungere l’obiettivo di un loro effettivo e totale riciclo e attuare così un modello economico circolare minimizzando il ricorso a contributi economici da parte del consumatore, occorre una gestione attenta e responsabile. Concretizzata, in particolare, nell’attenzione che ogni produttore deve avere verso i propri prodotti e verso i clienti che acquistano tali prodotti (e a cui garantire il miglior prezzo). Il concetto di responsabilità estesa del produttore (Epr) risponde a questa necessità di visione integrata: dalla progettazione al reintegro dei materiali riciclati in nuove applicazioni, passando attraverso la produzione e la commercializzazione dei prodotti e la loro raccolta e riciclo a fine vita. La Epr rappresenta un approccio molto avanzato, in grado di sostenere non solo lo sviluppo tecnologico sempre più sofisticato nell’ecodesign, nella produzione, nelle modalità di riciclo – assicurando al contempo che le scelte aziendali rispondano a una totale sicurezza verso

le persone e l’ambiente – ma anche lo sviluppo dei mercati di sbocco. L’ultimo anello della filiera del trattamento del rifiuto, ossia il singolo riciclatore, spesso deve affrontare il problema di trovare validi sbocchi di mercato del materiale derivante dal riciclo. Per ovvie ragioni di bilanciamento dei flussi e di valorizzazione dei materiali riciclati, il suo mercato di riferimento deve sempre più essere rappresentato dal settore industriale che ha progettato e realizzato il prodotto poi divenuto rifiuto. Un presupposto necessario per poter assumere tale ruolo di “facilitatore” della realizzazione di una filiera regolarmente e proficuamente funzionante è però che il produttore sia effettivamente messo in condizione di organizzare e controllare la gestione del proprio prodotto a fine vita. Solo così viene data corretta attuazione alla responsabilità estesa del produttore che nasce, come evidente dalla stessa locuzione, dall’esigenza di responsabilizzare il produttore non solo sugli aspetti più tradizionali della commercializzazione del prodotto (prestazione, rispetto norme tecniche,

Illustrazione tratta da freepik.com

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Policy garanzia) ma anche in relazione al cosiddetto “fine vita”, in coerenza con il principio “chi inquina paga”. La responsabilità estesa del produttore, dunque, non può che essere posta esclusivamente a capo degli stessi produttori, e quindi del relativo settore industriale, che dopo aver progettato, costruito e commercializzato il prodotto, vengono obbligati a gestirne il fine vita.

La responsabilità estesa del produttore nasce [...] dall’esigenza di responsabilizzare il produttore non solo sugli aspetti più tradizionali della commercializzazione del prodotto [...] ma anche in relazione al cosiddetto “fine vita”, in coerenza con il principio “chi inquina paga”.

Appare invece contrario ai principi della Epr trasferire la responsabilità per la gestione del fine vita a soggetti diversi dai produttori dello specifico prodotto. Infatti, l’assegnazione di tale ruolo a soggetti che non sono espressione diretta del produttore del bene in questione, come organizzazioni o consorzi che gestiscono per conto dei propri soci altri rifiuti, non solo equivarrebbe a estromettere i “veri” produttori dalla gestione del fine vita del proprio prodotto, ma genererebbe una serie di altri rischi. Un primo rischio che si correrebbe riguarda il raggiungimento di un livello ottimale di efficienza dei costi. Quanto maggiore è la specializzazione di una Producers Responsibility Organization (Pro) nella gestione del proprio prodotto giunto a fine vita (e quindi di una singola tipologia di rifiuto), tanto aumenta la capacità di tale Pro di trovare, grazie alla conoscenza accurata del settore, soluzioni ottimali in grado di generare ripercussioni positive sul costo della gestione, sull’ammontare del contributo ambientale, nonché sul prezzo del prodotto. Ciò, a maggior ragione, ove la Pro è gestita dal settore produttivo dello stesso bene giunto a fine vita. Il raggiungimento di un livello ottimale di efficienza dei costi è autentico interesse dello stesso produttore di un bene, in quanto nessuno più di lui ha vantaggio nel ridurre il valore del contributo ambientale da chiedere ai propri clienti per la gestione del fine vita. Ma possono esserci anche rischi di possibili conflitti d’interesse: una Pro, espressione dei produttori di un rifiuto X, nel momento in cui potesse operare anche sui rifiuti W, Y e Z in nulla si differenzierebbe rispetto a un ordinario operatore multicodice, per il quale i rifiuti costituiscono il presupposto per il funzionamento della propria azienda. Come tale, esso ha un interesse tendenzialmente antagonista alla prevenzione della generazione del rifiuto. Inoltre, il gestore della filiera del rifiuto ha un interesse opposto a quello del produttore. Se il finanziamento dei sistemi di Epr rappresenta per il primo una fonte di guadagno, lo stesso finanziamento produce un effetto negativo per il produttore, dal momento che grava sul costo di acquisto del prodotto, senza generare per lui alcun guadagno. C’è poi un rischio per l’efficacia dell’ecodesign, ambito che attiene esclusivamente al settore dei produttori ed è, al contempo, strettamente

collegato alla responsabilità estesa del produttore: l’assegnazione della gestione dei prodotti a fine vita a un soggetto diverso dai produttori non garantisce il filo diretto tra la progettazione e la fase del fine vita. Le organizzazioni di gestione dei rifiuti mostrano molteplici gradi di maturità e diverse posizioni di mercato. Permettere di occuparsi anche di rifiuti non prodotti dai soggetti aderenti porta facilmente a una distorsione della concorrenza a favore di soggetti presenti da tempo sul mercato, che così estenderebbero il proprio raggio di azione ad altre tipologie di rifiuto, conseguendo un indubbio vantaggio rispetto ai Pro di nuova costituzione. Peraltro, la gestione frammista di più tipologie di rifiuto da parte dello stesso soggetto genera rischi di trasparenza gestionale, con spostamento di costi e ricavi, di criticità e vantaggi, di inconvenienti e benefici. L’economia circolare passa attraverso la corretta gestione dei rifiuti e questo richiama immediatamente due punti di attenzione: gli impatti connessi alla forte responsabilità sociale (ambientale) e le responsabilità derivanti dalla delicata gestione dei contributi economici (importi che il consumatore paga per legge). È pertanto essenziale che per le Producers Responsibility Organization vengano esplicitati specifici obblighi comportamentali, quali indicatori di performance ambientale, etica, rendicontazione e trasparenza; non distorsione della concorrenza; copertura geografica nazionale; meccanismi idonei a evitare il cherry picking; rispetto della gerarchia dei rifiuti e nessuna forma anche indiretta di profitti o benefici sostitutivi. Ciò presuppone l’esistenza di un efficace sistema di controlli: autorità di sorveglianza, verifiche regolari sul modello organizzativo e sui processi aziendali, regolari audit sui flussi di competenza e sugli indicatori economici. Sarà verosimilmente la stessa legislazione Ue a rendere presto obbligatoria l’istituzione di meccanismi di regolamentazione nazionale dei vari schemi di Epr presenti nei diversi paesi. Considerata la varietà e lo stato più o meno evoluto di tali schemi, la Commissione europea, nella recente proposta di revisione della direttiva 2008/98/Ce sui rifiuti presentata a dicembre 2015, ha suggerito i contenuti indispensabili per definire inequivocabilmente il concetto. Anche il legislatore italiano ha riconosciuto la necessità del controllo e del monitoraggio dei sistemi di Epr. L’articolo 29 del Collegato ambientale alla Legge di stabilità 2014 (legge n. 221 del 28 dicembre 2015) attribuisce ora al ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare funzioni di vigilanza e controllo in materia, in linea con il dictat della proposta di revisione della direttiva rifiuti presentata dalla Commissione europea. Evidentemente anche in Italia i tempi sono maturi.

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materiarinnovabile 10. 2016 Rifiuti: diverse forme di responsabilità di David Röttgen, partner dello studio legale Ambientalex e membro della Commissione Ippc del ministero dell’Ambiente.

Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale”, www.camera.it/parlam/ leggi/deleghe/06152dl.htm

Quando si parla di rifiuti nasce anche la necessità di individuare correttamente il soggetto su cui grava la responsabilità della relativa gestione. Salvo qualche eccezione, la normativa italiana ha optato per la “corresponsabilizzazione” di tutti i soggetti concretamente implicati nel circuito della produzione e gestione del rifiuto, prevedendo che il produttore iniziale, o altro detentore di rifiuti, conservino la responsabilità per l’intera catena di trattamento del rifiuto (art. 188, Dlgs 152/2006). Esiste, tuttavia, un ulteriore e distinto tipo di responsabilità. Trattasi della cosiddetta “responsabilità estesa del produttore del prodotto”, di recente introduzione (art. 178-bis, Dlgs 152/2006), che chiama in causa i soggetti che hanno materialmente prodotto i beni estendendo la loro responsabilità anche alla fase di “fine vita” del proprio prodotto, ossia alla fase in cui lo stesso diventa un rifiuto. È importante tuttavia non incorrere nell’errore di confondere la “responsabilità estesa del produttore del prodotto” con la “classica” responsabilità di chi produce il rifiuto e dei soggetti che intervengono nel trattamento dello stesso (disciplinata all’articolo 188 del medesimo Dlgs 152/2006). E ciò non solo per il fatto che esse sono ben distinte dal punto di vista normativo, ma anche perché gli interessi del produttore del prodotto e di chi gestisce un rifiuto sono spesso divergenti. Il produttore di un prodotto è interessato a limitare la quantità di rifiuti generati dai suoi prodotti, mentre il gestore di un rifiuto certamente non trarrebbe vantaggio da una riduzione dei rifiuti, che costituiscono la sua “materia prima”. Nel dibattito quotidiano, tuttavia, si tende a confondere spesso il ruolo dei produttori dei prodotti da quello di chi gestisce materialmente il rifiuto (raccoglitori, riciclatori ecc.). Tale confusione origina da un utilizzo – non sempre appropriato – del termine “responsabilità condivisa”. In alcuni casi, infatti, il concetto viene utilizzato per affermare che tutti i soggetti della filiera di gestione del rifiuto sono in solido responsabili in caso di mala gestio di un rifiuto. In altri è invocato per giustificare la richiesta che i sistemi collettivi agiscano di concerto, ovvero si coordinino con i soggetti impegnati nella raccolta e nel trattamento del rifiuto. Infine per alcuni giustificherebbe il diritto di partecipazione anche dei raccoglitori, riciclatori ecc. ai sistemi collettivi istituiti in forza della “responsabilità

estesa del produttore del prodotto”, in qualità di soci. Chi argomenta in tal senso travisa il significato che la stessa legge attribuisce al concetto: il legislatore italiano riconosce infatti la “responsabilità condivisa” solo ed esclusivamente nel settore degli imballaggi. Al contrario, la “norma principe” (art. 178-bis) sulla “responsabilità estesa del produttore del prodotto” non la menziona in alcun modo. Ma anche per quanto riguarda lo specifico settore degli imballaggi, i destinatari della “responsabilità condivisa” ivi prevista non sono affatto gli operatori della filiera del rifiuto, bensì solo ed esclusivamente gli “operatori delle rispettive filiere degli imballaggi” [cfr. art. 217, comma 2): ossia i produttori (fornitori di materiali di imballaggio, fabbricanti, trasformatori e importatori di imballaggi vuoti e di materiali di imballaggio) e gli utilizzatori (commercianti, distributori, addetti al riempimento, utenti di imballaggi e importatori di imballaggi pieni)]. In sintesi, è comunque possibile giungere alle seguenti conclusioni: •• La “responsabilità condivisa”, esclusivamente riferibile al produttore del prodotto (e non anche al produttore del rifiuto), è da tenere ben distinta dalla “corresponsabilità” di tutti i soggetti concretamente implicati nel circuito della produzione e gestione del rifiuto. •• La nozione di “responsabilità condivisa” non richiede affatto la concertazione tra sistemi collettivi e soggetti dediti alla raccolta e trattamento del rifiuto. •• Tantomeno è in grado di giustificare il fatto che ai sistemi collettivi (consorzi ecc.), istituiti in forza della “responsabilità estesa del produttore del prodotto”, abbiano diritto di partecipare, in qualità di soci, anche coloro che gestiscono materialmente i rifiuti. È contrario ai principi della “responsabilità estesa del produttore” trasferire la stessa su soggetti diversi dai produttori dello specifico prodotto. Peraltro, escludendo gli operatori del settore della gestione dei rifiuti dalla governance dei sistemi collettivi, non si genera affatto il rischio di “eliminare” dal sistema della responsabilità estesa del produttore il settore industriale legato alla gestione dei rifiuti. Infatti, il settore produttivo, soggetto alla “responsabilità estesa del produttore del prodotto”, necessita comunque, per adempiere ai propri obblighi, del settore della gestione dei rifiuti. Il tutto però tenendo ben distinti i rispettivi ruoli e funzioni.


“Carbon Tracker has changed the financial language of climate change�. The Guardian, May 2014

arbon Tracker

Initiative

Financial specialists making carbon investment risk visible in the capital markets today. www.carbontracker.org @carbonbubble



Policy

È ora di passare

DALLE PAROLE AI FATTI di Mario Bonaccorso

A Utrecht il 12 e 13 aprile la quarta Conferenza europea degli stakeholder della bioeconomia. Lanciato il Manifesto che sarà alla base della nuova strategia dell’Unione. La sfida va giocata ad armi pari: il nodo sono gli incentivi ai combustibili fossili.

Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

Dalle parole ai fatti. È questa in sintesi la richiesta lanciata all’Unione europea dalla quarta Conferenza degli stakeholder della bioeconomia che si è tenuta a Utrecht, nei Paesi Bassi, il 12 e il 13 aprile, nella modernissima sede della Rabobank Nederland. Serve la politica, quella con la P maiuscola, capace di prendere subito decisioni anche scomode con un orizzonte di medio-lungo periodo, per affrontare il cambiamento climatico – la più grande minaccia che grava oggi sull’umanità – e favorire l’approdo a una società post-petrolifera. “Serve una vera leadership”, è scritto anche nell’introduzione del Manifesto che rappresenta il lascito di questa conferenza a beneficio della Commissione europea. Ma si sa, non è più il tempo di Adenauer, Schuman o De Gasperi. Lo sguardo della politica è a breve distanza, ancorato alle elezioni e ai voti. Si nutre di sondaggi e di emozioni. Non è un caso, quindi, che il tema dell’educazione e dell’informazione dell’opinione pubblica sia stato uno dei principali protagonisti della conferenza olandese. Per discutere di bioeconomia si sono riunite, sotto la presidenza olandese dell’Unione europea, oltre 400 persone in rappresentanza di grandi e piccole imprese, cluster, università

European Bioeconomy Stakeholders Manifesto, bioeconomyutrecht2016. eu/Static/bioeconomy utrecht2016.eu/Site/ Manifest.pdf

e associazioni di settore industriali e agricole. Obiettivo: elaborare un Manifesto che sarà alla base della nuova strategia europea, attesa per la fine dell’anno. Se la Conferenza di Copenaghen nel 2012 era stata l’occasione per il lancio della strategia, Dublino e Torino – rispettivamente nel 2013 e 2014 – due momenti dedicati alle prime valutazioni dei risultati raggiunti nella sua implementazione, Utrecht ha rappresentato senza dubbio un punto nodale per un cambiamento di marcia che chiama le istituzioni europee e nazionali alle proprie responsabilità: “L’enorme transizione da un’economia basata sui combustibili fossili a una bioeconomia sostenibile – si legge nel Manifesto – implica un lavoro ambizioso e interventi coordinati. I governi e le imprese europee dovrebbero investire a piene mani in ricerca e sviluppo, produzione sostenibile, lancio sul mercato, innovazioni, potenziamento delle industrie e normative intelligenti.” Ma la transizione richiede anche un ruolo attivo della società, richiamato a gran voce da molti degli intervenuti. A partire da John Bell, il direttore della Direzione Bioeconomia della Commissione europea, che ha definito la società come “forza trainante della bioeconomia”,

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materiarinnovabile 10. 2016 fino a Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, per la quale “la bioeconomia è una grande opportunità per ricongiungere l’economia alla società”. Come fare? “Servono – ha affermato la manager della società di Novara – programmi educativi che coinvolgano privati, istituzioni pubbliche e fondazioni, anche finalizzati alla creazione di green jobs”, insieme a “un sostegno alla domanda di nuovi prodotti biobased attraverso un sistema di Green Public Procurement”. L’introduzione di nuove politiche sul fronte della domanda è stato un altro degli argomenti maggiormente dibattuti nei Paesi Bassi. L’ha definita “una misura necessaria” anche Pekka Pesonen, il segretario generale di Copa Cogepa, la più grande associazione di agricoltori e di cooperative agricole in Europa. “Con gli attuali prezzi del petrolio bassi – è scritto nel Manifesto conclusivo – la bioeconomia ha poche possibilità di emergere. Serve introdurre obiettivi obbligatori e ambiziosi per prodotti di origine biologica negli appalti pubblici, un programma volontario di etichettatura, come nel BioPreferred Program degli Stati Uniti. Si dovrebbe prestare anche particolare attenzione alle Pmi, sostenendo le loro innovazioni, attraverso, per esempio, politiche di appalti pubblici.”

In Svizzera, dunque nel cuore dell’Europa, la tassa sulla CO2 rappresenta uno strumento fondamentale per raggiungere gli obiettivi nazionali legati alla lotta ai cambiamenti climatici.

La Conferenza di Utrecht viene dopo il Bioeconomy Investment Summit di Bruxelles e il Global Bioeconomy Summit di Berlino, che sono stati, lo scorso novembre, importanti vertici di confronto tra la Commissione europea e gli stakeholder e hanno consegnato indicazioni precise sul fronte delle politiche e degli investimenti necessari a dare impulso al settore. Ma – soprattutto – viene dopo la presentazione del pacchetto sull’economia circolare da parte della Commissione e la COP21 di Parigi dello scorso dicembre, che ha rappresentato – a detta di tutti – una grande spinta sull’acceleratore per la bioeconomia. Ora però bisogna evitare che la Commissione europea guidi con un piede sull’acceleratore e l’altro sul freno. Sono molte le questioni ancora aperte. Innanzitutto – reclamano gli stakeholder nel Manifesto – non c’è parità di trattamento tra prodotti biobased e prodotti fossili. “Secondo le stime del Fmi, i sussidi globali per i combustibili fossili nel 2015 ammontavano a 5.300 miliardi di dollari. Non chiediamo un equivalente europeo di questo sussidio, però vorremmo che una modesta quota di tale somma venisse investita in bioeconomia: 5 miliardi di dollari l’anno per il periodo 2017-2025 in un programma di investimenti europei che comprendano iniziative faro, progetti pilota, ricerca e innovazione e apprendimento reciproco.” Ma non solo: non considerare il costo delle esternalità negative causate dai prodotti di origine fossile crea distorsioni nel mercato. In sostanza: chi paga per i danni causati dalle

emissioni di CO2? La necessità di una carbon tax è stata condivisa a Utrecht. Il primo a sollevare la questione è stato Bertholt Leeftink, direttore generale Impresa e Innovazione al ministero degli Affari economici olandese. Si tratta di un passo in avanti sostanziale nella discussione europea. In Svizzera, dunque nel cuore dell’Europa, la tassa sulla CO2 rappresenta uno strumento fondamentale per raggiungere gli obiettivi nazionali legati alla lotta ai cambiamenti climatici. Si tratta di una tassa d’incentivazione riscossa dal 2008 sui combustibili fossili, come l’olio da riscaldamento o il gas naturale: la tassa fa lievitare i prezzi, incentivando a ridurre il consumo di questi combustibili e a impiegare maggiormente prodotti o energie senza emissioni o a basse emissioni di CO2. Ogni anno, circa due terzi dei proventi della tassa sono restituiti alla popolazione e alle imprese a prescindere dal consumo. Un terzo, invece, (al massimo 300 milioni di franchi) confluisce nel Programma edifici che ha lo scopo di promuovere misure di riduzione delle emissioni di CO2 (come i risanamenti energetici e le energie rinnovabili) e altri 25 milioni vengono investiti nel fondo per le tecnologie. Un modello, quello svizzero, certo non facile da imitare per un’Unione europea che non ha ancora una politica economica e fiscale unica e appare sempre più debole sul fronte della coesione politica. La conferenza ha lasciato comunque a tutti una certezza: l’Europa non è all’anno zero della bioeconomia. Ci sono un’agricoltura e un’industria in grado di innovare e di investire, come testimonia anche la presenza di alcune delle più importanti bioraffinerie al mondo, di seconda e terza generazione. Il livello d’eccellenza delle università e dei centri di ricerca non è mai stato in discussione. Le partnership pubblico-private lanciate negli ultimi anni, come la Bio-based Industries Joint Undertaking da 3,7 miliardi di euro, hanno permesso un nuovo e vigoroso slancio. E un numero sempre maggiore di regioni europee e di stati si sono dotati di una strategia: proprio a marzo scorso la Spagna ha pubblicato la propria e in Francia è attesa prima dell’estate. Anche al di là dell’Atlantico oggi l’Europa viene guardata con ammirazione. La stessa Dsm, il colosso biotech olandese, ha annunciato a Utrecht che presto molti degli investimenti realizzati negli Stati Uniti saranno riportati nel Vecchio Continente. “Il passaggio alla bioeconomia è irreversibile”, ha affermato John Bell, l’uomo che ha assunto un ruolo sempre più centrale e di leadership nella bioeconomia europea. Un concetto condiviso da tutti i 400 stakeholder riunitisi a Utrecht. Non resta che renderne consapevole la società. E la classe politica.


Dossier

REGNO UNITO Al quarto posto in Europa dopo Germania, Francia e Italia, la bioeconomia oltre Manica vale oggi 153 miliardi di sterline e conta piÚ di quattro milioni di posti di lavoro. Il paese ha le carte in regola per decollare e diventare un centro mondiale d’innovazione nel settore. A patto di mettere a punto, subito, una strategia nazionale e un piano d’azione.


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materiarinnovabile 10. 2016

Dossier Regno Unito

Una partenza

IN SALITA

di Mario Bonaccorso

Nella bioeconomia il Regno Unito ha ancora parecchia strada da fare. Ma – grazie al biotech – le potenzialità di crescita sono notevoli. E non mancano visione e investimenti da parte del governo inglese.

C. Burns, A. Higson, E. Hodgson, “Five recommendations to kick-start bioeconomy innovation in the UK”, BIOfpr, v. 10, n. 1, gennaio/febbraio 2016; onlinelibrary.wiley.com/ doi/10.1002/bbb.1633/full

Nel Regno Unito manca una strategia che supporti lo sviluppo della bioeconomia. Nonostante abbia il potenziale per essere uno dei paesi leader nel mondo, ci sono ancora diverse barriere politiche, economiche e sociali che frenano l’innovazione in questo campo. “Sono necessarie – scrivono Caitlin Burns, Adrian Higson ed Edward Hodgson in un documento pubblicato a gennaio di quest’anno intitolato ‘Five recommendations to kick-start bioeconomy innovation in the UK’ – misure concrete che consentano di colmare l’attuale divario esistente con gli Stati Uniti, il Brasile, la Francia, l’Italia, la Germania e i Paesi scandinavi”.

Le copertine che illustrano questo dossier sono prototipi vincenti di un modello di comunicazione che non ha avuto eguali nel mondo. Grande inventore di trend e vettore di gusto e stile, il Regno Unito ha qui giocato le sue carte con irriverenza e imprevedibilità Immagine in alto: Joy Division, Unknown Pleasures, 1979. Album di debutto della new wave inglese, design di Peter Saville, Factory Records

Burns e Higson sono due consulenti di Nnfcc, società con sede a York fondata dal governo britannico nel 2003, che si è via via specializzata nella bioeconomia; Hodgson è un ricercatore della Aberystwyth University in Galles. La loro ricetta per fare fiorire la bioeconomia oltre Manica è semplice, almeno in teoria. Ecco gli ingredienti: una politica intersettoriale e di lungo termine; il supporto a un processo di clusterizzazione sul modello di quanto fatto nello Yorkshire con BioVale; il trasferimento tecnologico, dal laboratorio all’impianto pilota fino alla commercializzazione; un sistema di appalti pubblici verdi. Infine, aumentare la consapevolezza pubblica e l’accettazione dei prodotti biobased. La terziarizzazione dell’economia Oggi il Regno Unito sembra pagare in campo bioeconomico la terziarizzazione della propria

economia. Il paese rappresenta la sesta economia mondiale – la terza a livello europeo – con un pil nominale pari a 2.945 miliardi di dollari e uno pro capite di circa 45.000 dollari nel 2014. A fare da traino è soprattutto il settore dei servizi che contribuisce per 4/5 al prodotto interno lordo nazionale, seguito dall’industria (circa il 20%), mentre l’agricoltura vi concorre soltanto in maniera residuale (meno dell’1%). Secondo un’analisi realizzata a giugno 2015 da Capital Economics, una delle principali società indipendenti di ricerca macroeconomica al mondo, il valore aggiunto lordo della bioeconomia oltre Manica è di 153 miliardi di sterline, con oltre quattro milioni di posti di lavoro, considerando anche l’indotto. Questo fa del Regno Unito il quarto paese in Europa dietro Germania, Francia e Italia. Un altro studio realizzato dal centro studi della Banca Intesa Sanpaolo ha invece stimato il valore della produzione della bioeconomia targata UK in circa 171 miliardi di euro, con 888.000 addetti. Collocandola così al quinto posto in Europa, perché in questo caso anche la Spagna è davanti grazie soprattutto al peso dell’agroalimentare. La centralità delle biotecnologie industriali Le potenzialità di crescita grazie all’innovazione sono, però, davvero enormi. La Chemistry Growth Partnership, un’iniziativa pubblico-privata che si inserisce nella strategia per la crescita della chimica lanciata dal governo nel 2013, stima che l’economia nazionale beneficerebbe di 8 miliardi di sterline entro il 2030 se l’industria chimica utilizzasse biomassa come materia prima.


Policy

Capital Economics, The British bioeconomy, giugno 2015; www.bbsrc. ac.uk/documents/capitaleconomics-britishbioeconomy-report-11june-2015/

Chemistry Growth Partnership, ukchemistrygrowth.com/ Partnership.aspx

E crescerebbe di 4-12 miliardi di sterline all’anno se fossero impiegate le biotecnologie industriali. Secondo una relazione governativa, dal 2009 al 2013 il settore del biotech industriale è cresciuto dell’11% annuo in termini di fatturato e del 5% in termini di occupazione. Non è un caso, quindi, che le principali iniziative di creazione di nuove imprese in Gran Bretagna siano riconducibili alle biotecnologie. Due casi su tutti hanno guadagnato crescente visibilità nell’ultimo periodo: Celtic Renewables e Biome Bioplastics. La prima è una società biotech scozzese che impiega gli scarti della produzione del whisky per sviluppare biocarburanti avanzanti e anche altri biochemicals: nel 2015 si è aggiudicata il premio EuropaBio (l’associazione europea della bioindustria) come Pmi più innovativa nel campo delle biotecnologie industriali. La seconda è una società con sede a Southampton che produce una bioplastica biodegradabile e compostabile. In attesa di una strategia nazionale A svolgere le funzioni di organismo consultivo del governo nelle questioni relative alla bioeconomia è l’Industrial Biotechnology Leadership Forum, associazione che mette insieme industria, investitori e istituzioni.

Industrial Biotechnology Leadership Forum, connect.innovateuk. org/web/industrialbiotechnology

“Il Regno Unito – sostengono ancora Burns, Higson e Hodgson – ha il potenziale per essere un centro mondiale d’innovazione nella bioeconomia, grazie alla presenza di diversi fattori: una forte ricerca di base, molte imprese all’avanguardia tecnologica, un supporto attivo degli investitori, delle reti e delle istituzioni. C’è assoluto bisogno,

però, di una strategia nazionale e di un piano d’azione conseguente.” Non si può dire, comunque, che manchino una visione e un’iniziativa da parte del governo. Lo scorso anno il ministero per il Commercio, le Imprese e l’Energia ha pubblicato un documento – Building a high value bioeconomy. Opportunities from waste – che colloca lo sviluppo della bioeconomia all’interno del paradigma dell’economia circolare. La visione al 2030 è molto chiara: fare del Regno Unito uno dei più importanti attori mondiali della bioeconomia, grazie alla presenza su tutto il territorio di impianti su scala commerciale alimentati da rifiuti, alla capacità di attrarre investimenti dal resto del pianeta e alla disponibilità di tecnologie e business model da esportare in tutto il mondo. In campo bioenergetico, nel 2012 Londra ha presentato una strategia (UK Bioenergy Strategy) che prevede l’impiego di biomassa come imprescindibile per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione del paese entro il 2050. “Escludere la biomassa dal mix energetico – si legge nel piano britannico – incrementerebbe in modo significativo il costo della decarbonizzazione del nostro sistema. Un costo che è stato stimato in 44 miliardi di sterline (il riferimento è a un’analisi dell’Energy Technologies Institute, ndr)”. In sintesi, la strategia del governo, che verrà riesaminata nel 2017, prevede criteri di sostenibilità chiari, trasparenti ed esecutivi, il supporto all’impiego di colture energetiche e del legno come materia prima, l’attenzione a evitare impatti negativi sui prezzi degli alimenti e sulla biodiversità, il sostegno alla ricerca di nuove tecnologie.

BioVale: Yorkshire e Humber guidano la bioeconomia britannica Building a high value bioeconomy. Opportunities from waste, tinyurl.com/kv28uut

UK Bioenergy Strategy, tinyurl.com/j5n2552

La regione dello Yorkshire e Humber è alla guida della bioeconomia britannica, grazie al progetto BioVale, il primo cluster che mette insieme imprese, università e centri di ricerca impegnati in questo metasettore, che ha beneficiato anche di finanziamenti da parte del Fondo europeo di sviluppo regionale. BioVale è stato creato nel luglio del 2014 con l’obiettivo di costruire un centro riconosciuto a livello internazionale per l’innovazione a base biologica, focalizzato sulle materie prime rinnovabili e sulle tecnologie agricole, in grado di attrarre investimenti e favorire una crescita economica sostenibile. Trasferimento tecnologico, accesso a finanziamenti e a network internazionali, formazione specializzata e relazioni istituzionali sono tra le attività principali di BioVale. La regione dello Yorkshire e Humber è di fatto il cluster più importante della bioeconomia nel Regno Unito, rappresentando circa il 10% del suo valore totale con 9 miliardi di sterline e

105.000 addetti. Secondo stime del governo di Londra, gli investimenti in BioVale dovrebbero portare entro il 2025 alla creazione di 45.000 nuovi posti di lavoro e a un valore aggiunto per l’economia di 2 miliardi di sterline all’anno. Complessivamente in questa area dell’Inghilterra sono localizzate 14.000 imprese attive nella bioeconomia, oltre 450 società chimiche (il 10% del totale del Regno Unito) e più di 11.000 imprese attive in agricoltura, silvicoltura e pesca. Qui si trovano la bioraffineria di Vivergo e la centrale elettrica alimentata a biomassa del Gruppo Drax che, con 3.960 megawatt, fornisce il 7% dell’elettricità del Regno Unito. Così come si trova la più alta concentrazione di imprese alimentari di tutta la nazione. Infine, il sistema di porti sull’estuario del fiume Humber è il più trafficato del paese e il quarto in Europa per tonnellaggio. BioVale, www.biovale.org

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materiarinnovabile 10. 2016 Il Centro scozzese per le innovazioni biotecnologiche industriali Lanciato nel 2014, il Centro per le innovazioni biotecnologiche industriali (IBioIC) con sede a Glasgow, è stato creato per colmare il divario tra istruzione e industria. È specializzato nel settore della biotecnologia industriale, con una profonda conoscenza e competenza tecnica per promuovere la crescita e il successo della biotecnologia industriale in Scozia, unendo industria, mondo accademico e governo. La sua visione è di creare un centro di innovazioni unico nel suo genere e leader nel mondo per quanto riguarda la biotecnologia industriale. IBioIC si impegna ad accelerare ed eliminare i rischi dello sviluppo di soluzioni sostenibili e commercialmente valide per la produzione industriale di alta qualità nei settori che utilizzano la chimica e delle scienze biologiche. Entro il 2030 si prefigge di generare 1-1,5 miliardi di sterline di valore aggiunto lordo annuale per l’economia scozzese. Ciò rappresenta un aumento degli introiti dall’attuale valore stimato di 190 milioni

di sterline a circa 2-3 miliardi di sterline. L’IBioIC ha identificato cinque temi chiave che verrebbero inizialmente adottati come aree di interesse per il centro e il successo dello sviluppo della biotecnologia industriale in Scozia: 1. Materie prime, l’utilizzo di biomassa sostenibile per sostituire i combustibili fossili. 2. Enzimi e biocatalizzatori/enzimi per lo sviluppo di nuovi prodotti e benefici di efficienza. 3. Costruzione di “fabbriche di cellule”, sviluppo di strutture per l’ottimizzazione di nuovi ceppi. 4. Industrie di lavorazione a valle, lo sviluppo di prodotti per ottenere flussi di prodotti facilmente recuperabili. 5. Biolavorazione integrata, pieno utilizzo di materie prime e produzione di co-prodotti vari. Scottish Industrial Biotechnology Innovation Centre, www.ibioic.com

Nel Regno Unito la prima banca per investimenti verdi In linea con il suo ruolo di maggiore piazza finanziaria europea, il Regno Unito può vantare la prima banca al mondo interamente dedicata all’economia verde. È la Green Investment Bank, creata e interamente controllata da Downing Street e capitalizzata con fondi pubblici. La banca svolge un ruolo centrale nella strategia di sostenibilità ambientale del paese, che richiede – secondo quanto rende noto la stessa banca – investimenti per 330 miliardi di sterline fino al 2020. Tra i settori oggetto dell’attività della Green Investment Bank si trova quello dei rifiuti e delle bioenergie. In questo campo, ecco alcuni dei progetti in cui ha investito la banca britannica nel 2015: •• 47 milioni di sterline (107 milioni è l’investimento complessivo) per un impianto energetico alimentato da rifiuti domestici e commerciali a Belfast, in Irlanda del Nord, in grado di fornire elettricità a 14.500 abitazioni; •• 70 milioni di sterline, insieme all’utility irlandese Esb Electricity Supply Board, in un progetto complessivo di 190 milioni per la costruzione di un impianto di energia rinnovabile nel porto di Tilbury nell’Essex (Tilbury Green Power Facility). Sarà in grado di generare, dall’inizio del 2017, 300 GWh di elettricità all’anno, rifornendo oltre 70.000 abitazioni. L’impianto è alimentato da 270.000

L’aspirazione di Vivergo è diventare una bioraffineria integrata nel territorio, rifornendosi del grano di cui ha bisogno come materia prima principalmente da aziende agricole in Yorkshire e Lincolnshire.

tonnellate annue di scarti del legno recuperati nell’area circostante, forniti dalla società Stobart Biomass; •• 21 milioni di sterline per l’impianto di energia rinnovabile da biomassa (138 milioni l’investimento complessivo) dell’Estover Energy a Cramlington, nel Nord-est dell’Inghilterra. Si stima porterà a una riduzione delle emissioni di gas serra equivalente alla rimozione dalle strade del Regno Unito di 25.000 automobili per un periodo di vent’anni. L’impianto fornirà energia alle industrie farmaceutiche locali e sarà anche in grado di garantire elettricità e riscaldamento alla comunità locale (213 GWh di elettricità da fonti rinnovabili, sufficienti per 52.000 abitazioni all’anno). Il 3 marzo di quest’anno il governo del Regno Unito ha comunicato la propria volontà di privatizzare la Green Investment Bank. Secondo Downing Street, “Un trasferimento al settore privato permetterà alla Gib di massimizzare gli investimenti in progetti per energia verde attraverso maggiori investimenti dal settore privato, finora limitati a causa di normative che regolamentano gli enti pubblici.”

Green Investment Bank, www.greeninvestmentbank.com

The Biorefinery Roadmap for Scotland, tinyurl.com/zdfhkmk


Policy Nuovi bioprodotti dagli scarti del whisky, della birra e della pesca La Scozia è conosciuta in tutto il mondo per la qualità del suo whisky single malt, della birra, del pesce e dei molluschi che si pescano nelle sue acque. Tutte risorse per la nascente bioeconomia. Secondo uno studio sull’economia circolare, focalizzato proprio su questi tre settori merceologici (Sector Study on Whisky, Beer and Fish. Final Report), pubblicato a giugno 2015 su iniziativa del governo scozzese, il volume annuo degli scarti della lavorazione è elevato e può diventare materia prima per la produzione di nuovi biocarburanti o intermedi chimici a base biologica. Ben 53.682 tonnellate dalla birra, 4.371 milioni di tonnellate dal whisky e 189.538 tonnellate dal pesce e dai molluschi.
 Da sempre una percentuale elevata di questi scarti è impiegata come mangime per gli animali locali e per i pesci, oppure come fertilizzante per i campi o per produrre calore ed energia. Negli ultimi anni, però, gli scozzesi hanno cominciato a utilizzare questi scarti anche per produrre biocarburanti avanzati,

L’iniziativa scozzese Chi, in questo scenario, non sta fermo a guardare è il governo scozzese. La Scozia è stato il primo paese nel Regno Unito, e uno dei primi in Europa, a presentare una propria strategia sull’economia circolare. Annunciata lo scorso febbraio dal ministro dell’Ambiente, Richard Lochhead, metterà sul tavolo 70 milioni di euro tra fondi nazionali ed europei per ridurre in modo rilevante i rifiuti alimentari e quelli legati alle costruzioni (che rappresentano il 50% di tutti i rifiuti in Scozia). Secondo quanto affermato dallo stesso Lochhead, la sola riduzione di un terzo dei rifiuti alimentari, fissato come obiettivo per il 2025, potrà portare al bilancio nazionale benefici per 500 milioni di sterline. Immagine in alto: Led Zeppelin, Led Zeppelin, 1969. Album di debutto della rock band inglese, design di George Hardie, Atlantic Records The Beatles, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967. Ottavo album della band, design di Jann Haworth e Peter Blake (infinite le parodie), Parlophone Pink Floyd, Dark Side of the Moon, 1973. Ottavo album della band inglese, design di Hipgnosis, Harvest Records

A gennaio 2015 è stato presentato The Biorefinery Roadmap for Scotland, un documento che evidenzia, con un orizzonte di dieci anni, le azioni richieste e il supporto necessario per posizionare la Scozia come un paese capace di incoraggiare l’industria sostenibile nel mercato globale. Elemento centrale di questo documento è il Piano nazionale per le biotecnologie industriali, che mira a incrementare il volume d’affari di questo settore dai 189 milioni di sterline del 2012 a 900 milioni entro il 2025 e che – al fine di realizzare questo obiettivo – nel 2014 ha portato al lancio di IBioIC (Industrial Biotechnology Innovation Centre). A testimonianza della grande attenzione scozzese verso le biotecnologie industriali, sarà Glasgow la citta che ospiterà la prossima edizione di Efib, il Forum europeo per le biotecnologie industriali e la bioeconomia, in programma dal 18 al 20 ottobre di quest’anno.

intermedi chimici biobased e anche integratori alimentari per la salute umana. Secondo le stime del governo, il potenziale beneficio economico per l’economia della Scozia legato all’impiego di tutti questi scarti è di 595 milioni di sterline all’anno. In questo scenario, il caso certamente più significativo è quello di Celtic Renewables, uno spin-off del Biofuel Research Centre della Edinburgh Napier University che ha sviluppato una tecnologia per trasformare i residui della produzione di whisky in biocarburante per vetture. Ora la tecnologia è in fase di sperimentazione al BioBase Europe Pilot Plant di Ghent, in Belgio, grazie all’ottenimento di finanziamenti complessivi pari a 1,5 milioni di euro di cui oltre un milione concesso dal governo britannico, che punta a un nuovo settore di mercato nel Regno Unito con un fatturato stimato in 125 milioni di euro l’anno. Celtic Renewables, www.celtic-renewables.com

Secondo Alan Wolstenholme, presidente dello Scottish Industrial Biotechnology Development Group, “l’obiettivo nei prossimi dieci anni è lo sfruttamento delle risorse naturali, delle tecnologie e dell’innovazione, delle competenze di base e delle reti commerciali per spingere lo sviluppo della bioeconomia e guidare l’agenda per un paese a basso consumo di carbonio. Un settore delle bioraffinerie robusto e versatile – sottolinea Wolstenholme – darà l’impulso necessario all’industria manifatturiera scozzese e agirà come un faro per le imprese europee in cerca di collaborazione o riposizionamento.” Vivergo: la bioraffineria integrata nel territorio La pensa allo stesso modo Paul Mines, amministratore delegato di Biome Bioplastics e membro del comitato di gestione del Lignocellulosic Biorefinery Network (LBNet), una rete finanziata dal governo centrale britannico composta da operatori industriali e accademici leader nella generazione di valore economico attraverso processi chimici, materiali e combustibili innovativi che utilizzano biomassa lignocellulosica in alternativa al petrolio. “Con la produzione di biocarburanti e prodotti chimici a base biologica in aumento – sostiene Mines – le tecnologie lignocellulosiche sono una soluzione importante per consentire l’utilizzo di colture non alimentari per questi processi e lo sviluppo di metodi efficienti e sostenibili di soddisfare chimici e materiali bisogni del mondo.” Oggi la più importante bioraffineria nel Regno Unito è quella di Vivergo, una joint venture costituita

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Efib 2016, www.efibforum. com/news/2015/ glasgow-to-host-leadingbiotechnology-conference

Lignocellulosic Biorefinery Network, lb-net.net/

nel 2007 da Ab Sugar, British Petroleum e DuPont, che però nel maggio 2015 ha visto l’uscita di scena di Bp, che ha venduto la propria quota all’Associated British Foods facendone così il maggiore azionista. Bp, infatti, nel giugno del 2014 ha comunicato di voler indirizzare in America i propri investimenti in biocarburanti avanzati, lamentando la mancanza di coerenza e di stabilità nella legislazione europea. Negli Stati Uniti ha sede la Butamax Advanced Biofuels, la joint venture costituita nel 2009 dal colosso petrolifero britannico in partnership con DuPont per la commercializzazione di bio-butanolo, che ha in Brasile il proprio stabilimento commerciale. L’impianto di Vivergo, localizzato all’interno del Saltend Chemicals Park vicino ad Hull, nello Yorkshire, ha iniziato a produrre nel 2012 diventando pienamente operativo nel dicembre 2014. Si tratta di uno dei maggiori impianti per la produzione di bioetanolo in Europa, che soddisfa circa un terzo della domanda del Regno Unito per la miscelazione con la benzina. Inoltre, questo stabilimento produce fino a 400.000 tonnellate all’anno di mangimi ad alto contenuto proteico. Una quantità sufficiente ad alimentare più di 340.000 vacche da latte al giorno, ovvero il 20% del bestiame da latte nazionale. L’aspirazione di Vivergo è diventare una bioraffineria integrata nel territorio, rifornendosi del grano di cui ha bisogno come materia prima principalmente da aziende agricole in Yorkshire e Lincolnshire. L’impianto, secondo quanto afferma la stessa impresa, consente un risparmio di gas serra di oltre il 50% rispetto alla benzina normale, l’equivalente alle emissioni attuali annue di oltre 180.000 vetture nel Regno Unito.

“Il nostro business – racconta David Richards, direttore generale di Vivergo – è un grande esempio di crescita economica sostenibile, perché assicuriamo materie prime preziose come il bioetanolo e i mangimi, che altrimenti dovremmo importare.” “La nostra posizione proprio sul fiume Humber – aggiunge Richards – è l’ideale: siamo nel cuore della ‘Grain Belt’ del Regno Unito, che offre tra i migliori rendimenti nel mondo. Inoltre i nostri canali per la distribuzione del bioetanolo – via nave o via strada – verso depositi dove è miscelato con la benzina non sono secondi a nessuno.” Green o bio: è una nuova economia In attesa di una nuova strategia sulla bioeconomia, reclamata a gran voce dagli addetti ai lavori, resta valida quella sull’economia verde lanciata nel 2011, nella quale il governo sottolinea con grande enfasi il bisogno del paese di affrancarsi dall’impiego di fonti energetiche fossili: “Il Regno Unito sta diventando sempre più dipendente dall’importazione di combustibili fossili. Entro il 2020 potremmo essere importatori del 45-60% del nostro petrolio e del 70% o più del nostro gas. Al tempo stesso, è probabile che aumenterà la domanda globale, determinando vincoli all’offerta e prezzi volatili. Il Regno Unito deve diventare più resiliente a queste variazioni di prezzo, sviluppando fonti alternative d’offerta e facendo un uso più efficiente delle risorse naturali”. Se non è una strategia, è certamente un manifesto a favore della bioeconomia.

Intervista

a cura di Mario Bonaccorso

Abbiamo tante carte da giocare Maggie Smallwood, direttrice BioVale

La bioeconomia nel Regno Unito si fonda sul suo patrimonio di conoscenze. A sostenerlo – in questa intervista a Materia Rinnovabile – è Maggie Smallwood, direttrice di BioVale, il cluster che promuove la regione dello Yorkshire e Humber quale centro di innovazione di successo per la bioeconomia e aiuta le imprese locali a trarre profitto dalle opportunità economiche offerte da questo settore in rapida crescita. Con Maggie Smallwood parliamo di bioeconomia nel Regno Unito, dei suoi punti di forza e delle sue debolezze. A suo parere, quali sono i punti di forza della bioeconomia nel Regno Unito? “Probabilmente uno dei più grandi vantaggi del Regno Unito è il suo patrimonio di conoscenze.

Questo dovrebbe permetterci di essere innovativi nel campo dei nuovi prodotti e servizi biobased. Nello Yorkshire abbiamo già esempi di spin-off provenienti dal nostro sistema di educazione superiore. Un primo esempio è la Keracol, impresa insediata all’Università di Leeds, che ha creato un sistema di estrazione di molecole naturali dagli scarti di lavorazione della viticoltura. La Starbon, spin-off dell’Università di York, che ha brevettato una tecnologia per ricavare dall’amido un biomateriale con una vasta gamma di potenziali applicazioni; la Floreon che ha creato un additivo biobased in grado di rendere la plastica più resistente, basandosi su tecnologie sviluppate all’Università di Sheffield. In questo settore ci sono leader mondiali che vengono nel Regno Unito per accedere al nostro patrimonio di conoscenze: per esempio,


Policy per accelerare i propri progressi nel campo dei biocarburanti più moderni, il Brasile si è rivolto all’Università di York, che è un’eccellenza a livello mondiale nella conoscenza delle pareti cellulari vegetali. Un altro vantaggio sta nel fatto che il nostro ‘sapere’ è ben collegato all’industria attraverso il network per il trasferimento della conoscenza di Innovate UK, il Network Bbsrc (Biotechnology and Biological Sciences Research Council, ndr) per la biotecnologia industriale e attraverso network regionali come BioVale. Grazie a centri quali il Biorenewables Development Centre a York e il National Industrial Biotechnology Facility nello Teesside, l’industria può accedere a un equipaggiamento scientifico e a sistemi innovativi per lo scale-up che sarebbero troppo costosi anche per le aziende più grandi. Non solo. Il Regno Unito oltre ad avere la fortuna di essere sede di alcune delle più grandi multinazionali, quali Unilever e Croda, che hanno compreso le opportunità offerte dall’economia biobased, ha anche quella di ospitare molte piccole e medie imprese. Una di queste è la Biome, un’impresa che sta lavorando per produrre bioplastica dalla lignina, residuo della carta, così come altre industrie all’avanguardia che producono biocarburanti.”

Immagine in alto: The Rolling Stones, Sticky Fingers, 1971. Album firmato Andy Warhol e design di Craig Braun, Rolling Stones Record (autoprodotto) Sex Pistols, Never Mind the Bollocks, Here’s The Sex Pistols, 1977. Unico abum ufficiale della band punk rock, design di Jamie Reid, Virgin Records The Clash, London Calling, 1979. Doppio album dal vivo della band, design autoprodotto, riprende la copertina del primo album di Elvis Presley, CBS Records

E i punti deboli? “Un primo punto debole è rappresentato dalla percezione della bioeconomia: spesso le persone non capiscono cosa significhi. In secondo luogo non ci si rende conto delle sue dimensioni: uno studio di Capital Economics ha stimato che il valore aggiunto lordo derivante dalla bioeconomia britannica nel 2012 è stato di 153 miliardi di sterline. Si tratta di un valore diffuso nel paese, a differenza di alcuni settori industriali che sono fortemente concentrati geograficamente. L’uso di biorisorse nella produzione di intermedi chimici, carburanti e materiali è un settore emergente, ma mancano ancora collegamenti fra le industrie e queste nuove catene di fornitura. Il Regno Unito inoltre ha dimensioni limitate, e non disponiamo del tipo di biomassa di cui godono altri paesi, come le ampie foreste della Scandinavia. Ciò significa che dobbiamo concentrarci sull’incremento di valore dei prodotti secondari e dei rifiuti.” Nel Regno Unito alcuni lamentano la mancanza di una strategia per la bioeconomia. Si tratta di un argomento incluso nell’agenda del governo? Secondo lei, quali misure dovrebbe contenere un piano che possa dare sostegno pratico alla bioeconomia? “Il Bbsrc e i vari dipartimenti del governo inglese hanno commissionato una specifica analisi per entrare nel merito della questione. BioVale sta lavorando con la Biobased and Biodegradable Industries Association (Bbia) e con altre piccole e medie imprese innovative che fanno parte del nostro network per analizzare il tipo di sostegno legislativo di cui ha bisogno la bioeconomia per crescere.

Probabilmente avere politiche stabili è il fattore più importante per sostenere lo sviluppo di una bioeconomia forte. La produzione di sostanze chimiche e materiali dalla biomassa è spesso un vantaggio per l’ambiente; inoltre rappresenta un’aggiunta di valore rispetto all’utilizzo della biomassa per produrre bioenergia o biocarburanti. Se si estendesse anche alle sostanze chimiche biobased il sostegno delle policy attualmente rivolto solo ai biocarburanti e bioenergia, questo eliminerebbe il loro svantaggio rispetto a queste ultime.” Secondo lei in che modo la forte crescita del settore terziario ha effetti sulla bioeconomia nel Regno Unito? “La bioeconomia ha bisogno di un settore di servizi (legali, di project management, di marketing, finanziari) tanto quanto l’economia petrolchimica. Molte delle competenze saranno trasferibili, quindi questa forza del settore terziario potrà passare alla bioeconomia, nel Regno Unito come nel resto del mondo.” BioVale è il primo cluster britannico dedicato alla bioeconomia. Cosa fate per supportare il suo sviluppo? “Basandosi sulla propria eccellenza nella bioeconomia, BioVale punta a fare della regione dello Yorkshire e Humber un centro internazionalmente riconosciuto per l’innovazione biobased, focalizzandosi sulle materie prime rinnovabili e sulle tecnologie agricole. Lavorando con partner quali Ukti e il Foreign Office’s Science and Innovation Network, oltre ai nostri partner del gruppo europeo nel consorzio 3Bi, promuoviamo i prodotti della bioeconomia locale presso i mercati esteri, gli investitori, i policy maker e i finanziatori.” Ma il vostro modello può essere applicato altrove? “La regione dello Yorkshire e Humber ha una notevole combinazione di ricerca, industria e agricoltura biobased e ciò le dà un preciso vantaggio. Ma anche per le altre regioni vi sono infinite opportunità di sviluppare la bioeconomia attraverso un approccio simile. Il nostro gruppo ha scelto di focalizzarsi su quattro aree principali, in cui i nostri stakeholder sono competitivi a livello mondiale: l’aggiunta di valore ai biorifiuti, i carburanti e le sostanze chimiche di nuova generazione, l’estrazione di sostanze chimiche pregiate dalle piante e dai microbi e le tecnologie agricole. Altre regioni avranno priorità diverse, che rispecchieranno le attività industriali e l’agricoltura locale. Ma i principi di base che rafforzano le connessioni tra i diversi elementi delle nuove catene di fornitura e innovazione biobased possono essere applicati ovunque.”

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UNITI da una SCRIVANIA Dal loft al coworking: a distanza di più di 10 anni dal primo spazio allestito a San Francisco, oggi si contano quasi 50.000 postazioni in 608 città distribuite in 89 paesi. di Silvia Zamboni

Silvia Zamboni, giornalista professionista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.

In principio fu il loft, comunicativo ma spersonalizzante. Poi, sull’onda della rivoluzione telematica digitale, arrivò il telelavoro a domicilio: orari su misura di impegni familiari, ecologica eliminazione degli spostamenti casa-ufficio, ma anche isolamento e dilatazione dello spazio-lavoro dentro la sfera privata. Una decina di anni fa, dalla California, la nuova svolta: nasce il format di ufficio che combina la dimensione socializzante del loft con quella del lavoratore autonomo e abbraccia – ed è l’aspetto che fa la differenza – la filosofia collaborativa della condivisione. Benvenuti nel mondo del coworking, gli uffici collettivi dove freelance, lavoratori flessibili, start-up e micro imprese ai primi passi possono

affittare, anche per pochi mesi, singole postazioni attrezzate e utilizzare wifi, servizi di segreteria e spazi comuni come sale riunioni, cucina e bar. E dove, come valore aggiunto specifico, si possono scambiare competenze e fare sinergia – networking, come usa dire in questi ambienti – con altre professionalità presenti nella medesima location, creando una rete collaborativa peer-to-peer che supporta questi lavoratori autonomi nello sviluppo dei loro progetti. Una soluzione ideale per chi non dispone dei capitali necessari per l’avvio di un ufficio e punta a potenziare la propria creatività sfruttando le competenze dei “vicini di scrivania”. Un’altra faccia della sharing economy, a cui la collega anche il forte legame con le tecnologie


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Pubblicità dei Teddy Bears, catalogo Sears Roebuck and Co, inverno 1916

Policy

Global Coworking Map, coworkingmap.org/

Impact Hub, www.impacthub.net

digitali e le piattaforme di molte realtà ospitate in questi spazi. Quello del coworking è ormai un fenomeno di dimensioni mondiali: coworkingmap.org ha censito oltre mille (1.036 per la precisione) spazi presenti in 608 città distribuite in 89 paesi, per un totale di quasi 50.000 postazioni allestite (49.463 al momento). Poche? Tante? Il punto è semmai la velocità con cui questa formula ha preso piede: “Dal 2005, quando fu avviata la prima esperienza a San Francisco secondo un approccio open source al lavoro, dagli Usa all’Europa il coworking ha continuato a espandersi senza sosta in tutto l’Occidente come fenomeno tipicamente urbano; e oggi registra ritmi di crescita frenetica anche in Asia, per esempio a Bangkok, Hong Kong, Singapore”, osserva Alessandro Gandini, sociologo e studioso del fenomeno. In campo sono scesi anche autentici giganti dell’economia digitale. A cominciare dal Google Campus che ha sede a Londra presso la Tech City, il polo tecnologico inaugurato nel 2012 in un’area universalmente conosciuta anche come Silicon Roundabout. Qui si concentrano alcuni colossi dell’economia di internet,

ma anche decine e decine di start-up a caccia di finanziatori. Al Google Campus si può scegliere tra l’opzione Campus resident, che mette a disposizione una workstation permanente sette giorni su sette, 24 ore al giorno, e quella Work from the Café, che non garantisce una postazione fissa, ma permette di lavorare dal café del Campus, sempre con copertura wireless e avendo accesso anche a tutte le attività proposte. Analogamente ad altri hub tecnologici, ogni giorno il Google Campus offre infatti workshop tenuti da esperti e grandi nomi dell’imprenditoria tech, incontri di networking con e tra imprenditori e web developer. Tra i partner di Google, SeedCamp, un programma di investimento per start-up che ne finanzia una ventina ogni anno, e Springboard, un acceleratore di piattaforme tecnologiche. Da Mosca a Johannesburg, da Singapore a San Francisco, da Dubai a San Paolo, passando per Londra, Amsterdam, Madrid, Zurigo, Stoccolma, Impact Hub è un network internazionale di coworking in franchising presente in più di 80 località (più altre 17 ai nastri di partenza). Si rivolge prevalentemente


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InteriorBE, una piattaforma che in soli dieci giorni sforna progetti low cost di architetti italiani per la ristrutturazione e l’arredamento di ambienti interni, con l’opzione aggiuntiva di acquistare online le componenti d’arredo a un prezzo fortemente scontato.

“Beeyourconcert. La musica è di casa”, una piattaforma web dedicata sia alle persone che intendono acquistare un concerto per eventi privati o pubblici, sia ai musicisti che vogliono suonare dal vivo in case e location particolari.

all’imprenditoria di tipo sociale, e conta una community di oltre 11.000 membri, ai quali offre strumenti tecnologici, risorse professionali, opportunità di mutua ispirazione e contaminazione, eventi formativi per aumentare l’impatto positivo sul territorio delle loro attività. Impact Hub Milano (ma in Italia ci sono sedi anche a Trieste, Rovereto-Trento, Torino, Reggio Emilia, Firenze, Roma, Bari, Siracusa) “è sorto nel 2009 nei locali di un ex-set per shooting fotografico dedicato alla moda”, racconta Montserrat Fernandez, la giovane account manager dell’azienda laureata in lettere e originaria di Barcellona. Questo incubatore certificato di start-up e innovazione sociale “occupa seicento metri quadrati che abbiamo allestito avvalendoci di Controprogetto, un gruppo che riutilizza materiali e componenti di seconda mano”, continua Fernandez. “La nostra comunità di 300 membri comprende – a composizione variabile – creativi, fotografi, grafici, scuole di lingue. E anche piattaforme come Ugo, specializzata in car sharing, Jobmetoo, l’agenzia di lavoro per persone con disabilità e XMetrics” che ha ideato un innovativo misuratore elettronico di prestazione nel nuoto tenuto a battesimo dal campione Max Rosolino. Proprio Milano è la capitale del coworking Made in Italy: l’amministrazione comunale ha censito venticinque realtà che hanno ottenuto una sorta di imprimatur di garanzia in modo da poterle distinguere da normali uffici dati in affitto e taroccati da coworking. Tra gli altri nel capoluogo milanese hanno sede CoWo (guidata da Massimo Carraro definito da Gandini “un esperto di comunicazione che svolge un meritorio lavoro di networking tra i freelance che operano nel settore della comunicazione a Milano”); Talentgarden (Tag), presente in numerose altre città italiane ed europee; Avanzi, che tra i settori d’interesse annovera rigenerazione urbana, valutazione d’impatto, coesione sociale. Da qualche mese la società di gestioni immobiliari Halldis, del gruppo Windows on Europe, ha inaugurato i locali di Copernico. A StartMiUp è stata affidata la gestione delle 100 postazioni di coworking in open space, che convivono nel medesimo contenitore di otto piani con gli uffici tradizionali del business center di Copernico, sede di imprese e di fondi di investimento. Nell’area coworking, a un costo che oscilla tra i 250 e i 290 euro mensili, si affittano postazioni mobili o fisse accessibili round the clock sette giorni su sette; mentre un’apposita tessera permette l’accesso alle sole aree social, il lounge, la library, la caffetteria e il parco. La comunità dei coworker comprende liberi professionisti, web designer e gestori di piattaforme digitali. Federica, 26 anni, e Sabrina,

40 anni, sono le fondatrici di InteriorBE, una piattaforma che in soli dieci giorni sforna progetti low cost di architetti italiani per la ristrutturazione e l’arredamento di ambienti interni, con l’opzione aggiuntiva di acquistare online le componenti d’arredo a un prezzo fortemente scontato. La motivazione principale che le ha portate a scegliere il coworking? “La possibilità di conoscere altre esperienze, con le quali continuare il processo di apprendimento, imparando dai loro successi ed errori”, risponde Francesca. Anche Federico, 31 anni – fondatore del portale di Curioseety che mette in contatto viaggiatori curiosi, soprattutto stranieri, con guide professionali, chef e vignaioli per viaggi su misura in ogni regione d’Italia – di Copernico apprezza “la possibilità di networking con altre start-up e aziende, sfruttando sinergie e avviando proficue partnership in un ambiente informale”. Unico aspetto negativo? “La mancanza di sufficiente privacy tipica dell’open space”. Scendendo sotto il Po, a Firenze dal 2011 funziona Multiverso, una realtà ormai sviluppata su scala regionale. A Roma, il coworking space Millepiani, a due passi dalla stazione del metrò Garbatella, ha la particolarità “di essere gestito dall’omonima associazione di promozione sociale non profit sulla base di un progetto di rigenerazione urbana. È stato ricavato in accordo con il Municipio VII in un edificio in disuso di proprietà del Comune”, spiega il presidente Enrico Parisio. Vi convivono architetti, ingegneri ambientali, web designer, esperti di social media marketing, start upper, come l’ideatore di “Beeyourconcert. La musica è di casa”, una piattaforma web dedicata sia alle persone che intendono acquistare un concerto per eventi privati o pubblici, sia ai musicisti che vogliono suonare dal vivo in case e location particolari: sono solo alcune delle figure professionali con le quali Millepiani punta a creare una vera comunità di competenze, impegnata a studiare progetti condivisi, all’insegna di bene comune aperto al territorio. E cominciano a spuntare anche spazi di coworking pensati in funzione di mamme e papà con figli in età da nido. A Roma ci ha pensato Città delle mamme, associazione nata nel 2009 con l’obiettivo di rendere la città più a misura di bambine e bambini. Dopo il Mammacaffè, il parrucchiere baby-friendly e Cinemamme (i matinée cinematografici per madri), nel periferico quartiere di Centocelle l’associazione ha inaugurato l’Alveare: 200 metri quadrati in cui sono stati allestiti 30 postazioni, due uffici, una sala riunioni e uno spazio baby. La location accoglie chiunque sia interessato a questa esperienza in condivisione. E vedrà “gattonare” la prima generazione dei nati digitali... in coworking.


Policy Intervista

a cura di Silvia Zamboni

Stile Millennials Alessandro Gandini, sociologo, lecturer alla Middlesex University di Londra

Freelance, partite Iva, liberi professionisti e start-up: sono questi i soggetti che popolano i coworking. Una declinazione del più classico e prosaico “fare di necessità virtù” ed espressione della precarietà che connota l’odierno mondo del lavoro, soprattutto dei cosiddetti Millennials? O, al contrario, una rappresentazione, in positivo, della contemporaneità in chiave di creatività e innovazione? “Entrambe le cose”, risponde Alessandro Gandini, sociologo, ora lecturer alla Middlesex University nel Regno Unito e autore dell’ebook “Freelance”. “Nell’ottica di una cornice spaziale in cui far rientrare i fenomeni di creatività, innovazione, comunicazione che corrono in parallelo con lo sviluppo dell’economia digitale, questi spazi hanno una valenza positiva. D’altro canto, sono anche il risultato di condizioni di lavoro autonomo spesso precarie. Non necessariamente, però, chi lavora in un coworking space si percepisce come un precario: qualcuno è lì perché non può essere altrove, ma qualcun altro c’è perché vuole esserci e la considera un’opportunità per la propria crescita professionale e imprenditoriale. Si sceglie il coworking per il contatto con altre intelligenze e abilità, per il capitale sociale che affluisce in questi spazi e rende produttivo l’essere insieme continuando in qualche modo a essere soli.” Freelance, scarica gratis l’ebook di Alessandro Gandini: www.doppiozero.com/ libro/freelance

Non mancano voci critiche verso i giganti del coworking, come i Campus Google. “Per coloro che criticano il rapporto che si instaura con il monopolista digitale Google, stare in quel contenitore significa in parte lavorare ‘per’ Google non solo ‘negli’ spazi di Google, anche se in senso stretto non è così e si tratta sempre di lavoratori autonomi impegnati a sviluppare i propri progetti. Per questi critici c’è differenza tra lo spazio di proprietà dell’host monopolista e uno gestito da un pari, dove prevalga la dinamica peer-to-peer. Al contrario, per altri Google Campus è uno spazio d’incubazione ideale che può facilitare lo sviluppo d’impresa, quindi una realtà con la quale coworking più piccoli e dotati di risorse limitate non possono competere.” Si preannunciano novità in risposta a queste riserve? “Raccogliendo le critiche rivolte al modello di proprietà e gestione di mega piattaforme e algoritmi della sharing economy della stazza per esempio di Uber, Trebor Scholz – docente

di digital media alla New York University – propone di passare a una dimensione cooperativa della proprietà, che chiama Platform Cooperativism. Per estensione, si può pensare a spazi di coworking autogestiti da cooperative di lavoratori che sostituiscono il soggetto che affitta. È un’evoluzione molto interessante, anche se in divenire, che delinea due visioni: una di tipo imprenditoriale e l’altra di tipo cooperativo.” C’è qualcosa che lega in modo sinergico il fenomeno coworking all’economia circolare, che tra parentesi è il focus della rivista “Materia Rinnovabile”? “Alcuni punti di analogia, sul piano dell’intangibile, dell’immateriale, ci sono, anche se non sono stati ancora analizzati, né strutturati: penso alla condivisione di conoscenza che si realizza dentro il coworking con dinamiche circolari, ovviamente, però, non nel senso fisico-ambientale dell’economia circolare.” Potremmo parlare di una sorta di circolarità immateriale... “La logica del coworking si basa sulla ricerca e la possibilità di entrare in contatto con altre professionalità. L’implicita disponibilità a condividere competenze che connota l’entrare a far parte di una community di coworking poggia sull’idea che se io oggi collaboro con Tizio, Tizio mi aiuterà domani. In questo senso si delinea una dinamica circolare di risorse immateriali che è al contempo etica e strumentale, perché ispirata dall’obiettivo di trovare eventuali opportunità per la propria crescita professionale.”

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CONSERVARE IL VALORE: l’analisi dei flussi dei rifiuti di Simonetta Tunesi

Pianificarne la gestione è un problema complesso che richiede approcci adeguati, capaci di superare visioni parziali. Il primo passo da compiere per conservarne il valore è l’individuazione e la quantificazione di tutti i flussi dei rifiuti domestici e assimilabili che attraversano un territorio. Questo articolo è stato pubblicato su Ecoscienza 5/2015; www.arpa.emr.it/ ecoscienza/rivista. asp?id=49

Riusciamo a comprendere che la gestione rifiuti è un problema “perfido”: un problema veramente complesso, non solo “un po’ complicato”? Quando si ha a che fare con un problema perfido non è mai chiaro quando lo si sia risolto e ogni caso si presenta con qualche caratteristica specifica che richiede attenzione e inventiva. Non c’è nulla di peggio che affrontare un problema perfido come se fosse un problema “classico” o semplificabile; adottando metodi non adeguati alla sua complessità, le soluzioni offerte rimangono parziali (cioè non sono soluzioni) e non comprendono né affrontano gli elementi portanti del problema. Nonostante sia ormai emerso che l’azione a massima priorità è il mettere sotto inchiesta il legame tra i consumi e i rifiuti che ne risultano, la generazione e la gestione dei rifiuti rimarranno a lungo un problema nei paesi ad alto reddito ed emergeranno con impatto crescente nei paesi a reddito basso e medio.


Case Studies

Simonetta Tunesi è consulente ambientale.

Ricostruire e quantificare i flussi dei rifiuti A partire da questa consapevolezza si propone un metodo con cui progettare e discutere pubblicamente un sistema integrato di gestione rifiuti. Un metodo che: •• supporta nella definizione dell’impiantistica necessaria al funzionamento di un sistema integrato di gestione rifiuti in uno specifico territorio: numero, tipologia, dimensione di impianti e attrezzature; •• permette di confrontare il rendimento ambientale di soluzioni alternative per ottimizzare il sistema progettato rispetto al recupero dei materiali e delle energie contenute nei rifiuti. Il metodo proposto si basa sulla individuazione e quantificazione di tutti i flussi di rifiuti domestici e assimilabili che attraversano un territorio; i flussi sono la base con cui definire le necessità di trattamento dei rifiuti, ridurre gli impatti sanitari e ambientali ed elevare le possibilità di recupero di materiali ed energia. La sua applicazione richiede i seguenti passaggi: 1. descrivere lo scenario di riferimento quantificando tutti i flussi dei rifiuti del sistema di gestione in essere; 2. formulare scenari di gestione alternativi con cui progettare un miglioramento del sistema o valutare l’efficacia di modifiche proposte, quali: le modalità con cui aumentare la raccolta differenziata o il recupero di energia dalle frazioni

organiche; migliorare le strategie per il recupero di energia dai rifiuti indifferenziati; 3. comparare mediante l’analisi del ciclo di vita (Lca) lo scenario di riferimento con gli scenari alternativi sulla base di selezionati impatti ambientali; si identificano così gli elementi che migliorano il sistema e la cui introduzione aumenta il recupero integrato di materia ed energia. La descrizione è la soluzione Poiché non esistono soluzioni precotte adattabili a ogni realtà territoriale e sociale, la prima operazione che si richiede per pianificare è quella di descrivere la realtà di uno specifico territorio; la descrizione aiuta a conoscere il sistema, a definirne i confini, ma soprattutto obbliga a individuare tutti gli elementi che ne fanno parte. Infatti per descrivere i flussi dei rifiuti è necessario conoscere le attrezzature e gli impianti che, in numero elevato e tipologia variabile, compongono un sistema e sono connessi tra loro per garantire lo svolgimento di tutte le fasi della gerarchia rifiuti. Il sistema descritto e progettato deve essere completo e integrato. Il metodo proposto non permette soluzioni approssimative o parziali perché richiede che gli impianti a servizio di uno specifico sistema di gestione siano in grado di farsi carico di tutti i rifiuti generati nel territorio considerato. La figura 1 mostra l’utilità della “visualizzazione” del quadro d’insieme nel far comprendere le connessioni tra gli elementi della gerarchia rifiuti e restituisce in una singola immagine la complessità di un sistema di gestione integrato. I flussi dei rifiuti

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materiarinnovabile 10. 2016 Figura 1 | Gestione dei rifiuti solidi urbani Schema semplificato dei flussi dei rifiuti in un sistema di gestione rifiuti integrato.

Residui indifferenziati Trasporto a porta a porta trattamento termico

A recupero non ferrosi

Recupero non ferrosi

A recupero ferrosi

Recupero ferrosi

Recupero scorie

Trattamento termico rifiuti indifferenziati

Rifiuti urbani

Rifiuti speciali assimilati

Rifiuti indifferenziati prossimità/stradale

Trasporto a trattamento termico

A recupero scorie

Rc porta a porta

Rd a prima pulizia

Ceneri a discarica

Discarica pericolosi

Rc prossimità

Rd a prima pulizia

Scarti

Discarica pericolosi

Trasporto privato Centri e pubblico di raccolta

Impianti di A impianti prima pulizia di selezione

Impianti di selezione

A prima pulizia

A recupero vetro

Vetro

Scarti alimentari

A compostaggio

Impianti di compostaggio

Compost

A recupero carta

Carta

Scarti vegetali

A digestione anaerobica

Digestione anaerobica

Compost use

A recupero fe e non fe

Ferrosi e non ferrosi

A recupero energia

Energia da scarti vegetali

Ceneri

A recupero plastica

Trasporto internazionale

1. Lo studio condotto dal Gruppo Hera ha richiesto la raccolta di una grande quantità di dati per descrivere il sistema a un dettaglio finora mai presentato in letteratura. Si ringrazia per la concessione di risultati e grafici.

sono suddivisi, evidenziando il ruolo della fase di raccolta, in tre comparti principali: 1. il cerchio al centro include le diverse frazioni di rifiuti urbani e assimilati derivanti dalla raccolta differenziata e destinate alle operazioni di recupero di materia negli impianti di ri-processamento, da cui escono materie prime secondarie; 2. i flussi cerchiati in basso evidenziano gli scarti organici da raccolta differenziata, di origine alimentare e vegetale, che possono essere avviati a recupero di materia tramite compostaggio, a recupero di energia e materia tramite digestione anaerobica degli scarti alimentari, e/o recupero di energia per trattamento termico degli scarti vegetali; 3. la parte superiore del grafico indica i flussi dei rifiuti indifferenziati residui che possono essere

Scarti a discarica

Plastica

avviati a discarica o a recupero di energia mediante trattamento termico. Questa descrizione e la quantificazione dei flussi divengono la base per analizzare un sistema di gestione rifiuti integrato e scegliere tra le soluzioni alternative con cui migliorarne il rendimento ambientale. Con questa sintesi grafica, le ipotesi formulate e i risultati dell’Lca risultano meglio descrivibili ad amministratori e cittadini e il metodo diviene di supporto per facilitare la comunicazione con il pubblico nella presentazione dell’efficacia ambientale delle diverse strategie. Il sistema integrato di gestione del Comune di Bologna, risultato di uno studio condotto da Gruppo Hera1 per valutare il modificarsi


Case Studies dell’efficienza del sistema dalla situazione del 2013 a uno scenario alternativo al 2017, prevede significative modifiche: 1. aumento della raccolta differenziata, con l’introduzione del “porta a porta” nel centro storico e del sistema “a calotta” nella periferia; 2. razionalizzazione della filiera del recupero di materia; 3. eliminazione dell’avvio a discarica di rifiuti residui indifferenziati (RIR) non pretrattati; 4. incremento del recupero energetico dai rifiuti residui indifferenziati. La figura 2 confronta in sintesi i due scenari per le categorie consumo di risorse, emissione di gas climalteranti, emissioni di sostanze acidificanti. Si osservi che valori negativi indicano riduzione degli impatti ambientali (impatti evitati). Per tutti gli impatti ambientali il sistema al 2017 mostra valori significativamente inferiori, dimostrando che gli interventi in atto e quelli previsti risulteranno nel miglioramento del rendimento ambientale della gestione. Tutte le fasi della gestione sono interconnesse: gli impatti negativi e/o i benefici ambientali del sistema di gestione valutato nel suo insieme sono dati dalla somma dei valori positivi o negativi associati a ogni singola attrezzatura e impianto utilizzati nella realtà. A dimostrazione di questo aspetto, la figura 3 mostra per gli scenari formulati per il comune di Bologna il contributo di ogni singola fase di gestione all’emissione di gas climalteranti. In questi scenari le fasi di raccolta, trasporto, l’operazione degli impianti di trasferimento intermedio e la discarica risultano sempre in emissioni; il recupero di materia e il recupero di energia contribuiscono a ridurre le emissioni mediante la sostituzione di materiali vergini e combustibili fossili (valori negativi nel grafico). Il miglioramento del sistema al 2017 è dovuto a: •• incremento del recupero di materia; •• incremento del recupero di energia per trattamento termico dei rifiuti indifferenziati e digestione anaerobica degli scarti alimentari; •• diminuzione delle emissioni di metano da discarica legate alla riduzione di rifiuti biodegradabili smaltiti.

Figura 2 | Comune di Bologna, confronto tra scenario 2013 e scenario 2017 per alcune categorie Consumo/ risparmio risorse (t Antimonio eq/anno)

Emissioni anidride carbonica CO2eq (t CO2eq/anno)

21.949

SC-13 SC-17A

-402

-249

-365

-525

-11.416

Figura 3 | Confronto tra scenari: emissioni dirette/evitate di CO2eq SC 2013 kg CO2eq x 1.000

Comune di Bologna; contributo delle singole fasi della gestione rifiuti alle emissioni dirette/evitate di gas climalteranti (kg CO2eq) per i due scenari 2013 e 2017; (valori negativi esprimono impatti evitati).

SC 2017-A kg CO2eq x 1.000

36.976.727

Raccolta Trasporto Impianti intermedi Riciclaggi Pre-trat. RIR e rec. energia Discarica

10.544.104

2.732.823

Si sottolinea che il rendimento ambientale di un sistema di gestione rifiuti può essere quantificato correttamente solo se si considerano contemporaneamente tutte le fasi della gerarchia rifiuti e l’insieme di infrastrutture, impianti e operazioni che compongono il sistema: solo un Lca applicato a sistemi integrati di gestione rifiuti e per un territorio sufficientemente vasto valuta correttamente gli impatti ambientali di una gestione e non li scarica all’esterno dei confini di un “sistema parziale”, su qualche altro territorio e cittadino.

Emissione di sostanze acidificanti (t SOxeq/ anno)

764.636

2.789.377 1.063.193

848.397

-2.338.382

1.013.672

-2.841.081

-17.035.278

-23.984.957

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LETTERE

D’ALLUMINIO Le vie della circolarità sono infinite. Un evento a Milano racconta come l’alluminio acquista nuova vita nella mani dei maestri calligrafi.


di Marco Moro

Lattine e arte della calligrafia: sembra davvero uno strano binomio. Ma se si cerca nella rete con la parola chiave cola pen tutto diventa chiaro e a prendere forma è un campionario di strumenti con cui gli appassionati e i cultori di questa pratica antica, e oggi in piena fase di riscoperta, realizzano i loro lavori. Ad ala di farfalla o a punta larga le cola pen sono spesso modellate dagli stessi artisti, pezzi unici pensati “su misura” per il risultato che si vuole ottenere. E sul web abbondano i tutorial che permettono di apprendere, passo dopo passo, il processo con cui autocostruirsi gli strumenti di scrittura a partire dalla materia prima più facilmente reperibile: una lattina in alluminio per bevande vuota. La facile lavorabilità e la flessibilità del lamierino delle lattine – di cola e non solo – ha reso popolare questo materiale tra la community internazionale dei calligrafi, cultori di un’arte che in piena era digitale sta rilanciando la creazione artistica con carta e inchiostro. Il percorso che ha portato all’attuale riscoperta della calligrafia si è sviluppato anche grazie a fenomeni che nei decenni recenti si sono caratterizzati come trend di massa, come l’arte dei graffiti e murales e quella del tattoo, il tutto forse facilitato dal rapporto pressoché quotidiano che chiunque utilizzi un computer può avere con le “font”, i caratteri. Un fattore non trascurabile , che ha prodotto quantomeno un inizio di “alfabetizzazione tipografica di massa”. La scelta di caratteri che un qualsiasi sistema operativo mette a disposizione dell’utente

e la facilità di sperimentare ha reso familiare a un vastissimo pubblico una pratica prima confinata a cultori o professionisti della tipografia. Ma è invece sull’arte tutta manuale della scrittura artistica su carta che si è focalizzato uno degli eventi più affascinanti della Design Week 2016, svoltasi in aprile a Milano. Ed è qui che entra in scena l’alluminio. “The Design of Words” organizzata da Le Balene (un’agenzia di comunicazione milanese) e Trees Home (una casa di produzione video) con la partnership di Cial, Consorzio nazionale per il riciclo dell’alluminio. A essere messo in scena è stato il lavoro di alcuni tra gli artisti più noti a livello internazionale, membri della community dei Calligraphy Masters. A Milano sono stati esposti i taccuini che, inviati agli artisti dislocati in giro per il mondo, sono stati “lavorati” e quindi rispediti per andare ad arricchire la parte espositiva dell’evento. Grazie alla partecipazione diretta di cinque “masters” della community a “The Design of Words” si sono tenuti dei workshop aperti al pubblico e dedicati a diversi aspetti dell’arte della calligrafia: tecniche e regole di composizione, logo design, stili gotici, lettering tribale, calligrafia per progetti su larga scala, 3D e disegni anamorfici. Questi stessi artisti hanno proposto la seconda componente dell’esposizione, ovvero le cola pen, realizzate grazie alla materia rinnovabile – l’alluminio delle lattine riciclato – messa a disposizione da Cial e progettate per rispondere alle esigenze di stile ed espressive di ogni “mano”.


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Info balene.it/ treeshomefilm.squarespace.com/ www.cial.it


Gli artisti presenti a Milano Calligraphy Masters Piattaforma online nata nel 2013 come nodo informativo sulla pratica contemporanea della calligrafia, è oggi evoluta in vera e propria community cui collaborano i migliori esperti mondiali di questa disciplina. calligraphymasters.com/ www.instagram.com/calligraphymasters/ www.facebook.com/CalligraphyMasters/?fref=ts Theosone www.instagram.com/theosone/ Zepha www.abadiafez.com/ www.instagram.com/zepha1/ FrakOne www.instagram.com/frak_one/ www.facebook.com/frakonehxcalligraphy/ Pokras Lampas www.instagram.com/pokraslampas/ www.facebook.com/calligrafuturism/ Tolga Girgin www.be.net/tolgagirgin99 www.instagram.com/tolgagirgin99


I CONFINI dell’ACQUA Nei prossimi 15 anni la domanda globale di acqua potrebbe superare del 40% l’offerta. Per assicurarsi la disponibilità di questo bene si dovranno eliminare frammentazione e mancato coordinamento tra i player del settore e perseguire un approccio multiscalare, multidisciplinare e circolare. di Emanuele Bompan

L’acqua è il miglior esempio di circolarità in natura. Chiunque ricorda con chiarezza i diagrammi che raccontavano il ciclo dell’acqua sui libri di biologia delle scuole secondarie. Innevamento, pioggia, tributari, laghi, mari, evaporazione, nutrimento delle piante, fonte di vita per gli animali, materia fondamentale per lo sviluppo economico e sociale dell’uomo. In un ciclo continuo di passaggi di stato e mutazioni ontologiche. Un ciclo perfetto con una geografia complessa, che incrocia una scala globale (l’acqua è un bene sovranazionale, che circola ininterrottamente) e una scala regionale a-territoriale (i bacini idrici non si fermano ai confini amministrativi o nazionali). Ed è proprio geografica la questione odierna che interessa l’acqua come bene essenziale per l’uomo. Geografia politica e geografia fisica spesso si scontrano, non collimano. Un fiume finisce al confine di uno Stato? Può un Comune gestire autonomamente a monte l’acqua senza badare alle necessità del Comune a valle? Le falde inquinate in uno Stato, ma sono bevute in un altro, sono una responsabilità inerente chi? Chi paga per questo? Soprattutto: di chi è l’acqua?

Oggi un numero sempre maggiore di persone si contendono l’acqua, un bene che sta diventando prezioso. La disponibilità di questo bene oggi è a rischio e richiede uno sforzo per reintegrare e ripristinare il suo ciclo, un tempo perfetto, che le attività umane, l’agricoltura, la cementificazione e una crescita demografica hanno alterato sostanzialmente, impattando ecosistemi, falde, qualità dell’acqua, limitandone il diritto all’accesso per animali e persone. La sfida del cambiamento climatico e la risalita di oltre tre miliardi di persone lungo la catena alimentare e sociale (più carne, più consumi) rende questo momento critico per futuro dell’approvvigionamento idrico. Se non si trovano soluzioni innovative di economia circolare per questo bene prezioso, la domanda globale di acqua al 2030 potrebbe superare del 40% l’offerta. Con conseguenze facili da immaginare: guerre per averne il controllo, crisi alimentari, peggioramento delle condizioni di igiene. In vari paesi europei, da sempre ricchi d’acqua, la situazione che si profila è inquietante. A incidere sulla disponibilità di acqua saranno


Case Studies Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, www.cmcc.it/it/

per primi i cambiamenti climatici che determineranno in Europa – secondo uno studio del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) – una diminuzione dell’innevamento medio e un incremento dei fenomeni piovosi di grande intensità. “Gli impatti derivanti dal clima – spiega Alessandro Russo, presidente del Gruppo Cap, una delle principali aziende pubbliche italiane – comportano sempre più spesso un elevato stress sugli impianti di depurazione, e anche un prelievo importante da falde e rete idrica, con un andamento discontinuo del riempimento dei bacini”. Mentre il consumo di acqua resterà elevato, visto il peso del settore agricolo. Maglia nera, in particolare, per l’Italia: secondo il libro Eating Planet, del Barilla Center for Food and Nutrition, il nostro paese con oltre 5.000 litri pro capite è il secondo consumatore d’acqua del Vecchio Continente.

Barilla Center for Food & Nutrition, Eating Planet. Cibo e sostenibilità: costruire il nostro futuro, Edizioni Ambiente 2016; www.edizioniambiente.it/ libri/1106/eating-planet/

Comitato italiano contratto mondiale sull’acqua, contrattoacqua.it/

Per gli osservatori più acuti la questione oggi è completamente fuori dai radar dei player di settore: attori amministrativi, tecnici pubblici, aziende private di gestione delle acque, municipalizzate, addetti alla sicurezza del territorio. “Ci sono troppi attori frammentari e non coordinati – spiega Rosario Lembo, presidente del Comitato italiano contratto mondiale sull’acqua – che non si parlano e non collaborano. E soprattutto non capiscono che l’acqua è un diritto fondamentale”. Pochi hanno capito il valore dell’oro blu, tranne alcune imprese private che da tempo hanno intuito il valore strategico delle sue riserve. Solo pochi paesi hanno una strategia di sicurezza nazionale legata all’acqua: tra questi Israele, da sempre all’avanguardia nella gestione delle risorse idriche. Italia, il sistema idrico imperfetto In Italia, dopo i referendum per rendere l’acqua risorsa pubblica, tutto è tornato alla calma.

Nessuna riforma del sistema di gestione delle acque, nessun piano di water-resilience. Persino i comitati sono rimasti attenti al proprio cortile e nulla più. Con il risultato che la gestione del ciclo dell’acqua nel nostro paese rimane un caos, tra sovrapposizioni, ingerenze, scarsa integrazione di sistema e mancanza di piani a lungo termine legati all’adattamento al climate change. Troppi attori: ci sono le Province (che passeranno a breve i dossier alle Regioni), la Protezione e il genio civile (che ha il compito di sorveglianza degli argini e la gestione emergenze in caso alluvione o contaminazioni di larga scala) e l’Agenzia Interregionale per il fiume Po (Aipo) che si occupa degli interventi sulle opere idrauliche di prima, seconda e terza categoria sul bacino del Po. Poi c’è il complesso reticolo dei consorzi di bonifica, enti di diritto che curano l’esercizio e la manutenzione delle opere pubbliche di bonifica e controllano l’attività dei privati sul territorio di competenza, il cosiddetto comprensorio di bonifica. Si occupano della sicurezza idraulica e della gestione delle acque destinate all’irrigazione e alla tutela del patrimonio ambientale e agricolo. Sovrapponendosi così con le Regioni e in parte con l’Aipo. Vanno poi aggiunte le società per l’acqua potabile pubbliche per il servizio idrico integrato, che include captazione, la gestione della falda, potabilizzazione, distribuzione, collettamento, e la depurazione finale. Una vera matassa da sbrogliare per ottimizzare la gestione e rendere di nuovo circolare il flusso, senza dispersioni, contaminazioni e sprechi energetici e ambientali. Basta però andare in Germania per capire che le soluzioni ci sono e sono economiche. “Nell’area della Ruhr, una legislazione speciale ha creato le associazioni di gestione acque: ne sono membri municipi e imprese. In questo modo le decisioni sono prese a larga scala, in maniera strategica”, spiega Simone Raskob, vicesindaco della città di Essen, che può vantare una public utility per l’acqua, la Stadtwerke Essen, vecchia 145 anni.

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materiarinnovabile 10. 2016 “La responsabilità per un’intera regione fa sì che gli investimenti siano più efficienti da un punto di vista economico. Inoltre possono essere portati avanti una serie di benchmarking projects in modo da permettere ai decision makers di scegliere i migliori”. A Essen viene usato un approccio olistico e integrato. Per anni le acque di fogna, quelle piovane e gli scarichi dei lavandini sono stati gestiti in maniera separata. Grazie a un investimento di 4,5 miliardi di euro nella regione (490 milioni di euro solo nell’area municipale di Essen) la Emscher Conversion per la gestione idrica della regione è diventato uno dei più grandi progetti infrastrutturali in Europa, destinato a diventare un esempio per tutte le città europee in termini di gestione integrata delle acque. Entro il 2027 infatti l’Emscher avrà raggiunto il più alto standard ecologico di gestione ambientale delle acque secondo la EU Water Framework Directive. Acqua di grande qualità, a costi minimi. Lombardia, l’Italia che cambia La Lombardia è il ground zero italiano per comprendere la questione idrica e la necessità di una gestione del ciclo dell’acqua attraverso una governance a scala di bacino idrico. Da un lato serve più acqua per l’agricoltura e per la popolazione che aumenta. Simultaneamente crescono gli effetti metereologici di grande intensità, come dimostrato dalle numerose bombe d’acqua e conseguenti piene dei bacini fluviali, mentre cala l’innevamento e il conseguente apporto idrico legato allo scioglimento delle nevi. Questo preoccupa i gestori dell’acqua potabile, visto che le cosiddette “bombe d’acqua” finiscono sempre più spesso in fogna in grandi quantità, con il risultato di un sovraccarico nei depuratori. E i rischi aumentano. C’è poi una questione particolare. “A Milano le acque di falda – spiega Alessandro Russo – hanno raggiunto dei livelli record. Di fatto sotto la città c’è un vero e proprio lago”. Le rilevazioni piezometriche mensili, che

permettono di approfondire la dinamica della circolazione idrica sotterranea, hanno mostrato come negli anni della grande industrializzazione – tra i ’50 e i ’60 – importanti imprese come la Falk pompavano grosse quantità d’acqua. Alla fine degli anni ’80 la falda è tornata a salire. Da sei metri, oggi è salita fino a soli quattro metri dalla superficie. Con conseguenze importanti su infrastrutture: metro, cantine, garage, spesso costretti a pompare acqua con le idrovore per evitare allagamenti. Un ulteriore problema che si va profilando sono le acque di risulta provenienti da impianti di scambio termico. Per intenderci l’acqua distillata, cioè completamente priva di impurità, che esce da condizionatori e scambiatori di calore. Quest’acqua finisce anch’essa in fognatura, mentre “potrebbe entrare tranquillamente in ambiente, essendo acqua pura – spiega Michele Falcone, direttore generale del Gruppo Cap – invece che gravare ulteriormente i depuratori, già ampliamente stressati”. Soluzioni: verso un approccio multiscalare, multidisciplinare e circolare Una prima risposta integrata al problema della frammentazione di competenze e la mancanza di una visione olistica sul sistema idrico arriverà il 4 luglio a Milano con una conferenza internazionale, organizzata da Gruppo Cap, dove esperti dalle utilities italiane ed europee si confronteranno sulle migliori soluzioni per le aree metropolitane e i bacini idrici. Obiettivo è comprendere come gestire il rapporto tra fenomeni metereologici, acque di risulta dagli scambi termici e l’uso cogente di acqua di falda e raccolta per ridurre sprechi, sovraccarico della depurazione, preservando una qualità dell’acqua elevata ed evitando competizione e sovrapposizione sulla gestione della risorsa idraulica. Gruppo Cap presenterà innanzitutto due proposte. La prima consiste in un progetto di ricerca,

A Milano le acque di falda hanno raggiunto dei livelli record. Di fatto sotto la città c’è un vero e proprio lago.


Case Studies

Info www.gruppocap.it

Ricreare ambienti fluviali o umidi ha anche l’effetto positivo di ricreare habitat per molti animali.

portato avanti dalla facoltà di Agraria dell’Università Statale di Milano per mappare il reticolo secondario del bacino lombardo. La Lombardia oggi ha un reticolo idrografico meno articolato di quello che alimentava la provincia nel Quattrocento. Furono i monaci cistercensi di Chiaravalle e di Morimondo nel 12° secolo a reinventare nella Bassa milanese i coltivi, i prati a marcita, l’allevamento e la lavorazione della lana e l’intricato complesso che li alimentava. Seguirono i Visconti e gli Sforza, che completarono il lavoro dei cistercensi con il reticolo del Naviglio Pavese, e le sue infinite rogge, il Naviglio Grande (usato per trasportare i marmi del Duomo di Milano), e infine il Naviglio della Martesana che Francesco Sforza volle per arricchire l’area e per controllare il flusso della linea di displuvio della Brianza (le acque piovane discendenti dalle zone collinari), con un sistema di raccolta più razionale regolata tramite un sistema di rogge alimentate da bocche di portata controllata. In questo modo oltre 25.000 ettari di terreno, spesso inondato, e centinaia di risorgive furono recuperate e messe a frutto. Un reticolo intricato e smart che potrebbe tornare in vita con lo scopo di “governare con ragione” le acque del territorio. “Stiamo lavorando con il consorzio del Villoresi per recuperare il tessuto del reticolo secondario dell’area sud e nord-ovest, che include reticoli, rogge, canali cistercensi, vecchi fontanili e chiuse”, spiega Falcone. “Noi vogliamo vedere e studiare la fattibilità di verificare la possibilità di una volanizzazione (la volanizzazione è la resa volatile dell’acqua, ovvero la suddivisione del carico affinché sia assorbita meglio dal reticolo, ndr) diffusa, non localizzata, partendo dai dati geografici e idrografici della pianura milanese”. In questo modo, ripristinando centinaia – forse migliaia – di chilometri di reticolo, si potrebbero

recuperare importanti quantità d’acqua, sia dall’innalzamento di falda sia da rovesci, che potrebbero essere usati per sostenere l’irrigazione – in crisi a causa del climate change e delle siccità prolungate – migliorando la qualità della depurazione (e i consumi correlati). Migliaia di ettolitri d’acqua rimessa in circolo. Insieme a un buon impatto ambientale. “Ricreare ambienti fluviali o umidi ha anche l’effetto positivo di ricreare habitat per molti animali, come gli aironi o le garzette. E anche per le piante, quali la tifa (Typha latifolia), la fragmite (Phragmites).” L’altro ambito di studio – che può essere fonte di ispirazione in tutta Europa – è l’integrazione tra i livelli di gestione. “Il sistema idraulico della città deve essere ripensato a livello metropolitano adattando una visione olistica” dice Alessandro Russo. “Per questo dobbiamo capire quali sono i sistemi virtuosi. All’estero l’attività della bonifica idraulica è assegnata a istituzioni che si occupano anche del servizio idrico, cioè si occupano dell’acqua potabile che va poi in fogna e poi depurata. Quando la fognatura interagisce con il reticolo e quindi con la difesa idraulica e il tema dissesto idrogeologico, si capisce subito che non possiamo frazionarci tra mille enti. Noi abbiamo chiesto al legislatore di concederci di avere in tariffa le opere di sistemazione idraulica del territorio. Saremmo pronti subito ad agire. Ma per ora rimane tutto frammentato.” Altro che economia circolare. Come iniziare? Innanzitutto mettendo insieme partecipate e consorzi di bonifica. Come racconteranno i sindaci di Barcellona, Rotterdam ed Essen al convegno organizzato dal Cap occorre studiare le best practices estere per massimizzare i risultati, prestando attenzione alle soluzioni di contesto. D’altronde buoni esempi ci sono già in Italia e Europa… Si tratta per una volta di copiare e adattare al proprio contesto.

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IL LEGUME è circolare di Sergio Ferraris

Chi pensa che l’economia circolare rappresenti una palla al piede per le imprese è smentito dai risultati del Gruppo Pedon. Ecco come coniugare la produzione di valore con la sostenibilità ambientale e sociale. Save the Waste: un progetto a 360° che coinvolge le comunità agricole, riutilizza gli scarti vegetali e sostiene progetti etici e sociali.

Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.

Che l’economia circolare sia in cerca di una definizione precisa è un fatto. Difficilmente questo tipo di dinamica si fermerà solo all’aspetto, seppure fondamentale, del recupero di materia, restituendo un ruolo e una funzione a materiali fino a oggi considerati rifiuti. Le imprese sono qualcosa di molto più complesso rispetto al mero aspetto ingegneristico legato alla produzione con i flussi di materie prime ed energia in entrata e di prodotti finiti e scarti in uscita. La produzione industriale, infatti, ha dei risvolti ambientali oggi ormai noti, viste le emergenze legate al clima e all’inquinamento, mentre per le questioni più squisitamente “sociologiche” si è spesso ancora fermi all’esperienza di Adriano Olivetti.

Save the Waste, www.pedon.it/it/etica-ambiente/Save-The-Waste

Ma imprese evolute, che riescono a conciliare la loro attività principale “produrre valore”, con il rispetto per l’ambiente, esistono. Ne è un esempio il Gruppo Pedon, con sede a Molvena nel vicentino, specializzato nella distribuzione di cereali, legumi e semi, che presidia il 50% del mercato di settore italiano. L’attività del gruppo è di acquistare sul mercato mondiale legumi e cereali, poi selezionarli e distribuirli nei mercati maturi come, per esempio, l’Europa e gli Stati Uniti. Un’attività che si potrebbe considerare “normale” se non fosse per il fatto che l’azienda ha costruito delle filiere con una notevole attenzione alla sostenibilità. A cominciare da quella sociale, come la produzione dei legumi in Etiopia. “La prima cosa da chiarire è che non ci approvvigioniamo dall’estero

per risparmiare o per avere mano d’opera a basso costo: lo facciamo per avere un controllo qualitativo sulle fonti d’approvvigionamento” ci dice Luca Zocca, marketing manager di Pedon. “Abbiamo dovuto ricorrere all’approvvigionamento all’estero perché nel tempo necessitavamo di quantità sempre maggiori di legumi che in Italia non sono disponibili, mentre lo sono i cereali, anche se trattiamo alcune tipologie di legumi d’eccellenza come i ceci della Murgia e le lenticchie di Castelluccio”. In Etiopia Pedon è presente dal 2005 ed è una storia interessante. All’epoca, in quella nazione, i legumi non erano nella cultura alimentare destinata alle persone, ma erano coltivati solo per uso animale; l’arrivo di Pedon ha cambiato le cose. Nel giro di pochi anni il prezzo d’acquisto dei legumi dagli agricoltori è cresciuto dell’800% anche grazie alle filiere etiche che sono state realizzate sulla loro coltivazione. Oltre al prezzo di mercato che si forma nella Borsa alimentare etiope, Pedon riconosce un premio a sostegno delle popolazioni locali, che non viene gestito dall’azienda ma dalle organizzazioni no profit con cui collabora, tra le quali la Fondazione Bill & Melinda Gates, Save the Children e il Cesvi. L’azienda si occupa della lavorazione, dell’esportazione e della commercializzazione dei legumi prodotti da cinque cooperative di piccoli agricoltori locali che sono composte da circa 30.000 famiglie alle quali vengono fornite le sementi, le conoscenze per coltivare e talvolta anche gli attrezzi. Le organizzazioni no profit accompagnano questo percorso inserendolo

Henderson Peas, 1898 – OldDesignShop

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2016: l’anno dei legumi L’Onu ha dichiarato il 2016 l’Anno internazionale dei legumi. Il motivo è semplice. Sotto al profilo nutrizionale sono più efficienti. Sono un’alternativa alle costose proteine animali e ciò li rende ottimali per migliorare l’alimentazione nelle zone più povere del mondo; inoltre hanno una resa da due a tre volte più alta in termini di prezzi rispetto ai cereali. E rappresentano quindi una leva per combattere la povertà rurale. “I legumi sono importanti coltivazioni per la sicurezza alimentare di una grande percentuale della popolazione mondiale, in particolare in America Latina, in Africa e in Asia, dove fanno parte delle diete tradizionali e spesso coltivati dai piccoli agricoltori”, afferma il Direttore generale della Fao, José Graziano da Silva. Gli scarti dei raccolti dei legumi possono essere utilizzati per l’alimentazione animale, mentre la loro coltivazione fissa l’azoto nel suolo, aumentando la fertilità dei terreni e riducendo la necessità di fertilizzanti sintetici. Nella coltivazione hanno bisogno di poca acqua e la loro grande varietà consentirà agli agricoltori di selezionare quelli più resistenti ai cambiamenti climatici.

in progetti specifici a sostegno della popolazione come la realizzazione di pozzi e scuole, strade e ospedali, concordati con le comunità locali. “Il passaggio attraverso le organizzazioni no profit è importante” aggiunge Zocca. “In questa maniera il premio sulla produzione che assegniamo entra in un contesto di finanziamento più grande, fatto anche da privati e da governi, che innesca a sua volta cicli economici virtuosi e maggiori, poiché le somme a disposizione diventano più elevate. L’approccio è quello di non essere invadenti offrendo alle comunità locali degli strumenti anche di promozione sociale difficilmente ottenibili altrimenti, come per esempio l’istruzione.” Negli anni, l’azienda ha realizzato una scuola per 250 ragazzi tra i tre e i tredici anni, che impiega una dozzina d’insegnanti; questa iniziativa possiede anche un risvolto etico: quello di garantire che i legumi non siano coltivati con il lavoro minorile, cosa abbastanza comune in questi paesi. “Siamo molto aperti nei confronti delle comunità locali, anche perché, nel caso dell’Etiopia, è necessario rapportarsi con i capi villaggio che hanno un peso molto importante nell’equilibrio delle relazioni, specialmente nei confronti di partner stranieri” continua Zocca. “Il fatto di impostare fin dall’inizio relazioni alla pari, di offrire modelli concreti e una serie di servizi e attività richiesti dalla comunità, dando al tempo stesso il supporto sociale, è la cosa migliore che si possa fare. A conferma della validità del nostro approccio la Fondazione Bill

& Melinda Gates, una volta in Etiopia per finanziare progetti di sviluppo economico sulla piccola famiglia, dopo aver incontrato varie organizzazioni no profit, istituzioni e comunità locali, ha visitato lo stabilimento Pedon per conoscere quale modello fosse stato applicato nelle relazioni con la popolazione.” La storia Ma per comprendere la sensibilità dell’azienda al sociale occorre raccontarne la storia. Nell’immediato dopoguerra Guerrino Pedon, il padre dei soci fondatori, in occasione della nascita del secondo figlio rientrò dall’estero dove faceva il minatore. In Veneto c’era molto da ricostruire dopo il conflitto, lo spirito di comunità era forte e anche la famiglia Pedon ricevette un sostegno per superare le difficoltà cosa che lasciò un’impronta profonda nel dna della famiglia. Allora Guerrino inforcò la bicicletta inventandosi la vendita porta a porta, come commerciante ambulante, di generi alimentari tra i quali l’olio e i legumi. Erano i primi anni del boom economico, le cose andarono bene e la passione per la vendita si trasmise dal padre al secondo figlio, Sergio, che divenne agente di commercio, trasformando l’attività di rappresentanza in un’attività di vendita all’ingrosso. La svolta arrivò negli anni ’80, quando iniziò a diffondersi a macchia d’olio in tutta Italia la grande distribuzione organizzata. Esplosero i fenomeni dei grandi centri commerciali e degli ipermercati

Info www.pedon.it


Case Studies per generi alimentari. I Pedon compresero che quella era la strada da percorrere e che conveniva offrire prodotti adatti a quel tipo di vendita. Un piccolo magazzino e una macchina confezionatrice di seconda mano permisero ai Pedon di commercializzare legumi a proprio marchio; il vero successo però fu determinato da un furgone di proprietà e dalla stampa dei codici a barre sulle confezioni. Ovvero, una logistica efficiente e una soluzione all’avanguardia per le casse. Oltre al fatto che i legumi erano prodotti d’uso comune nella zona, furono queste le due novità che nel 1984 fecero decollare l’azienda, la quale successivamente iniziò a distribuire cereali, funghi secchi e prodotti per i dolci da forno. Tutti alimenti che, non necessitando della catena del freddo per la loro conservazione, richiedono una logistica e una gestione economica e semplice che consente, al tempo stesso, delle buone economie di scala e un contenimento dei prezzi finali. Questa esperienza ha portato Pedon a realizzare, tredici anni fa, la Lenticchia Pedina, etica e solidale: per ogni confezione venduta sono devoluti quindici centesimi a Save the Children e al Cesvi destinati a progetti umanitari contro la malnutrizione e la mortalità infantile. “Non si tratta di un sovraprezzo per il consumatore che pagherebbe lo stesso importo anche nel caso in cui non ci fosse la donazione, ma di un minor introito per l’azienda”, continua Zocca, con il vantaggio che si tenta d’introdurre l’abitudine all’utilizzo di un alimento salubre, come la lenticchia, nell’arco di tutto l’anno e non soltanto per le feste natalizie.

Legumi sostenibili Sul piano della sostenibilità l’azienda ha realizzato un mix a 360°, circolare quindi, fatto di innovazione di processo e di comunicazione diretta al consumatore. Il progetto di Pedon “Save the Waste”, unisce tutti i pezzi del “domino” realizzato in materia di sostenibilità socioambientale negli anni. I legumi sono coltivati con sementi selezionate, no Ogm, all’interno di programmi per lo sviluppo economico delle popolazioni, come quelle etiopi, e sono trasportati fin dove è possibile – nel caso italiano fino a poche decine di chilometri dallo stabilimento di Molvena – in treno, riducendo la CO2 dovuta al trasporto. Successivamente, i residui di lavorazione dei legumi – che arrivano anche al 20% – sono utilizzati per realizzare, in collaborazione con la cartiera Favini, la prima carta al mondo – Crush Fagiolo – che ha ottenuto la certificazione, sia in Europa sia negli Usa, per il contatto alimentare nonostante sia costituita da “rifiuti” di lavorazione. Si riduce così del 15% l’impiego di fibra di cellulosa vergine e del 20% dell’emissione di CO2 nella fase di realizzazione del packaging. Packaging che è sviluppato dalla cartotecnica Lucaprint con inchiostri ecologici vegetali e inserendo una finestra trasparente in plastica Pla ottenuta anch’essa da scarti vegetali. Viene eliminato in questo modo il sacchetto interno, un rifiuto in meno nelle nostre case – visto che il cartoncino Crush Fagiolo ha la certificazione per gli alimenti; tutta la confezione è riciclabile. Con questo sistema circolare, le aziende distano l’una dall’altra circa quindici chilometri, si sta creando nella zona una sorta di distretto della circolarità dei processi industriali che sta andando a sistema. Non è un caso, infatti, che tre aziende come Pedon, Favini e Lucaprint diverse nelle lavorazioni, nei prodotti e nelle proprietà, abbiano “intrecciato” le loro filiere e usino tutte energie rinnovabili per il 100% dei loro consumi energetici. Il nuovo packaging chiuderà anche il cerchio della solidarietà, visto che sarà a breve utilizzato anche per la Lenticchia Pedina. Nel concreto questa di Pedon è anche una storia che smentisce il luogo comune sostenuto da alcuni economisti sul fatto che l’economia circolare sia un costo, se non una vera palla al piede per le imprese. Lo dimostrano i numeri dell’azienda di Molvena. Il fatturato 2015 è stato di 100 milioni di euro – era di otto milioni nel 1999 – l’azienda possiede il 50% del mercato italiano, ha sviluppato 3.000 referenze di prodotto con 600 dipendenti impiegati negli stabilimenti produttivi in Italia e 200 tra Etiopia, Argentina, Egitto e Cina, esporta in 45 paesi con oltre 100 linee a marchio privato, oltre al proprio. Il tutto con il 20% del fatturato rappresentato dai prodotti biologici. Risultati non esattamente da azienda “bloccata” dall’economia circolare.

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LOMBRICHI contro

ECOMAFIA di Antonio Pergolizzi

In una provincia che non supera il 10% di raccolta differenziata, saranno i vermetti rossi a sottrarre i rifiuti da logiche criminali. Per trasformare quello che è un costo in una risorsa e dare vita a una prima piccola rete di legalità organizzata e sostenibile.

Antonio Pergolizzi dottore di ricerca (PhD), giornalista e divulgatore scientifico, dal 2006 è Coordinatore dell’Osservatorio Ambiente e Legalità di Legambiente.

A Rosarno, nella Piana una volta lussureggiante di Gioia Tauro in provincia di Reggio Calabria, i lombrichi stanno per iniziare la loro titanica battaglia contro l’ecomafia. Davide contro Golia. Dove Davide, in questo caso, ha il volto di un esercito di vermetti rossi e Golia quello della potentissima ‘ndrangheta. È qui che, dopo l’assegnazione al consorzio Terre del Sole dell’area confiscata al clan Iamonte (quasi 7.000 metri quadrati di terreno agricolo), è nato il progetto “Mestieri Legali”, finanziato dalla Fondazione per il Sud, fiore all’occhiello della lotta per la legalità della sindaca antimafia Elisabetta Tripodi, una vita sotto scorta per aver osato denunciare pubblicamente l’arroganza mafiosa. Partner dell’iniziativa, insieme al consorzio, un cartello di associazioni (Legambiente, Arci, Omia),

la cooperativa Alba Servizi e i Comuni di Rosarno e Laureana di Borrello. Un bel lavoro di squadra, dunque. Uno dei mestieri è un impianto di lombricoltura che servirà a trasformare i rifiuti dei due Comuni partner in nuova linfa, un costo in una risorsa, a beneficio dell’intero territorio. Un prototipo di economia circolare impiantato nella terra che è il regno dei Pesce e dei Bellocco, aristocrazie spavalde e sanguinarie di ‘ndrangheta, e dove – secondo molti collaboratori di giustizia – sarebbero stati seppelliti veleni ovunque, soprattutto nell’entroterra, a pochi metri di profondità, scorie radioattive comprese. In realtà i lombrichi sono solo una tessera di un mosaico molto più grande: un pezzo di un progetto, tanto ambizioso quanto concreto, che rappresenta una finestra aperta sul futuro.


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Una scommessa da vincere. L’obiettivo è, infatti, la nascita di una “Comunitas di biodiversità”, cioè un percorso di valorizzazione naturalistica dell’area – un fazzoletto di terra alla confluenza tra due fiumi, il Mesima e l’affluente Metramo – che passi dallo studio degli indicatori biologici dell’ecosistema e dalla fruizione dell’area per la collettività, all’allestimento di laboratori didattico/naturalistici destinati alle scuole. Nella piena consapevolezza che è alle nuove generazioni che occorre affidare il destino di questo territorio, sapendolo prima riconoscere e apprezzare sotto nuova luce. È un’iniziativa che vuole fare rete, innestandosi in uno spazio dove sono già attivi esempi sani di economia circolare. Come la Fattoria della Piana, una storica cooperativa di allevatori che ha scelto la filiera corta e biologica per la produzione di formaggi e salumi, puntando all’autosufficienza energetica grazie a un impianto di biogas che consente di chiudere il ciclo produttivo. Fattoria che è oggi un

esempio virtuoso e ampiamente riconosciuto, non solo in Calabria. Ai minuscoli lombrichi, invece, l’ingrato compito di fungere da grimaldello per sottrarre i rifiuti da logiche criminali e parassitarie – in una provincia che non supera nemmeno il 10% di differenziata e in una Regione già commissariata per sedici anni su questo fronte – per indirizzarli verso una delle tante declinazioni dell’economia circolare. Vermetti arruolati per ridare alla terra la sostanza organica che necessita, l’ossigeno giusto, per produrre compost di qualità dai semplici scarti organici del terreno e da buona parte dei rifiuti organici (Forsu) dei due Comuni partner: il tutto con enormi benefici ambientali e per le stesse casse comunali. In questo modo, secondo i calcoli su una superficie di circa 50 metri quadrati potranno essere smaltiti fino a 750 quintali di rifiuti organici l’anno. Un bell’inizio. Inoltre, le lettiere destinate ai lombrichi saranno fornite da un altro pilastro dell’economia circolare calabrese particolarmente inviso ai boss della Locride, l’azienda Ecoplan

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di Polistena, che produce materiali ottenuti dal riciclaggio della sansa olearia e della plastica. Una piccola rete di legalità organizzata e sostenibile nella provincia reggina.

1. Vedi Linee Guida del “Programma nazionale per la lotta alla siccità e alla desertificazione (Pan)”, approvate dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), con delibera n. 229 del 21 dicembre 1999.

In questo particolare e fragile equilibrio ecosistemico il compost prodotto potrà svolgere più di un effetto benefico. Consentendo, prima di tutto, di ottenere un ammendante naturale da una tipologia di scarto che sino a oggi ha creato in Calabria grandi problemi ambientali e gestioni scriteriate, potendolo riutilizzare sul terreno stesso per accrescerne la fertilità, se non venderlo direttamente sul mercato. Contribuendo così anche a migliorare le qualità strutturali del suolo dando una mano alla lotta contro la desertificazione, che in Calabria la stessa ArpaCal definisce una vera emergenza,1 e per il contenimento delle emissioni, migliorando le capacità del suolo di fissare a terra la CO2. Ma, soprattutto, la scelta della lombricoltura

Info Fondazione per il Sud, www.fondazioneconilsud.it Consorzio Terre del Sole, www.consorzioterredelsole.it Ecoplan, www.ecoplan.it/home.html

permetterà di incanalare questi scarti verso un percorso trasparente e sostenibile, che, oltre a prosciugare la palude dove si alimenta la sete di denaro e potere dei clan, darà un ottimo contributo alla riqualificazione urbana e naturalistica dell’area, iniziando quel cambio di rotta verso una gestione più moderna e meno impattante dei rifiuti, e soprattutto meno dipendente dalle vecchie discariche. Oltre a quelle etiche, l’iniziativa si tinge anche di connotazioni sociali, avendo scelto di rivolgersi direttamente alla comunità di migranti, soprattutto africani, molti dei quali rimasti impigliati nelle reti dei caporali locali (molto attivi nei campi agricoli della Piana) e oggetto di sistematiche aggressioni. Culminate nei drammatici fatti di sangue del 9 gennaio 2010, quando proprio a Rosarno è iniziata una vera e propria caccia all’uomo di colore a suon di fucilate e conclusasi con il macabro bollettino


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di numerosi feriti e una fuga in massa da parte della comunità africana. Secondo gli inquirenti, dietro quei fatti ci sarebbe stata la regia dei clan, che avrebbero così dato un messaggio chiaro ai lavoratori stagionali (tutti immigrati), in quel periodo ricompensati con pochi euro nella raccolta delle arance nei terreni dei boss, ma “colpevoli” di aver preteso migliori condizioni di vita.2 Che “Mestieri Legali” parta proprio dal coinvolgimento degli immigrati, anello più debole di una lunga filiera fatta di sfruttamento e mafia, ha quindi un valore più che simbolico. A due di loro, infatti, dopo un periodo di formazione andrà il compito di prendersi cura dell’impianto di compostaggio. È un messaggio dirompente, che non è certo passato inosservato in paese. Un percorso, quindi, doppiamente circolare, utile per creare gli anticorpi sociali necessari al contrasto alle logiche mafiose e come fucina di un modello di economia sociale, sostenibile e inclusiva. L’uno a sostegno dell’altro. Come ricorda Lidia Liotta (Legambiente Reggio Calabria), una delle animatrici più convinte del progetto, “i ragazzi sono già al lavoro, nell’agosto scorso hanno partecipato entusiasti al primo campo di lavoro e, a mani nude, hanno già rimosso tonnellate di rifiuti (eternit compreso) dalle sponde del Mesima”.

A smorzare l’entusiasmo ci ha però pensato la politica locale con la strana dimissione in massa dei consiglieri di minoranza (più uno della maggioranza), cosa che ha decretato lo scioglimento anticipato del Consiglio comunale di Rosarno e quindi la caduta della sindaca antimafia, sponda convinta del progetto. Per fortuna il percorso sembra avere già gambe sue e l’idea si è addirittura diffusa come un virus in diversi comuni del cosentino e del crotonese, pronti a seguire l’esempio di Rosarno3 dando vita a impianti di lombricoltura al posto di nuove discariche. Un’idea talmente rivoluzionaria per la pax mafiosa da spingere alcuni “ignoti”, all’indomani del primo evento pubblico di lancio dell’iniziativa avvenuto lo scorso settembre, a scaraventare a ridosso del cancello di ingresso all’area confiscata diverse carcasse di autovetture rubate. Un segnale inequivocabile in terra di ‘ndrangheta e di codici non scritti. La mafia preferisce le discariche (abusive e non) ai placidi lombrichi rossi, visti – giustamente – come insopportabili semi di libertà, oltre che di sostenibilità. Passa anche dalla loro (re)esistenza, quindi, il riscatto di questa terra e la lotta per l’affermazione di una società più giusta, in ogni senso.

2. “Arance insanguinate – Dossier Rosarno” a cura di Stopndrangheta e associazione daSud onlus, febbraio 2010; tinyurl.com/njsq75d.

3. Il primo Comune in Calabria a puntare sulla lombricoltura è stato quello di Marzi (CS).

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Così si gioca a di Brieuc Saffré

CIRCULAB

Ecco come un gioco, con tanto di tabellone, può aiutare un’azienda a progettare un modello di business virtuoso. Stimolando creatività e innovazione, puntando sulla cooperazione anziché sulla competizione. Brieuc Saffré, consulente e autore di un libro sul marketing utile (Le marketing peut sauver le monde... Quelle est votre brand utility?, 2012), si occupa di facilitare l’integrazione dell’economia circolare nelle organizzazioni e nel loro modello di business.

L’economia circolare non è solo un ripensare la gestione dei rifiuti ma un approccio economico e filosofico al business completamente nuovo. È complessa, diversificata e perciò difficile da comprendere per i non iniziati. Ecco perché è stato creato Circulab. Questo strumento ha un obiettivo: aiutare le persone a immaginare modi concreti di organizzare l’economia circolare. Che cos’è Wiithaa? Fondata nel 2012 da due francesi con la passione per l’economia circolare, Wiithaa è un’agenzia di design tutta dedicata a questo tema. Wiithaa è il nome aborigeno dell’uccello giardiniere, un uccello australiano che utilizza qualsiasi risorsa possibile per costruire nidi meravigliosi e fare colpo sull’altro sesso. Allo stato naturale il suo nido è fatto di rametti, fiori e conchiglie, ma ora vi si trovano di frequente cannucce, tappi di plastica e altri rifiuti. Questo uccellino è l’esempio di come un rifiuto

possa trasformarsi in risorsa e quindi di come un problema ambientale possa diventare un’opportunità economica. Obiettivo primario di Wiithaa è porre fine al concetto stesso di rifiuto, aiutando le aziende a gestire il proprio flusso di risorse ed energia così da essere virtuose dal punto di vista ambientale ed economicamente performanti. Wiithaa lavora su due fronti: in primo luogo offre ai propri dipendenti una formazione sul paradigma dell’economia circolare, aiutandoli a comprenderne i concetti. Quindi agisce anche sul piano del design, creando nuovi prodotti e servizi in collaborazione con le aziende. Ma visto che non è facile integrare questo approccio nel proprio metodo di lavoro, Wiithaa ha creato uno strumento specifico: Circulab. Ispirato ai giochi da tavolo, Circulab crea un’atmosfera di innovazione e cooperazione che aiuta i giocatori a innescare la logica dell’economia circolare nella propria vita quotidiana.


Case Studies Che cos’è Circulab? È un insieme di strumenti che mirano a considerare e analizzare complessivamente il modello di business così da co-generare soluzioni più virtuose per una sua migliore integrazione ecosistemica. Un nuovo modo di progettare i modelli di business Alle origini del Circulab ci sono due filosofie del business: il design thinking e la biomimesi. Tim Brown, amministratore delegato e presidente di Ideo, agenzia di design e innovazione, è uno dei principali “missionari” del design thinking. Questo approccio aiuta le aziende a stimolare la creatività e l’innovazione: invita a rivolgersi agli utenti, a comprenderne le motivazioni, e analizzare i problemi da affrontare. Per fare ciò occorre concentrarsi su 5 fasi. 1. Enfatizzare: consiste nell’osservare e interagire con l’utente per comprenderne meglio l’esperienza. 2. Definire: in questa fase i thinkers danno forma al bisogno principale dell’utente. 3. Ideare: punta ad arrivare a possibili idee e soluzioni che risolvano il problema. 4. Prototipo: le idee assumono una forma fisica, così che i designer possano sperimentare come svilupparle meglio. 5. Test: in questo passaggio per affinare la prospettiva di partenza si utilizzano le informazioni raccolte in situ e i feedback. La seconda filosofia che guida il nostro approccio è la biomimesi: il funzionamento dell’organizzazione deve rifarsi al modello attraverso il quale la natura si è evoluta per 3,8 miliardi di anni. L’ecosistema naturale si distingue dall’economia umana proprio per l’assenza di rifiuti. In natura il concetto stesso di rifiuto non ha senso: quello che per uno è rifiuto, per un altro è risorsa. Nel design la natura è di gran lunga migliore di noi: ogni specie e cellula ha la propria funzione e ragion d’essere. Ma se la progettazione dei singoli componenti dell’ecosistema è così efficace, è anche perché prevede la cooperazione. Prendiamo per esempio la sequoia: le lumache che vivono ai suoi piedi si nutrono delle piante invasive che consumano l’acqua e le sostanze nutritive essenziali per l’albero che in cambio dona loro un ambiente fresco e umido. Pertanto la sequoia moltiplica le interazioni positive per aumentare la propria resilienza: infatti più mantiene relazioni simbiotiche con altre specie, meno dipende da una singola risorsa o specie, ed è maggiormente resistente alle perturbazioni esterne. Giocando a Circulab ci si ritrova in un contesto in cui le innovazioni utili ed ecofriendly passano attraverso un meccanismo di cooperazione con gli altri stakeholder da cui tutti traggono beneficio: è l’atteggiamento mentale bio-ispirato di Circulab.

Il tabellone da gioco di Circulab Componente principale di Circulab è il tabellone: è diviso in caselle in cui sono collocati i flussi e le interazioni esistenti all’interno del business. I dieci riquadri principali aiutano a sintetizzare l’attuale modello di business. 1. La funzione richiede di definire la “ragion d’essere” chiarendo il bisogno che l’attività punta a soddisfare. 2. Le attività chiave rappresentano il know-how e le attività dell’organizzazione. 3. Il partenariato richiede di identificare tutti i partner che possano avere un ruolo nell’attività. 4. Le risorse naturali sono tutti i materiali utilizzati nella fabbricazione, nella distribuzione e durante l’uso. 5. Le risorse tecnologiche comprendono i macchinari necessari sia a creare il processo di consumo sia a dare vita al prodotto o al servizio. 6. Le risorse energetiche integrano tutti i consumi energetici compresi nel processo, incluso il consumo dell’utente finale. 7. Proposta di valore si riferisce all’esperienza che l’organizzazione offre all’utente: che tipo di prodotto o servizio, quali le sue caratteristiche e il suo valore aggiunto. 8. Clienti e contesto risponde alla domanda: chi saranno gli acquirenti? Che tipo di situazione è più adatta all’offerta? 9. La distribuzione mira a definire come comunichiamo e in quale prospettiva effettuiamo la vendita. 10. L’upcycling ha a che fare con l’obiettivo “rifiuti zero” . Comporta il riconoscimento di tutti i residui dei componenti e dei materiali dopo l’utilizzo finale, e quali di questi sono riparabili o riutilizzabili o riciclabili. I riquadri complementari evidenziano i flussi e il loro impatto per l’azienda e il suo ecosistema. I primi flussi sono le ricadute economiche: comprendono i flussi in entrata e in uscita creati dai riquadri centrali. Specificare e analizzare i bisogni e le possibili entrate aiuta a comprendere meglio dove e perché vengono spesi i soldi e a valutare nuove possibilità di reddito. Il giocatore può considerare i costi e gli investimenti necessari a realizzare il proprio progetto e ottimizzare il flusso all’interno del business. La seconda serie di flussi è costituita dagli impatti positivi e negativi del business sull’economia, l’ambiente e la società. Posizionando ciascun riquadro nel suo ecosistema e considerando tutti i suoi componenti – dalla produzione al termine del suo ciclo di vita – diventa più semplice distinguere gli impatti negativi causati dalla produzione, dal consumo o dalla fine del ciclo di vita. Tre obiettivi principali Circulab può essere utile alle organizzazioni in tre modi diversi. In primo luogo in quanto offre ai giocatori gli strumenti per comprendere i concetti chiave dell’economia circolare. Durante il gioco diventa chiaro come un’organizzazione non sia solo una

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Case Studies questione di merci, ma anche di flussi che non riguardano solo il modello di business in sé. In realtà un’azienda è parte di un ecosistema molto più ampio: considerarla alla luce di questa consapevolezza costituisce l’essenza stessa dell’economia circolare.

in fase di progettazione. Agire significa mettere alla prova e garantire la fattibilità di un’idea attraverso una corretta progettazione e appropriati componenti, assicurandosi che il prodotto o il servizio abbia il minor impatto negativo possibile nel corso del suo intero ciclo di vita.

Secondo: il gioco alimenta la cooperazione tra dipendenti, reparti, aziende e territori. Ciascun partecipante gioca nella stessa squadra e ha lo stesso obiettivo: dare vita a nuove idee per risolvere un determinato problema. Non esiste competizione, perché tutti si trovano sulla stessa barca, proprio come noi esseri umani su questo pianeta.

Che cos’è la rete Circulab

Persone con background e professionalità diverse condividono le proprie capacità per creare qualcosa che è più della semplice somma dei loro talenti. La cooperazione tra attori è una componente essenziale dell’economia circolare: quando le persone comprendono il senso del pensare globalmente, sono più propense a utilizzare questo schema di pensiero nella quotidianità. Ed ecco la terza componente: coinvolgere gli attori nell’azione. Mentre creano a nuove idee, i giocatori se ne impadroniscono e di conseguenza si sentono direttamente responsabili della loro applicazione pratica. Tre principi fondamentali La creazione di modelli di business rigenerativi – e di adeguati prodotti e servizi – richiede di stabilire tre principi fondamentali , corrispondenti a diversi gradi di utilizzo di Circulab. Info wiithaa.com/en/ circulab.eu/en/

Esplorare. Partendo da un problema già identificato, occorre uno sforzo di osservazione per comprendere l’attuale flusso e know-how del business e il suo contesto. Il problema può riguardare la fornitura, la resilienza o il design dei prodotti o servizi. Il lavoro di osservazione permette di riempire tutti i riquadri del tabellone: serve a potenziare prodotti e servizi più adatti ai bisogni del consumatore, alle risorse dell’organizzazione e al suo ecosistema. Creare attraverso la cooperazione. È il momento di coinvolgere i principali stakeholder confrontandosi su come rendere più virtuosi i modelli di business analizzati e dando una risposta ai problemi rilevati. I giocatori mettono insieme le loro idee per arrivare alla miglior alternativa. Agire. Una volta generate le nuove idee, sarà l’azienda a trasformare il proprio modello di business creando un prototipo di strategia che possa portare a nuove opportunità economiche, sociali e ambientali. La definizione del prototipo e il suo collaudo rivestono grande importanza, dato che fino al 70% dell’impatto sociale e ambientale di un prodotto viene determinato

Per essere efficiente nel suo utilizzo Circulab deve essere facilitato da un consulente esterno. Per questo Wiithaa ha creato la rete Circulab: comprende consulenti indipendenti con background diversi e capacità complementari, che condividono la volontà di aiutare le aziende nel loro viaggio verso un modello circolare di business. I facilitatori del gioco La presenza di un consulente favorisce il raggiungimento dell’obiettivo del gioco, cioè la co-generazione di modelli di business con molteplici impatti positivi. Molteplici capacità, un unico approccio I consulenti provengono da diversi settori: progettazione, ingegneria, biomimesi, responsabilità sociale di impresa, upcycling, gestione del cambiamento o marketing, tecnologia dell’informazione green o energia rinnovabile. Idee ed esperienze così variegate hanno un ruolo importante nello sviluppo del gioco e nella sua applicazione. Oggi i 22 membri della rete Circulab provengono da Francia, Belgio, Norvegia, Spagna, Turchia e Canada. I networkers sostengono le organizzazioni affinché queste riescano ad arrivare a diagnosi, strategie e azioni volte a mitigare il proprio impatto sull’ecosistema. Nonostante ciò gli strumenti e i servizi che utilizzano non sono tutti uguali. Nel meccanismo di cooperazione l’ideale è raggiungere l’obiettivo condividendo lo stesso approccio e strumento, anche se alimentato con le proprie specifiche competenze. Se un territorio ritiene che creare un circolo virtuoso fra gli attori locali (cittadini, privati o istituzioni) possa portare a nuove possibilità economiche, può essere meglio supportato da chi proviene dal territorio stesso. La ricchezza della rete consiste nel fatto che il gioco del business dell’economia circolare si può utilizzare con più efficienza se adattato alla realtà locale. Accelerare l’economia circolare L’approccio di Circulab mostra come conciliare business e natura. Promuovendo la cooperazione incoraggia i giocatori a sentirsi parte di un ecosistema più ampio. Tutti gli attori – aziende, stati, regioni, ong o cittadini – devono guardare all’economia attraverso un nuovo prisma, in cui la tutela dell’ambiente non sia più un peso per il business, ma fonte di opportunità. Circulab aiuta le persone ad accelerare lo sviluppo di questo paradigma virtuoso.

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Chi ha detto che le

MOSCHE sono inutili? di Ilaria N. Brambilla

Come produrre mangimi per l’alimentazione dei pesci utilizzando gli insetti allevati con scarti ortofrutticoli. Una ricerca condotta dall’Università dell’Insubria sulla possibilità di usarli per riciclare ciò che finora è stato considerato rifiuto.

Ilaria N. Brambilla è geografa e comunicatrice ambientale. Collabora con istituti di ricerca, agenzie di comunicazione e con testate italiane e straniere sui temi della sostenibilità.

Smaltire gli scarti grazie a una mosca. E ricavarne mangimi. Questo l’obiettivo del progetto “Insect Bioconversion”, una ricerca sull’utilizzo di una mosca – la Hermetia illucens – per lo smaltimento degli scarti ortofrutticoli. Insetto che, una volta cresciuto con questa dieta speciale, viene impiegato per ottenere una farina proteica usata per integrare i mangimi destinati ai pesci di allevamento.

Progetto “Insect Bioconversion”, tinyurl.com/z2b4op9

Il progetto “Insect Bioconversion” presentato dall’Università dell’Insubria in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e il Crea – Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – di Padova si è aggiudicato un finanziamento di 300.000 euro da Fondazione Cariplo nell’ambito dei bandi attivati sulla “Ricerca integrata sulle biotecnologie industriali e sulla bioeconomia”. E ha anche ricevuto la sottoscrizione di Sogemi Spa, Società per l’impianto e l’esercizio dei mercati

annonari all’Ingrosso di Milano, dell’Associazione piscicoltori italiani e di Paul Vantomme, responsabile del progetto “Edible Insects” della Fao. Cinque le fasi previste dalla ricerca. Per prima cosa vengono valutate le performance di crescita delle Hermetia su diversi tipi di diete: da una standard composta da crusca, mais ed erba medica, a un mangime per polli, normalmente utilizzato per alimentare altri tipi di insetti, alla dieta vegetale oggetto della ricerca. La seconda fase riguarda la caratterizzazione biologica dell’Hermetia, ossia l’individuazione di alcuni marcatori per valutarne le performance di crescita, la sua efficienza nella trasformazione del substrato e le condizioni in cui questo insetto cresce (ottimali o potenzialmente patogene). In questo passaggio è prevista anche la selezione degli individui migliori al fine di creare uno stock di uova di Hermetia, indispensabile per avviare una filiera certificata nella fase post-ricerca.


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Progetto “Edible Insects”, www.edibleinsects.it

La terza fase prevede l’isolamento della mosca da ciò che rimane del substrato, quindi la trasformazione dell’insetto in farina e la valutazione microbiologica della farina così ottenuta. Quindi vengono eseguiti i test sulle trote iridee, andando gradualmente a sostituire ai mangimi tradizionali frazioni crescenti di farina d’insetto, analizzando le performance di crescita e lo stato di benessere dei pesci così alimentati. L’ultimo passaggio prevede la valutazione, lo studio e la gestione per usi alternativi – come compostaggio o sviluppo di ammendanti da utilizzarsi in ambito floro-vivaistico – degli scarti non consumati, a cui si sommano le feci dell’insetto stesso e le chitine derivanti dalle mute.

“C’è ancora molto da scoprire sull’Hermetia illucens: in questo momento stiamo valutando su piccola scala la fase della crescita e abbiamo verificato come, variando anche minimamente le condizioni di illuminazione, temperatura e umidità, l’impatto sul ciclo vitale è notevole”, spiega il professore. “Questo insetto ha delle caratteristiche ottime per il nostro progetto. È saprofago, il che significa che cresce su materiale in decomposizione. La sua resa, poi, è davvero notevole per la quantità di scarto che riesce a smaltire. Infine, dato fondamentale, l’adulto vive pochi giorni, depone le uova e muore. Pertanto a differenza di altri insetti più studiati, non è vettore di patologie. E questo è un indubbio vantaggio ai fini della ricerca.”

Dall’idea al progetto

Tettamanti racconta poi come è nato il progetto. “L’interesse del gruppo di lavoro verso gli insetti commestibili risale al 2013, momento in cui cominciava il fermento in Europa in tale ambito. Parallelamente, i colleghi acquacoltori

Referente del progetto presso il polo varesino è Gianluca Tettamanti, entomologo. L’abbiamo incontrato nel suo laboratorio.

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materiarinnovabile 10. 2016 sottolineavano la necessità, in un settore di ricerca ed economico in forte espansione, di trovare dei sistemi efficienti per fornire proteine ai pesci di allevamento. Nello stesso periodo, attraverso i contatti con Sogemi Spa di Roberto Valvassori, zoologo e all’epoca docente ordinario all’Insubria, siamo venuti a conoscenza dell’esigenza della società di smaltire 1.300 tonnellate di scarti ortofrutticoli all’anno.” Così è nata l’idea di trasformare questi scarti in risorsa, valorizzare le potenzialità di un ambito di estrema attualità, gli insetti commestibili, rispondendo al tempo stesso alle necessità di un comparto sul quale l’Europa punta moltissimo, l’acquacoltura. Non solo. Di fatto anche altre aziende hanno la necessità di smaltire substrati, magari di diverso tipo come i residui dei birrifici. Oggi questi scarti vengono utilizzati per produrre biogas o vanno al compostaggio: usarli per l’alimentazione degli insetti potrebbe, invece, essere una valida alternativa. D’altra parte, l’insetto non è solo fonte di proteine, benché le percentuali di queste componenti varino dal 30 al 60%. Per esempio la frazione oleosa, oltre alla mangimistica, potrebbe interessare le industrie cosmetiche. Le chitine e chitosani – ossia la parte che costituisce l’esoscheletro lasciata in modo consistente nel substrato durante le mute – sono utilizzate per gli imballaggi e in ambito alimentare, visto che sembrano avere un’azione stimolante sul sistema immunitario. Infine, dall’Hermetia

Locuste, grilli e larve a tavola? Il parere dell’Efsa L’Efsa è l’Autorità europea per la sicurezza alimentare: fornisce non solo consulenza scientifica ma anche una comunicazione efficace in materia di rischi, esistenti ed emergenti, associati alla catena alimentare. A ottobre 2015, ha rilasciato un rapporto dal titolo Risk profile of insects as food and feed nel quale si afferma che gli insetti rappresentano un settore alimentare di nicchia nell’Unione europea, anche se parecchi Stati membri ne hanno segnalato un consumo umano occasionale. Tuttavia l’uso di insetti come fonte di alimenti e mangimi ha, potenzialmente, importanti benefici per l’ambiente, l’economia e la sicurezza della disponibilità alimentare. Nel suo rapporto Efsa ha evidenziato che l’eventuale presenza di pericoli biologici e chimici nei prodotti alimentari e nei mangimi derivati da insetti dipende da vari fattori: dai metodi di produzione, da ciò con cui gli insetti vengono nutriti (il cosiddetto substrato), dalla fase del ciclo di vita nella quale gli insetti vengono raccolti, dalle specie di insetti utilizzate, nonché dai metodi impiegati per la loro successiva trasformazione. In conclusione, quando gli insetti non trasformati vengono nutriti con mangimi attualmente autorizzati, la potenziale insorgenza di pericoli microbiologici è prevedibilmente simile a quella associata ad altre fonti di proteine non trasformate. Il fattore di rischio, infatti, resta correlato all’uso come substrato di deiezioni umane o di ruminanti, ciò che portò nel 2001 a vietare le farine di carne e ossa di mammiferi in tutti i mangimi destinati agli animali da allevamento nell’Ue, per l’esistenza di un legame tra queste farine e la diffusione dell’encefalopatia spongiforme bovina (Bse) nel bestiame e a causa di un’associazione tra la carne infetta da Bse e la variante della malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD) nell’uomo. Il parere scientifico dell’Efsa prende in considerazione anche gli eventuali pericoli associati ad altri tipi di substrato, come i rifiuti di cucina e il letame. Ciò che occorre fare, però – rivela il rapporto – è approfondire la ricerca in questi ambiti, per scongiurare anche i rischi chimici (per esempio accumulo di metalli pesanti e tossine) o rischi biologici (batteri, virus). Rapporto Efsa Risk profile of insects as food and feed, www.efsa.europa.eu/sites/default/files/scientific_ output/files/main_documents/4257.pdf


Case Studies si è pensato all’allevamento ittico. Inoltre questi allevatori hanno bisogno di mangimi standardizzati per mantenere alte le performance di crescita del pesce e scongiurare eventuali patologie o la riduzione della produzione finale ittica.

sono estraibili molte molecole ad attività antibatterica.

Info www.fondazionecariplo.it/ it/index.html dipbsf.uninsubria.it/ invertebrati/

Per realizzare tutto ciò, però, occorre creare protocolli utilizzabili su ampia scala e stabilire degli standard per sviluppare una filiera produttiva certificata. La questione degli standard rappresenta il punto centrale della ricerca: in Europa i limiti nell’allevamento degli insetti per l’alimentazione animale hanno implicazioni che vanno al di là dell’efficienza e riguardano i potenziali rischi per la salute. Proprio pochi mesi fa Efsa – European Food Safety Authority, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare – ha rilasciato un rapporto dove viene affrontata la questione, individuando non solo potenziali pericoli biologici e chimici, ma anche l’allergenicità e i pericoli ambientali connessi all’uso di insetti allevati come cibi e mangimi. Acquacoltura: la scelta che fa la differenza Oggi, secondo gli ultimi dati disponibili, l’acquacoltura fornisce circa il 50% dei prodotti ittici per consumo umano al mondo; mentre in Europa rappresenta il 24% della produzione di pesce e dà lavoro a circa 85.000 persone. Da più di 15 anni l’Unione europea promuove, infatti, il comparto con fondi e finanziamenti ad hoc, insistendo sulla sostenibilità dei prodotti ittici allevati ed evidenziando l’importanza dell’acquacoltura come uno dei settori alimentari in maggiore espansione a livello mondiale. Per questo, dovendo scegliere la destinazione d’uso della farina d’insetto elaborata durante il progetto,

A occuparsi dei test sui pesci della farina ricavata dalle mosche sarà Genciana Terova, responsabile del settore acquacoltura del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della vita dell’Università dell’Insubria. Anche se la fase della ricerca che la riguarda direttamente non è ancora iniziata, approfondiamo con lei alcuni aspetti del progetto. Scopriamo, innanzi tutto, che la scelta di testare la farina sulle trote iridee è dovuta al fatto che in Lombardia c’è una grossa produzione ittica, in particolare di trote: nella regione ci sono oltre 70 impianti di itticoltura e si producono più di 5.000 tonnellate di pesce l’anno. Scopriamo inoltre che oltre alle trote, la farina d’insetto potrebbe essere compatibile – dopo opportune valutazioni sperimentali – anche con altre specie carnivore, quali la spigola, la carpa o la tilapia. Genciana Terova ci spiega che, in realtà, la miglior sorgente proteica per il pesce carnivoro allevato è la farina di pesce. Tuttavia, per mantenere la sostenibilità ambientale ed economica, questa è solitamente e in gran parte sostituita con farine di origine vegetale, che non sono sempre digeribili e spesso vengono associate a fattori antinutrizionali. I possibili vantaggi per il pesce rappresentati dall’impiego della farina di Hermetia dovrebbero essere legati al fatto che tale farina sia una sorgente di proteina digeribile. Se l’ipotesi verrà confermata, il pesce potrà usufruire di una sorgente proteica animale di facile assimilazione che non veicola fattori di infiammazione per l’apparato digerente. Da rifiuto a risorsa Ma la vera sfida che ci aspetta nel prossimo futuro sarà riuscire a nutrire una popolazione mondiale in continuo aumento avendo a disposizione risorse sempre più scarse. L’allevamento di insetti potrebbe ben colmare questo limite in due diversi modi: inserendo nell’alimentazione umana il consumo di insetti che, già oggi, costituisce un’integrazione proteica per oltre due miliardi di persone, ma che dovrebbe superare le reticenze di molti, almeno in Europa. La seconda possibilità si riferisce all’utilizzo degli insetti per completare i mangimi animali con un ridottissimo impatto ambientale rispetto a quello legato alla loro produzione con farine di pesce. Il progetto “Insect Bioconversion”, quindi, non è solo un progetto di bioeconomia. Ciò che lo rende affascinante sono le enormi possibilità di applicazione e la sostenibilità ambientale di questa continua trasformazione, del re-immettere in circolo le materie prime rinnovabili (substrato vegetale e insetti) contribuendo a cambiare a tutti i livelli l’idea stessa di sviluppo.

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GRUPP

GRUPP

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TRACCIABILITÀ DELL’ACCIAIO E DELL’ALLUMINIO PROVENIENTI DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

TRACCIABILITÀ DELLA PLASTICA PROVENIENTE DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS.

DISCIPLINARE

Versione 0.0 del 16.03.2016

Versione 0.0 del 04.03.2016

DISCIPLINARE

GRUPP

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DIVISIONE ENERGIA SRL Via Brianza 19, Oriago di Mira 30034 - Oriago di Mira (VE) +39 041 5630647 www.divisionenergia.it

TRACCIABILITÀ DELLA CARTA PROVENIENTE DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

DISCIPLINARE

Revisione 00 del 02.02.2016

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DIVISIONE ENERGIA SRL Via Brianza 19, Oriago di Mira 30034 - Oriago di Mira (VE) +39 041 5630647 www.divisionenergia.it

di Sergio Ferraris

DIVISIONE ENERGIA SRL Via Brianza 19, Oriago di Mira 30034 - Oriago di Mira (VE) +39 041 5630647 www.divisionenergia.it

SEGUITE QUEL RIFIUTO! Per inserirsi nel circuito della manifattura le materie prime seconde devono poter reggere il confronto – qualitativo ed economico – con le materie prime tout court. E la certificazione è la strada principale per raggiungere questo obiettivo. Si fa presto a parlare di economia circolare. Basta dire che il rifiuto viene riciclato ed è subito economia circolare. Si tratta di un’enunciazione che, a voler essere buoni, si può definire superficiale. La semplicità apparente della produzione delle merci, unita alla massiccia disponibilità di materie prime che ha caratterizzato tutta l’industria fino a oggi, porta a pensare al riciclo in termini altrettanto semplici. Ed è un approccio sbagliato. Invece le filiere produttive, nel solo aspetto della manifattura, sono molto complesse, stratificate e razionali e la loro complessità aumenta quando si tenta di chiudere il ciclo usando come risorse le materie prime seconde. Il ciclo, infatti, perde la propria razionalità quando la complessità contenuta nel prodotto incontra quella, sociologica, dell’utilizzo e del divenire rifiuto. Ed è il “caos”. Materiali che si aggregano in base a schemi casuali, energia utilizzata in maniera irrazionale e stili di vita “umorali” sono gli ingredienti che compongono questo caos, per decenni nascosto sottoterra. Ossia nelle discariche. Oggi l’insostenibilità di questa logica inizia a essere percepita nei fatti e si sta tentando la missione “impossibile” della razionalizzazione dei rifiuti attraverso raccolta differenziata e riciclo.

Una prima esperienza arriva non da un soggetto manifatturiero ma dal Gruppo Veritas, la maggiore multiutility del Veneto che si occupa della gestione dei rifiuti e delle risorse idriche: ha certificato, per la prima volta in Europa e forse nel mondo, il ciclo dei rifiuti, dalla raccolta differenziata alla fornitura di materia prima seconda alle imprese, monitorandone tutti i passaggi nel dettaglio tenendo conto degli aspetti energetici e ambientali. “La certificazione da parte di un ente terzo (Bureau Veritas: un ente certificatore che solo casualmente condivide parte del nome con la multiutility veneta, ndr) – ci dice Andrea Razzini direttore generale del Gruppo Veritas – serve per due motivi. Il primo perché risponde a uno dei dubbi che hanno i cittadini in tema di rifiuti, cioè che il loro sforzo per la differenziata sia vano nella convinzione, profondamente errata, che poi le multiutility mescolino di nuovo tutto. Il secondo in quanto attraverso il meccanismo di certificazione e monitoraggio riusciamo a perfezionare la qualità della materia prima seconda che produciamo”. Certificazione. Bisogna capire, però, che non stiamo parlando di timbri e burocrazia, o di un pezzo di carta acquisito a chissà quale


Case Studies

BILANCIO 2014

GRUPP

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BILANCIO D’ESERCIZIO AL 31 DICEMBRE 2014

TRACCIABILITÀ DELLA CARTA PROVENIENTE DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

DISCIPLINARE ALLEGATO 2 BILANCIO ENERGETICO DI FILIERA

Revisione 00 del 02.02.2016

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titolo, ma di documenti che possiedono una mole di dati raccolti con metodologie scientifiche che non possono essere “interpretati”, perché quando parliamo di processi industriali e di forniture di materie prime alle imprese, le bugie hanno le gambe corte. Molto corte. Ma questo non è il caso di Veritas che ha certificato la maggior parte delle proprie filiere/piattaforme – vetro, acciaio, alluminio, carta, plastica, Css (combustibile solido secondario) – e sta studiando anche la certificazione dell’umido. Ed è qui che ci si scontra con la complessità e il caos di ciò che chiamiamo rifiuto. Ne è un esempio il caso della plastica. “La plastica al singolare – continua netto Razzini – è solo una parola. La parola corretta è plastiche e sono migliaia, cosa che complica la questione. Le filiere per la trasformazione dei rifiuti in materia prima seconda non sono per niente semplici o di facile accesso. Quindi i soggetti abituati a fare la raccolta dei rifiuti in maniera indifferenziata hanno dovuto imparare non solo a effettuare la raccolta in maniera differenziata, ma farsi carico della qualità delle materie prime seconde in uscita perché le aziende che le devono lavorare vogliono del materiale di ottima qualità in base a esigenze precise”. Le materie prime seconde devono, infatti, reggere il confronto sia qualitativo, sia economico con le materie prime tout court, se vogliono avere la possibilità d’inserirsi nel circuito della manifattura oggi. E la certificazione è, con ogni probabilità, la strada principale per fare ciò. Idea trasparente

TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

DISCIPLINARE

LA FILIERA

ALLEGATO 2 BILANCIO ENERGETICO DI FILIERA

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TRACCIABILITÀ DELLA CARTA PROVENIENTE DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

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Revisione 00 del 02.02.2016

DISCIPLINARE

TRACCIABILITÀ DELLA PLASTICA PROVENIENTE DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

Giuliana Da Villa

TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS.

GRUPP

O

Alla fine, ottenuti i dati, Veritas si è posta il problema della comunicazione della filiera ai cittadini, anche per smentire il luogo comune sulla trasformazione della differenziata

O

TRACCIABILITÀ DELL’ACCIAIO E DELL’ALLUMINIO PROVENIENTI DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

Versione 0.0 del 04.03.2016

che è un ottimo vettore di comunicazione verso i cittadini. “Abbiamo scelto, come prima sperimentazione della tracciabilità di filiera/piattaforma (azione essenziale e propedeutica alla certificazione, ndr) il vetro, prendendo la differenziata da alcune municipalità della terraferma (di Venezia, ndr) e analizzando chilo per chilo il vetro raccolto nelle campane” ci racconta Giuliana Da Villa, responsabile qualità e ambiente di Veritas. “È stata necessaria, inoltre, la collaborazione fattiva dell’azienda vetraria, uno dei punti di snodo della filiera, alla quale abbiamo chiesto di fondere il nostro vetro in unico forno; per una settimana quel forno ha fuso solo il nostro vetro, trasformandolo in bottiglie.” Potrebbe sembrare una cosa piccola e scontata e invece non lo è. Ogni soggetto industriale appartenente a una qualsiasi filiera produttiva, possiede delle proprie dinamiche industriali e la disponibilità a “bloccare” un pezzo della produzione per fare una verifica sull’intera filiera, che quindi riguarda anche soggetti esterni, non è affatto scontata, tanto più se – come in questo caso – parliamo di una multinazionale. Del resto senza questo passaggio i dati della filiera, specialmente sotto il profilo energetico, avrebbero avuto delle lacune evidenti, ragione per la quale la collaborazione delle aziende finali è fondamentale. Si tratta di dati la cui conoscenza è essenziale per la filiera del riciclo, ma la cui riservatezza da parte delle imprese è comprensibile. La loro diffusione su una maggiore efficienza di processo di un’azienda, per esempio, può azzerare un vantaggio competitivo della stessa, ma allo stesso tempo si potrebbe aver bisogno di questi dati per efficientare la filiera del riciclo. Nella ricerca di questo equilibrio, la certificazione realizzata da Veritas è estremamente utile. Se i dati sono disponibili, non sono però resi pubblici nel dettaglio, perché è il processo del riciclo nel suo complesso a essere certificato.

GRUPP

GRUPP

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Andrea Razzini

In Veritas l’idea della certificazione della filiera/ piattaforma è nata sul vetro per capire, in primo luogo, cosa succede lungo una specifica filiera di riciclo in tema di raccolta e di selezione, fino ad arrivare alla fonderia. La scelta di questa filiera per la sperimentazione è stata fatta non solo perché è la più completa che Veritas ha a disposizione – consentendone così un’analisi profonda – ma anche perché l’azienda ha identificato nel vetro una materia prima seconda

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materiarinnovabile 10. 2016 Il tramonto del Nimby

in indifferenziata a opera delle multiutility. E ha lanciato, nel senso letterale del temine, un messaggio all’interno delle bottiglie distribuite ai cittadini, sul fatto che proprio quelle bottiglie erano solo qualche settimana prima un rifiuto vetroso, buttato nelle campane della raccolta differenziata. Un segnale chiaro: quello che era un rifiuto ora è un oggetto utile.

Info www.gruppoveritas.it

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LA FILIERA

TRACCIABILITÀ DELLA PLASTICA PROVENIENTE DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

TRACCIABILITÀ DELLA CARTA PROVENIENTE DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

LA FILIERA

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TRACCIABILITÀ DELL’ACCIAIO E DELL’ALLUMINIO PROVENIENTI DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

GRUPP

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Le mamme e i papà di Venezia potranno spiegare ai propri bambini che il loro gioco preferito al parco è stato realizzato con la cassetta della frutta della merenda e con la lattina della bibita.

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L’esperienza fatta con il vetro ha aperto la strada alla certificazione delle altre cinque filiere. Tra queste c’è quella del Css (combustibile solido secondario) che è con ogni probabilità una delle materie prime seconde più controverse, perché accomunato dall’opinione pubblica all’incenerimento, mentre si tratta di un vero e proprio combustibile, che se rispetta certi parametri perde la caratteristica del rifiuto. L’analisi svolta per la certificazione del Css ha rivelato questioni preziose sulle filiere/ piattaforme, come le tipologie e le quantità dell’errato conferimento, e anche sull’azienda stessa. Sono emersi per esempio alcuni problemi sul monitoraggio dei consumi energetici dei mezzi usati nella fase di raccolta, dovuti al fatto che i dati non vengono rilevati nella stessa maniera nelle diverse zone dove operano – un caso classico di “stratificazione” nel tempo delle pratiche aziendali. Sul fronte della qualità, invece, il processo ha promosso a pieni voti la progettualità dell’impianto di Ecoprogetto Venezia – la società del gruppo che si occupa di Css – che è in grado di garantire, vista la tecnologia e le modalità operative applicate, una produzione di Css corrispondente ai limiti imposti dal Dm 22/2013 relativi all’end of waste, anche in presenza di materiali non idonei al processo di riciclo. Insomma se la complessità dei rifiuti urbani e della loro gestione è nei fatti, per i rifiuti industriali, spesso mono materiali, è abbastanza semplice trovare la connessione

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Le attività sui rifiuti da sempre sono a rischio Nimby (Not in my back yard, “Non nel mio cortile”, ndr), anche le più virtuose. Sebbene il Gruppo Veritas operi in zone fortemente antropizzate, resistenze da parte della popolazione verso le attività delle piattaforme per il riciclo non ce ne sono state: questo perché gli impianti sono stati posti in aree periferiche e spesso in siti già interessati in precedenza da attività industriali. E questa è, con ogni probabilità, la ricetta giusta per realizzare impianti problematici, anche se con vocazione virtuosa come le piattaforme per il riciclo. Non bisogna dimenticare, infatti, che spesso il cittadini guardano alle problematiche di immediata prossimità, non percependo i vantaggi di impianti come questi che appartengono a scale più grandi. In questo caso, però, la scelta di Veritas si è rivelata vincente, perché oltre a preferire una zona periferica, per una serie di impianti si è scelto Porto Marghera. “Questa opzione – spiega Giuliana Da Villa – è stata vista dai cittadini come un recupero e una bonifica della zona, viste le attività che vi venivano effettuate in precedenza. L’impianto Eco-Ricicli, dove si seleziona e avvia al riciclo vetro, plastica e lattine, sorge su una zona bonificata. Così si recuperano zone che non avrebbero potuto esserlo in altra maniera”. E a favorire l’accettazione degli impianti c’è il fatto che il riciclo è un’attività che possiede un’alta intensità di lavoro chiudendo così un ciclo. Si fanno nuovi impianti su zone bonificate e dove sono sparite le attività precedenti e se ne creano di nuove a impatto molto minore e recuperando posti di lavoro.

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TRACCIABILITÀ DEL COMBUSTIBILE SOLIDO SECONDARIO DA RIFIUTI E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

TRACCIABILITÀ DELLA PLASTICA PROVENIENTE DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

O GRUPP

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Per avere un quadro reale, che comprenda anche le questioni ambientali a 360 gradi, durante il processo di certificazione sono stati tracciati tutti i consumi in termini di energia, acqua e altre risorse, andando oltre agli aspetti esclusivamente aziendali, come la quantità di materiale prodotto. Per ogni filiera/piattaforma si è misurato con precisione il bilancio del ciclo di vita, disegnando così l’impronta ecologica del ciclo del riciclo, partendo dal conferimento dei rifiuti da parte del cittadino, fino al prodotto ri/finito, come nel caso del vetro. Gli indicatori ottenuti saranno preziosi in futuro poiché potranno essere utilizzati come base per gli sviluppi dell’economia circolare. “Durante l’attività di certificazione – spiega Da Villa – ci siamo resi conto che i dati ottenuti erano molto interessanti al di là delle questioni comunicative e ci siamo chiesti se esistessero delle normative per fare ciò. Ci siamo così accorti che non esistono standard internazionali per la tracciabilità del riciclo e abbiamo chiamato in causa un ente di certificazione terzo, identificato attraverso una gara, Bureau Veritas, per fissare i dati e le metodologie che oggi possediamo”. Rapporto con le imprese Il limite emerso da questa esperienza, vetro a parte, sta nel rapporto con le aziende manifatturiere. Ora tale rapporto si ferma al livello delle imprese intermedie che – grazie alle conoscenze specifiche possedute

SINTESI DEI RISULTATI

Versione 2.0 del 26.02.2016

Versione 1.0 del 26.02.2016

Versione 0.0 del 16.03.2016

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tra prodotti e materie prime seconde, anche per produzioni di pregio. Per esempio i pannelli fotovoltaici al tellururo di cadmio, che hanno raggiunto l’efficienza record del 22,1%, sono realizzati con sostanze che provengono dagli scarti industriali della raffinazione dello zinco e del rame.

TRACCIABILITÀ DELL’ACCIAIO E DELL’ALLUMINIO PROVENIENTI DA RACCOLTA DIFFERENZIATA E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

SINTESI DEI RISULTATI

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TRACCIABILITÀ DEL VETRO RICICLATO E CERTIFICAZIONE DEI FLUSSI DI FILIERA

PROGETTO SPERIMENTALE PER LA TRACCIABILITÀ E LA CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEL RIFIUTO SECCO NON RICICLABILE PROVENIENTE DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DELL’AREA DEL VENEZIANO

TRACCIABILITÀ E CERTIFICAZIONE DEL RECUPERO DEI MATERIALI PROVENIENTI DALLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL GRUPPO VERITAS

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GRUPP

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Case Studies

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sui processi aziendali – riescono a fornire alle aziende manifatturiere le materie prime seconde giuste per le specifiche lavorazioni. Si tratta di un gap nella catena della conoscenza che complica l’ottimizzazione del processo di riciclo, poiché potrebbero mancare informazioni importanti nei procedimenti a monte per ottenere materiali utili a valle. Proprio per superare questo limite Veritas sta avviando una sperimentazione: con la tracciabilità dettagliata della plastica e dell’alluminio provenienti dai rifiuti, l’azienda punta a fornire direttamente alle imprese materie prime seconde per produrre giochi per bambini da utilizzare nei parchi pubblici. È una sperimentazione che potrebbe essere finanziata con un bando europeo e che ha come partner il Comune di Venezia, il quale sceglierà con gara un produttore e gli conferirà l’incarico di realizzare queste attrezzature esclusivamente con materia prima seconda proveniente dal riciclo dei rifiuti solidi urbani effettuato attraverso la filiera di Veritas. Aver scelto questo utilizzo non è una sfida da poco, visto che i giochi all’aperto per bambini sono soggetti agli agenti atmosferici, al maltrattamento sistematico dei piccoli utenti oltre a dover essere omologati secondo una normativa molto stringente. Al progetto sono interessati molti produttori, per testare sia queste metodologie, sia i “nuovi” materiali. Le coperture dei giochi saranno fatte con un granulato ottenuto dalle cassette per la frutta, mentre le strutture portanti in alluminio riciclato. Presto, quindi, le mamme e i papà di Venezia potranno spiegare ai propri bambini che il loro gioco preferito al parco è stato realizzato con la cassetta della frutta della merenda e con la lattina della bibita. Qualche anno fa si diceva che “il medium è il messaggio” (McLuhan, 1967); in futuro si potrà dire che “l’oggetto è il messaggio”. Per definire, e comunicare, al meglio l’economia circolare.


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materiarinnovabile 10. 2016

Rubriche Profondo blu

Non possiamo perdere il mare Ilaria Nardello è direttore esecutivo del Centro europeo risorse biologiche marine (Embrc), l’infrastruttura europea per la ricerca scientifica e applicata sulla biologia e gli ecosistemi marini.

Comunicazione del 27 aprile 2016 del commissario per l’Ambiente, Affari marittimi e la Pesca Karmenu Vella europa. eu/rapid/press-release_ STATEMENT-16-1564_ fr.htm

Ad aprile di quest’anno, a Londra, The Economist ha ospitato Fishackathon, un piccolo evento parte di una serie di iniziative che mirano a sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi della pesca. Nel suo intervento, il corrispondente per l’ambiente dell’autorevole settimanale ha snocciolato, come perle di un rosario, tutte le gravi questioni che pesano sulla condizione dei nostri mari. Ognuna meriterebbe una esposizione dettagliata – e risulta evidente che la salute degli oceani ha conquistato la ribalta sulla scena mondiale – ma alcuni paesi sembrano essere particolarmente insensibili a questi argomenti. Nello stesso mese di aprile, in Italia, si è tenuta una consultazione pubblica, un referendum, relativa ai diritti di trivellazione delle società minerarie di petrolio e gas in possesso di concessioni per lo sfruttamento di giacimenti posti entro le 12 miglia dalla costa. Il referendum è stato indetto su iniziativa di alcune regioni costiere italiane, in particolare quelle più strettamente interessate dai siti di estrazione, con l’obiettivo di abolire principi recentemente introdotti nella legislazione italiana che permettono alle aziende di rinviare sine die lo smantellamento in sicurezza delle piattaforme di estrazione in mare, di perforare nuovi pozzi nelle zone di concessione già ottenute entro le 12 miglia dalla costa, e di sfruttare quei pozzi fino al completo esaurimento del giacimento invece che fino alla scadenza dei diritti di concessione. Con le risorse di pesca di tutto il Mediterraneo drasticamente in contrazione (il 93% sono in condizione di sovrasfruttamento, vedi Comunicazione del 27 aprile 2016) e alcune sul punto di essere esaurite; considerato l’ impatto che l’attività estrattiva può avere sulla vita marina; il grande rischio di disastri ambientali che i recenti sversamenti nel torrente Polcevera hanno prospettato come una minaccia realisticamente inquietante; e – soprattutto – con una fiorente economia verde, non si può non considerare sorprendente la posizione del governo italiano. Anche perché, a distanza di una sola settimana, l’Italia ha poi ratificato con orgoglio gli accordi di Parigi sul clima, raggiunti durante la Cop21. E il messaggio del paese è stato forte durante l’intervento del presidente del Consiglio italiano davanti all’assemblea delle Nazioni Unite:

parole come sostenibilità, futuro e ambiente sono apparse come i pilastri dell’agenda di sviluppo economico del governo italiano. Ed è vero: l’economia verde d’Italia gode di buona salute, è innovativa e leader in alcuni segmenti del mercato. Per esempio nel settore della bioplastica, con la forza di un gigante industriale come Novamont; o in quello dell’efficienza energetica che secondo recenti statistiche oggi conta più di 300.000 imprese e 3 milioni di lavoratori (Partnership for Action on Green Economy). Ci sono anche alcuni segnali di allineamento con le politiche dell’Ue in questo ambito, come per esempio la legge per la green economy approvata dal Parlamento italiano a fine 2015, anche se mancano ancora gli elementi attuativi. Ma gli sforzi visibili di rivitalizzare l’economia italiana sono sempre più spesso e più intensamente all’insegna di un modello di sviluppo obsoleto, basato sui combustibili fossili e l’acciaio. Per esempio: rinnovo automatico delle concessioni di sfruttamento di gas e petrolio entro le 12 miglia dalla costa, scongelamento delle misure di lock-down imposte alle compagnie petrolifere in Basilicata, riapertura di una vetusta acciaieria a Piombino nonostante l’enorme e comprovato disastro ambientale dell’Ilva a Taranto. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, le due principali risorse dell’Italia sono l’ambiente naturale e il patrimonio culturale. E con le minacce importantissime che i mari di tutto il mondo stanno affrontando – non solo il sovrasfruttamento delle risorse biologiche, ma anche il riscaldamento e l’acidificazione delle acque e il crescente inquinamento da plastica – l’occasione di questo referendum era quella di iniziare, anche simbolicamente, un processo di disarmo verso il nostro pianeta blu, che ci avrebbe consentito di superare le antiche tecnologie e le vecchie relazioni socioeconomiche che stanno portando i nostri sistemi naturali sull’orlo del collasso.


Rubriche

Pillole di innovazione

Astuti e laterali Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.

C’è un grande scenario che io penso debba essere aperto per quanto riguarda l’economia circolare, tenendo presente una regola di fondo: quando si ha a che fare con un grosso problema che crea un sacco di guai, bisogna essere competenti, certo, lavorare in profondità, ma anche laterali e astuti. Astuti si spiega da sé. Laterali può generare ambiguità e quindi è meglio specificare. Quando osserviamo un fenomeno è bene tenere presente che accanto a una visuale “centrale”, diciamo così, che è importante praticare, intendiamoci, ce ne può essere una laterale che può dare risultati interessanti. Il motivo è sostanzialmente semplice: nella visione centrale tendiamo a utilizzare tutto il know-how che abbiamo, l’esperienza, i concept di fondo che è giusto mettere in campo in tante situazioni analoghe. Ma questo è un atteggiamento che può indurre a pratiche conservative. In alcune situazioni di incontro con il pubblico mi capita di usare il seguente problema, che è completamente inventato, non c’è nessuna attività scientifica di questo genere. Dico: c’è una ricerca recente dalla quale emerge che in Cina il numero di infarti in ascensore è circa il doppio di quelli registrati in Europa e Stati Uniti. Come mai? Arrivano le soluzioni più disparate, alcune anche connesse ad alimentazione e movimentazione verticale di ascensori veloci. Dopo un po’ dico: il motivo è semplice, in Cina un ascensore di medie proporzioni porta almeno 30 persone. Giuseppe Galatà, ingegnere veneto insediato da tempo in Sicilia, in collaborazione con l’Università di Messina sta partendo con una start-up che muove da uno sguardo laterale sul problema dello spreco di alimenti. Un tema di cui si parla sempre, descrivendo come lo spreco si declini a partire da quando il cibo esce dal supermercato. Ma prima? Galatà ha messo in moto una filiera che può lavorare sugli ortomercati, sui mercati rionali, sulle aziende, arrivando a inventarsi delle macchine spacchettatrici di confezioni di cibo scadute. Non solo: dal verdurame lui ricava alimenti per gli animali di allevamento. E poi? Nel verdurame non c’è anche un sacco

d’acqua? Lui recupera pure quella. Quindi: laterale e geniale. Fredrika Gullfot, invece, svedese, spinge la lateralità in una direzione di perversa intelligenza. Sappiamo tutti che stiamo estraendo dal mare una quantità di pesce incredibile. Alcuni dati ci dicono che dal 1970 a oggi abbiamo dimezzato la vita marina. Ci stiamo avvicinando al momento in cui si dovranno mettere in mare quei pescetti a molla che usiamo nella vasca da bagno (si dice per i bambini, ma poi li usiamo tutti). E sarà una scelta inevitabile per combattere l’incupimento di tanti pescatori professionisti, quelli che per altro con le loro “retone” tirano su dal mare oltre al pesce anche rocce, sommergibili della Seconda guerra mondiale, e pure, periodicamente, Nettuno. Che però ributtano dentro. Fredrika ha ragionato su questo: ci vogliono 600 sardine per ottenere mezzo chilo di omega 3. Ora: è ormai accertato che l’ingestione degli omega 3 fa bene alla salute come osservare per tre minuti un idrante. È quindi una produzione totalmente inutile. Ma per fermare queste cose chissà quanto tempo ci vorrà. Allora lei coltiva alghe che producono omega 3. Ecco il messaggio: progettare il recupero dell’inutile. Ecco come si può essere astuti. Un suggerimento allora: visto che gli attaccapanni hanno una loro morfologia cornoide, non si potrebbe diffondere il messaggio che possono sostituire il corno dei rinoceronti?

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