MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 11 | luglio-agosto 2016 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente
Chris Patermann: così la Brexit penalizza la bioeconomia •• Rifiuti invisibili ai radar •• Paglia, pietra, terra: tanto antichi, così moderni •• Inerti: figli di un dio minore
Dossier Finlandia/bioeconomia: il futuro parte dal legno •• La guerra del Ruanda alla plastica •• Quando il prestito è social •• Un’Europa a tutto Gpp
Mario Cucinella: dell’edificio non si butta via niente
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•• La nuova edilizia: social, digital, circular •• Una strada lastricata di calcestruzzo •• Le biomasse possono fare la differenza
La fine delle viti e dei chiodi •• La finestra sul domani
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Marta,
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Eventi
Editoriale
Lo shopper equo e solidale di Antonio Cianciullo
#UnSaccoGiusto, www.youtube.com/ watch?v=Y37vj28p53A
Cooperativa Ventuno, www.coopventuno.it
Spinta dall’aumento degli squilibri sociali, la xenofobia avanza. La paura dell’altro – non noto, diverso, minaccioso – aumenta a dispetto delle statistiche che vedono buona parte degli atti di violenza, a cominciare da quella sessuale, venire da chi ci è storicamente vicino. E la tentazione di erigere muri si affaccia, come dimostra il referendum del 23 giugno in Gran Bretagna, in luoghi finora insospettabili. I servizi che pubblichiamo in questo numero di Materia Rinnovabile sulla questione dei sacchetti di plastica aiutano a guardare all’intreccio tra questione ambientale e questione sociale con occhi freschi. L’associazione tra shopper e pregiudizi razziali può apparire ardita. Ma le frontiere tecnologiche della plastica compostabile sono molto avanzate e potrebbero far pensare che gli strumenti di difesa ambientale siano appannaggio dei paesi più ricchi: l’ecologia come un’altra barriera tra la sponda Nord e quella Sud del Mediterraneo. Gli sforzi di tanti paesi africani per liberarsi dai danni prodotti da un uso scorretto della plastica mostrano invece che il percorso della sostenibilità accomuna situazioni molto diverse. Non c’è necessariamente un prima e un dopo, una crescita industriale che produce danni e una successiva cura dei danni. L’evoluzione umana, come quella naturale, procede per salti. E contesti difficili stimolano nuove idee che, per esempio, possono portare dall’arretratezza all’off-grid bypassando le infrastrutture tradizionali. Nel caso della plastica la lezione del Ruanda e di altri paesi africani e asiatici raccontati in questo numero fa riflettere. “Nel 2002 il Bangladesh è diventato il primo paese al mondo a vietare le borse di plastica, che avevano intasato il sistema fognario e contribuito al verificarsi di inondazioni catastrofiche. Altre nazioni, tra cui molte africane, hanno fatto lo stesso. Secondo l’Earth Policy Institute di Washington D.C. (dati 2013), 19 paesi del continente hanno applicato divieti totali o parziali, spesso prendendo di mira le borse più sottili che sono quelle più facilmente trasportate dal vento”, scrive Jonathan W. Rosen spiegando che le motivazioni sono molto concrete: in Mauritania il 70% delle morti di pecore e bovini del paese è da imputare all’ingestione di sacchetti di plastica.
E nel servizio di Roberto Giovannini si dà conto delle iniziative di riduzione dell’uso della plastica prese da Kenia, Sudafrica, Senegal, Botswana, Gambia, Guinea-Bissau, Mali, Gabon, Etiopia, Malawi, Costa d’Avorio, Mauritania, Uganda, Camerun. Anche in Italia c’è un Sud in cui la battaglia per l’ambiente e la legalità è aspra. È l’oggetto dello spot in cui Fortunato Cerlino, l’attore che interpreta il boss Pietro Savastano nella serie televisiva Gomorra, fa da testimonial della campagna #UnSaccoGiusto, promossa da Legambiente per contrastare il nuovo business dell’ecomafia: gli shopper finti bio. Circa la metà dei sacchetti in circolazione è illegale. Vuol dire 40.000 tonnellate di plastica taroccata, una perdita per la filiera legale degli shopper compostabili pari a 160 milioni di euro, 30 milioni di evasione fiscale. Cifre a cui va aggiunto il conteggio dei danni ambientali: un aggravio dei costi di smaltimento dei rifiuti quantificato in 50 milioni di euro. Si tratta di una filiera illegale che ruba fatturato all’economia sana, sottrae risorse all’erario e danneggia l’ambiente. Anche in questo caso un’alternativa è possibile. E lo dimostra la nascita a Castel Volturno, nella Terra dei fuochi, di Coop Ventuno, una cooperativa che ha deciso di impegnarsi nella produzione di bio shopper e oggetti realizzati con materiali provenienti dalla raccolta differenziata. L’hanno fondata Massimo Noviello e Gennaro Del Prete, figli di due protagonisti della battaglia contro le cosche: Federico Del Prete era un sindacalista dei venditori ambulanti ucciso perché aveva denunciato il racket degli shopper illegali, Domenico Noviello era un imprenditore assassinato per aver fatto condannare alcuni emissari del clan dei Casalesi. “Liberare il mercato dagli shopper illegali significa aprirlo ai produttori di bioplastiche compostabili, con un aumento degli investimenti nel settore che garantirebbe nuova occupazione pulita”, spiegano i fondatori della cooperativa. I due milioni di visualizzazioni dello spot in tre settimane, con oltre sei milioni di persone raggiunte dal messaggio, dimostrano che quando la partita si gioca a tutto campo i risultati arrivano.
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11|luglio-agosto 2016 Sommario
MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014
Antonio Cianciullo
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Lo shopper equo e solidale
Christian Patermann
8
Così la Brexit penalizza la bioeconomia
10
Connett: comunità creative
Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Alessandra Astolfi, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Ilaria N. Brambilla, Enrico Cancila, David Cheshire, Maurizio Cocchi, Paul Connett, Mario Cucinella, Simona Faccioli, Sergio Ferraris, Dominique Gauzin-Müller, Roberto Giovannini, Lauri Hetemäki, Luciano Manzo, Thomas Miorin, Cyril Ndegeya, Michele Novelli, Jeff Passmore, Christian Patermann, Federico Pedrocchi, Antonio Pergolizzi, Roberto Rizzo, Jonathan W. Rosen, Luciano Trentini, Silvia Zamboni
Think Tank
Direttore responsabile Antonio Cianciullo
a cura di
per vincere la sfida rifiuti
Sergio Ferraris
Intervista a Paul Connett
Antonio Cianciullo
14
rimane fuori dai radar
Focus edilizia circolare
Ringraziamenti Peter Bilak, Sara Guerrini, Stefania Maggi, Federica Mastroianni, Ornella Mollica, Laura Negri, Michela Pola, Stefano Rossin, Giuseppe Schlitzer
Dominique
16
Focus edilizia circolare Antonio Pergolizzi
20
Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini
Emanuele Bompan
24
Jonathan W. Rosen
32
Roberto Giovannini
38
Fiori d’Africa
Silvia Zamboni
42
Quando il prestito è social
a cura di
46
Le carte vincenti della bioeconomia canadese
Policy
Design & Art Direction Mauro Panzeri
Segnaliamo un errore nell’articolo di Silvia Zamboni “Quo vadis sharing economy?” uscito sul numero 9/2016 di Materia Rinnovabile: l’ad di Gnammo si chiama Gian Luca Ranno.
Figli di un dio minore
Focus edilizia circolare
Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi
Traduzioni Jalise Ahmed, Erminio Cella, Valentina Gianoli, Franco Lombini, Mario Tadiello
La rinascita dei materiali eco-locali
Gauzin-Müller
Caporedattore Maria Pia Terrosi
Impaginazione Michela Lazzaroni
In Italia il 90% degli scarti
La casa insegue l’auto
Focus plastic bags La guerra del Ruanda alla plastica
Focus plastic bags
Mario Bonaccorso
Intervista a Jeff Passmore
7
Coordinamento generale Anna Re
Policy
Dossier Finlandia Mario Bonaccorso
50
Il futuro parte dal legno
Luciano Trentini
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Come cresce veloce la pianta bio
Simona Faccioli
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Un’Europa a tutto Gpp
Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it
Enrico Cancila
66
Gli acquisti pubblici si fanno ancora più verdi
Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers
Roberto Rizzo
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La via del calcestruzzo
Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi)
Case Studies
Copyright ©Edizioni Ambiente 2016 Tutti i diritti riservati
Maurizio Cocchi
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Le biomasse possono fare la differenza
a cura di
75
Ecomondo si rigenera con l’economia circolare
Ilaria Brambilla
Intervista a Alessandra Astolfi
Rubriche
Il circolo mediatico Roberto Giovannini
77
Federico Pedrocchi
78
La finestra sul domani
Pillole di innovazione La fine delle viti e dei chiodi
In copertina Foto di ©Antagain / iStock
Così la Brexit penalizza la bioeconomia L’uscita del Regno Unito dalla Ue avrà forti conseguenze sullo sviluppo della biobased economy all’interno del paese. E peserà anche sui rapporti con l’Unione europea per l’accesso ai mercati, lo scambio di ricercatori o la partecipazione a progetti finanziati nell’ambito di Horizon 2020. di Christian Patermann
I media sono pieni di notizie e analisi sulla Brexit; se ne parla nelle case di tutta Europa, mentre politici, investitori, industriali e cittadini stranieri residenti nel Regno Unito (e viceversa) passano notti insonni a confrontarsi sul tema. Allora perché concentrarsi – anche solo per un attimo – sull’impatto che produrrà la Brexit sulla bioeconomia? La risposta è piuttosto semplice: è difficile trovare un altro ambito nel settore della ricerca e sviluppo tecnologico, nell’innovazione e nella futura cooperazione transnazionale europea più indicativo – e più adatto – a prestarsi come vetrina delle infauste conseguenze di quanto deciso il 23 giugno. Certo, il Regno Unito, i suoi politici, ricercatori e imprenditori non sono mai stati tra gli entusiasti
della bioeconomia: non erano nel gruppo dei pionieri o tra i più convinti promotori dello sviluppo dell’ idea – vecchia e nuova allo stesso tempo – di incrementare l’uso delle risorse biologiche. I maggiori sostenitori si trovavano piuttosto nei paesi del Benelux, della Scandinavia, in parte in Germania e, in un secondo momento, in Italia e Francia se parliamo di bioeconomia applicata. Sulle prospettive di una biobased economy europea i rappresentanti della Gran Bretagna hanno tenuto un atteggiamento più del tipo “aspetta e osserva”; evidentemente hanno preso tutto il tempo che serviva loro per arrivare a definire cosa potesse essere meglio per il paese, le sue industrie e la sua società. Non essendo in generale il Regno Unito una terra a forte vocazione agricola, non possedendo un’abbondanza di risorse in biomassa, ma dovendo gestire invece grandi quantità di rifiuti, il governo britannico
Think Tank ha ragionato con attenzione seguendo un approccio step-by-step. Nonostante l’assenza di una strategia nazionale, e pur cercandone intensamente una, si sono sviluppate aziende di fama mondiale come Nnfcc, Celtic Renewables e Biome Bioplastics, mentre BioVale (cluster tecnologico della regione dello Yorkshire and Humber) è diventato partner in interessanti progetti di cooperazione con paesi del Benelux, Francia e Germania. La Scozia – tra le prime regioni europee a farlo – ha sviluppato una strategia per bioraffinare autonomamente e nel 2012 per la prima volta in un Parlamento si è discusso durante un’audizione sulle potenzialità della bioeconomia. Green Investment Bank, www.greeninvestment bank.com
I colleghi del Regno Unito, nonostante il loro “percorso in salita” – come lo ha giustamente definito Mario Bonaccorso nel recente Dossier UK scritto per Materia Rinnovabile – erano e sono consapevoli di avere forti e indubbi vantaggi, veri punti di forza se paragonati al resto d’Europa: realtà di eccellenza nei campi della ricerca, della tecnologia e dell’innovazione che operano e “fanno scuola” nel paese. Inoltre, la Gran Bretagna può vantare capacità e competenze tecniche pressoché uniche nella creazione di network, nella capacità di integrare e di applicare un approccio pragmatico nel trasferimento delle conoscenze ai prodotti, lungo tutta la catena del valore. E non va ovviamente dimenticato uno spiccato senso dell’economia. Si tratta evidentemente di competenze essenziali per il decollo della bioeconomia. Non è un caso, per esempio, che la prima Banca per gli Investimenti Ecologici sia nata nel Regno Unito, e che i nostri colleghi al di là della Manica siano stati i primi a sostenere la necessità e ad attivarsi per la creazione – a supporto dello sviluppo della bioeconomia europea – di un nuovo settore di servizi, anche legali, di un project management specifico per la gestione di catene
Tra i padri della bioeconomia europea, Christian Patermann è stato tra il 2004 e il 2007 direttore del programma di ricerca su “Biotecnologie, agricoltura e cibo” presso la DG Ricerca della Commissione europea. È attualmente membro del Consiglio per la Bioeconomia presso il Governo Federale tedesco.
di valore circolari, di un marketing appropriato e di precisi requisiti finanziari. E per essere efficaci questi servizi avranno chiaramente bisogno di un’Europa unita e forse – in futuro – persino di strutture e accordi globali. È su questo piano quindi che l’assenza dei nostri amici che lasciano l’Unione europea si farà sentire per prima. Chiaramente, è ancora impossibile stabilire con precisione quali saranno gli effetti della “Bioeconomy Brexit” all’interno del Regno Unito, o sui rapporti tra parte di esso e l’Unione europea, relativamente all’accesso ai mercati o allo scambio di ricercatori nell’ambito del Marie Curie Programme, o nella partecipazione a progetti finanziati nel quadro del programma Horizon 2020. Se ci guardiamo intorno ci sono diversi scenari possibili rappresentati da paesi che non sono membri Ue, ma che con l’Unione mantengono intense relazioni: c’è uno “scenario Norvegia”, uno “scenario Islanda”, uno “scenario Svizzera” e così via. Di sicuro oggi c’è solo un elemento, la cui certezza mi deriva dalle esperienze fatte in questi ultimi anni e che voglio sottolineare: tutto sarà ancora più complicato e richiederà ancora più tempo. Dubito che qualcuno possa uscirne dicendosi “vincitore”, basti pensare che nel caso della Svizzera oggi sono in vigore più di 120 trattati a regolare le relazioni tra questo paese e la Ue. Mi ha quindi molto colpito la dichiarazione dell’Unfccc, pubblicata il giorno dopo il voto su Brexit, in cui si assicurava che sarebbe stata fatta pressione sul governo britannico affinché riconosca il ruolo centrale della bioeconomia europea per l’innovazione, per lo sviluppo e rispetto alle future sfide comuni, non ultima quella della cooperazione transnazionale europea. La celebre canzone “It is a long way to Tipperary” recita: “Arrivederci Piccadilly, addio Leicester Square”, ma nella bioeconomia e nella ricerca e sviluppo tecnologico europei voi, colleghi del Regno Unito, sarete sempre i benvenuti. Intanto, mentre i media già speculano sul trasferimento delle sedi di grandi aziende – e, tra queste, di Vodafone – dalla Gran Bretagna al continente, vale la pena di riflettere su quanto sia esemplare questa vicenda. La domanda da porsi infatti è: la stessa creazione del Vodafone Group, avvenuta dopo l’acquisizione della tedesca Mannesmann autorizzata dalla Commissione europea più di dieci anni fa, sarebbe mai stata possibile se non fosse stato in precedenza sviluppato uno standard comune europeo per il Gsm – poi adottato a livello globale – all’interno di un mercato unico europeo? E se il Regno Unito in tutto ciò non fosse stato a pieno titolo un membro dell’Unione europea? Non riesco a immaginare un esempio più appropriato per dare un’idea dei potenziali impatti della Brexit sul futuro di un mondo e di una vita biobased che noi in Europa fummo i primi a rilanciare, 11 anni fa. Oggi ci troviamo tutti nuovamente di fronte a un percorso in salita!
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Think Tank
Connett: comunità creative per vincere la sfida rifiuti Intervista a Paul Connett Ecco gli ingredienti della ricetta Zero Waste: condividere e comunicare le buone pratiche e i risultati raggiunti dalle comunità perché l’esempio è fondamentale. E non delegare la ricerca delle soluzioni agli esperti di sostenibilità: anche gli artisti devono dare il loro contributo. a cura di Sergio Ferraris
Paul Connett è considerato il “padre” di Zero Waste strategy, purtroppo spesso diventata uno slogan quasi privo di contenuti. Lo abbiamo incontrato per farci dire quale sia lo stato dell’arte di questa strategia, quali sono i suoi possibili sviluppi e quali i prossimi passi da adottare. Per prima cosa – afferma – bisogna puntare sulle comunità, aumentando la loro consapevolezza sui vantaggi ambientali ed economici contemplati da questo programma.
Paul Connett, professore emerito alla St. Laurence University, è uno degli scienziati che ha messo a punto la strategia Rifiuti Zero, presentandola in oltre 2.000 incontri. In Italia ha lavorato per la sua applicazione con il comune di Capannori.
La strategia Rifiuti Zero ha un largo consenso tra gli ambientalisti ma fatica ad affermarsi. Perché? “Il problema chiave è la perdita, o meglio l’assenza, di leadership politica. I politici italiani che incontro, per esempio, mi dicono sempre che in Italia c’è un problema culturale sulla strategia Rifiuti Zero, perché gli italiani al riguardo non hanno un atteggiamento positivo. Ebbene, è falso: quando due comunità simili, distanti tre chilometri l’una dall’altra hanno un tasso di raccolta differenziata molto diverso, una del 17% e l’altra dell’80%, di sicuro l’aspetto culturale non c’entra, perché la cultura non cambia in un ambito così ristretto. Ciò che può cambiare è la guida politica.”
E quindi cosa bisogna fare? “Occorre partire dalle comunità, lavorando con alcuni ‘ingredienti’. Per prima cosa, ovviamente, bisogna applicare la raccolta differenziata, quindi occorre organizzare la comunità. Ma serve anche creatività, avere il contributo di persone creative che sappiano trovare soluzioni. Non solo: bisogna coinvolgere i bambini che sono creativi per eccellenza e garantiscono il futuro della filiera Rifiuti Zero. Per finire, occorre un’ottima comunicazione. Questi sono i ‘pezzetti’ della strategia Rifiuti Zero che possono diventare sapere collettivo ed essere condivisi, anche attraverso internet, tra le diverse comunità per risolvere i problemi.” Quindi è necessario un approccio anche sociologico, oltre che tecnologico? “Soprattutto sociologico. Ormai il problema dei rifiuti è più sociale che tecnologico: le soluzioni risiedono in una migliore organizzazione, una migliore educazione e – solo alla fine – in una migliore progettazione industriale. Va poi considerato che la questione rifiuti si inserisce in un contesto più ampio. È solo uno dei pezzi di ciò che abbiamo bisogno per affrontare tutta una serie di problemi legati alla sostenibilità. Rischiamo eventi catastrofici e ci occorre il contributo di tutte
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materiarinnovabile 11. 2016 le discipline – sia scientifiche sia umanistiche – per risolvere i problemi. Abbiamo bisogno di agricoltura, architettura, energia, comunità, industrie, tutte ovviamente sostenibili.” Serve la massima interdisciplinarietà, quindi. Giusto? “Sì. E soprattutto non dobbiamo confinare il ragionamento e delegare la ricerca delle soluzioni solo agli esperti di sostenibilità. Occorre, invece, il contributo di tutte le discipline anche se sono lontanamente legate alla sostenibilità: non solo economia, fisica e chimica, ma anche pittura, musica e poesia. Così come servono menti illuminate che lavorino nelle proprie discipline alle tematiche legate alla sostenibilità. Si tratta della più grande sfida che dobbiamo affrontare dalla fine della Seconda guerra mondiale”. Tutto qui? “Assolutamente no. Oltre a ciò c’è anche un aspetto psicologico molto importante: se si vuole avere successo con la strategia Rifiuti Zero è necessario coinvolgere fin dall’inizio un gran numero di persone. Come esseri umani, infatti, abbiamo bisogno di vedere degli esempi riusciti che funzionino da propulsore psicologico così da attivare nuovi processi in altre comunità e sviluppare dal basso il movimento Rifiuti Zero. Le comunità quando raggiungono un buon risultato – anche semplicemente sul fronte della raccolta differenziata – diventano loro stesse, con il loro orgoglio, dei propulsori psicologici per altre comunità, vicine o lontane. Inoltre, i successi nella strategia dei rifiuti possono essere utili per sviluppare altri pezzi della sostenibilità locale, nell’ambito delle rinnovabili o delle coltivazioni biologiche, e così via. Per esempio si può usare il compost prodotto da una comunità nella lotta contro i pesticidi, gli Ogm e i cambiamenti climatici. Il tutto nella stessa comunità e comunicandolo ad altre. L’esempio è fondamentale nel diffondere la strategia Rifiuti Zero.” Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.
Per arrivare ad azzerare i rifiuti bisogna riutilizzare i materiali provenienti dalla raccolta differenziata, ma spesso sono i comitati locali a opporsi ai nuovi impianti. Come si risolve questa contraddizione? “Penso che si debba cominciare dal basso. Bisogna capire quali sono le esigenze delle comunità. Io personalmente, negli anni, ho fatto circa 2.500 presentazioni della strategia Rifiuti Zero alle comunità. Sia per capire ciò che le comunità vogliono, sia ciò che possono fare. Penso che in futuro ci saranno parecchie tensioni. Dobbiamo dire alle comunità che da una parte ci sono le multinazionali che puntano a sfruttare le risorse del pianeta fin che possono, mentre dall’altra abbiamo loro che vogliono proteggersi, proteggendo queste risorse. In questo quadro bisogna insegnare alle comunità che non devono dare ad altri le proprie risorse, a cominciare dai rifiuti che sono un valore che può creare lavoro e piccoli business all’interno della comunità stessa. E così bisognerebbe fare
anche con il cibo. Ci sta provando l’Italia con il movimento Slow Food che sta sperimentando le filiere corte che si sposano perfettamente con la filosofia Rifiuti Zero e con la riduzione delle emissioni. E la filiera corta vale anche per l’energia che deve diventare decentralizzata e prodotta vicino alle zone d’utilizzo. Se si mette assieme tutto ciò con questo approccio si vincono anche le possibili resistenze delle comunità locali verso parti della strategia Rifiuti Zero”. Ci può fare qualche esempio, magari in nazioni diverse? “Sì, ma voglio precisare che non sono le nazioni a riciclare i rifiuti e a mettere a punto la strategia Rifiuti Zero: sono le comunità che dobbiamo osservare, altrimenti partiamo con un approccio sbagliato. Una soluzione trovata da una comunità può non essere valida in un’altra, per esempio per aspetti legati alla demografia. In America, per esempio, si deve guardare a ciò che fa San Francisco, non alla California o agli Stati Uniti. In Italia, bisogna guardare a Treviso o a Capannori per trovare delle possibili soluzioni. Prendiamo come esempio la gestione dell’umido, nella quale ci sono tre comunità al mondo da studiare con attenzione. Parlo di San Francisco, Milano e New York che stanno affrontando questo problema con un approccio differente, visto che ognuna di queste città è molto diversa dall’altra.” Quali sono i tempi per arrivare all’obiettivo Rifiuti Zero? “Il timing è diverso per ogni comunità. Possiamo, però, guardare cosa è successo in passato. La strategia Rifiuti Zero è partita in Australia nel 1996 quando il governo varò una legge sui rifiuti che prevedeva una loro drastica riduzione. Obiettivo: non avere rifiuti entro il 2010. Si trattava di un segnale importante che arrivò in California dove si fece una legge analoga con cui si richiedeva che ogni comunità gestisse il 50% dei rifiuti in maniera diversa dallo smaltirli in discarica o destinarli all’incenerimento. In seguito a questo in California si arrivò rapidamente ad avere 300 comunità che raggiunsero quest’obiettivo risparmiando denaro. Così molte persone videro che questi risultati erano a portata di mano e iniziarono a chiedere: ‘perché non alzare l’obiettivo al 60, al 70 o all’80%? O puntare a quello dell’Australia?’. E allora alcune comunità come quella di San Francisco passarono dall’obiettivo ‘No Waste’ a ‘Zero Waste’. Sembra un passaggio da poco, ma non lo è. Il secondo slogan consente di comunicare ai cittadini la distanza dall’obiettivo ed è molto più efficace.” Bene. Ma dove la strategia Rifiuti Zero è applicata quanto siamo distanti dall’obiettivo? “Attualmente ci sono due posti al mondo dove questa strategia è in piena corsa. Il primo è San Francisco dove siamo oltre l’80% di raccolta differenziata, non c’è incenerimento e si punta al 100% – ossia a Rifiuti Zero – entro il 2020. L’altro, e ne rimarrà sorpreso, è l’Italia dove ci sono
Think Tank i peggiori esempi al mondo di gestione dei rifiuti, ma anche alcuni dei migliori. Oggi in Italia ci sono oltre 1.000 comunità che superano il 60% di raccolta differenziata, 300 sono oltre l’80% e alcune di queste oltre al 90%. E il tutto è stato ottenuto in periodi molto brevi.” L’Italia alla guida della sostenibilità. È sicuro? “Sì. Oggi alle comunità sono necessari acqua pulita, cibo buono, un’alta qualità dell’agricoltura e della vita. E l’Italia ha tutto ciò in abbondanza. Sotto questo profilo siete dei miliardari rispetto
Dieci passi verso Rifiuti Zero
1
SEPARAZIONE ALLA FONTE
2
RACCOLTA PORTA A PORTA
3
COMPOSTAGGIO
4
RICICLAGGIO
5
RIDUZIONE DEI RIFIUTI
6
RIUSO E RIPARAZIONE
7
TARIFFAZIONE PUNTUALE
8
RECUPERO DEI RIFIUTI
9
CENTRO DI RICERCA E RIPROGETTAZIONE
10
AZZERAMENTO RIFIUTI
alla media degli abitanti degli Stati Uniti; ci credo al punto che quando mi chiedono dove vorrei vivere, rispondo in Italia. E tutto ciò senza considerare il patrimonio paesaggistico, artistico e culturale. Questa è la mia sessantanovesima visita in Italia e ci torno sempre volentieri perché siete un vero laboratorio a cielo aperto per la sostenibilità. Non ovunque per la verità, ma ciò vale per almeno un migliaio di comunità italiane. E non è poco.” Bene, però uno dei problemi in Italia è il lavoro. La strategia Rifiuti Zero può contribuire alla creazione di lavoro? “Sì, di sicuro la strategia Rifiuti Zero offre parecchie opportunità, molte di più dell’incenerimento che al riguardo è un ‘buco nero’. Prendiamo, per esempio, il settore del riuso e della riparazione. Oggi in questo settore abbiamo già degli impieghi legati alle operazioni di manutenzione, riuso e riparazione, e che possono essere incrementati. Ma non abbiamo chi lavora alla formazione delle persone alle quali insegnare come riparare e riutilizzare gli oggetti. Ecco nuova occupazione. Oltre a ciò si possono sviluppare lavori nel riutilizzo del materiale edile e nel suo adattamento nelle nuove costruzioni. Si tratta di attività che nelle filiere convenzionali non esistono ma che possono produrre nuovi occupati. Ed è una filiera articolata che ha un flusso e non produce posti di lavoro a termine e quindi precarietà. Una persona senza alcuna formazione, per esempio, può iniziare a lavorare nella separazione dei rifiuti e poi magari passare alla riparazione, migliorando la propria posizione lavorativa.” Oggi c’è molta più ricerca scientifica, sul riciclo e più in generale sulla gestione dei rifiuti rispetto al passato. Secondo lei siamo sulla buona strada? “Penso di sì. Oggi molti ricercatori, scienziati e studenti si occupano di ciò, stimolati dai dieci punti della strategia Rifiuti Zero. Abbiamo bisogno di ricerca in special modo sul compostaggio, sul riuso e la riparazione e sull’incremento della differenziazione nelle grandi città. Non solo: dobbiamo sviluppare nuovi sistemi per separare meglio la frazione residua e ottenere più materiale da riciclare, e per eliminare il più possibile le sostanze tossiche e ottenere così una maggiore frazione organica utile per il compost.” Solo sui sistemi possiamo fare ricerca, quindi? “C’è un settore molto importante dove occorre molta ricerca: quello del design. I prodotti devono essere progettati per essere riutilizzati e riciclati e anche su ciò bisogna coinvolgere le migliori menti che abbiamo perché è un settore strategico per raggiungere l’obiettivo Rifiuti Zero. E l’Italia in questo può avere un ruolo molto importante perché ha alcuni tra i migliori progettisti e designer del mondo. Penso che se gli italiani non riescono a migliorare il design di un oggetto, nessuno altro può farlo.”
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materiarinnovabile 11. 2016
In Italia il 90% degli scarti rimane fuori dai radar Che fine fanno le merci quando ce ne liberiamo? Lo sappiamo solo per una piccola percentuale di rifiuti. Eppure l’uso intelligente della materia non ha solo un valore ambientale ma comporta anche vantaggi economici quantificati dalla Ue in un risparmio di 600 miliardi di euro all’anno nel settore produttivo e in 580.000 nuovi posti di lavoro. di Antonio Cianciullo
1. Report a cura di Ellen MacArthur Foundation e McKinsey Center for Business and Environment, Growth within: a Circular Economy Vision for a Competitive Europe, giugno 2015; tinyurl.com/gs2xlez
Short Report Materia Rinnovata. Quanto è circolare l’economia: l’Italia alla sfida dei dati, giugno 2016; www.materiarinnovabile. it/pubblicazioni
Questa è la foto della metà oscura dell’economia circolare. I flussi che entrano nel circuito industriale, agricolo e urbano sono sotto la luce dei riflettori, ben pesati e misurati; i flussi in uscita attirano molto meno interesse. Quanta della materia rinnovabile viene davvero rinnovata? Quanta viene sprecata? Conosciamo il nostro bilancio energetico fino all’ultimo chilowattora e non ci sfugge il numero esatto dei cellulari e dei chili di zucchero immessi sul mercato, ma non sappiamo dove finiranno i calcinacci dell’edificio che stanno abbattendo nel nostro quartiere o che fine faranno le bucce dell’arancia che stiamo mangiando. Finora questa gerarchia di conoscenza è stata dettata da motivi ovvi: da una parte (in entrata) c’erano beni che valevano fatturati e posti di lavoro, dall’altra (in uscita) un ammasso informe di materia che il più delle volte costituiva solo un problema. Per decenni abbiamo pensato che il valore di una merce si azzerasse nel momento in cui per vari motivi (è rotta, non è più di moda, non piace) le sue funzioni venivano meno. Ma i giudizi economici che avevano portato a pesare con diversa attenzione l’input e l’output del nostro sistema produttivo sono ancora validi? A questa domanda è difficile rispondere in modo netto perché il cambiamento è in corso: in alcuni settori l’economia circolare è più matura e conveniente, in altri meno. Il fatto stesso però che il processo sia stato avviato – e la normativa europea lo certifica – cambia il quadro e sollecita un adeguamento del sistema di misura in modo da avere gli strumenti per poter giudicare. Perché trovare un dato costa, ma può rendere se aiuta ad aumentare l’efficienza del circuito produttivo. Oggi alla vecchia (e sempre valida) necessità di controllare i danni prodotti da una cattiva gestione dei rifiuti si somma l’opportunità di incassare una parte dei vantaggi che l’Unione europea ha prefigurato nel Pacchetto sull’economia circolare: risparmi annuali
per il settore produttivo pari a 600 miliardi di euro, 580.000 nuovi posti di lavoro, taglio del 2-4 % delle emissioni serra. La Ellen MacArthur Foundation e il McKinsey Center for Business and Environment1 inoltre calcolano il peso dei nuovi stili di vita legati all’economia circolare. Per esempio oggi le auto europee passano in media il 92% del tempo ferme mentre lo sviluppo del car sharing e dei veicoli a più alte prestazioni ambientali può abbattere del 75% i costi per chilometro percorso. E i modelli di edilizia avanzata permettono di dimezzare i costi di costruzione. L’insieme di queste innovazioni vale al 2030 una crescita del 7% del Pil europeo. Per questo è diventato ancora più importante porre le domande giuste per capire quello che manca nel monitoraggio delle sostanze che per alcuni sono scarti e per altri possono diventare risorse. Quanto è circolare l’economia italiana? Quanto siamo competitivi in questo settore? Quanti dei miliardi di euro di risparmio e dei posti di lavoro previsti dalla Commissione riusciremo a ottenere? Materia Rinnovata, che dal prossimo anno misurerà la crescita dell’economia italiana basata sulla rinascita della materia, vuole mettere in evidenza il potenziale della seconda gamba della sostenibilità: l’uso intelligente della materia, cioè la lotta contro lo spreco di ciò che scorre davanti ai nostri occhi assumendo la forma di merce solo per una breve parentesi temporale. A oggi mancano informazioni importanti sul destino dei materiali di scarto. Per quanto riguarda l’Italia c’è una parte del paese che si colloca nella fascia alta dell’Europa: in settori come gli imballaggi, gli pneumatici, gli oli usati la circolarità della materia è alta, i numeri affidabili e i vantaggi ambientali ed economici certificati. Ma parliamo di quantità che corrispondono a poco più di un decimo del flusso totale di rifiuti. Gli altri nove decimi che fine fanno?
Think Tank
Chi ha comprato una merce si assume la responsabilità dell’atto con cui si libera dell’oggetto che non intende più utilizzare.
I numeri che riguardano ampi settori dei rifiuti industriali e agricoli non ci raccontano con precisione il destino degli scarti. C’è una distrazione collettiva, una rimozione antica del problema. Se immaginiamo di chiedere a dieci persone a caso quale percentuale di rifiuti in Italia viene riciclata o recuperata, alcuni risponderebbero di non averne la minima idea, altri darebbero forse una risposta a due cifre, forse numeri che ruotano attorno al 40% perché l’unico elemento che con qualche continuità appare sui media è la percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e questa percentuale si colloca sopra al 40%. Ma stiamo parlando degli imballaggi e di poco altro all’interno della sfera urbana. La percezione collettiva dei problemi (molto chiara) e delle potenzialità (molto nebbiosa) legati ai rifiuti è tutta lì: concentrata su una parte dei circa 30 milioni di tonnellate che complessivamente vengono dalle città, mentre il totale dei rifiuti è pari a circa 161 milioni di tonnellate. Inoltre i rifiuti non vengono raccolti in maniera differenziata per far fare loro un giro turistico più bello (tra l’altro più lungo e dunque con maggiori costi energetici e ambientali). La contropartita di questo maggiore sforzo è data dai benefici derivanti dal riuso, dal riciclo, dal recupero energetico che a oggi, per alcune delle categorie interessate, devono arrivare al 50%, quota destinata rapidamente a salire con l’approvazione del Pacchetto europeo sull’economia circolare: un appuntamento non rimandabile anche per gli impegni presi sul fronte del cambiamento climatico e della crisi economica. Pensare di rispettare questi impegni guardando solo all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili vuol dire correre con una gamba sola. Il potenziale di risparmio economico, energetico e ambientale che l’economia circolare può mettere a disposizione è formidabile. Secondo la Commissione europea se il 95% dei telefoni cellulari fosse raccolto, si avrebbero risparmi sui costi dei materiali di fabbricazione pari a oltre un miliardo di euro. Se si rimettessero a nuovo i veicoli commerciali leggeri, si risparmierebbero materiali per oltre 6,4 miliardi di euro l’anno e 140 milioni in costi energetici, riducendo inoltre le emissioni di gas serra di 6,3 milioni di tonnellate. Se partissero le politiche previste dal Pacchetto sull’economia circolare, si taglierebbe una buona parte degli sprechi alimentari che in Europa valgono 180 chili a testa ogni anno: un terzo del totale del cibo prodotto. Cosa serve per rendere reali queste potenzialità? L’analisi dei numeri disponibili e di quelli mancanti offre un’indicazione: ci sono due blocchi di settori governati da dinamiche diverse. Nel primo figurano i comparti industriali che si sono organizzati, anche sul piano della contabilità, in base al principio della responsabilità estesa del produttore (Epr, Extended producer responsibility) e offrono perfomance di riciclo e di recupero già buone o in miglioramento. Nel secondo blocco troviamo i settori in cui l’interesse all’innovazione nel recupero della
materia è scarso, le informazioni sul destino degli scarti frammentarie. Finora si è prestata poca attenzione alle differenze tra questi due blocchi perché il tema della rinnovabilità della materia è diventato da poco d’attualità e perché le definizioni usate sono incomprensibili ai più (si va da Epr a Compliance scheme): sarebbe opportuno cominciare a parlare di “sistemi collettivi” o “sistemi responsabili”. Ma l’idea di base è potente: smettere di pensare a ciò che non viene più usato come a un rifiuto, qualcosa che improvvisamente diventa sgradevole e deve essere allontanato in fretta. Ogni anno utilizziamo enormi quantitativi di materia che vengono prelevati dalla natura con grande impiego di energia, di acqua, di territorio e inseriti in un ciclo complesso di trasformazione; un percorso lungo il quale, sotto la forma di merci, ci rendono dei servizi, per esempio permettendo di leggere questo scritto. Possiamo disinteressarci delle conseguenze della nostra azione di acquisto, dell’impatto che la materia che abbiamo comprato avrà sulla nostra stessa vita o su quella dei nostri vicini? E se ne può disinteressare chi con quell’oggetto ha realizzato i suoi guadagni? La risposta dell’Unione europea è un no netto: c’è una responsabilità comune e diversificata. Chi immette la materia sul mercato si assume la responsabilità del suo intero ciclo di vita, compreso il momento in cui la carta o lo schermo su cui state leggendo queste parole cesserà di essere utile e sentirete il bisogno di sbarazzarvene. Chi ha comprato una merce si assume la responsabilità dell’atto con cui si libera dell’oggetto che non intende più utilizzare. Questa nuova etica è più onerosa per le imprese? Nello scenario adottato da Bruxelles, in cui si dipingono le potenzialità delle nuove “miniere” urbane e industriali create dal guardare con occhi diversi i rifiuti, i vantaggi superano gli svantaggi perché le aziende guadagnano in competitività e in immagine, dunque anche in profitti. Un’impresa moderna ha interesse ad assumersi la responsabilità della materia che ha movimentato sia perché ottimizza le risorse sia perché altrimenti si creerebbe una frattura tra il suo punto di vista e quello dell’acquirente. E l’acquirente potrebbe decidere di non comprare merci o servizi forniti da chi guadagna sulle vendite dei prodotti mentre la collettività paga gli oneri derivanti dallo smaltimento di quegli stessi prodotti. Per la verità è quello che succede nel campo dell’energia visto che i combustibili fossili assicurano floridi profitti alle compagnie petrolifere e comportano, secondo le Nazioni Unite, costi per la collettività pari a 5.000 miliardi di dollari. Ma proprio questo ritardo sul fronte dell’energia offre alla materia la possibilità di prendere una posizione di testa nella sfida eco(logica)eco(nomica) per la sostenibilità e dunque per il nuovo mercato. La convenienza ambientale c’è. Proviamo a misurare quella economica. E a ipotizzare strade per raggiungere obiettivi più convenienti per tutti.
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Focus edilizia circolare
La rinascita dei materiali
ECO-LOCALI
Pietra, terra, legno, paglia, canne & Co
Policy
di Dominique Gauzin-Müller
Ecologici, sani, di origine biologica, naturali: sono tanti i termini con cui si definiscono materiali vecchi come il mondo, riscoperti dopo decenni di oblio (e di disprezzo). Rinnovabili, riciclabili, spesso ricavati da scarti dell’agricoltura o delle attività forestali, in Francia sono oggi in pieno sviluppo grazie alla creatività di progetti che sanno coniugare la tradizione con le tecnologie più innovative. Dominique Gauzin-Müller, architetto, giornalista e critico di architettura, negli anni ha focalizzato i suoi interessi sui temi della sostenibilità nell’architettura e urbanistica e sull’uso del legno. Docente presso la Scuola d’architettura di Nancy collabora con numerose case editrici europee.
1. www.ciaf.fr/assets/ expositions/matieres-enlumiere/ 2. tinyurl.com/jhfzg6o
L’impiego innovativo di materiali vernacolari (legno, paglia e altri materiali vegetali, terra, pietra) sta diventando una pratica corrente sia negli edifici residenziali, sia nei lavori pubblici e nei grandi complessi edilizi. In Francia il governo e le amministrazioni locali hanno iniziato a promuovere l’impiego di questi materiali derivanti da filiere corte, in grado di valorizzare le risorse di ciascuna regione. Già nel 2012 la classifica annuale delle costruzioni in legno e il primo Premio nazionale per le Architetture in terra (CRAterre) nel 2013 hanno testimoniato la creatività dei progettisti e le competenze delle maestranze, affermando il ruolo pionieristico della Francia in questo ambito. E anche il mondo della professione ha dato prova dell’interesse per la valorizzazione di tali risorse naturali dedicando ai materiali eco-locali il padiglione francese al congresso dell’Uia (Unione internazionale degli architetti) tenutosi a Durban nel 2014. Infine, la mostra Matières en lumières1 che ha presentato 70 edifici esemplari realizzati con legno, terra, paglia, pietra suscitando tra i visitatori grande interesse e al tempo stesso stupore per la capacità di questi progetti di inserirsi bene tanto nei contesti urbani quanto nelle aree rurali. Il riutilizzo è un’altra strategia fondamentale: il 50% dei rifiuti prodotti nei paesi industrializzati sono originati dal settore delle costruzioni: è quanto mai urgente arrestare questo flusso e immaginare per essi una nuova vita. Una sobrietà felice Prospettiva indispensabile in questo periodo di crisi ecologica e sociale, l’economia circolare punta a produrre beni e servizi limitando il consumo di materie prime e di energia.
Nel settore delle costruzioni questo approccio spinge verso una dimensione della produzione locale e decentralizzata: per i materiali si tratta di fare riferimento a risorse naturali abbondanti, per l’energia di sfruttare le fonti rinnovabili (solare, eolico, geotermia ecc.). In Francia l’economia circolare è entrata ufficialmente nelle politiche nazionali nell’ottobre 2014, con il Codice dell’ambiente contenuto nella legge sulla transizione energetica e la crescita verde. Una vera rivoluzione per un paese – storicamente – fortemente centralizzato attorno alla propria capitale! A partire da allora, ministeri e comunità locali stanno cercando di declinare l’economia circolare nelle diverse scale. Quindi gli attori locali (per esempio singoli comuni, consorzi intercomunali, servizi tecnici, imprese, associazioni, cittadini) si stanno aggregando attorno a una dinamica di sviluppo, creando anche nuova occupazione, in particolare nelle aree rurali meno favorite. Un approccio, questo che è già stato testato nel Vorarlberg, piccola ma florida regione austriaca che deve la sua prosperità a un’economia verde che ha saputo valorizzare le sue risorse, legname e altri materiali di produzione locale. Ma questo è anche lo spirito dell’economia territorialista teorizzata da Alberto Magnaghi,2 fortemente ancorata alla cultura delle bio-regioni, che in Francia ha dato vita a una rete diffusa di esperienze. Dunque in Europa iniziano a fiorire queste strategie in grado di apportare benefici su molteplici piani, dimostrando come la transizione ecologica sia tutt’altro rispetto a un’immagine di ascetica rinuncia! È un cambiamento di paradigma verso una società a un tempo più frugale e felice, che ridona senso alla quotidianità come alla vita professionale. Pierre Rabhi, il filosofo francese dell’agro-ecologia,
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materiarinnovabile 11. 2016 la definisce efficacemente come “sobrietà felice”.3 Fare di più con meno e ritrovare il piacere di una creatività liberata. Il legno, una filiera d’interesse generale La Francia è il terzo paese europeo per estensione del patrimonio forestale. Il legno è, quindi, al primo posto tra i materiali da costruzione eco-locali. E il suo impiego è tradizionale in tutto il paese: dall’Alsazia alla Normandia nelle case e nelle fattorie a graticcio e nelle chiese nella regione dello Champagne. Nel Sud-ovest la carpenteria in quercia per ambienti di grandi dimensioni protegge ancora qualche mercato coperto perfino dopo sei secoli. Latifoglie e conifere sono essenze perfettamente adatte a un’architettura eco-responsabile se provenienti da foreste gestite secondo criteri di sostenibilità in prossimità dell’area di cantiere, e se non subiscono trattamenti chimici. Il legno è, in ogni caso, il solo materiale strutturale rinnovabile, e la sua lavorazione richiede un basso consumo d’energia. L’uso del legno viene accolto con sempre maggior favore così come è aumentata la consapevolezza dei numerosi vantaggi a esso associati. Negli ultimi cinque anni la sua quota di impiego nel mercato delle costruzioni è passata dal 5 al 12% nell’ambito delle case unifamiliari, per le quali si apprezza – in particolare – la dolcezza delle superfici e il calore che riesce a dare agli ambienti. Ma a queste qualità emozionali si aggiungono numerosi vantaggi di ordine tecnico ed economico. A parità di superficie lorda, una casa con struttura in legno e isolamento rinforzato negli elementi verticali consente di avere una superficie utile superiore del 5-10% rispetto a quella di un edificio in muratura e ha migliori performance termiche in grado di ridurre il consumo energetico per riscaldamento. In fase di costruzione, inoltre, il montaggio di una struttura in legno non richiede grossi macchinari di cantiere e riduce il rumore e le polveri prodotte. La messa in opera in una filiera a secco e la prefabbricazione in officina accorciano la durata del cantiere, con effetti vantaggiosi sui costi e sulla stessa organizzazione logistica in area urbana. In più la leggerezza del materiale facilita l’autocostruzione, preserva l’integrità dell’ambiente naturale nei siti più fragili e consente di costruire anche su suoli con scarsa capacità portante e su terreni in forte pendenza. Bio materiali a ciclo breve Oltre il legno anche altri materiali da costruzione derivanti da risorse biologiche incontrano un crescente interesse e il loro impiego viene incoraggiato da programmi congiunti tra i ministeri dell’Ecologia, dell’Abitazione e della Cultura. Canapa, lino e stoppie sono particolarmente interessanti perché hanno un ciclo di accrescimento molto più breve di quello di un’essenza arborea. In quanto alla paglia,
che altro non è che uno scarto delle attività agricole, anziché bruciarla nei campi producendo emissioni di CO2 , è molto più conveniente valorizzarla come materiale isolante a buon mercato e con un basso contenuto di energia grigia. Attualmente in Francia si contano oltre 2.000 edifici dotati di isolamento in paglia: alle piccole abitazioni costruite tra gli anni ’70 e il Duemila si sono aggiunti edifici pubblici come il liceo di Crest, la sala polivalente di Mazan nella zona del Mont Ventoux, il complesso scolastico di Issy-les-Moulineaux, nella banlieue parigina per il quale sono state impiegate 6.000 balle di paglia. Ma anche abitazioni collettive: il complesso di case a schiera Making Hof a Strasburgo è servito da cantiere-scuola, e – durante un intervento di edilizia sociale realizzato nel 2013 a Saint-Dié-des-Vosges – sono stati costruiti due edifici con struttura a cassone in legno e riempimento in paglia, di cui uno alto 8 piani per un totale di 26 alloggi. Materiali di origine geologica L’innovazione nei materiali di origine geologica (terra e pietra) segue quella dei materiali di origine biologica, rispetto ai quali sono complementari. Con la pietra calcarea di Vers utilizzata dai romani per costruire il Pont du Gard nel primo secolo a.C., l’architetto Gilles Perraudin e i suoi allievi costruiscono oggi, nel Sud della Francia, edifici scolastici e alloggi sociali, confortevoli – pur senza impianto di climatizzazione – anche in periodi di intenso calore. Quanto alla terra cruda, il suo impiego in Francia gode di una lunga tradizione, con tecnologie sviluppate per adattarsi alle caratteristiche specifiche di qualsiasi tipo di terreno: pisé
3. Pierre Rabhi, La sobrietà felice, Add editore, 2013 (ed. originale Vers la sobriété heureuse, Actes Sud 2010).
Policy (terra battuta) in Alvernia e Rhône-Alpes, bauge (terra con paglia o altre fibre) in Bretagna e Normandia, blocchi in adobe (impasto di argilla, sabbia e paglia) nella zona di Tolosa, torchis (ossatura in legno e riempimento in terra) nelle Landes, in Alsazia e in numerosi centri storici medievali. La durata quasi eterna di edifici così costruiti è provata in diverse zone climatiche, una volta che sono efficacemente protetti, come avviene per gli edifici in legno, “avec de bonnes bottes et un bon chapeau” (“con dei buoni stivali e un buon cappello”). Inoltre, una casa in terra garantisce un microclima interno salubre: regolazione dell’umidità, riduzione delle sostanze tossiche nell’aria, capacità di assorbire rumori e odori, inerzia termica. La materia prima è generalmente disponibile in prossimità dei cantieri, rendendo quasi inesistenti le necessità di trasporto. Inoltre anche questo è un materiale particolarmente indicato per l’autocostruzione, caratteristica particolarmente importante nei paesi emergenti. D’altronde, in tutto il mondo sono sempre più numerosi i progetti che dimostrano le grandi qualità estetiche e la modernità di una costruzione in terra cruda. Il premio Terra Award,4 primo riconoscimento mondiale dedicato all’architettura contemporanea in terra ne è una prova, con le sue 357 candidature, provenienti da 67 paesi di cinque continenti. I 40 progetti finalisti sono presentati nell’esposizione itinerante Architecture en terre d’aujourd’hui,5 che nel 2017 farà tappa anche in Italia (Milano, Torino ecc.). Combinare i materiali A fronte dell’aumento della popolazione e della crescente scarsità di risorse, è indispensabile favorire l’uso dei materiali eco-locali. Numerosi investitori sociali in Francia ne sono ormai persuasi. Adottando un processo partecipativo che coinvolge i futuri utilizzatori e vicini di casa, Aquitanis a Bordeaux e Actis a Grenoble lavorano a progetti che associano legno e terra cruda. Perché ciò che è veramente ecologico è utilizzare la giusta quantità di un buon materiale, nel posto giusto. Una combinazione intelligente dei materiali da costruzione permette di ottimizzare le prestazioni di ciascuno di essi, rispondendo alle esigenze di carattere costruttivo, ecologico ed economico. Pietra, terra, laterizi e calcestruzzo conferiscono al legno l’inerzia termica necessaria per assicurare il comfort estivo, agendo nello stesso tempo da schermatura acustica o da elementi taglia-fuoco. Piastre, viti e tiranti in acciaio riducono le sezioni della carpenteria in legno consentendo assemblaggi a un tempo performanti ed eleganti. Qualità estetica e inventiva sono fattori indispensabili per convincere e motivare i clienti. Materiali di recupero La Francia conta tre dei maggiori operatori mondiali nel campo delle costruzioni e dei lavori
pubblici. Ciò comporta necessariamente delle conseguenze: i gruppi di pressione legati ai settori del cemento, dell’acciaio, dell’alluminio, del vetro e del Pvc esercitano una forza schiacciante, che ha l’effetto di frenare lo sviluppo dei materiali eco-locali. Oggi però anche i settori produttivi legati ai materiali derivanti da risorse biologiche o geologiche iniziano a organizzarsi. Dietro ai materiali di recupero, invece, non si muove alcuna lobby, e non esiste nemmeno una filiera vera e propria. Il loro utilizzo rimanda ad alcune tra le 8 R proposte da Serge Latouche,6 l’economista della decrescita: ridurre (il consumo di materie prime), riutilizzare (i materiali e gli edifici), riciclare (le componenti dell’edificio), rilocalizzare (privilegiando le filiere corte). Le imprese pioniere del settore si sono soprattutto dedicate al riciclo eco-sociale della carta o dei materiali tessili, per realizzare degli isolanti. Ma qualche architetto militante ha sperimentato non solo le prestazioni strutturali dei materiali di recupero, ma anche la loro forza poetica. Il Museo d’arte di Ningbo, in Cina, progettato dall’architetto Wang Shu, e le cui murature includono mattoni ed elementi in pietra di recupero ne è un’affascinante testimonianza. La varietà della strade possibili per il riutilizzo in architettura (della materia e dei manufatti edilizi) è stata magistralmente illustrata nella mostra itinerante Matière grise,7 inaugurata nel 2014 al Pavillon de l’Arsenal a Parigi, e che ha suscitato una vera presa di coscienza tra gli architetti. In legno, in terra, in pietra, in paglia o con una combinazione di più materiali, inclusi alcuni derivanti da recupero, gli edifici di domani dovranno essere sani e con un impatto minimo sull’ambiente. Coscienti delle proprie responsabilità, cittadini, utilizzatori, architetti, industria e imprese di costruzione devono congiungere i propri sforzi per trovare assieme delle soluzioni economicamente fattibili e accessibili, ma al tempo stesso originali e creative.
4. terra-award. org/?lang=en 5. Dominique GauzinMüller, Architecture en terre d’aujourd’hui, Museo éditions, 2016. Sito dell’esposizione: terralyon2016. com/2016/02/09/ architecture-en-terredaujourdhui/ 6. Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2014 (ed. originale Le Pari de la décroissance, Fayard 2006). 7. Julien Choppin, Nicolas Delon, Matière grise: matériaux, réemploi, architecture, éditions du Pavillon de l’Arsenal, 2014.
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Figli di un dio minore di Antonio Pergolizzi Antonio Pergolizzi dottore di ricerca (PhD), giornalista ed esperto di tematiche ambientali, dal 2006 coordina la scrittura del Rapporto Ecomafia di Legambiente (edizione 2016, www.edizioniambiente. it/libri/1126/ ecomafia-2016/).
1. Progetto Ue APPRICOD - Assessing the Potential of Plastic Recycling in Construction and Demolition Activities, finanziato dal Programma per l’ambiente Life della Commissione europea, che ha riunito il settore C&D, le autorità locali e regionali e l’industria europea della plastica e i riciclatori.
In media ogni paese Ue genera 173 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzioni e demolizioni l’anno. Una montagna che – in realtà – finisce in gran parte nelle discariche nonostante avrebbe enormi potenzialità di essere riutilizzata. In Italia solo gli interventi diffusi, a piccola scala legati alla riqualificazione energetica degli edifici, assicurano circa 40 milioni di tonnellate di materiali. Ogni anno, secondo i calcoli della Commissione europea, ciascuno dei 28 paesi membri produce in media una montagna di circa 173 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzioni e demolizioni (C&D – Construction and Demolition). Dall’inestricabile e bizzarro labirinto di dati in mano alla Commissione, tra paesi che riportano cifre palesemente sovrastimate – come Malta e Finlandia – e altri che riportano quantità trascurabili – come Slovenia, Svezia e Irlanda – e considerando i differenti e a volte inspiegabili criteri di calcolo scelti dalle singole nazioni, emerge che cinque Stati membri (Germania, Regno Unito, Francia,
Italia e Spagna) rappresenterebbero da soli circa l’80% dei rifiuti totali C&D.1 Più precisamente, i principali produttori di inerti risultano essere la Francia con più di 231 milioni di tonnellate, la Germania con 201 milioni e il Regno Unito con circa 100 milioni (dati 2012). Questi tre paesi sono anche discreti campioni di riciclo, rispettivamente a quota 63-90-87%, insieme all’Irlanda (96%), ai Paesi Bassi (95%) e alla Danimarca (86%). Le stime ufficiali, raccolte anche da Eurostat, non convincono però gli operatori del settore, che da più parti denunciano i palesi buchi di questo sistema di raccolta di informazioni.
Policy Produzione nazionale di rifiuti speciali, anni 2011-2013, quantitativo annuale (t)
2011
2012
2013
60.965.255 ab
64.444.497 ab
66.722.728 b
9.123.860
8.524.429
8.248.861
Rifiuti speciali non pericolosi da C&D* (stime)
58.079.423
51.629.208
47.939.874
Rifiuti speciali non pericolosi con attività Istat nd** (MUD)
62.336
78.389
38.366
TOT. RIFIUTI SPECIALI NON PERICOLOSI
128.230.874
124.676.523
122.949.829
Rifiuti speciali pericolosi (MUD)
7.268.439
7.710.658 a
7.483.341
Veicoli fuori uso (MUD)
1.337.738
1.162.593
1.167.350
26.217
11.794
6.076
8.672.394
8.885.045
8.656.767
3.807
5.281
403
136.907.075
133.566.849
131.606.999
Rifiuti speciali non pericolosi esclusi i rifiuti stimati (MUD)
Rifiuti speciali non pericolosi esclusi i rifiuti stimati da C&D* (stime)
Rifiuti speciali pericolosi con attività Istat nd** (MUD) TOT. RIFIUTI SPECIALI PERICOLOSI
Rifiuti speciali con CER nd (MUD) TOT. RIFIUTI SPECIALI
* Rifiuti da attività di costruzione e demolizione ** Attività Istat non determinata a Dato aggiornato rispetto al Rapporto Rifiuti Speciali, ed. 2013
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Inclusi i quantitativi di rifiuti speciali non pericolosi provenienti dal trattamento meccanico-biologico di rifiuti urbani
Fonte: Ispra.
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Secondo Rapporto dell’Osservatorio Recycle di Legambiente, Recycle. La sfida nel settore delle costruzioni, www.legambiente.it/ sites/default/files/docs/ dossier_recycle_2016.pdf Associazione nazionale produttori aggregati riciclati, www.anpar.org Federazione dell’industria europea delle costruzioni, www.fiec.eu
Soprattutto per quanto riguarda le percentuali di riciclo: la realtà sarebbe ben lontana dal virtuosissimo quadro tracciato dalle stime ufficiali inviate dai singoli Stati alla Ue. E ciò vale anche per l’Italia: a fronte di un ipotetico 70% di riciclo (dati Ispra, 2015), secondo gli addetti, invece, non si supererebbe un misero 10%. Percentuale confermata anche dall’Osservatorio Recycle di Legambiente e dall’Associazione nazionale produttori aggregati riciclati (Anpar). Non vi sono invece discordanze sul fatto che in Europa questa tipologia di scarti rappresenti quantitativamente la fetta più grande della torta dei rifiuti generati, equivalente a poco meno della metà del totale. In Italia, per esempio, coprono circa il 40% (Ispra, 2015) della produzione annuale di rifiuti speciali, in gran parte non pericolosi. Con un calo di due punti percentuali rispetto all’anno precedente (la crisi economica s’è fatta sentire anche qui), nel 2013 se ne sono generati (compreso il terreno derivante dalle operazioni di bonifica) circa 49 milioni di tonnellate. Declinando il dato su macro aree territoriali, al Nord se ne sarebbero prodotte quasi 32 milioni di tonnellate, al Centro più di 8,5 milioni, al Sud circa 8,2 milioni di tonnellate. Su un altro punto non ci sono dubbi in Europa: nella variopinta famiglia dei rifiuti, quelli da costruzione e demolizione sono sempre stati considerati figli di un dio minore. Sistematicamente inghiottiti nella logica dell’economia lineare, per loro è aperto solo il vicolo cieco delle discariche, che più di tutti hanno contribuito a saturare. Trascurando così le enormi potenzialità di un materiale che può sostituire facilmente la materia prima vergine, soprattutto per gli usi meno nobili quali la realizzazione di sottofondi e sovrastrutture stradali e per capannoni industriali, piazzali, recupero ambientale (ossia per la restituzione di aree degradate a usi produttivi o sociali attraverso rimodellamenti morfologici) e così via. Peraltro in questo caso il recupero di materia non risente della “concorrenza” del recupero di energia, che per altre tipologie di scarti con alto potere calorifico è invece forte, come nel caso della plastica, e incentivato dagli stessi interventi pubblici. Da un punto di vista chimico-fisico la composizione dei rifiuti da C&D è particolarmente variabile e diversificata in funzione del livello di sviluppo socioeconomico raggiunto nei luoghi di produzione, del materiale vergine presente in loco, delle esigenze abitative. In sintesi comprendono calcestruzzo, cemento e malte varie, conglomerati bituminosi, blocchi di murature e mattoni, elementi lapidei, terra, legname, metalli, plastica, gesso e altri materiali misti. Ai fini del recupero però si possono distinguere in due grandi categorie: calcestruzzo e macerie. Tra le due il calcestruzzo è il tipo di aggregato
di maggior valore, quindi più appetibile per la sua valorizzazione post-consumo, poiché costituito principalmente dalla malta cementizia e dagli inerti prelevati da cave, materiali quindi previamente selezionati. Le macerie, invece, di solito scontano il fatto di essere troppo eterogenee, quindi più complesse da gestire nelle attività di selezione, trattamento e recupero. Optare per la selezione a monte è quindi la strada più facile per il recupero. Come è abbastanza intuitivo, è dalle demolizioni che si origina il maggior flusso di rifiuti C&D: quelli prodotti in fase di demolizione sono 1.000-2.000 kg/m² pari al 93% della produzione complessiva, 50-100 kg/m² sono quelli prodotti durante la manutenzione (4,6%) e 25-50 kg/m² quelli in fase di costruzione, pari al 2,3%. In termini di peso, dai dati della Fiec (Federazione dell’industria europea delle costruzioni) circa il 53% proviene dalle microdemolizioni residenziali, il 39% da quelle non residenziali, l’8% dalle demolizioni di interi edifici. Questo significa che gli interventi di demolizioni diffusi e di piccola scala, attuati con tecniche selettive e chirurgiche, costituiscono una fonte inesauribile di materiali da riciclare: solo in Italia, più di 40 milioni di tonnellate. La demolizione selettiva è tuttora una pratica poco promossa in Europa, sebbene – nel caso sia impiegata per ristrutturare e riqualificare il patrimonio edilizio esistente – rappresenti uno dei passi cruciali nella lotta ai cambiamenti climatici, ambito in cui l’Italia ha assunto obblighi ufficiali in occasione della recente Cop21 di Parigi (su scala Ue la Roadmap ci impone un taglio delle emissioni dell’80% entro il 2050). Oggi più di un quarto dei consumi finali sono dovuti al comparto residenziale che, a differenza di settori come quello industriale o dei trasporti, non ha visto finora sostanziali cambiamenti. Nel nostro paese si stimano in 18 milioni gli interventi di deep renovation, riqualificazioni radicali, da eseguire su interi edifici e che dovrebbero abbatterne i consumi energetici di oltre il 50% in modo permanente. Molti Stati membri stanno già mettendo in campo nuove iniziative sia sul fronte del risparmio energetico sia sulla bioedilizia e rigenerazione urbana. Su tutti Regno Unito e Germania, quest’ultima con un piano di rinnovo di 20 milioni di abitazioni da portare a termine in 20 anni. Mentre l’Italia si muove ancora lenta e a geometria variabile, i tedeschi hanno, infatti, approntato un’efficace politica di transizione finalizzata all’obiettivo di raggiungere una neutralità energetica entro il 2050, attraverso una serie di iniziative tra cui un raddoppio dell’attuale tasso di deep retrofit degli edifici esistenti (dal 2 al 4% annuo). Ed è soprattutto la Ue che prova faticosamente a spingere sull’acceleratore del riciclo fissando al 70% con la direttiva 2008/98 la quota di recupero dei materiali inerti da raggiungere entro
Policy Rifiuti da costruzioni e demolizioni: materiale da recupero e riempimento, 2011 100%
Fonte: Commissione europea.
90% 80%
Riciclo
70%
Riempimento 60% 50% 40% 30% 20% 10%
il 2020. Secondo i calcoli della Commissione, se nove paesi avrebbero già raggiunto il target (Austria, Belgio, Estonia, Germania, Ungheria, Lussemburgo, Malta e Paesi Bassi), per altri nove – tra cui l’Italia – ci si starebbe lentamente arrivando, mentre per i restanti dieci la meta sarebbe lontanissima. Ritardi e difficoltà che stanno assillando molte nazioni. In Italia, per esempio, si sono rivelati abbastanza goffi i tentativi di incentivare il riciclo in linea con i dettami dell’end of waste. Come dimostra il caso delle “terre e rocce da scavo”, oggetto di continui e contradditori rimaneggiamenti normativi, che hanno solo contribuito ad alimentare confusione e incertezze, con risvolti spesso paradossali. Tra gli ostacoli che in generale hanno inficiato il decollo del riciclo in questo settore, oltre alla farraginosità normativa, va ricordata la mancanza di pianificazione economica e politica, di coraggio imprenditoriale e la carenza sistemica dell’apparato dei controlli. E, soprattutto, il fatto che il settore edile ha potuto godere (e gode ancora oggi) di prezzi bassissimi per l’accesso alle materie prime-vergini (con royalties davvero irrisorie pagate alle Regioni), rendendo poco interessante investire sul riciclo degli scarti. Non è un caso se oggi arrivano in Italia rifiuti inerti prodotti all’estero da destinare alla cave italiane attive e inattive per interventi di ricomposizione ambientale. Lampante il caso della Regione Lombardia che ha addirittura firmato un protocollo con la Svizzera in cui quest’ultima spalanca le frontiere alla sabbia prelevata in Italia, mentre la Regione facilita l’ingresso nel proprio territorio di inerti
Cipro
Grecia
Finlandia
Malta
Romania
Spagna
Slovacchia
Ungheria
Portogallo
Francia
Rep. Ceca
Bulgaria
Irlanda
Polonia
Belgio
Lituania
Svezia
Regno Unito
Germania
Danimarca
Estonia
Austria
Direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti, tinyurl.com/ja4bwqd
Lettonia
Italia
Slovenia
Paesi Bassi
Lussemburgo
0%
provenienti dalla Svizzera destinati soprattutto a riempiere le cave aperte. Così come i bassi costi per i conferimenti in discarica a livello Ue hanno inficiato usi alternativi. I paesi Ue che applicano una tassa sui rifiuti inerti sono solo sette, e il costo per lo smaltimento è inferiore a quello dei rifiuti urbani in tutti gli Stati, a eccezione della Danimarca. In Italia il costo per lo smaltimento dei rifiuti inerti è pari a 10 euro a tonnellata, mentre la media europea è di circa 15. Sta di fatto che due degli Stati membri con le tasse più alte per lo smaltimento in discarica degli inerti, Danimarca e Paesi Bassi, sono anche quelli con le percentuali più alte di riciclo (Fondazione per lo sviluppo sostenibile, 2105). Il fronte di chi guarda con grande interesse a questo tipo di scarto si sta comunque allargando. Su tutti l’Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) che durante l’audizione tenuta al Senato lo scorso 23 febbraio sul pacchetto di misure presentate dalla Commissione europea in materia di economia circolare, ha proposto una serie di incentivi fiscali e semplificazioni per l’acquisto di materiali edili riciclati, premialità per la messa a punto di tecniche innovative per la demolizione selettiva e agevolazioni per l’utilizzo del Bim (Building information modeling) nel monitorare l’intero ciclo di vita delle costruzioni. La stessa Ance ha pure ammesso che lo scarso ricorso in Italia del recupero nel settore dei rifiuti da demolizione va collegato ai bassi costi delle materie prime, alla mancanza di un’offerta diffusa sul territorio e a una persistente diffidenza da parte degli operatori del settore sui possibili utilizzi dei materiali riciclati. Una sintesi praticamente perfetta.
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materiarinnovabile 11. 2016
Focus edilizia circolare
LA CASA
insegue l’auto È ora che la circolarità faccia il suo ingresso nell’edilizia. Il primo passo è considerare l’edificio un prodotto che deve essere efficiente e performante nella totalità del suo ciclo di vita. di Emanuele Bompan
Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008.
Se 30 anni fa un’auto di media cilindrata consumava dieci litri di benzina per percorrere 100 chilometri, oggi a una ibrida ne bastano poco più di tre. Un’evoluzione incredibile quella registrata nel settore dei trasporti che vede l’affermazione di auto super efficienti, elettriche e ibride, costruite con componenti riutilizzabili (come nel caso delle trasmissioni e dei motori Renault prodotti nella fabbrica di Choisy-le-Roi). Purtroppo nell’ambito dell’edilizia, negli edifici in cui abitiamo o lavoriamo, le cose non sono andate nello stesso modo. Anche le costruzioni più recenti nella gran parte dei casi utilizzano le stesse tecnologie e impianti di quelle realizzate 30 anni fa: caldaie a gasolio o a gas, coibentazioni mediocri, nessun sistema di gestione intelligente dell’energia. In pratica si costruisce con le stesse modalità con cui si costruiva negli anni ’60. Ancora oggi la filiera dell’edilizia è costituita da tanti soggetti (progettista, architetto, impiantista, costruttore, piastrellista) che raramente si parlano e ancor meno seguono una progettazione integrata di tutte le componenti dell’edificio. Si assemblano gli elementi costruttivi senza una reale riflessione sul ciclo di vita dell’edificio: basta che sia tutto a posto al momento della vendita. Nessuno si domanda come cambieranno negli anni le tecnologie,
le funzioni e gli usi. L’edificio entra così in un perenne stato assistenziale, fatto soprattutto di manutenzione straordinaria. Quindi più costosa di quella ordinaria e con una maggiore impronta ecologica ed energetica. A REbuild – una delle più interessanti convention sull’innovazione nel settore edile/immobiliare che si tiene a Riva del Garda e Milano in giugno e ottobre di ogni anno – da molto tempo si discute sulla trasformazione del prodotto “edificio”. Come si dovrà costruire nei prossimi 50 anni per ottenere una significativa riduzione delle emissioni (oggi a livello globale il settore edilizio pesa per il 30% del totale emissioni)? E come per raggiungere livelli più elevati nel recupero di materia, visto che in Europa il 54% dei materiali derivante dalle demolizioni finisce in discarica? La parola d’ordine, secondo gli ideatori di REbuild, è “edilizia circolare”. Ovvero guardare all’edificio come un prodotto – massimizzandone il valore d’uso – nel quale la durata di vita è estesa fin dalla progettazione (e non a seguito di ripetuti interventi straordinari) e l’efficienza e performance sono garantite nel tempo. Dove la materia viene “prestata” alla costruzione degli edifici, sempre pronta a essere disassemblata, lavorata e riutilizzata per altre costruzioni o altri scopi; dove i processi sono rigenerativi (nella gestione di tutte le risorse che intervengono ad alimentare la vita di un edificio) e la qualità dell’abitare e la salubrità sono massime. Un’opportunità, quella dell’edilizia circolare che, in termini di mercato, potrebbe generare ricavi per 1.010 miliardi di euro entro il 2030, secondo le stime di una ricerca Growth within a circular economy vision for a Competitive
Policy McKinsey, Ellen MacArthur Foundation, Sun, Growth within a circular economy vision for a Competitive Europe, 2015; www.mckinsey.de/files/ growth_within_report_ circular_economy_in_ europe.pdf
Europe sviluppata nel 2015 da McKinsey, Ellen MacArthur Foundation e Sun (Stiftungsfonds für Umweltökonomie und Nachhaltigkeit). Di questo valore, circa 90 miliardi potrebbero interessare il comparto immobiliare italiano, partendo dal patrimonio da riqualificare: nel nostro paese, infatti, sono oltre 13 milioni gli edifici colabrodo da rigenerare in chiave di sostenibilità. Come attivare dunque l’edilizia circolare? Per trasformare il prodotto “edificio” occorre utilizzare le Ict per la gestione digitale del manufatto durante la costruzione e per tutta la sua vita utile, attraverso tecnologie che oggi si raggruppano sotto l’acronimo Bim (Building information modeling). Non solo: è necessario che la rigenerazione degli edifici entri in una fase di industrializzazione, dove i costi siano minimizzati, così come l’impiego di materiali, e i tempi resi più rapidi.
Serve inoltre un’edilizia social, dove sia massimizzato l’uso degli spazi (cohousing, sharing practices, prodotti immobiliari tailor-made). Se nel precedente articolo Dominique Gauzin Müller ha introdotto le potenzialità rappresentate dalle filiere eco-locali dei materiali, nelle prossime pagine il tema verrà sviluppato attraverso le testimonianze di David Cheshire, direttore sostenibilità di Aecom, che racconterà cosa significa edilizia circolare, mentre Thomas Miorin presenterà le potenzialità del mercato, ma anche le difficoltà di industrializzazione della filiera. Chiudono questo primo “giro di opinioni” sulla “circolarità” in edilizia le parole di uno tra i più attenti interpreti dell’architettura contemporanea, Mario Cucinella, che propone una visione umana degli spazi e dell’edilizia circolare.
Intervista
a cura di E. B.
Costruire, smontare, ricostruire David Cheshire, Sustainability Director presso Aecom
Se si parla di edilizia circolare in Gran Bretagna si parla di David Cheshire, l’uomo che più di chiunque altro – sul tema – ha analizzato progetti, idee, componenti, soluzioni. Di recente Cheshire ha pubblicato “Building Revolutions: Applying the Circular Economy to the Built Environment”, e lo ha presentato a REbuild 2016, convention sulla riqualificazione e gestione immobiliare, focalizzata quest’anno anche sul circular.
Per fare ciò è importante progettare, sia nelle nuove costruzioni sia nelle riqualificazioni, edifici che possano essere disassemblati e riassemblati in modi molteplici. Ma per arrivare a questo bisogna ripensare tutto, a partire dalle forniture di materiali.”
Il libro “Building Revolutions” oltre ad analizzare un numero molto elevato di casi, formula una teoria generale sull’edilizia circolare. Da dove è venuta l’idea di scriverlo? “In passato ho letto vari testi sull’economia circolare e sono rimasto molto colpito da questo concetto. Per capire come fosse stato applicato all’edilizia ho iniziato a cercare nel mondo quegli elementi rispondenti in qualche modo alle particelle elementari dell’economia circolare. E quindi li ho raccolti nel mio libro.”
Ci sono nel mondo progetti realizzati che rispondono alle caratteristiche di circolarità? “Ho trovato diversi edifici con alcuni elementi di circolarità, ma a oggi è difficile individuare un progetto che contenga tutte le particelle elementari che compongono l’economia circolare. Uno dei più completi è Park 20/20, un business park situato nei pressi di Schiphol, ad Amsterdam. È un progetto nel quale è stata fatta una riflessione sull’intero ciclo di vita dell’edificio, pensando a come possa evolvere diventando ogni volta – smontato e rimontato – un nuovo tipo di costruzione. È un manufatto nel quale è stato controllato accuratamente ogni materiale impiegato, scegliendo quelli più facili da riutilizzare, da riciclare o da compostare.”
Quali sono le strategie per realizzare l’economia circolare nel settore dell’edilizia? “Per prima cosa occorre pensare alla next-life dell’edificio, cioè a cosa potrà diventare dopo la sua fine. Fino a che non inizieremo a ragionare a lungo termine, continueremo ad applicare un’economia lineare. Per questo motivo nel libro parlo non solo di riqualificare gli edifici ma anche di come ‘smembrarli’ a fine vita e riusarne le componenti, evitando di trasformare (downcycle) ogni cosa in rifiuto.
Dal mondo dell’industria iniziano ad arrivare componenti realizzate secondo i principi dell’economia circolare: penso alle luci super efficienti o ai tappeti modulari. Vede una reale crescita di questi prodotti? “Purtroppo no, al momento. Prima di tutto va considerato che oggi solo alcuni elementi dell’edificio possono essere prodotti con questo principio. Per esempio, utilizzare il leasing per gli impianti è complesso, visto che non è possibile
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materiarinnovabile 11. 2016 David Cheshire, Building Revolutions, RIBA Publishing, 2016
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dare in cessione d’uso un sistema di ventilazione o una caldaia. Il modello circolare può funzionare invece sulle parti dell’edificio che vengono usate – e sostituite – più frequentemente: si può fare un leasing per le stampanti e computer di un ufficio, per gli arredamenti, i tappeti, le tecnologie domotiche. In questi casi credo possa funzionare il modello product-as-a-service, così che queste
apparecchiature possano tornare indietro al produttore, essere rigenerate e rivendute.” Oggi si parla molto di Bim, Building information modeling, i software di gestione degli edifici utili per ottimizzarne le performance. Che ruolo possono avere nell’edilizia circolare? “Ci sono grandi potenzialità. Se per tutti gli edifici noi avessimo un inventario di ogni elemento, di ogni materiale, con l’indicazione della sua qualità e durabilità, la rigenerazione a fine vita o la manutenzione sarebbero molto più semplici, e si allungherebbe la durata della vita stessa dell’edificio.” Che ruolo può avere la Ue nel promuovere l’edilizia circolare? “Indubbiamente un primo passo è stato fatto con il Pacchetto economia circolare. L’Europa deve guardare a un’economia circolare a scala continentale. Non possiamo considerare la questione, paese per paese. Più politiche sono attivate, più facilmente l’economia circolare funziona. Ma si può partire anche senza attendere la politica: ci sono benefici immediati nell’adottare l’edilizia circolare attraverso il mercato. Facendo così si creano edifici che valgono di più. Allora, perché attendere?”
Policy Intervista
a cura di E. B.
Social, digital, circular Thomas Miorin, co-ideatore di REbuild
REbuild Italia, www.rebuilditalia.it
Progetto Manifattura, www.progettomanifattura.it
Thomas Miorin ha una missione: trasformare l’intero settore dell’edilizia e immobiliare. E da anni spinge a riflettere su questi temi: riqualificazione sostenibile, rigenerazione, economia circolare per il nostro immenso patrimonio immobiliare, attuale e futuro. “Il mercato è da riconfigurare completamente, grazie alla digitalizzazione degli edifici e dei processi costruttivi e attraverso l’economia circolare nell’edilizia” spiega Miorin ricevendo Materia Rinnovabile nel suo ufficio di Rovereto, inserito all’interno del Progetto Manifattura, un grande incubatore d’imprese e start-up green. Proprio per innovare il settore Miorin ha realizzato insieme a Gianluca Salvatori – l’ideatore del Progetto Manifattura – REbuild, una convention sull’innovazione nell’edilizia e immobiliare. Alternativo agli ormai esausti format dell’immobiliare ed edilizia di nicchia, REbuild ogni anno dal 2013 accoglie il gotha degli imprenditori e dei player del settore a Riva del Garda. Basta vedere i pay-off per capire che qui si respira un’aria internazionale e innovativa: due miliardi di metri quadri da riqualificare, una casa al minuto, innovazione concreta. Questi sono alcuni degli slogan lanciati in questi anni a REbuild. Per l’edizione 2016, poi, si è guardato ancora più avanti, proponendo i nuovi pilastri dell’edilizia: social-digital-circular. Miorin, l’economia circolare può essere applicata all’edilizia? “Assolutamente sì: il rilancio dell’edilizia passa attraverso una sua riconfigurazione in ottica circolare. Questo rilancio, però, va concepito all’interno di una trasformazione complessiva della filiera, che io definisco industriale. Ci sono già alcuni aspetti anticipatori: la dimensione della sostenibilità e la progettazione integrata che si esplicano nella costruzione dell’edificio e nel suo uso. Si costruisce a strati, con moduli intercambiabili, efficienza energetica spinta, impiegando elementi prefabbricati riutilizzabili. L’uso dell’edificio include la produzione del cibo, la condivisione degli spazi, la connettività e il telelavoro, la manutenzione automatizzata e controllata a distanza. Nell’edilizia circolare sparisce l’idea stessa di scarto, sia esso materia, energia o tempo delle persone. Tutto ha valore e – attraverso la convergenza tra nuove tecnologie disponibili e un nuovo processo organizzativo – è possibile realizzare un’edilizia capace di rigenerare il patrimonio pubblico e privato, ridare energia all’economia del nostro paese, ridurre drasticamente l’inquinamento nelle città e ridefinire il bilancio energetico nazionale.” Parlare di circolarità, però, è ancora prematuro: in Italia praticamente non ci sono esempi. “Questo perché tutte le varie fasi di vita dell’edificio come prodotto non sono ancora coperte, in quanto la filiera immobiliare è altamente frammentata. Prima
di tutto la fase di progettazione è staccata da quella d’uso. Poi c’è un’altra frattura nella vita di un edificio riferita alla sua gestione finanziaria: i fondi immobiliari di solito hanno un ciclo di sette anni, troppo breve. È la dissociazione fra questi cicli che crea oggi l’impossibilità non solo di pensare all’intero ciclo di vita degli edifici, ma anche di fare operazioni di riqualificazione ed efficientamento.” Dunque come agire per riunire i cicli? “Passare a un’economia circolare significa cominciare a vedere il prodotto immobiliare come un prodotto-servizio. C’è un doppio passaggio per andare dall’edilizia attuale a quella circolare: uno tecnico-industriale e uno economico-finanziario, legato alla definizione dei parametri di valore accordati tra la filiera. Il che significa – per esempio – sistemi di misura, organizzazione della filiera, soggetti terzi che misurano e garantiscono performance e valore, nuovi strumenti finanziari come green lease, due diligence, nuovi modelli di business (building as a product). Ma la parte più rilevante è quella di tipo tecnico. È evidente che oggi non siamo di fronte a un processo rigenerativo. Siamo di fronte, se va bene, a una riqualificazione estetica/funzionale con minimi impatti di efficientamento energetico. Secondo me, economia circolare nell’immobiliare significa industrializzazione dell’edilizia: l’unica organizzazione tecnico-economica capace di presiedere a un ciclo di vita di un prodotto nell’economia capitalistica è di fatto la dimensione industriale. Non a caso i settori più avanti nell’applicazione dell’economia circolare sono quelli industriali, come dimostrano numerosi casi studio riportati dalla MacArthur Foundation. Perché i soggetti industriali sono gli unici in grado di trasformare un prodotto in un servizio, gli unici che hanno le risorse tecnico-finanziarie per controllare tanti ambiti diversi. E ad avere strutture e risorse per governare una dimensione temporale così ampia e che include addirittura il fine vita o il passaggio alla sua vita successiva.” Come è la situazione attuale della filiera in Italia? “Oggi in Europa il settore dell’edilizia è costituito per il 98% dalla piccola e media impresa; il 90% sono micro imprese con meno di dieci dipendenti, che vivono per il 72% di un’edilizia fatta di manutenzioni ordinarie e straordinarie. Poi ci sono alcuni grandi leader di settore europei, capaci di presiedere l’intero ciclo dell’edificio, che in Italia non vengono perché non trovano interesse di mercato. Inoltre questo settore così artigianale ha un gap di produttività ore/addetto enorme. Nell’industria manifatturiera si ha una produttività stimata intorno all’88%, nell’edilizia tale valore crolla al 43%.
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LA CASA CIRCOLARE COSTRUZIONE
EFFICIENZA ENERGETICA SPINTA DEL SISTEMA INVOLUCRO/IMPIANTI ARCHITETTURA PASSIVA E PRODUZIONE DI RINNOVABILI
USO
PRODUZIONE DI CIBO NELL’ABITAZIONE VERTICAL FARMING
DIGITAL ENGINEERING PENSARE E PROGETTARE L’INTERO CICLO DI VITA DELL’IMMOBILE CON MODULI FLESSIBILI
SPAZI CONDIVISIBILI CON FORMULE DI AFFITTO O SHARING
COSTRUITA A STRATI CON MODULI INTERCAMBIABILI STRUTTURA/INFRASTRUTTURA IMPIANTISTICA/ARREDO
COSTRUITA CON MODULI PREFABBRICATI E RIUTILIZZABILI RACCOLTA ACQUA PIOVANA E RICICLO/TRATTAMENTO DELLE ACQUE
MANUTENZIONE AUTOMATIZZATA E CONTROLLATA A DISTANZA ELETTRODOMESTICI CONNESSI E INTELLIGENTI
SPAZI E SERVIZI DI CONNETTIVITÀ DEDICATI AL TELELAVORO
In pratica il 57% del tempo in edilizia non produce valore nel prodotto finale. C’è poi il tema del recupero della materia: in Europa, nelle demolizioni, il 54% dei materiali finisce in discarica. Ma si può fare molto meglio: in alcune nazioni questa percentuale scende al 6%. A Progetto Manifattura, a Rovereto si è riusciti a riciclare il 98% di un’area industriale dismessa di circa 5 ettari. E già esistono edifici pensati come ‘banca di materiali’ e altri completamente smontati e rimontati con nuove funzioni d’uso e senza alcuna perdita di materiali.” Dove devono puntare le nuove imprese dell’edilizia e dell’immobiliare? “In questa fase direi verso la prefabbricazione, rilievo digitale, digitalizzazione dell’immobile, digital manufacturing, producendo in modo industriale qualcosa che viene poi personalizzato dall’artigianato. Così si elimina una buona parte dello scarto e minimizza la fase di cantiere. Non solo: in questo modo si ottimizza anche la fase di gestione perché si trasforma il prodotto in un prodotto-servizio, super efficiente dal punto di vista energetico e nel quale il valore del risparmio di energia viene internalizzato. Inoltre gli spazi devono essere progettati per essere modulari e per massimizzarne l’uso. Esistono immobili che dopo quattro/cinque anni di vita come uffici poi diventano asili: vengono progettati a layer, con i principi di progettazione dell’economia circolare.”
Così si massimizza la funzione di prodotto come servizio. “Oggi è possibile affittare camere per qualche notte, parti di edifici vengono utilizzati come location per eventi, scuole che la sera diventano luoghi di aggregazione sociale. Ciò può essere una rivoluzione anche per il settore pubblico. Lo Stato non ha bisogno di avere la scuola, come edificio: ha bisogno di un’aula a 20 °C, dalle ore 8 alle 13, con due funzioni, sedie e lavagna, che sia salubre e pulita. Da lì possono nascere mille altre funzioni. E il valore dell’edifico cresce in base all’uso mentre diminuisce quello fondiario. Di fatto REbuild ha messo al centro l’economia circolare perché l’industria edile, se fino a oggi è rimasta praticamente immutata ora deve attraversare una ridefinizione del prodottoservizio ed entrare nell’era dell’industrializzazione. Quindi bisogna decidere se guidare o no un processo che altrimenti potrebbe essere portato avanti da soggetti esterni. È evidente che questo comporterà una grossa ridefinizione dei carichi occupazionali e della definizione dei ruoli e delle competenze. L’edilizia sarà il settore che, più di tutti, porterà dei cambiamenti: significherà avere più ingegneri che lavorano su modelli digitali che coprono la parte energetico-previsionale di simulazione e organizzare un sistema dell’artigianato. Dal punto di vista del lavoro è evidente che aumentando la produttività ci sarà una diminuzione degli occupati. Ma altri lavori arriveranno dall’economia circolare, che porterà nuove professioni di cui ancora non abbiamo idea.”
Policy Intervista
a cura di E. B.
Dell’edificio non si butta via niente
Foto di Luca Maria Castelli
Mario Cucinella, architetto
Mario Cucinella è un’icona dell’architettura sostenibile italiana. Semplicità, partecipazione, studio dell’ambiente, spazi flessibili e salubri. Lo stile emerge naturalmente, non è il disegno né il funzionalismo a dettare legge nel progetto. Chi abita l’architettura viene sempre prima di chi la progetta. Lo abbiamo interrogato sul rapporto tra architetti ed edilizia circolare. Oggi la discussione italiana nell’edilizia appare tutta focalizzata sul tema della riqualificazione sostenibile. “In Italia il problema è sempre lo stesso: c’è una grande discussione, si sono fatti tanti incontri e convegni sulle leggi di riqualificazione e di rigenerazione, però poi – di fatto – il meccanismo non è partito ancora.”
un’acqua riciclata che viene dalla pioggia. Dal punto di vista strutturale, poi, l’edificio è stato posizionato sul terreno in maniera meccanica, quindi facile da smontare, al punto che potrebbe scomparire senza lasciare tracce. Occorre, però, pensare anche alla durata di vita di un’architettura: se in passato avessimo ragionato solo con edifici che si smontano e si riassemblano, oggi non avremmo centri storici. Un fabbricato può essere più facilmente riusato piuttosto che riciclato. Penso all’edificio che oggi ospita il mio studio: negli anni ’70 era il deposito di una fabbrica, domani potrebbe diventare un loft, dopo domani chissà. Quindi l’uso e la durata sono importanti quanto la possibilità di riuso della materia.”
S’inizia a parlare di economia circolare ed edilizia. Sta nascendo una nuova riflessione tra gli architetti? “L’industria lavora da vari anni sul tema del riciclo delle materie, delle materie prime-seconde, dell’estensione della vita di un prodotto. Nell’architettura è più complicato: un conto è fare una piastrella riciclata, un conto è attivare un processo edilizio di progettazione, costruzione, smantellamento e di riuso. Il che è molto più complesso e richiede una conoscenza che ancora nel mercato non c’è. Però, è evidente che anche il mercato dell’edilizia si sta avvicinando a questo tema, per esempio nel riuso dei materiali: l’edificio non si ‘butta via’ ma si smonta – anche per ragioni economiche – si ricicla, si reinserisce nel circolo produttivo. Ma affinché ciò possa accadere occorre che ci sia anche un’industria che si metta in pista. Perché se la circolarità della materia è possibile, se i processi costruttivi e di progettazione hanno già fatto passi avanti, dietro ci vuole un’industria che prenda i prodotti smontati, li reinserisca nel mercato e li gestisca in modi nuovi.”
Il tema dell’uso nell’economia circolare è fondamentale. Così come ci sono oggetti che usiamo solo poche volte all’anno e poi buttiamo, anche gli edifici spesso vengono utilizzati solo qualche ora al giorno: penso alle scuole, alle sale comunali, agli auditorium, agli uffici. Come dobbiamo rivedere l’architettura di questi spazi per massimizzare l’uso? “Il paradosso è continuare a immaginare di costruire nuovi spazi quando già ce ne sono. Massimizzare l’uso è all’interno di una logica che ha senso a patto che si trovino soluzioni gestionali. Per la pubblica amministrazione questa possibilità va vista come un’opportunità economica: se uso gli spazi di una scuola per diciotto ore invece che le classiche sei/otto ore, ho riscoperto un valore che già avevo ma che non vedevo. Quindi anziché costruire edifici nuovi per fare le riunioni o il centro di aggregazione di quartiere, estendo l’uso di un edificio pubblico sottoutilizzato. D’altronde ciò sta accadendo anche nel privato: pensiamo ad Airbnb, il sito che mette a disposizione stanze private di normali cittadini ai viaggiatori. È un fenomeno rilevante a dimostrazione che l’economia circolare sposta flussi economici importanti da una parte all’altra.”
Può farci qualche esempio di suoi progetti che cercano di sposare il tema dell’edilizia circolare? “A Guastalla abbiamo realizzato un asilo disassemblabile e riciclabile al 100% costituito fondamentalmente da due materiali, legno e vetro. Il legno utilizzato viene da una filiera di produzione circolare, legata alla forestazione; anche sul vetro è attiva una grande industria di riciclo dei materiali. Inoltre in questo edificio abbiamo realizzato un sistema di raccolta dell’acqua piovana che viene poi impiegata nei servizi sanitari, evitando così di usare quella potabile. Così l’architettura ha anche una funzione educativa: la scuola spiega ai bambini che l’acqua che si usa in bagno può essere anche
Ha mai progettato un edificio pensando a funzioni plurime? Un edificio che sposa questa filosofia e che incamera già nel disegno questa vocazione multi uso? “A Pacentro, nell’entroterra aquilano, abbiamo progettato una scuola che nasceva proprio con questo principio, pensata per più classi in verticale (alunni della materna, elementare e media, ndr) visto il numero ridotto di studenti. L’edificio si snoda intorno a uno spazio centrale sul quale si affacciano le aule. Si tratta di uno spazio flessibile a disposizione della comunità: è la biblioteca, ma funziona anche da piccolo teatro, da luogo per la socialità, utilizzabile per la scuola di cucina
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A destra: Scuola di Pacentro (Aq). La circolarità nasce dalla progettazione partecipata
In basso: Rendering del progetto “una scuola sostenibile a Gaza”. Nel 2014 un altro suo asilo, sempre a Gaza, è stato distrutto durante l’operazione israeliana Margine di Protezione
Tutte le immagini ©Mario Cucinella Architects
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Policy e come sala per feste e compleanni. Quindi l’architettura nasce fin dal disegno per rispondere a una reale esigenza polivalente.” Disegno top-down o processo partecipativo? Come si approccia un progetto circular? “L’architettura deve intercettare i desideri delle persone, delle comunità: credo che sia l’aspetto più interessante del nostro lavoro. Quello di Pacentro ne è un esempio. Non è un edificio grande, ma dà l’idea di come si può fare, uso, riciclo, utilizzazione nel tempo, all’interno di un edificio che ha tutto il potenziale partendo dall’ascolto dei cittadini.” Il futuro è di edifici pubblici fluidi, tabula rasa da riempire sempre con nuove funzioni? “Penso alla Sala Borsa a Bologna: è una biblioteca, una piazza, un luogo per internet, per leggere i giornali, per studiare. Un luogo dove si va per prendere un libro, per passare due ore a leggerti le tue cose, a scrivere. Gli edifici multitasking
– per dirla con un gergo più contemporaneo – attraggono molte persone, perché ognuno trova dentro quello spazio una soluzione al suo problema. E questa è la funzione di quella struttura.” La sua casa a Bologna è un unico spazio completamente aperto. I muri diventano una limitazione all’uso, anche negli spazi privati? “Oggi si riutilizzano sempre di più gli spazi industriali. Viene da chiedersi: ‘perché?’. Al di là del recupero dell’edificio, una struttura aperta flessibile ha la capacità di essere interpretata in tanti modi diversi e può modellarsi a seconda dei desideri e degli stili di vita delle persone. L’edilizia ragiona ancora come negli anni ’50, si fanno vani e tecnologie. Serve un’architettura flessibile, con una progettualità proiettata nel tempo. Costruire spazi che non hanno una funzione già definita, ma che viene definita dall’uso che di essi viene fatto. L’architetto non deve imporre funzioni. L’architettura diventa un’operazione squisitamente post-strutturalista.”
A sinistra e in basso: Dettagli del progetto Scuola di Pacentro. Uno spazio centrale polivalente e classi modulari, per massimizzare l’uso dello spazio pubblico
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Traduzione dal Kinyarwanda: “È proibito l’uso di sacchetti di plastica non biodegradabile”
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La guerra del Ruanda alla plastica di Jonathan W. Rosen
I sacchetti di plastica sono presenti ovunque nel mondo contemporaneo tanto che è difficile immaginare di vivere senza. Ma, per quanto convenienti possano essere, comportano un serio rischio ambientale. E il Ruanda si è impegnato a eliminarli.
Questo articolo è stato pubblicato su Works That Work, n.7, worksthatwork.com/7
Il mercato di Kimironko, un brulicante centro commerciale all’aperto alla periferia della capitale del Ruanda, è per molti sensi il tipico bazar africano. Sette giorni alla settimana, masse di abitanti di Kigali, che conta 1,3 milioni di residenti, affollano i suoi stretti vicoli costeggiati da alberi di mango, banane e avocado. Farina finemente macinata è accatastata formando montagnole e carcasse di capre e mucche pendono da ganci di metallo. I profumi, sufficientemente pungenti, riflettono la freschezza dei prodotti. All’ingresso, l’aria è appesantita dall’aroma del pesce proveniente dalla regione dei Grandi Laghi, ma all’interno del mercato il sentore lascia pian piano spazio agli odori delle spezie, del sudore e della frutta che matura lentamente, che si aggiungono a quello della terra che la pioggia ha trasportato a valle dalle colline circostanti. A Kimironko, comunque – e in tutto questo sovraffollato paese che conta 12 milioni di abitanti – un elemento è palesemente assente. La maggior parte degli altri mercati sub-sahariani sono sommersi di plastica – i sottili sacchetti semitrasparenti utilizzati per impacchettare carni e spezie e i più pesanti sacchi neri per i prodotti – e una moltitudine di entrambi svolazza nell’aria, finendo per intasare scarichi, o per cadere a terra e mescolarsi al fango. In Ruanda, produzione, vendita e uso di polietilene sono illegali dal 2008, con pene per i trasgressori che vanno da multe salate a periodi di detenzione. E nonostante permanga un redditizio mercato nero per i sacchetti di plastica, la maggioranza dei ruandesi è passata a soluzioni alternative riusabili o biodegradabili.
Jonathan W. Rosen è un giornalista che vive a Kigali in Ruanda, e reporting fellow per il 2016 della Alicia Patterson Foundation. Cyril Ndegeya è un fotoreporter freelance ruandese che lavora per la Associated Press. Ha aiutato Rosen a trovare i contatti per la sua storia.
Al Kimironko, questo significa business per i locali come Theoneste Vuguziga, che, in uno stand del
mercato, vende una grande varietà di borse per la spesa. Appesi ai ganci ci sono gli articoli più vistosi e costosi: borse di tessuto dai colori brillanti ed enormi borse di carta cerata importate dall’India, decorate con immagini di elefanti, grandi felini e montagne dalle cime innevate che – in questo contesto – appaiono in qualche modo fuori luogo. Il prodotto più venduto da Vuguziga, comunque, è il più abbordabile economicamente: una semplice borsa di carta marrone che costa 100 franchi ruandesi, l’equivalente di circa 13 centesimi di dollaro statunitense o di 12 centesimi di euro. Sebbene il guadagno di Vuguziga sia modesto, le borse lo aiutano a sfamare la sua famiglia e a contribuire a quello che la maggior parte dei venditori e acquirenti vede come un’esperienza di mercato più attenta all’ambiente per non dire piacevole. “Prima della messa al bando, le buste di plastica erano ovunque”, dice Rebecca Niyongabo, una cliente che sta acquistando fagioli a un banchetto vicino. “Il vento le sollevava in aria; i bambini le mangiavano; la gente le bruciava con l’immondizia e l’intero vicinato ne respirava la puzza. Era un disastro.” Nonostante la messa al bando delle buste di plastica in Ruanda per molto tempo abbia fatto notizia a livello internazionale, la legge in sé è pressoché unica. Dalla fine degli anni ’90, diversi governi municipali, provinciali o nazionali hanno applicato una legislazione simile, ma di solito con risultati diversi. Nel 2002 il Bangladesh è diventato il primo paese al mondo a vietare i sacchetti di plastica, che avevano intasato il sistema fognario e contribuito al verificarsi di inondazioni catastrofiche. Altre nazioni, tra cui molte africane, hanno fatto lo stesso. Secondo l’Earth Policy
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In alto: Il Ruanda è stato vicino all’autodistruzione, ma adesso è diventato uno dei primi paesi africani per sviluppo e imprenditoria. KN 3 Road è il viale principale che porta al Central Business District di Kigali, la capitale del Ruanda. Kigali è risultata, dopo diverse valutazioni, la città più pulita e verde del continente
Institute di Washington D.C. (dati 2013), 19 paesi del continente hanno applicato divieti totali o parziali, spesso prendendo di mira le buste più sottili che sono quelle più facilmente trasportate dal vento. Questo inasprimento della battaglia al polietilene è stato motivato da diversi fattori: tra questi il contributo dei sacchetti alle inondazioni e alla degradazione del suolo e il rischio che vengano ingeriti, con conseguenze spesso fatali, dagli animali. In Mauritania, che ha bandito le buste di plastica nel 2013, il 70% delle morti di pecore e bovini del paese è da imputare alla ingestione dei sacchetti. Il bando del Ruanda, comunque, è eccezionale per un importante aspetto: viene applicato con rigore. A differenza di quello che succede in altri paesi che hanno approvato leggi simili, le agenzie ruandesi preposte al controllo della legalità e i gruppi ambientalisti hanno dato alla campagna contro i sacchetti di plastica un’alta priorità. Seguendo l’applicazione della legge, la Rwanda Environment Management Authority (Rema), un’agenzia che fa capo al ministero per le Risorse naturali, ha lanciato una campagna nazionale per far conoscere l’esistenza del divieto ed educare i bambini e gli adulti a riconoscerne l’importanza. Oggi, cartelli al Kigali International Airport e presso molte frontiere avvisano i visitatori del fatto che le buste di plastica verranno confiscate. Nei mercati di tutto il paese, è ancora possibile trovare ambulanti che vendono frutta o dolci avvolti nella plastica, o venditori abusivi di sacchetti
di polietilene che li commerciano agli angoli delle strade o nei vicoli interni. Ma la maggior parte dei ruandesi rispetta la legge. Nelle interviste, alcuni venditori del Kimironko Market hanno raccontato di visite di ispettori in incognito. Chi viene sorpreso a usare plastica non biodegradabile, hanno detto, deve pagare una multa di 50.000 franchi ruandesi (61 dollari statunitensi, 67 euro), sufficiente a convincere la maggior parte dei commercianti a osservare la legge. Il successo della messa al bando è anche parzialmente dovuto alla cultura tradizionale ruandese, che enfatizza l’obbedienza all’autorità e la pulizia. Kigali, che è ampiamente riconosciuta come una delle città più pulite dell’Africa, ha ricevuto il premio UN Habitat Scroll of Honour nel 2008 per il suo distinguersi come “moderna città modello”, anche grazie alla raccolta dei rifiuti migliorata e alla “tolleranza zero sulla plastica”. A differenza di quanto avviene negli stati confinanti con il Ruanda, dove i viaggiatori buttano regolarmente i rifiuti dai finestrini dei veicoli, qui la sporcizia è quasi inesistente. “I ruandesi sono un popolo orgoglioso” dice Rose Mukankomeje, direttrice generale della Rema che si autodefinisce “sostenitrice” della messa al bando delle buste di plastica. “Non ci piace lo sporco. La nostra nazione non è un bidone dell’immondizia.” Come ci spiega Mukankomeje, il divieto relativo ai sacchetti di plastica è solo parte di una più ampia strategia nazionale per la conservazione,
Tutte le immagini ŠCyril Ndegeya
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In alto: Borse di plastica biodegradabile in vendita al mercato, da utilizzare per gli acquisti dopo la messa al bando delle buste di plastica non biodegradabile A destra: Marionne Muteteri, venditrice di fagioli, per servire la sua merce utilizza buste fatte con i foglietti delle scommesse acquistati a poco prezzo nelle sale giochi locali
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In basso: Attività di produzione in corso all’interno di Eco Plastic Ltd, la più grande azienda manifatturiera del Ruanda. L’impianto, che dista 15 km dal centro di Kigali, produce prodotti in plastica riciclata
che punta a rafforzare la resilienza ai cambiamenti climatici, combattere la deforestazione e prevenire la continua erosione delle famose colline del paese immerse nella foschia. Sebbene ancora non sia stato fatto uno studio quantitativo per valutare l’impatto specifico della legge, secondo Mukankomeje il divieto ha contribuito a ridurre la moria di animali, l’erosione del suolo, le inondazioni. Contenendo persino la malaria, grazie alla riduzione dei terreni potenzialmente ideali per lo sviluppo di larve di zanzare. In aggiunta, sostiene, l’impegno del Ruanda nella difesa dell’ambiente ha aiutato a generare un crescente mercato per il turismo ecologico, favorito dalla presenza di alcuni degli ultimi gorilla di montagna al mondo. Lentamente, la reputazione del Ruanda in tema di ordine, pulizia e bellezza naturale sta cominciando a superare la pessima opinione che la gente si era fatta del paese, a distanza di 22 anni dal genocidio del 1994, durante il quale milioni di persone di etnia Tutsi e di Hutu moderati furono trucidati in soli 100 giorni. Qualunque ruolo abbia avuto la messa al bando delle buste di plastica nel migliorare l’immagine del Ruanda, comunque, ciò ha avuto anche alcune conseguenze indesiderate. Il problema principale
A sinistra: Una busta di carta contenente un chilo di fagioli utilizzata al mercato di Kimironko. Alcuni venditori riutilizzano così i foglietti per le scommesse dopo la messa al bando dei sacchetti di plastica
per commercianti e clienti è il costo. Michael Rozanski, un panettiere tedesco di Kigali, afferma che i sacchetti di carta cerata che usa per impacchettare il pane costano da quattro a cinque volte di più rispetto a quelli di plastica. Al Kimironko, la maggior parte della carne e del pesce, a causa della mancanza di alternative locali, viene impacchettata in buste di plastica biodegradabile importate dalla Gran Bretagna, il cui costo viene scaricato sui consumatori. In uno sforzo per essere competitivi, alcuni venditori si inventano alternative creative. Invece di alzare i prezzi, Marionne Muteteri, una venditrice di fagioli a Kimironko, serve il suo prodotto in sacchetti da un chilogrammo fatti con i foglietti delle scommesse che acquista a buon mercato dalle sale scommesse locali. Gli acquirenti, quindi, arrivano a casa con un valore aggiunto: i pronostici di partite di calcio già giocate nella Premiere League della Bielorussia, nella K-League della Corea del Sud e nella Bundesliga tedesca. L’aumento dei prezzi legato alla messa al bando dei sacchetti di plastica, comunque, è stato più ingente per le aziende locali. Dato che la legge viene applicata alla maggior parte degli imballaggi in plastica, le aziende che producono
In alto: Un venditore conta le sue borse biodegradabili. La maggior parte dei clienti che vengono al mercato le usa per trasportare gli acquisti
cibo impacchettato, bevande e prodotti per la casa sono state costrette a cambiare il sistema di distribuzione dei loro prodotti. A causa di obblighi contratti con la ratifica di vari trattati commerciali internazionali, però, il governo ruandese non può impedire l’uso delle confezioni di plastica per le merci che importa: il che mette le aziende locali in condizioni di netto svantaggio. Secondo Alex Ruzibukira, un funzionario del ministero del Commercio e dell’Industria ruandese, le autorità stanno cercando di risolvere questo problema. C’è già, ci dice, un investitore che ha iniziato la costruzione di una fabbrica locale per la produzione di plastica biodegradabile. Inoltre sta per esser avviato uno studio del governo per valutare la fattibilità di un impianto di impacchettamento integrato; entrambe le iniziative potrebbero potenzialmente ridurre i costi per i produttori. Ciononostante, molte aziende ruandesi interessate affermano che la possibilità di eccezioni alla regola avrebbe causato parecchi mal di testa in meno. “Su questo tema abbiamo fatto azione di lobbying sul governo per molti anni”, afferma il dirigente di un’azienda locale che ha chiesto di rimanere anonimo. “Non è cambiato niente, e non crediamo che cambierà. Quindi siamo solo stati costretti ad adattarci.” Ci sono alcuni imprenditori locali, comunque, che hanno operato per volgere a loro vantaggio la guerra alla plastica condotta dal paese. Wenceslas Habamungu, il direttore generale della Eco Plastic Ltd, è uno di questi. Nel 1999, quando molti dei viali, ora pulitissimi, di Kigali erano ancora invasi dall’immondizia, lui e suo fratello Paulin Buregea fondarono la Copet, la prima compagnia privata ruandese per la raccolta dei rifiuti. Nove anni più tardi, dopo l’entrata in vigore della legge, ebbero una fase di stallo. Nonostante le autorità avessero garantito alla loro azienda un’eccezione alla
regola, che avrebbe permesso loro di continuare a usare sacchi di plastica per la raccolta dei rifiuti, in pratica ciò era impossibile visto che tutti i produttori locali di plastica o erano falliti o si erano trasferiti negli stati confinanti. Dopo un incontro con le autorità, si trovarono a dover scegliere tra l’importare sacchi seguendo regole ferree o creare un impianto di riciclaggio per produrle direttamente loro. Alla fine i due fratelli hanno scelto la seconda opportunità. Dopo tutto, mentre la legge era dura riguardo la regolamentazione degli imballaggi di plastica, essa permetteva l’uso di sacchi di plastica per gli ospedali, come pure di certi tipi di coperture in fogli di plastica per agricoltura ed edilizia. Al tempo stesso, la plastica usata per impacchettare i prodotti importati, solitamente confiscata alla dogana, rappresentava una pronta fornitura di materiale da riciclare. Oggi, sei anni dopo la sua fondazione, la Eco Plastic Ltd raccoglie più di 80 tonnellate di polietilene all’anno, producendo in serie sacchi gialli per i rifiuti ospedalieri, condutture per i vivai, per l’immagazzinamento dei raccolti e quelli per raccolta dei rifiuti usati dalla Copet di Buregeya. La fabbrica, come i prodotti che realizza, rimane nascosta alla vista, situata sul fianco di una collina vicina a una strada sterrata fuori dalla capitale. Qui, appena dentro i cancelli, file di copri materassi scartati, reti antizanzare e risme di fogli da imballaggio a bolle d’aria sono appesi ad asciugare al sole del pomeriggio dopo essere stati lavati da alcuni degli oltre 50 dipendenti della Habamungu. Presto, la plastica verrà riportata nella fabbrica, miscelata ad additivi e colori e pompata attraverso una serie di macchine che la riscaldano a 180 °C e la rimodellano in vari prodotti riciclati. È questo lo stile del Ruanda riguardo alla plastica: ordinato, rispettoso della legge e più possibile nascosto.
In alto: L’atmosfera generale nel mercato di Kimironko, uno dei più grandi della capitale del Ruanda, Kigali
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Fiori D’AFRICA Oggi in oltre 20 paesi africani è vietato – in modo totale o parziale – usare le buste di plastica. Ma la norma viene spesso aggirata e i sacchetti illegali continuano a essere utilizzati. Anche se il rischio è alto: multe salate e la possibilità di finire in prigione. di Roberto Giovannini
Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.
Noi europei siamo abituati a pensare di essere sempre all’avanguardia nella difesa dell’ambiente. Possiamo mostrare al mondo come si protegge la natura e si riduce lo spreco di risorse. E soprattutto possiamo insegnare quel che sappiamo fare, tanto per cominciare, alle inconsapevoli e arretrate popolazioni dei paesi meno sviluppati. Bene, se fate parte dei troppi che la pensano così, forse è il caso di abbandonare tali pregiudizi e convinzioni che – semplicemente – non hanno fondamento. Un esempio su tutti: la questione dei sacchetti di plastica, su cui gli evoluti europei hanno molto da imparare da quanto è stato fatto in Africa, errori compresi. Gli shopper sono un oggetto comune, praticissimo, ma che si è talmente diffuso da rappresentare una minaccia per l’ambiente e per noi umani: possono durare per secoli, sono un pericolo per gli animali e la natura, generano grandi flussi di emissioni di gas serra ed è difficile smaltirli. In Italia ce ne siamo accorti, tanto è vero che dal 2011 siamo uno dei pochissimi paesi europei che ha messo al bando i sacchetti di plastica non biodegradabili (anche se il traffico dei sacchetti illegali continua, purtroppo). Altre nazioni europee hanno scelto invece la strada della penalizzazione economica, introducendo tasse o imposte addizionali. Il risultato è che le buste di plastica continuano a essere largamente utilizzate e dunque a creare problemi.
Molto più coraggio, invece, hanno avuto in Africa: qui ben ventisette paesi sono ricorsi a veri e propri divieti – totali o parziali – delle buste di plastica, oltre che a forme di tassazione e penalizzazioni varie. Lo stato con la normativa forse più rigida ed efficacemente applicata è il Ruanda. Viceversa in altri paesi i divieti vengono aggirati o non rispettati, come in Mauritania o in Sudafrica. Ma gli esempi virtuosi non mancano: cominciano a nascere imprese – piccole e grandi – impegnate nella produzione di sacchetti biodegradabili o derivati da materiali non inquinanti, e inizia a ridursi l’utilizzo di quelli illegali. Quanto siano dannose le buste di plastica, forse, non c’è neanche bisogno di spiegarlo. Pratiche, leggere, igieniche, poco costose, resistenti e riutilizzabili, ma al tempo stesso difficilissime da distruggere. Perché i sacchetti di plastica tradizionali sono fatti di polietilene ad alta densità (Hdpe), una sostanza che non si biodegrada e che se conservata in un ambiente anaerobico (per esempio in fondo a una discarica) può durare anche per mille anni. E così ce le ritroviamo in mare, nelle orrende “isole di immondizia” fatte soprattutto di plastica che galleggiano nei nostri oceani. Passando per i rami della catena alimentare, le buste e gli altri materiali plastici non solo avvelenano la fauna marina e gli uccelli, ma anche noi umani. Tutti gli additivi tossici che contiene uno shopper – sostanze antifiamma, antimicrobici e altro ancora – vengono infatti rilasciati nell’ambiente. Secondo il Wwf,
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ogni anno, almeno centomila tra balene, foche e tartarughe muoiono per aver incontrato sulla loro strada dei sacchi di plastica. Sulla terraferma i sacchetti fanno strage di pecore che li mangiano scambiandoli per fiori, tra gli arbusti o sugli alberi; in Mauritania – per esempio – sono responsabili del 70% delle morti degli animali lasciati al pascolo. Non solo: le buste di plastica creano grandi problemi alle infrastrutture, a cominciare dai canali, dai sistemi di smaltimento delle acque e dalle fogne, spesso del tutto intasate da questi oggetti quasi indistruttibili. Un problema ancor più serio nei paesi in via di sviluppo, dove i sistemi fognari sono meno moderni ed efficienti, e dove le acque stagnanti possono creare seri problemi sanitari per la presenza di insetti e parassiti. Va da sé che quando parliamo di Africa non avrebbe senso attendersi né il senso civico dei cittadini, né tantomeno l’efficienza amministrativa delle varie istituzioni tipici – per esempio – di un paese scandinavo. I cittadini di questi paesi molto spesso hanno redditi così bassi da non poter sostenere né le imposte disincentivanti, né l’acquisto di sacchi alternativi e non inquinanti che costano molto ma molto di più. E non aiuta certo il fatto che in questi paesi normalmente i commercianti al dettaglio vendano ai consumatori le merci sfuse e in piccole quantità, inevitabilmente ricorrendo ai pratici sacchetti di plastica. Come non si può dimenticare che il cosiddetto “settore informale” – ovvero lo scambio e il commercio
di beni e servizi sommerso o al nero, per definizione grande consumatore di plastica e lontano dai controlli delle autorità – in questi paesi rappresenta oltre l’80% dell’economia. Ancora, si comprende bene che in molti casi le autorità di controllo dispongano di mezzi modesti e abbiano ben altre gatte da pelare e priorità. Infine, ricordiamo che a complicare ancor di più questa “guerra” in molti paesi africani c’è l’abitudine di vendere acqua (teoricamente) potabile in sacchetti di plastica, ovviamente per l’assenza di acquedotti e di fontane in grado di distribuire acqua trattata in modo corretto. Un problema serissimo per la salute pubblica, visto che a parte la possibile contaminazione dell’acqua – in molti casi appunto non potabile e fonte di malattie di ogni tipo – il polietilene sottile delle buste esposto al sole si deteriora presto rilasciando nel liquido contenuto particelle di materiale. Il punto della situazione Una premessa obbligata, questa, per poter dare una valutazione corretta dell’efficacia – a volte notevole, a volte invece molto modesta – delle politiche contro gli shopper di plastica. Come detto, il primo paese africano a muoversi contro i sacchetti di plastica è stato il Ruanda, che già nel 2004 ha introdotto una prima misura disincentivante per arrivare alla loro totale messa al bando nel 2008 (introducendo però anche incentivi fiscali per incoraggiare le imprese
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materiarinnovabile 11. 2016 a riciclare). A seguire l’Eritrea che li ha vietati nel 2005 e il Kenya che, dopo una prima messa al bando del 2007 sostanzialmente fallita, nel 2011 ha avviato un piano meno ambizioso e più limitato. Datato 2006 è il divieto su scala nazionale emanato dal Tanzania: la vendita o l’importazione di shopper sottili può costare l’equivalente di 2.000 dollari di ammenda e sei mesi di prigione. In Botswana nel 2007 è arrivata un’imposta che è stata riversata sui consumatori dai dettaglianti, con la ovvia conseguente riduzione dell’utilizzo. In Sudafrica è in vigore una politica simile a quella dell’Uganda: le buste di plastica più leggere – che localmente erano state chiamate i “fiori nazionali” per quanto erano diffuse e onnipresenti nei campi – sono state vietate, mentre quelle di spessore maggiore sono state tassate. A distanza di anni però il bilancio non è positivo. Pochi rispettano il divieto di usare le buste leggere; la tassa di sei centesimi di rand non è mai stata – come promesso – destinata all’attività di riciclaggio e recupero della plastica, e complessivamente la legge è riuscita solo a ridurre di circa un terzo (da 12 a 8 miliardi ogni anno) il numero delle buste di plastica utilizzate nel paese. Nell’aprile del 2015 anche il Senegal ha approvato all’unanimità una legge che proibisce la produzione, l’importazione, il possesso e l’utilizzo di shopper di plastica; lo stesso ha fatto il piccolo stato del Gambia, sempre in Africa occidentale. Altri paesi che hanno varato misure per limitare l’uso degli shopper sono la Guinea-Bissau, il Mali (dal 2013), il Gabon (dal 2010), l’Etiopia (dal novembre del 2011) e il Malawi. In Mali i deputati hanno votato all’unanimità una legge che dall’aprile del 2013 vieta produzione e commercializzazione di tutte le plastiche non biodegradabili. Per concludere con il Marocco che dal luglio 2016 ha messo al bando la produzione, l’importazione, la vendita e l’uso di buste di plastica (chiamate mika), a parte quelle utilizzate in agricoltura, nell’industria e per la raccolta dei rifiuti. E le proteste non sono mancate in alcuni casi. È successo in Costa d’Avorio, dove è stato vietato l’utilizzo della plastica per commercializzare acqua “potabile”. Specie nella capitale, Abidjan, questo divieto ha messo in ginocchio molte piccole imprese che imbustano e vendono acqua di dubbia provenienza e pessima qualità, con conseguenti manifestazioni di piazza conclusesi con duri scontri tra polizia e manifestanti. In Mauritania dal gennaio 2013 è stato vietato l’utilizzo, la produzione e l’importazione di buste di plastica: sulla carta, chi produce sacchetti in questo grande e spopolato paese saheliano può subire una pena fino a un anno di prigione o pagare multe fino a 2.500 euro (un vero e proprio patrimonio). Anche qui però, secondo le cronache locali, finora la popolazione pur mostrandosi favorevole alla nuova norma di fatto l’ha aggirata: spesso non ci sono reali alternative all’utilizzo della buste di plastica, comunemente chiamate zazous. Secondo alcune stime ogni cittadino mauritano utilizza sette zazous al giorno, un quantitativo che sembra essersi leggermente ridotto, ma la sostituzione con buste di carta o di altro materiale non è andata realmente
Andrew Mupuya Sembra una storia d’altri tempi. Il giovane Andrew Mupuya, ugandese, nel 2008 fonda a vent’anni una start-up con appena 14 dollari: la Youth Entrepreneurial Link Investments, prima azienda produttrice di sacchetti di carta del suo paese. La messa al bando dei sacchetti di plastica ne è la ragione e la fortuna. Vincitore del Anzisha Prize nel 2012 come giovane imprenditore africano, oggi serve aziende, negozi e supermercati di Kampala. Andrew Mupuya è anche un attivo comunicatore, presente su social network e siti internazionali.
avanti. Per constatarlo basta fare due passi per le vie di Nouakchott, la capitale: i sacchetti sono onnipresenti, sia per terra sia utilizzati per la raccolta dei rifiuti. Nel 2007 l’Uganda ha varato una legge che vieta la vendita delle buste di plastica più sottili, quelle di spessore inferiore ai 30 micron. Secondo molti osservatori, però, in realtà il divieto non viene rispettato, e il calo nell’utilizzo degli shopper di plastica – qui chiamati kaveera – è stato molto limitato. Il bando, scattato dal 2010, è oggettivamente rimasto soltanto teorico, e agli imprenditori del settore è stato promesso di essere coinvolti nell’attività di recupero e riciclaggio dei sacchetti teoricamente illegali. Successivamente, di fronte al sostanziale fallimento del programma è scattato un giro di vite contro i produttori di kaveera: 20 fabbriche hanno dovuto chiudere i battenti, e periodicamente l’agenzia ambientale, la Nema, effettua raid e sequestri di sacchetti illegali che sembrano provenire dal vicino Kenya. Secondo i dati della stessa agenzia ambientale, ogni anno quasi 39.000 tonnellate di buste si disperdono nell’ambiente finendo nei campi e anche nel letame animale che spesso viene utilizzato come combustibile nelle zone più povere. Il governo spende 10 milioni di scellini ugandesi (2,5 milioni di euro circa) per liberare le fognature della capitale Kampala dai sacchetti. Con qualche fatica, comunque, in Uganda stanno emergendo giovani
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imprenditori che hanno colto l’opportunità del bando delle buste di plastica per avviare una propria impresa. È il caso di Andrew Mupuya, oggi soltanto 24enne, che vendendo 70 chili di bottiglie di plastica vuote che aveva raccolto e facendosi prestare l’equivalente di tre dollari dal suo insegnante ha messo insieme i 14 dollari Usa necessari a far partire una “fabbrica” di buste di carta, di cui aveva appreso la tecnica di fabbricazione guardando un video su YouTube. Oggi la sua azienda, chiamata Yeli, impiega 20 persone e produce 20.000 buste di carta ogni settimana per i ristoranti e supermercati della capitale. In Ruanda un problema serio è quello del contrabbando. Qui i sacchetti illegali provengono dalla Repubblica Democratica del Congo, che pur avendo dal 2012 vietato commercializzazione, importazione e utilizzo di shopper di plastica ne consente la produzione su autorizzazione del ministero dell’Industria. A svolgere il mestiere del trafficante sono delle donne – coracora, vengono chiamate – che nascondono da 50 a 100 buste sotto i vestiti sfidando le perquisizioni e le multe salate: fino a 300.000 franchi ruandesi (431 dollari) per chi le vende, fino a 100.000 (143 dollari) per chi le usa. A volte, chi viene beccato dalle guardie di frontiera prende anche un bel po’ di botte. Aggirare la legge
in fondo non è difficile, ma anche visivamente la differenza salta agli occhi: dalla parte congolese della frontiera, verso la città di Goma, la strada e i campi sono costellate di plastica strappata, dalla parte ruandese, verso la città di Gisenyi, non c’è quasi traccia di plastica per terra e nei campi. In Camerun un consumatore che chiede un sacchetto di plastica deve pagare una tassa di 100 franchi Cfa, ovvero 15 centesimi di euro: una imposta molto alta. Tuttavia, anche in Camerun è relativamente facile aggirare il divieto: per adesso il bando ha sostanzialmente avuto il solo effetto di aver triplicato o quadruplicato il prezzo delle buste illegali di plastica, che in questo caso provengono dalla Nigeria e costano non poco: 5 dollari per un pacco da cento. Il governo tutto sommato si aspettava che i distributori e i commercianti – come del resto è stato fatto a suo tempo in Italia – facessero grandissime scorte di buste finché erano ancora legali, per poi rivenderle a prezzi maggiorati una volta in vigore il divieto. Per adesso solo supermercati, forni e farmacie rispettano davvero la legge offrendo (a pagamento, non certo facendo felici i consumatori) delle buste di carta. Si parla così dell’introduzione di una norma davvero draconiana: una multa dell’equivalente di 30 dollari (in alternativa a qualche settimana in prigione) per chiunque sia sorpreso con una busta di plastica.
Con qualche fatica, comunque, in Uganda stanno emergendo giovani imprenditori che hanno colto l’opportunità del bando delle buste di plastica per avviare una propria impresa.
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Quando il prestito è SOCIAL Cresce la domanda di credito da parte delle famiglie italiane: +20% nel primo trimestre 2016. Ma per soddisfarla c’è chi – in Italia e non solo – non si rivolge più alle banche ma preferisce ricorrere al social lending. di Silvia Zamboni
1. I dati pubblicati nell’articolo sono ricavati dalla ricerca Peer-to-peer lending: mito o realtà? svolta da Sda Bocconi su dati 2015 per conto di Crif; dall’intervento di Tommaso Gamaleri Italy Ceo di Younited Credit al convegno “Osservatorio Credito al dettaglio”, tenutosi a Milano 15 giugno 2016; da interviste dell’autrice a Smartika e Prestiamoci.
Prestiamoci, www.prestiamoci.it Smartika, www.smartika.it/it/ index.html
Alzi la mano chi è sorpreso del fatto che la fiducia degli italiani nel sistema bancario sia ai minimi storici, franata dal 30% incassato nel 2005 al 10% di fine 2015. Un primato negativo che, stando al sondaggio condotto nel dicembre scorso da Demopolis, le banche contendono solo ai partiti, apprezzati da appena il 4% degli italiani. Meno scontato che – in tempi in cui la ripresa economica mostra percentuali da prefisso telefonico – cresca invece a doppia cifra la domanda di credito al dettaglio. Lo evidenziano i risultati dell’“Osservatorio sul credito al dettaglio”, curato da Assofin (l’associazione dei principali operatori bancari e finanziari del credito al consumo e immobiliare), Crif e Prometeia: nel primo trimestre del 2016 il mercato del credito alle famiglie ha registrato nel complesso (compresi quindi i mutui immobiliari e i crediti delle concessionarie per l’acquisto di auto e moto) un incremento del +20,3%. In particolare, è cresciuto del 18,4% il volume dei prestiti personali, il canale contrassegnato dai flussi più consistenti. È all’interno di questa forbice, tra crollo della reputazione degli istituti bancari da un lato e crescente domanda di credito al consumo dall’altro, che anche in Italia si potrebbero aprire nuove opportunità per il social lending, il prestito sociale tra persone, conosciuto anche come peerto-peer o P2P lending (prestito tra pari), lend-to-save (prestito a fini di risparmio), e crowd-lending e credit crowdfunding (raccolta di fondi finalizzata al credito personale). E chissà se le turbolenze postBrexit contribuiranno ad abbassare ulteriormente l’appetibilità degli investimenti nei circuiti bancari tradizionali. Completamente digitalizzato e gestito su piattaforme web, il social lending è una promettente declinazione della sharing economy nata nei paesi di lingua anglosassone per far incontrare online le esigenze di chi ha bisogno di un prestito personale con quelle di singoli prestatori privati in cerca di
forme d’investimento trasparenti e più appetibili per rendimento rispetto a conti di deposito bancari, Btp e obbligazioni. Il rapporto richiedenteprestatore è regolato solo online e la conseguente eliminazione dell’intermediazione bancaria – e dei relativi costi – sono i due tratti distintivi del social lending. E mentre l’Italia sta ancora muovendo i primi passi con le piattaforme Prestiamoci (partita nel 2009) e Smartika (attiva dal 2011), in Usa, Regno Unito, Germania, Svezia, Francia e Spagna il save-to-lend ha già uno status più consolidato. Basti pensare che le prime quattro piattaforme attive negli Usa e nel Regno Unito – Lending Club, Prosper, Zopa e Rateseller – avviate tra il 2005 e il 2010, nel 2015 avevano già erogato oltre dodici miliardi e mezzo di euro di prestiti (per l’esattezza 12.665.089.822 euro, vedi il box).1 Al punto che nel 2014 Lending Club è stata quotata in Borsa superando di oltre il 60% il prezzo di collocamento, un risultato che ha permesso alla società di raccogliere 870 milioni di dollari con un valore di capitalizzazione pari a circa 9 miliardi di dollari. Ma se per la raccolta di risorse finanziarie la piattaforma Usa ha fatto il salto nell’economia borsistica tradizionale, sul fronte dei prestiti è rimasta fedele al profilo classico del credit crowdfunding. Lending Club, infatti, si rivolge a chi necessita di prestiti di importo medio inferiore ai 20.000 dollari, richiesti in genere per il rifinanziamento o il consolidamento di debiti, per ristrutturazioni domestiche, spese universitarie e mediche, acquisti di beni importanti. Ma torniamo all’Italia e vediamo cosa propongono a richiedenti e prestatori Smartika (che con complessivi 23 milioni di euro di prestiti erogati dall’anno di attivazione a maggio 2016 copre l’80% del mercato italiano del peer-to-peer lending) e Prestiamoci (approdata a circa 3 milioni di euro). Con una premessa: anche per accedere ai prestiti di queste piattaforme occorre superare
Policy un’istruttoria sulla propria affidabilità per la restituzione. Il tan (tasso annuo nominale, ndr) di Prestiamoci “oscilla tra 3,90 e 14,01% e la taglia massima dei prestiti è 25.000 euro”, snocciola l’Ad Daniele Loro. “I prestiti-investimenti medi sono sui 4.000 euro in un range che va da 2.000-2.500 euro a 40-50.000 (più rari). Il rendimento lordo, a seconda della classe di rischio scelta dall’investitore, viaggia tra il 6,5 e l’8%, essendo pochi i crediti assegnati in classe di interesse passivo del 14,1%. Per mancata restituzione, pari a una penalizzazione del rendimento dell’1,5%, dal 6,80% medio si scende intorno al 5,30.” Più contenuta è la soglia massima dei prestiti fissata da Smartika: 15.000 euro. Il tan, in funzione anche della durata della restituzione, varia dal 2,85% per un conservative su 12 mesi, al 6,06% per un dynamic a 48 mesi. La classe di rendimento-rischio anche in questo caso è scelta dall’investitore. Va precisato, inoltre, che entrambe le piattaforme frazionano gli investimenti su più prestatori per spalmare il rischio di mancata restituzione.
Silvia Zamboni, giornalista professionista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.
Alternativo al mercato finanziario convenzionale dei prestiti non fa rima però con concessivo: la percentuale di richieste di prestiti rifiutati è del 97-98% per Prestiamoci e del 92% per Smartika, a garanzia dei risparmi degli investitori. Quanto poi alle insolvenze, smaltita la penalizzazione da “nuovo entrante” in avvio di attività “oggi siamo molto meglio del mercato”, risponde Loro per Prestiamoci. “L’indicatore 90+, ovvero la percentuale di prestiti con più di 90 giorni di ritardo, è pari al 1,3% a maggio, molto inferiore a quella dei concorrenti. Quindi chi investe avrà tassi di default più contenuti del mercato”, un risultato che è frutto di un loro percorso di apprendimento, precisa. In caso di insolventi, Prestiamoci incarica una società di recupero crediti per ripristinare il corretto pagamento del piano di ammortamento. Il mancato pagamento viene inoltre comunicato ai Credit Bureau utilizzati dalla piattaforma, con il conseguente rischio di perdita dell’accesso al sistema finanziario italiano. In casa Smartika, “il modello di scoring parametrizzato sulla base di un ‘Bad Rate’, ovvero una percentuale di richiedenti che si possono trovare in uno stato di insolvenza di tre o più rate dopo dodici mesi dall’erogazione, segnala una percentuale di insolvenza sul totale dei prestiti accordati del 9,74%, “tasso che – puntualizzano – identifica la percentuale stimata di posizioni che saranno oggetto di attività di recupero effettuata attraverso personale interno e outsourcer specializzati. Queste attività nel 2015 hanno portato a un tasso di default residuo pari al 2,5% del totale crediti accordati, contro il default medio nel settore bancario sui prestiti al consumo del 6-7%”. Il debitore che non paga le rate viene sottoposto a una serie di azioni di recupero, fallite le quali si passa alle vie giudiziali. Durante il processo di recupero del credito viene sempre data la
possibilità al richiedente di rinegoziare il debito al fine di assecondare le esigenze di chi si trova in difficoltà temporanee non previste, come perdita del posto di lavoro e malattia. Il profilo medio dell’investitore italiano “è quello di un soggetto evoluto che conosce i concetti di diversificazione, volatilità e ha un occhio di riguardo per l’innovazione”, sintetizza Daniele Loro. “Navigando in internet ha scoperto queste forme innovative di investimento e le vuole testare ritenendole più appetibili di quelle tradizionali.” Le destinazioni più frequenti dei prestiti? “Ristrutturazioni domestiche, acquisto di impianti solari, mobilio, auto o anche motivazioni sociali” elenca Loro. Analogamente, i prestatori di Smartika sono collaudati internauti, per lo più uomini (93%), di età compresa tra i 25 e i 55 anni. La motivazione prevalente è la dimensione equo-solidale, seguita dai rendimenti offerti. Chi chiede un prestito è in prevalenza uomo (70%), un quarto delle richieste riguardano la casa – arredamento e ristrutturazione – che copre oltre un quarto (27%) delle richieste, seguita dall’acquisto di auto, moto, camper di seconda mano, spese connesse al matrimonio, rate universitarie, restituzione di prestiti ai famigliari. In forte aumento anche le richieste per cure mediche (5% dei prestiti erogati) che in alcune regioni raggiungono l’8%. Enrica, libera professionista nel settore dell’information technology, ha ben quattro prestiti all’attivo. “Sono molto grata a Smartika – racconta – perché, pur in assenza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, non mi ha scartata come gli istituti di credito a cui mi ero rivolta, ma ha valutato la documentazione, il mio contratto co.co.co e la mia affidabilità personale, e dopo soli dieci giorni mi ha versato i 1.500 euro che avevo richiesto per estinguere una morosità condominiale”. Con successivi due prestiti Enrica ha ristrutturato l’abitazione, mentre l’ultimo le permetterà di realizzare il sogno di frequentare un master in web marketing. Sull’altro fronte, Federico, ricercatore universitario laureato in scienze politiche e relazioni internazionali, alla domanda su cosa l’abbia spinto a diventare prestatore-investitore di Smartika risponde deciso “il carattere etico dell’investimento: si dà e si fa credito ad altri privati, e il rapporto diretto elimina i passaggi oscuri dell’intermediazione bancaria, le sgradite sorprese delle commissioni, i prodotti finanziari complessi e poco trasparenti. La volatilità è bassa e il rendimento più vantaggioso di quelli offerti dal mondo bancario: il mio investimento di 10.000 euro, al tasso d’interesse del 6,80%, escluse la commissione dell’1% a Smartika e le trattenute fiscali, mi ha reso sugli 800 euro – continua. Ogni mese ti rientra una quotaparte del capitale prestato e una degli interessi maturati. Si può scegliere sia la destinazione del prestito-investimento sia la classe di rendimento tra conservativo, bilanciato e dinamico: più alto
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materiarinnovabile 11. 2016 il rischio, più alto il rendimento. Ma dal 2015 Smartika ha introdotto un fondo di garanzia che protegge il prestatore, anche se il rendimento si abbassa leggermente.” Roberto, diplomato, si è rivolto a Prestiamoci. “Avevo bisogno di liquidità e sul web mi sono imbattuto sul peer-to-peer lending. Incuriosito, ho contattato Prestiamoci per avere un prestito di 6.000 euro. A conclusione di un’istruttoria standard, dopo una decina di giorni ho avuto il denaro a condizioni più favorevoli di un credito convenzionale: a parità di numero di mensilità, la rata di restituzione che verso è più bassa, segno evidente che gli interessi passivi sono inferiori.” Matteo lavora in una società di consulenza aziendale. Venuto a conoscenza del social lending tramite il classico passaparola, ne ha approfondito modalità e aspetti etici su internet. “Ho scelto Prestiamoci, una realtà tutta made in Italy, e ho investito-prestato 1.000 euro, sotto forma di investimento automatico: man mano che maturavano le quote, venivano re-investite.” Gli interessi attivi – pari al 5% lordo – che ha incassato gli sono serviti a ripianare prestiti precedenti. “Il bello rispetto a un investimento convenzionale – sottolinea – è che puoi tracciare il percorso dei tuoi soldi e anche decidere concretamente dove investire, sentendoti parte di quel progetto.” Dunque, tassi attivi e passivi più interessanti, trasparenza, velocità, flessibilità. Per Daniele Loro, però, i vantaggi del social lending non si fermano qui: “Per esempio noi non vendiamo altri prodotti collegati al prestito come le assicurazioni spacciate come una protezione a favore del consumatore, mentre si tratta di una maggiorazione occulta e scorretta del tasso di interesse, richiesta subdolamente come conditio sine qua non per l’erogazione del prestito”. Per gettare un ponte tra social lending e green economy, a maggio Prestiamoci ha lanciato un nuovo prodotto nato dalla joint-venture con Evolvere Spa, operatore leader nel settore della generazione distribuita con oltre 8.000 impianti fotovoltaici: è “Prestailsole”, una sorta di “Solar Presti-Bond”, riservato ai prestatori che vorranno investire, con rendimento stabile, i loro risparmi per finanziare i clienti di Evolvere che sottoscrivono il contratto “Tuo” per l’acquisto di impianti fotovoltaici da installare sul tetto di casa. Ma come sta reagendo l’industria del credito alla sfida delle piattaforme di social lending? Intervenendo alla tavola rotonda seguita alla presentazione dei risultati del succitato “Osservatorio Credito al Dettaglio” (Milano, 15 giugno 2016), Vincent Mouveroux, condirettore generale di Agos Ducato, ha risposto “lavoriamo per reinventare il nostro business, per sviluppare l’operatività ‘one-click’, migliorare la conoscenza del cliente e sfruttare l’effetto ‘multicanalità everywhere’, ovvero la connessione permanente tramite gli smartphone, posseduti da due terzi degli italiani, la più alta percentuale in Europa”.
Per Giorgio Orioli, Ad di Consel (istituto legato a Banca Sella) invece non c’è partita per il peer-to-peer lending: i pensionati (sottinteso: poco o per nulla digitalizzati) sono 20 milioni in Italia, ha sottolineato, mentre i millennial (sottinteso: nativi digitali) non hanno soldi da investire. “Anche Consel opera online”, ha precisato Orioli. “La differenza la fanno i prestatori. E per chi ha bisogno di un prestito, l’origine del finanziamento, se istituto di credito o prestatore individuale, non fa alcuna differenza. L’effetto disruptive del digitale riguarda semmai la cancellazione di posti di lavoro: su 300.000 occupati nell’industria bancaria italiana ci sono 100.000 esuberi”, ha concluso. Tommaso Gamaleri, Ad di Younited Credit, la piattaforma francese di peer-to-peer lending che sta preparando lo sbarco in Italia, riconosce che i 340 milioni di euro di prestiti erogati in quattro anni in Francia rappresentano appena lo 0,5-0,7% dell’intero mercato transalpino. Non vede antagonismo ma semmai complementarietà tra i due universi e, pur confermando l’anima online, non esclude “la possibilità di un’interazione tra attività online e presenza offline sul territorio”. Dall’Europa, intanto, è già partita una nuova sfida: il credit crowdfunding alle imprese, detto P2P business lending. Secondo un rapporto di Moody’s del febbraio 2015, alle Pmi nel 2014 sono andati due terzi degli oltre due miliardi di sterline di prestiti peer-to-peer erogati nel Regno Unito, cui si aggiungono 95 milioni di euro nel resto d’Europa (35 in Olanda, 28 nei Paesi scandinavi, 14 in Spagna, 11 in Francia, 7 in Germania). Se sarà disruption, marginalità permanente o complementarietà online-offline lo sapremo vivendo.
La hit-parade del social lending Al primo posto di una virtuale hit-parade mondiale del social lending c’è Lending Club: fondata negli Usa nel 2007 dall’anno di avvio ha già erogato oltre otto miliardi di euro (per l’esattezza, 8.338.250.590). Segue Prosper, partita un anno prima, che ha all’attivo più di due miliardi di euro di erogazioni (2.108.529.374); quindi Zopa, la veterana del social lending targata Regno Unito, che in dieci anni, dal 2005 al 2015, ha superato un miliardo di euro di prestiti (1.274.647.887). Poco sotto il miliardo, (943.661.971 euro) troviamo, sempre in Gran Bretagna, Rasetter, avviata nel 2010, mentre in Francia Younited Credit/Pret d’Union, l’unica piattaforma attiva, ha erogato 340 milioni di euro. In Germania svetta Auxmoney (260.712.850 euro); in Svezia Trustbuddy (236.067.740). In Italia, Smartika (partita come Zopa) a maggio 2016 è arrivata a 23 milioni, mentre Prestiamoci viaggia intorno ai 3 milioni di prestiti.
Policy Intervista
a cura di S. Z.
Tutto parte da un click Luciano Manzo, Ad di Smartika
“Un punto di forza del social lending made in Italy? La crescente sfiducia degli italiani verso il mercato finanziario tradizionale”, risponde Luciano Manzo, Ad di Smartika, che con uno staff di venti dipendenti full-time presidia l’80% del mercato italiano del settore. “Le persone stanno cercando forme di investimento alternative quale è il peer-to-peer lending, che non si presenta come prodotto sostitutivo tout-court, ma offre da un lato soluzioni rapide e trasparenti in fase di istruttoria pre-prestito, e dall’altro un’ottima opportunità di investimento con rendimenti intorno al 6,5%.” I punti di debolezza? “Quelli soliti in cui ci imbattiamo quando si parla di innovazione: scarsa conoscenza del fenomeno. Ma il mercato italiano è un motore diesel: parte lentamente ma poi – metabolizzato il periodo di maturazione – va. L’altro ostacolo è il trattamento fiscale sfavorevole perché gli interessi attivi sono tassati in regime di aliquota marginale. Guardiamo,
però, con speranza al progetto di legge in discussione che propone di modificarlo.” Ci sono aspetti specifici che caratterizzano il profilo di Smartika nel panorama italiano? “Il nostro vantaggio competitivo risiede nell’aspetto operativo: è Smartika che decide dove allocare i fondi che ci vengono affidati, anche se l’investitore può scegliere il livello di rischio, e quindi il livello di rendimento, tra i tre proposti.” I vostri prossimi obiettivi? “Portare a termine il processo di enorme innovazione tecnologica, con grossissimi investimenti per migliorare, tra l’altro, i nostri analytics.”
Intervista
a cura di S. Z.
Unico e trasparente Michele Novelli, presidente di Prestiamoci
Per Michele Novelli, presidente di Prestiamoci, la seconda piattaforma italiana di social lending che opera con uno staff di dieci operatori “i punti di forza del P2P lending in Italia sono: lato prestatore, il fatto di rappresentare un prodotto unico; lato richiedente che ognuno ha la sua valutazione personalizzata di rischio; per entrambi l’approccio trasparente 100% online. I punti di forza di Prestiamoci: attenzione al cliente, prestatore e richiedente che fanno parte di una stessa famiglia e quindi condividono il progetto”. I punti di debolezza? “In generale il social lending in Italia soffre il ritardo nel processo di maturazione digitale in relazione ai prestiti personali. Ma questo problema verrà risolto, come testimoniano il successo delle assicurazioni online e di Amazon nell’e-commerce. Anche il digital divide generazionale inciderà sempre meno. Mentre un punto di debolezza per i prestatori è la tassazione svantaggiosa.”
Quanto conta l’aspetto sociale nel peer-to-peer lending? “Per noi di Prestiamoci conta tantissimo che le persone danno e ricevono soldi tra loro. I prestatori soprattutto sono motivati non solo dal rendimento, ma dal fatto che stanno prestando ad altre persone; ai richiedenti, onestamente, questo aspetto interessa invece di meno.” Pensate anche di coinvolgere investitori istituzionali o resterete nell’ambito dei prestatori individuali? “Gli investitori istituzionali sono importanti per crescere. Il punto discriminante è che la piattaforma è fatta per investitori individuali, per cui anche l’investitore istituzionale deve conformarsi alla stessa modalità di affidamento di capitali che segue l’investitore privato.”
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LE CARTE VINCENTI
della bioeconomia canadese Intervista a Jeff Passmore a cura di Mario Bonaccorso
Abbondanza di biomassa, eccellente rete logistica e politiche a supporto delle imprese e della ricerca. Manca ancora, però, una strategia federale ed è scarsa la consapevolezza tra i cittadini.
Jeff Passmore, attivo da più di 30 anni nel settore delle rinnovabili e della bioeconomia, ha fatto parte del Canada’s National Advisory Board su Energy Science & Technology e del CleanTech Advisory Board del Dipartimento degli Affari esteri e del Commercio internazionale.
Se la biomassa è un elemento essenziale per lo sviluppo della bioeconomia, il paese guidato dal primo ministro Justin Trudeau può rivendicare a ragione un ruolo di leadership nel campo. Non solo: all’abbondante presenza di materia prima rinnovabile, il Canada affianca un’eccellente rete logistica, bassi costi dell’energia e un forte supporto pubblico alle imprese e alla ricerca.
BioAmber, www.bio-amber.com
La pensa così Michael Hartmann, vicepresidente esecutivo di BioAmber, uno dei principali produttori di acido succinico da biomassa a livello mondiale, che proprio in Ontario ha deciso di localizzare il suo impianto commerciale (l’acido succinico oggi è prevalentemente prodotto dal petrolio o dal gas naturale ed è utilizzato in ambito farmaceutico, alimentare e nella produzione di plastiche, ndr) . “Il motivo principale che ci ha spinti a costruire la nostra struttura commerciale in Canada – afferma – ha a che fare con il costo più basso di zucchero ed energia, voci che rappresentano la maggior parte dei nostri costi”. Dopo Arabia Saudita e Venezuela, il Canada è il terzo detentore mondiale di riserve petrolifere, ed è anche il terzo produttore al mondo di gas naturale dopo Usa e Russia (Eni, 2013). Per comprendere come il paese si pone nel processo di sviluppo mondiale della bioeconomia, quali i suoi punti di forza e quali di debolezza, Materia Rinnovabile ha intervistato Jeff Passmore, uno dei maggiori esperti in materia nel paese, già membro del
Cleantech Advisory Board del Dipartimento degli Affari esteri e del Commercio internazionale del Canada e presidente dell’associazione canadese dei combustibili rinnovabili. Quali sono i punti di forza della bioeconomia canadese? “Il Canada vanta un’abbondanza di biomassa, visto che ha una superficie forestale di 348 milioni di ettari (il 10% di quella mondiale) e 67 milioni di ettari di superficie agricola. Fino a oggi, i canadesi hanno fatto buon uso di tale risorsa, con la quale – per esempio – producono circa il 6% dell’elettricità e l’8% dei carburanti per i trasporti. Inoltre, l’utilizzo della biomassa sta rivitalizzando le comunità rurali del paese creando posti di lavoro a livello locale e riducendo le emissioni di gas serra. Di fatto, dal 1990 il settore della carta e della pasta di cellulosa ha ridotto le emissioni assolute di gas serra del 66% passando dall’uso delle fonti fossili alla biomassa. Inoltre in Canada ci sono anche molti governi provinciali e federali che organizzano programmi di sussidi e prestiti finalizzati a sostenere la messa in commercio di nuove tecnologie, specie di quelle che puliscono l’aria, l’acqua e il suolo e/o riducono le emissioni di gas serra. Non solo. Il Canada è anche molto vicino al mercato statunitense che rappresenta un grande sbocco naturale per le esportazioni. Le comunicazioni, i trasporti e il commercio
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Justin Trudeau ©youtube Justin Trudeau – Prime Minister of Canada
Jeff Passmore
tra i due paesi sono ben integrati, il che rende i mercati per le esportazioni di facile accesso. Inoltre, storicamente, il Canada ha sempre esportato molto anche in Europa, quindi le tecnologie nel campo della bioeconomia potranno approfittare anche di questo mercato: in questo senso i progetti rivolti all’estero potranno essere supportati dall’Export Development Canada. Ultimo punto: il Canada vanta anche una forza lavoro composta di professionisti con un alto livello di istruzione.” E quali sono i punti deboli, secondo lei? “Mentre le singole imprese sono passate alla biomassa come risorsa per la generazione elettrica in situ o su larga scala, e ci sono una serie di start-up che operano nell’ambito degli zuccheri cellulosici e dei biocombustibili avanzati, c’è in generale ancora molta ignoranza sulla bioeconomia: manca una strategia nazionale e a livello di provincia, anche se alcune province come la Columbia Britannica e l’Alberta hanno imposto tasse sul carbonio che spesso agevolano la commercializzazione della tecnologia pulita.” Quali politiche vigono in Canada a supporto della bioeconomia? “Una delle maggiori agenzie che potrebbe supportare progetti legati alla bioeconomia
è la Sustainable Development Technology Canada (Sdtc). Per esempio se si riesce a dimostrare che un progetto pulirà l’aria, l’acqua o il suolo e/o ridurrà le emissioni di gas serra, tale progetto potrebbe aver diritto ai finanziamenti dell’Sdtc. Allo stesso modo se apporta dei benefici al settore agricolo, potrebbe usufruire dei finanziamenti dell’Agriculture Canada. Oppure, se un progetto viene realizzato in Alberta, potrebbe aver accesso ai finanziamenti del Climate Change and Emissions Management Corporation. Così come potrebbe richiedere un prestito all’Export Development Canada se prevede di esportare almeno il 50% della sua produzione. Ma poiché alcuni di questi progetti offrono sussidi e altri prestiti a interessi ridotti, è necessario fare domande separate. È opportuno, però, partire con l’Sdtc perché se vengono approvati i finanziamenti in questa sede, ci saranno più possibilità che si aggiungano quelli di altre istituzioni. In alcuni casi, è possibile ‘accumulare’ questi programmi governativi per un massimo del 60% del costo del capitale totale del progetto. Per quanto riguarda i carburanti rinnovabili, dal 2010 il gasolio deve obbligatoriamente contenere almeno il 5% di etanolo. Anche molte province hanno dei vincoli sull’etanolo. Ciò ha portato a realizzare diversi stabilimenti
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Canada vanta un programma di prestiti denominato ‘Growing Forward’ attraverso il quale è possibile ricevere finanziamenti per i progetti che sostengono o rinnovano il settore agricolo. A mio avviso, sarebbe una buona strategia imprenditoriale costruire in Canada – approfittando di finanziamenti e regimi fiscali favorevoli – ed esportare nel resto del mondo.”
per l’estrazione di etanolo dai cereali. Per legge poi, i carburanti devono contenere almeno il 2% di biodiesel.”
Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.
Enerkem, Renmatix, BioAmber: queste sono solo alcune delle imprese che hanno abbracciato la bioeconomia e si sono stabilite in Canada. Perché il Canada attira tante imprese? “Per vari motivi: programmi di finanziamento federali e provinciali; prossimità ai mercati statunitensi; politiche progressiste a livello delle singole città mirate ad attirare le industrie; strutture fiscali allettanti; impegno verso le tecnologie pulite; presenza di ottime università e centri di formazione professionale; ampia comunità di ricerca e sviluppo in grado di offrire opportunità per una continua evoluzione e sviluppo tecnologico. E ancora: opportunità di costruire in terreni agricoli o aree industriali dismesse con la possibilità di sviluppare il progetto con un partner/ investitore strategico; forte interesse da parte delle agenzie federali o provinciali e degli istituti di ricerca di collaborare con l’industria per la riuscita del progetto.” Nell’Unione europea gli stakeholder della bioeconomia hanno fatto richiesta che venga adottato un sistema di appalti pubblici verdi a sostegno della domanda di bioprodotti, come è avvenuto negli Usa con il Programma Biopreferred. In Canada c’è un sistema di appalti analogo? “No, in Canada non c’è nulla di simile al programma statunitense. Tuttavia, visti gli stretti rapporti commerciali tra Canada e Usa, le imprese che producono bioprodotti e biomateriali in Canada possono fare domanda per essere biocertificati al ministero dell’Agricoltura statunitense. Oltre a questo, Agriculture and Agri-food
La bioeconomia e l’economia circolare sono due paradigmi economici sempre più diffusi, ma l’opinione pubblica ancora fatica a comprendere questo concetto. Come possono stakeholder e autorità comunicare meglio i vantaggi dei prodotti biobased rispetto a quelli di origine fossile? “La pubblicità è fondamentale, ma per favorire la disponibilità di bioprodotti occorre un mercato: la cosa migliore che i governi dovrebbero fare è dare il buon esempio. Si consideri proprio il programma Biopreferred che ha lo scopo di incentivare l’acquisto e l’utilizzo di prodotti e materiali biologici. Un aspetto peculiare è che – secondo le leggi federali – tutte le agenzie federali e gli appaltatori devono acquistare bioprodotti certificati in categorie identificate dal ministero dell’Agricoltura statunitense. Ciò ha portato a un aumento della domanda di biomateriali – creando un mercato – il che a sua volta ha ridotto i costi. Il Canada è sempre stato un solido sostenitore della Ricerca e Sviluppo e delle tecnologie pulite emergenti. Con il nuovo governo federale progressista, c’è un rinnovato impegno verso l’innovazione e la tecnologia pulita. Molti stakeholder hanno parlato al governo del ruolo positivo che la bioeconomia può svolgere per raggiungere l’obiettivo canadese di riduzione delle emissioni di gas serra.” Come viene percepita oggi la bioeconomia dall’opinione pubblica canadese? “Al momento, pochi canadesi conoscono il significato del termine bioeconomia: sono più propensi a utilizzare l’espressione ‘tecnologia pulita’. Tuttavia, un gruppo di stakeholder del settore bioenergetico (energia elettrica e carburanti) ha richiesto al governo federale di introdurre una strategia nazionale per la bioeconomia che potrebbe favorire il raggiungimento degli obiettivi fissati in materia. La bioeconomia sta acquisendo sempre più slancio: il governo è alla ricerca di imprese che diano l’esempio di come commercializzare tecnologie in questo settore. Grazie anche agli attuali programmi di finanziamento già in atto, è un buon momento per entrare nel mercato canadese.”
Policy
Vicenza, 22-23 September CUOA Business School Via Marconi, 103
Altavilla Vicentina
www.b2match.eu/ifib2016
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Dossier
FINLANDIA Vero pioniere nella bioeconomia grazie allo sfruttamento della biomassa forestale – i boschi occupano l’80% del territorio e un finlandese su 10 ne possiede uno – il paese scandinavo guarda avanti e rilancia. Considerando questo settore la soluzione per assicurare benessere e competitività e rispondere alle sfide ambientali.
Policy
Il futuro parte dal legno Per il governo finlandese alla base della strategia di crescita del paese c’è la bioeconomia. Con l’obiettivo – da qui al 2025 – di portarla a 100 miliardi di euro in termini di valore della produzione e creare 100.000 nuovi posti di lavoro. Il tutto partendo dall’impiego delle biomasse forestali già oggi fondamentali nel settore energetico, chimico e nella plastica, ma importanti anche in quello tessile, medico e alimentare. di Mario Bonaccorso
Bioeconomy, www.bioeconomy.fi
Vtt Technical Research Centre of Finland, www.vttresearch.com
“Entro il 2030, abbiamo bisogno del 50% in più di cibo, del 45% in più di energia e del 30% in più di acqua. La soluzione è la bioeconomia.” Potrebbe essere sufficiente leggere l’apertura del portale dedicato alla bioeconomia (proprio così: un intero portale gestito dal ministero dell’Ambiente), per comprendere come la nuova economia basata sulle risorse biologiche sia alle fondamenta della strategia di crescita (sostenibile) in Finlandia. Ma non è solo questo, ovviamente, perché il paese scandinavo è un vero e proprio pioniere nel campo. Del resto, non potrebbe essere in altro modo visto che le industrie basate sulla foresta sono storicamente quelle che più contribuiscono al benessere finlandese, sia a livello nazionale sia regionale. La foresta occupa l’80% del territorio nazionale e il settore forestale impiega circa 50.000 persone nella sola Finlandia, con un fatturato complessivo di 50 miliardi di euro, il 14% del prodotto interno lordo nazionale. Ogni anno Helsinki destina 140 milioni di euro per supportare progetti di ricerca e sviluppo in questo campo e numerose sono le misure legislative a sostegno dell’innovazione, soprattutto nell’area dei biocarburanti di seconda generazione (quelli non in conflitto con il cibo). Nelle bioenergie la Finlandia non teme rivali. L’energia rinnovabile attualmente rappresenta circa il 35% del consumo finale di energia. E l’obiettivo per il 2020 è di raggiungere il 38%. Di questa energia rinnovabile, l’80% viene generato dal legno. Se si considera anche l’energia prodotta nei processi dell’industria forestale, oltre al suo uso diretto come materia prima, il legno è in questo momento in Finlandia la materia prima energetica principale, superiore anche a petrolio, carbone e gas naturale. In campo chimico, circa un terzo delle imprese impiega oggi materie prime biologiche, spinte da un sistema collaborativo e da una biotecnologia all’avanguardia, dove il Vtt Technical Research
Centre of Finland gioca un ruolo chiave, con i suoi 2.192 lavoratori, i 1.200 brevetti e richieste di brevetto in portafoglio e le 296 notificazioni di invenzioni a fine 2015. Grazie alle nuove tecnologie e conoscenze, oggi le biomasse forestali sono utilizzate non solo nel settore chimico, nella plastica e nella cosmetica, ma anche in quello tessile, medico e alimentare, sia per quanto riguarda i nuovi alimenti funzionali sia il packaging biobased (gli alimenti funzionali sono quelli di cui – oltre a effetti nutrizionali adeguati – è dimostrata l’influenza benefica su una o più funzioni del corpo, tanto da risultare rilevante per uno stato di benessere e di salute o per ridurre il rischio di malattie, ndr). Propria la finlandese Valio nel gennaio 2015 è stata la prima azienda casearia nel mondo a vendere il proprio latte in cartoni interamente di origine biologica, grazie a una partnership con la svedese Tetra Pak. La strategia finlandese La strada verso la bioeconomia è supportata da una strategia, presentata dal governo di Helsinki nel maggio del 2014, che ha alla sua base una visione semplice e nitida: il benessere e la competitività della Finlandia saranno fondati in futuro sulle soluzioni di bioeconomia sostenibile. L’obiettivo del governo finlandese è di raggiungere nel 2025 un valore della produzione della bioeconomia di 100 miliardi di euro, generando 100.000 nuovi posti di lavoro. Un obiettivo molto ambizioso, se si considera che oggi il valore della produzione è di 60 miliardi di euro, il 16% dell’intera economia finlandese (una percentuale altissima), con 300.000 occupati. “Nella strategia finlandese sulla bioeconomia – ci dice Jukka Kantola, amministratore delegato di Nc Partnering, una società finlandese di consulenza specializzata nella bioeconomia – sono previsti quattro strumenti per centrare gli obiettivi: 1. un ambiente operativo competitivo per aumentare la crescita; 2. il supporto a nuovi business attraverso investimenti nel capitale di rischio, la sperimentazione e la collaborazione
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materiarinnovabile 11. 2016 Finnair vola con l’olio da cucina esausto L’impegno finlandese per la bioeconomia passa anche dai cieli. La Finnair è una delle compagnie di bandiera più attive nel testare l’utilizzo di biocarburanti per rifornire i propri velivoli. Uno dei voli più significativi a questo riguardo è stato quello effettuato il 23 settembre 2014 – da Helsinki alla Grande Mela in occasione di un vertice Onu sul clima tenutosi a New York – per il quale fu utilizzata una miscela a base di biocarburante da olio da cucina esausto prelevato per la maggior parte dai ristoranti. “Il vertice Onu sul clima è un incontro importante per combattere i cambiamenti climatici: abbiamo voluto cogliere l’occasione per evidenziare i benefici dell’adozione di biocarburanti nel settore dell’aviazione”, ha affermato il vicepresidente per lo Sviluppo sostenibile di Finnair, Kati Ihamäki.
Dopo 9 ore di volo l’Airbus 330 Finnair ha dimostrato che volare utilizzando un mix tra il carburante convenzionale e l’olio usato, fornito dalla SkyNRG Nordic (una joint venture tra SkyNRG e Statoil Aviation), è possibile e inoltre abbatte notevolmente l’impatto inquinante dei voli. La tecnologia, già testata da altre compagnie aeree, è ormai sicura e in grado di apportare benefici concreti all’ambiente. A bloccarne, però, la diffusione è il prezzo ancora troppo elevato: il doppio rispetto al normale cherosene. Il Rapporto 2007 dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha fornito alcuni dati relativi al contributo dell’aviazione al riscaldamento globale: rappresenta il 2% della CO2 prodotta globalmente dall’uomo e il 13% del carburante fossile consumato dall’intero settore dei trasporti.
intersettoriale; 3. una forte base di competenze, attraverso lo sviluppo dell’istruzione, della formazione e della ricerca; 4. la disponibilità sostenibile di biomasse, attraverso un mercato delle materie prime ben funzionante”. Tutto questo in un ambiente che punta molto sul dialogo e sul confronto. La strategia sulla bioeconomia è il frutto di un lavoro interministeriale che ha coinvolto il ministero dell’Occupazione e dell’Economia come capofila, insieme al gabinetto del primo ministro, al ministero dell’Agricoltura e della Foresta, a quello dell’Ambiente, dell’Educazione e della Cultura, degli Affari sociali e della Salute, delle Finanze. Il tutto in un dialogo continuato con gli stakeholder nazionali: dai centri di ricerca come il Vtt alle imprese, che – come ricorda lo stesso governo – sono stati consultati in cinque seminari, tre forum regionali e diverse indagini settoriali. I colossi della pasta di legno e della carta guidano la bioeconomia
Upm, www.upm.com/ Pages/default.aspx Stora Enso, www.storaenso.com
Con le foreste protagoniste incontrastate dell’economia nazionale, sono i colossi della pasta di legno e della carta, che detengono il 10% del patrimonio forestale finlandese – come Upm, Stora Enso e il Gruppo Metsa – a guidare la transizione dall’economia tradizionale a un’economia biobased più sostenibile, grazie all’abbondanza di biomassa lignocellulosica. Tanto che in Finlandia la biobased economy si confonde con la wood-based economy. A livello europeo un vero e proprio modello è lo stabilimento per bioprodotti di Metsa Fibre ad Äänekoski, nella Finlandia centrale. Si tratta di un investimento di 1,2 miliardi di euro per riconvertire una cartiera della società finlandese in un impianto moderno in grado di produrre non solo polpa di legno (1,3 milioni di tonnellate all’anno), ma anche bioprodotti e bioenergie, accrescendo la percentuale di utilizzo del paese di energia da fonti rinnovabili del 2%.
Il progetto ha anche beneficiato di un prestito fino a 275 milioni di euro da parte della Banca europea per gli investimenti, 75 milioni dei quali garantiti dal Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi). Secondo un’analisi resa pubblica di recente dall’Etla – l’Istituto di ricerca dell’economia finlandese – quello che rappresenta il più grande investimento mai realizzato in Finlandia nell’industria forestale genererà reddito a favore delle imprese che operano nel paese per circa 2,4 miliardi di euro, nella sola fase di costruzione (2015-2018), con un valore aggiunto complessivo di 12 miliardi di euro. Mentre quando lo stabilimento sarà operativo, cioè dal terzo trimestre del 2017, sono attesi 2.500 nuovi posti di lavoro nell’intera catena di valore. Un altro gigante della carta finlandese (oltre 10 miliardi di euro all’anno di fatturato) che si sta ritagliando un ruolo di leader nella bioeconomia mondiale è Upm, emerso negli ultimi anni come uno dei maggiori attori nel campo dei biocarburanti avanzati derivati dal legno. Questi rappresentano una parte essenziale della strategia Biofore di Upm, che mira a fare del legno una materia prima alternativa alle fonti fossili in una logica di totale circolarità. Massimo emblema di questa visione sostenibile della compagnia finlandese è la concept car Biofore, presentata per la prima volta al Salone internazionale dell’automobile di Ginevra nel 2014, dove le parti tradizionalmente prodotte in plastica sono state sostituite da biomateriali di alta qualità derivati dal legno e dove il motore è alimentato da un nuovo biodiesel anch’esso derivato dal legno (Upm BioVerno). Nella bioraffineria di Lappeenranta, Upm produce 100.000 tonnellate, 120 milioni di litri circa, di diesel rinnovabile all’anno. Ciò equivale al consumo annuale medio di 100.000 automobili. Secondo Marko Janhunen, vicepresidente di Upm Biorefining, una delle sei divisioni di Upm,
Policy “ci sono notevoli risorse non sfruttate di rifiuti e scarti cellulosici disponibili in maniera sostenibile in Europa. Ciò potrebbe sostituire fino al 16% dei carburanti per il trasporto su gomma in Europa entro il 2030, facendo diminuire le emissioni di gas serra del 60% e oltre”. “La bioraffineria di Lappeenranta – sostiene Janhunen – è un trampolino di lancio per usare gli scarti di pasta di legno (in prevalenza tallolio greggio), così come molte altre materie prime, non solo per produrre biocarburanti avanzati ma anche biochemicals.”
Neste, www.neste.com
Per metà finlandese (l’altra metà è svedese) è anche la Stora Enso, che ha il proprio quartier generale a Helsinki e fattura circa 10 miliardi di euro a livello mondiale. La società guidata da Karl-Henrik Sundström si sta gradualmente trasformando in una impresa di biomateriali, per trovare nuove applicazioni che massimizzino il valore estraibile dalle biomasse lignocellulosiche. In quest’ottica si inserisce anche l’inaugurazione, avvenuta lo scorso dicembre, del nuovo Centro di innovazione per biomateriali a Stoccolma, dove sono ospitate le attività di ricerca, sviluppo e marketing strategico della Stora Enso che danno lavoro a 40 persone, destinate – nei piani aziendali – a diventare un centinaio entro la fine del 2017. “Il centro – sottolinea Arno van de Ven, responsabile innovazione della divisione biomateriali del colosso finno-svedese – contribuirà a promuovere l’innovazione, individuando le opportunità di business nei mercati dei materiali rinnovabili e dei prodotti chimici a base biologica, collegando la nostra esperienza
con importanti centri di ricerca, università e partner commerciali”. Ma non è tutto, perché il nuovo crescente interesse di Stora Enso nel campo della biochimica è testimoniato anche dall’accordo siglato lo scorso maggio con Rennovia per lo sviluppo di nuovi prodotti chimici biobased, grazie all’impiego della tecnologia della stessa società californiana guidata da Robert Wedinger. Dal petrolio alla biochimica La strategia finlandese di approdo a una economia biobased passa inevitabilmente anche da una nuova fase per la compagnia petrolifera controllata dallo Stato, la Neste Oil. L’azienda – tanto per cominciare – ha perso nella denominazione la parola oil per restare solo Neste, nel tentativo di lasciarsi alle spalle anche le dure critiche sollevate in passato da Greenpeace per l’impiego di olio di palma non certificato nella produzione di biodiesel. “I prodotti basati su materie prime rinnovabili sono diventati una parte significativa del business di Neste Oil, e la parola oil riferita all’olio crudo fossile non dà più un quadro d’insieme corretto della società”, ha affermato il presidente e amministratore delegato Matti Lievonen nel giugno 2015, presentando pubblicamente la decisione di cambiare nome della società finlandese. “Offriamo ai nostri clienti – ha voluto ribadire Lievonen – soluzioni che rendono possibile sostituire l’uso degli oli fossili e ridurre le emissioni. Per esempio, siamo in testa a livello mondiale nella produzione di combustibili rinnovabili da rifiuti e residui e stiamo cercando di crescere anche nell’ambito di altri prodotti rinnovabili, quali quelli biobased per l’industria chimica.”
La start-up che produce tessuti dagli alberi Produrre un filato tessile dalle fibre del legno senza l’impiego della chimica. È quello che fa una start-up finlandese, spin-off del Vtt Technical Research Centre, grazie a una tecnologia innovativa (F2Y) che le ha permesso di aggiudicarsi il primo premio alla International Biorefinery Competition lanciata dal ministero dell’Occupazione e dell’Economia nel 2015. Ora Spinnova – questo il nome della start-up – sta lavorando per portare su scala industriale il processo che si basa su una tecnica di filatura a umido. Secondo la giuria finlandese che le ha assegnato il premio, Spinnova potrebbe rivoluzionare il mondo dell’industria tessile e di quella forestale. Attualmente i metodi per la produzione di filato utilizzati dall’industria tessile sono più o meno dannosi per l’ambiente. Per esempio, la coltivazione del cotone necessita di un impiego d’acqua altamente intensivo e solo il 30% circa di cotone è prodotto nelle zone dove l’acqua è naturalmente disponibile in quantità sufficiente. Il resto delle piantagioni quindi vengono irrigate, il che aumenta
in modo significativo l’erosione dei terreni e impoverisce le falde acquifere. Di conseguenza si perde terreno adatto per la produzione alimentare, e le riserve sotterranee di acqua diminuiscono a ritmo crescente. L’industria tessile e dei filati si basa principalmente sui prodotti a base di petrolio, come fili di nylon e poliestere. Questi prodotti non sono biodegradabili e i loro processi produttivi generano grandi quantità di ossido di azoto, che è oltre 300 volte più potente come gas serra del biossido di carbonio. Il terzo ambito importante nel settore è rappresentato dalle fibre di cellulosa man-made (Mmc), come la viscosa e le fibre modali che sono i materiali a base di legno. Solitamente la fabbricazione di queste fibre richiede un numero di sostanze chimiche pericolose per l’ambiente. Inoltre i costi elevati di produzione di fibre man-made limitano le possibilità di applicazione. Se 20-30 milioni cubi di legno fossero raffinati con la nuova tecnologia di Spinnova, si potrebbe coprire circa il 20% del consumo di cotone globale.
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materiarinnovabile 11. 2016 Il biocombustibile prodotto dalla Neste è il Neste Renewable Diesel, il quale – secondo i dati forniti dalla stessa società – avrebbe consentito nel 2015 di ridurre le emissioni di gas a effetto serra per 6,4 milioni di tonnellate, l’equivalente delle emissioni annue di 1,3 milioni di automobili. Alcune compagnie aeree, tra cui la tedesca Lufthansa, ne stanno testando l’efficacia anche per il traffico commerciale aereo. “Il nostro obiettivo strategico – afferma Kaisa Hietala, vicepresidente esecutivo Prodotti rinnovabili di Neste – è di crescere nel mercato globale basato sulle materie prime rinnovabili”. Nel portafoglio prodotti della società che ha il proprio quartier generale a Espoo ci sono già isoalcani rinnovabili (Neste Renewable Isoalkane) che trovano applicazione nell’industria della plastica, degli adesivi e delle vernici. Ed entro la fine del 2016 sarà avviata anche la produzione di propano (un composto che impiegato come combustibile, refrigerante e a livello industriale come solvente) da materie prime rinnovabili, in un nuovo stabilimento in fase di costruzione
nella raffineria di Rotterdam, nei Paesi Bassi. Per la sua distribuzione, Neste ha già siglato un accordo per la fornitura di 160.000 tonnellate per quattro anni con la società energetica Shv Energy. La bioeconomia: uno sforzo di lungo periodo L’importanza strategica della bioeconomia per la Finlandia emerge in tutta la sua portata da uno degli obiettivi indicati nella strategia: “incorporare la bioeconomia nella stessa immagine del paese”. Tutto questo anche per attrarre nuovi investimenti sul territorio. Il governo di Helsinki stima che nei prossimi dieci anni saranno necessari 2,1 miliardi di euro di fondi pubblici per lo sviluppo della bioeconomia nazionale. Un miliardo di euro per investire nel capitale di rischio delle imprese, mezzo miliardo per la ricerca e l’innovazione, 600 milioni per nuovi impianti pilota e dimostrativi. “La crescita del mercato della bioeconomia è solo all’inizio. E la Finlandia è impegnata in uno sforzo di lungo periodo”, è messo bene in chiaro nella strategia.
Intervista
a cura di M. B.
La nostra forza? Cultura, risorse e know-how Lauri Hetemäki, assistant director dell’European Forest Institute (Efi)
“Uno dei principali programmi strategici della Finlandia è rappresentato dalla bioeconomia e dalle soluzioni tecnologiche pulite. Di conseguenza, le politiche e le sovvenzioni sono pensate per rafforzare in particolare la bioeconomia basata sulla biomassa forestale. In questo programma il governo sta investendo più di 300 milioni di euro.” Materia Rinnovabile intervista Lauri Hetemäki, assistant director dell’European Forest Institute (Efi) e professore di Previsioni nel settore forestale alla facoltà di Scienze e Silvicoltura della University of Eastern Finland.
European Forest Institute, www.efi.int/portal/
La collaborazione tra il forte settore forestale e gli altri settori rende la Finlandia un vero pioniere nel campo della bioeconomia. Secondo lei, qual è il ruolo del legno nella bioeconomia? “In Finlandia le foreste sono la spina dorsale della bioeconomia. Un quarto dell’energia totale utilizzata nel 2015 nel nostro paese è stata prodotta utilizzando biomassa forestale. Non solo: in Finlandia sono anche molto importanti le industrie della pasta di cellulosa per la produzione di carta, tessuti, biodiesel di seconda generazione o sostanze chimiche. Un settore in crescita è anche quello delle costruzioni in legno, che in Finlandia è a un livello molto alto rispetto alla media europea: in particolare i multistore prefabbricati in legno hanno un grande successo. Dunque, la parola chiave della bioeconomia basata sulla biomassa forestale è diversificazione. E poi ci sono i servizi forniti
dalle foreste che spesso vengono dimenticati come il turismo, l’aspetto ricreativo naturalistico e i servizi ecosistemici.” In questo senso, quali sono i principali punti di forza della vostra bioeconomia? “La forza della nostra bioeconomia si fonda su tre pilastri: risorse, cultura e know-how. Il 78% del territorio in Finlandia è coperto da foreste. Più di un decimo dei finlandesi possiede un bosco. L’interesse, la proprietà e la ricchezza creati dalla bioeconomia si sono quindi diffusi in diverse regioni e riguardano un gran numero di persone. Questo significa che è presente una cultura radicata e una tradizione nel saper gestire le foreste per molteplici scopi. Ma per innovare nella bioeconomia occorrono anche una formazione di qualità e infrastrutture per la ricerca. Inoltre, in certi casi, le nostre forti tradizioni e competenze nel settore forestale possono rivelarsi un ostacolo all’agilità necessaria per accettare e spingere verso ulteriori innovazioni. A volte ci compiacciamo un po’ troppo di sapere già come fare bioeconomia: non siamo sempre sufficientemente attenti e pronti per vedere i cambiamenti e cogliere le nuove opportunità.” In che modo il governo finlandese sostiene la bioeconomia? “Uno dei programmi strategici della Finlandia è rappresentato dalla bioeconomia e dalle soluzioni
Policy tecnologiche pulite. Di conseguenza, le politiche e le sovvenzioni sono pensate e indirizzate proprio per rafforzare la bioeconomia basata sulla biomassa forestale: in questo programma il governo sta investendo più di 300 milioni di euro. Tuttavia il fattore più importante per lo sviluppo a lungo termine della bioeconomia saranno le misure più indirette, finalizzate a promuovere istruzione, ricerca e sviluppo e, in generale, l’innovazione e la stabilità della società. Così come è assolutamente necessario che le politiche governative sostengano le soluzioni, i processi e i prodotti ecologicamente sostenibili.” Come viene percepita la bioeconomia dall’opinione pubblica finlandese? “Nelle elezioni politiche del 2015 la Finlandia ha votato per sostenere un governo con un valido programma in tema di bioeconomia. In questo senso si potrebbe dire che c’è un forte supporto alla bioeconomia: naturalmente il fatto che tanti finlandesi possiedano dei boschi o che il loro lavoro e la loro ricchezza siano collegati alla bioeconomia, le dà un grande sostegno. Negli ultimi anni il più grande investimento industriale in Finlandia è stato il bioproduct-mill di nuova generazione del Metsä Group ad Äänekoski che ha richiesto un investimento di 1,2 miliardi di euro. In un certo senso, lo si può vedere come un game-changer, un elemento rivoluzionario nello sviluppo verso la bioeconomia. Tuttavia ci sono delle preoccupazioni, specialmente tra le Ong ambientaliste, sul fatto che la crescita della bioeconomia possa potenzialmente causare anche dei trade-off (relazione funzionale tra due variabili tale che la crescita di una risulta incompatibile con la crescita dell’altra e ne comporta anzi una contrazione, ndr), per esempio per la biodiversità. Quindi, il grande supporto alla bioeconomia dipenderà anche da come la società saprà risolvere questi trade-off e migliorare le sinergie con altri valori e interessi.” La Finlandia sembra il posto ideale per la bioeconomia. Davvero non ci sono punti deboli? “La Finlandia ha solo 5,5 milioni di abitanti: una quantità compresa tra il 60 e il 90% dei prodotti ricavati dalla biomassa forestale viene esportata nel mondo, tranne quella per la bioenergia che viene usata principalmente nel mercato nazionale. Certo il nostro paese è situato piuttosto lontano dai mercati principali e quindi un ulteriore carico è rappresentato dagli alti costi logistici e di trasporto. Inoltre, la nostra collocazione geografica comporta anche che il tasso di crescita della biomassa sia di gran lunga inferiore a quello, per esempio, del Sud America o dell’Europa centrale e meridionale. Questo significa maggiori costi di produzione, che devono essere compensati da vantaggi in altri ambiti o concentrandosi sui prodotti per i quali le foreste boreali di conifere a crescita lenta rappresentino un vantaggio qualitativo. A lungo termine, la chiave sarà insistere nel mantenere un contesto nell’ambito della formazione, ricerca e sviluppo, innovazione e sostenibilità che sia almeno al livello di quello dei paesi competitori.” Si dice che l’uso a cascata della biomassa, che dà la priorità all’uso del materiale rispetto
all’impiego energetico, sia preferibile come misura di mitigazione dei cambiamenti climatici non solo in quanto il carbonio rimane immagazzinato nel materiale più a lungo ma anche perché riduce l’impiego di materiali non rinnovabili e il consumo di energia fossile. In linea di principio è anche più efficiente sul piano delle risorse ed economicamente vantaggioso. Dal suo punto di vista è un concetto superiore nel contesto di una bioeconomia sostenibile? “Il principio della ricaduta a cascata è un concetto valido in generale, ma non dovrebbe essere una camicia di forza. Spesso ha senso dal punto di vista economico e ambientale; come regola generale più facciamo circolare i materiali e riusciamo a usarli in maniera efficiente, meglio è. Comunque, per esempio per la Finlandia, non avrebbe senso dal punto di vista ambientale sostituire la produzione di carta da polpa vergine prodotta in loco con una ricavata da carta riciclata che dovrebbe essere importata. Così come usare la biomassa forestale locale (sterpaglie e residui) nelle centrali termiche per la produzione combinata di calore ed elettricità, piuttosto che importare carta riciclata o legno post-consumer per farle funzionare. Da un punto di vista economico, credo sia il caso di fare anche attenzione nell’adeguarsi eccessivamente alle piramidi di valore, che indicano l’ordine in cui il materiale grezzo va usato. Il valore aggiunto è un concetto dinamico: se un prodotto A anni fa aveva un valore aggiunto cinque volte superiore al prodotto B, oggi la relazione potrebbe essersi esattamente invertita. Per esempio, abbiamo osservato un chiaro cambiamento nel valore aggiunto di alcuni prodotti di carta rispetto ad alcuni prodotti energetici hi-tech. Il valore aggiunto dipende molto da come i prezzi dei prodotti finali nel tempo si svilupperanno sul mercato.” Il potenziale nella mitigazione dei gas serra (Ghg) e altri impatti ambientali e socioeconomici legati agli usi della biomassa dipendono da una vasta gamma di decisioni relative riguardanti i materiali eterogenei e in materia di energia. Dal suo punto di vista che tipo di struttura di governance è necessaria per assicurare che la transizione a una bioeconomia sia sostenibile? “Se fossi un dittatore planetario, imporrei per la CO2 un prezzo generale – e piuttosto alto – che aiuterebbe a risolvere il più grande fallimento del mercato che abbiamo oggi, i cambiamenti climatici. I mercati non risolvono questi effetti collaterali negativi, come i cambiamenti climatici o la perdita di biodiversità: ci vogliono regole. Ma le regole devono offrire un terreno di gioco uguale per tutti e utilizzare il meccanismo dei prezzi, per quanto possibile. Il prezzo della CO2, in un modo o nell’altro (mediante tasse, sistema di commercio delle emissioni ecc.), può riuscire a farlo. Comunque, viviamo ‘in the second best world’ (espressione riferita a un teorema dell’economia del benessere elaborata dagli economisti R.G. Lispey e K. Lancaster, ndr) e occorreranno anche altre politiche e meccanismi per regolare gli effetti collaterali negativi. Dovremmo provare a lavorare ancora per avere un prezzo globale della CO2 tanto alto da avere un impatto concreto sulle decisioni economiche.”
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Come cresce veloce
LA PIANTA BIO
Assicurare la produttività dei terreni utilizzando metodi e risorse naturali, ridurre gli impatti sull’ambiente e i rischi per la salute umana: ecco come sta mutando l’approccio alla produzione agricola. E oggi nel mondo le superfici dedicate alle coltivazioni biologiche sono circa 43 milioni di ettari.
Policy
di Luciano Trentini
“Into the future. Consolidated annual report of Ifoam – organics international”, 2015; www.ifoam.bio/sites/ default/files/annual_ report_2015_0.pdf
Grandi volumi di produzione ottenuti grazie a una spesa crescente in tecnologie avanzate e mezzi tecnici capaci di aumentare la produttività (i concimi) e ridurre i rischi (i fitofarmaci) causati da patogeni sempre più resistenti e aggressivi. Per l’agricoltura moderna, “industrializzata”, questo è un ritratto forse parziale ma certamente fedele. Oggi però il volto dell’agricoltura sta mutando, sotto la spinta di cambiamenti che avvengono in ambiti diversi e convergono a indicare direzioni di sviluppo nuove rispetto a quelle consolidatesi a partire dalla metà del secolo scorso. Un primo driver fondamentale va osservato in prospettiva ed è legato alla previsione di un consistente calo nel fattori produttivi (cioè acqua e terra coltivabile) in presenza di una popolazione che al 2050 supererà i 9 miliardi di persone. Aumentare la disponibilità di cibo in un simile contesto evidenzia il tema dello spreco. La riduzione degli sprechi è un obiettivo che riguarda tutta la filiera: dalle aziende agricole alla distribuzione, fino alla vendita al dettaglio e alle abitudini del consumatore. E il secondo potente driver del cambiamento è rappresentato, appunto, dai consumatori e dal loro mutato rapporto con il cibo. Il livello d’informazione e di consapevolezza che oggi viene espresso all’atto dell’acquisto di un prodotto alimentare, quantomeno nelle società più avanzate, pone in primo piano caratteristiche come la provenienza, le qualità organolettiche e di salubrità del prodotto. L’effetto sugli orientamenti del consumo è immediato: crescita delle filiere produttive certificate e con ridotti input (produzione integrata e biologica). Per questi stessi motivi si sta registrando una tendenza all’allontanamento dei consumatori dalle filiere percepite come meno sicure e controllate (e questa è una delle possibili ragioni dell’aumento di consumatori che scelgono l’alimentazione vegetariana o vegana).
Luciano Trentini, già vicepresidente di Areflh, si occupa di tecniche per la produzione di coltivazioni orticole e la riduzione dell’impatto ambientale. Esperto di Politica agricola comunitaria, in particolare di Organizzazione comune di mercato nel settore ortofrutticolo.
Il “fattore cultura” A livello mondiale nel 2014 (dati Ifoam e Fibl) la superficie dedicata alle coltivazioni biologiche risultava di 43,7 milioni di ettari su un totale di 1,6 miliardi di ettari attualmente coltivati (fonte Fao), mentre le aziende agricole erano più di 2 milioni, per un fatturato di 72 miliardi di euro. Nei paesi dell’Unione europea l’interesse sta crescendo rapidamente: nell’ultimo decennio la superficie dedicata al biologico è aumentata di 500.000 ettari all’anno e le aziende agricole
in regime biologico sono diventate quasi 190.000. Nel solo settore ortofrutticolo le superfici coltivate a biologico nel 2014, a livello mondiale sono state di 1.814.000 ettari e quelle europee di 500.000. Aumentano anche vegetariani e vegani: per esempio in Italia nel 2013 erano circa il 6% della popolazione, sono diventati l’8% nel 2015 (fonte Eurispes). Un mercato che oggi, nel nostro paese, vale oltre 320 milioni di euro: numeri importanti che hanno fatto nascere catene di franchising dedicate e spingono anche le grandi imprese a introdurre linee di prodotto rivolte a questo mercato. Tra modificazione dei consumi e sviluppo di processi produttivi a basso impatto ambientale (come appunto l’agricoltura biologica o la produzione integrata) esiste, quindi, un preciso un nesso causale che potremmo definire “fattore cultura” che agisce sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta. Nella Ue l’agricoltura biologica è regolamentata con il Reg. Ue 834/2007 (e successive modificazioni) e si basa sulla riduzione di input esterni al sistema: non si utilizzano antiparassitari, erbicidi o concimi chimici di sintesi. Al contrario è previsto l’impiego di metodi naturali per assicurare la produttività e i minori impatti sull’ambiente e l’utilizzo di risorse rinnovabili – riciclando anche rifiuti vegetali e animali – per migliorare la fertilità del suolo. La difesa integrata poggia invece le sue basi giuridiche sulla direttiva 128/2009/CE “Utilizzo sostenibile dei pesticidi”, che ha come obiettivo la riduzione dei rischi e gli impatti sulla salute umana e sull’ambiente dei prodotti chimici, promuovendo approcci a tecniche alternative a quelle chimiche e usando modelli previsionali per fare interventi fitosanitari mirati. Nel comparto ortofrutticolo Areflh ha promosso l’estensione del concetto di difesa integrata a tutti i fattori della produzione, quali l’utilizzo di cultivar (in agronomia indica una varietà di pianta coltivata ottenuta con il miglioramento genetico, ndr) dotate di resistenza genetica alle patologie, la fertilizzazione, l’irrigazione, il condizionamento e confezionamento del prodotto raccolto, applicando un approccio di filiera. La produzione integrata così intesa utilizza tecniche produttive che prevedono un uso limitato e ragionato di antiparassitari, concimi e acqua, mentre favorisce l’uso di metodi di difesa biologica e di confusione sessuale per il controllo dei parassiti, la pacciamatura per ridurre il consumo di acqua e l’impiego dei diserbanti. È regolamentata da disciplinari che possono dare origine a marchi volontari per dare maggiore visibilità al prodotto.
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materiarinnovabile 11. 2016 Gli strumenti finanziari di oggi. La nuova Pac PRIMO PILASTRO
SECONDO PILASTRO
Misure di mercato
Politiche di sviluppo rurale
Pagamenti diretti
FEAGA
Funzione alimentare
Associazione delle Regioni Ortofrutticole europee, areflh.org/index. php?lang=en
Fonte: M. Cestaro, Regione Emilia-Romagna.
FEASR
Funzione ambientale
Questi approcci “virtuosi” alla produzione agricola si integrano con coerenza nel più generale disegno di sviluppo della bioeconomia. In particolare quando prevedono l’impiego di tecniche e mezzi messi a disposizione dalla chimica verde, come teli per pacciamatura, clips e dispenser di feromoni compostabili. Le plastiche biodegradabili e compostabili e una molecola ad effetto erbicida come l’acido pelargonico (caratterizzato da un minore impatto ambientale in termini di residualità e con biodegradazione rapida nell’ambiente) sono esempi significativi del contributo della chimica verde alla sostenibilità delle pratiche agricole. A completare il quadro di una strategia di innovazione che declina per il settore agricolo il concetto di economia circolare si aggiungono l’ottimizzazione nell’utilizzo di concimi organici e fitofarmaci naturali e, in generale, il contrasto allo spreco di risorse. Finanziare l’innovazione: l’esempio delle plastiche biodegradabili e compostabili Uno strumento fondamentale a disposizione degli agricoltori per l’innovazione in campo è la Politica
Funzione rurale
agricola comune (Pac), sostenuta e finanziata da due tipologie di fondi: Feaga (Fondo europeo agricolo di garanzia) e dal Feasr (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale), che afferiscono ai due “pilastri” di tale politica, dove il primo comprende le Organizzazioni comuni di mercato (Ocm) o interventi di mercato, mentre il secondo è costituito dallo sviluppo rurale. La politica di Sviluppo Rurale ha obiettivi specifici e strategici di carattere economico, ambientale e sociale, che unitariamente rispondono alle priorità fissate dalla UE per la politica agricola del territorio: sviluppo della competitività, gestione sostenibile delle risorse rurali, riduzione dei rischi connessi al cambiamento climatico con uno sviluppo equilibrato delle aree rurali. Per soddisfare questi obiettivi le linee d’azione principali possono essere così riassunte: •• promuovere il trasferimento delle conoscenze e l’innovazione nel settore agricolo; •• potenziare la competitività dell’agricoltura e la redditività delle imprese agricole; •• incentivare l’organizzazione delle filiere agroalimentari e ridurre i rischi di crisi di mercato;
Policy •• conservare, ripristinare e valorizzare gli ecosistemi da cui dipendono le attività agricole; •• sviluppare un uso efficiente delle risorse favorendo il passaggio a un’economia a basse emissioni di carbonio; •• promuovere lo sviluppo economico delle aree rurali e ridurre la povertà. Un esempio del finanziamento alle innovazioni legate a nuovi modelli economici è legato alle misure di mercato del primo pilastro. Più precisamente all’Ocm ortofrutta che finanzia, contestualmente alle misure di mercato, l’innovazione e il rispetto per l’ambiente. I teli per pacciamatura biodegradabili e compostabili entrano a pieno titolo tra le voci di innovazione finanziate e costituiscono un chiaro esempio di mezzi tecnici a ridotto impatto ambientale coerenti con un approccio di economia circolare, applicato a livello europeo. Per questa innovazione, nell’Ocm ortofrutta (vedi box) ogni singolo paese ha deciso di attivare modalità differenti per raggiungere il medesimo obiettivo ambientale: ridurre la produzione di rifiuti plastici difficilmente gestibili e allo stesso tempo gli input chimici (diserbi). In Francia vengono finanziati i maggiori oneri sostenuti per l’acquisto di pacciamature vegetali, riutilizzabili o biodegradabili, in rapporto a prodotti privi di tali caratteristiche. Nel caso in cui la tecnica standard non preveda utilizzo di pacciamatura tradizionale, l’acquisto di teli biodegradabili è totalmente finanziato, per un ammontare stabilito sulla base di uno studio che considera la differenza fra la nuova pratica e quella considerata standard. In Italia il Decreto n° 9084 del 2014 prevede fra i mezzi tecnici a basso impatto ambientale (ovvero nelle azioni di Disciplina ambientale obbligatorie) l’impiego di pacciamature, fili e clips biodegradabili e compostabili. In particolare “per la pacciamatura con telo biodegradabile, sia sulle colture annuali che pluriennali, in pieno campo e in coltura protetta, sono ammissibili le spese sostenute per l’acquisto del film. Inoltre è remunerabile il maggiore costo, rispetto alla tecnica usuale, sostenuto dall’azienda agricola per le operazioni di messa in opera della pacciamatura stessa. Sono ammissibili anche le spese sostenute sullo stesso terreno per una coltura ripetuta .” In Spagna l’impiego delle plastiche biodegradabili è ammesso e finanziato sempre all’interno delle azioni agro ambientali volte a ridurre gli impatti. Anche in questo caso gli aiuti da corrispondere ai produttori, a partire dal 2014, sono stati ottenuti dopo uno specifico studio effettuato da un organismo indipendente per verificare il differenziale di costo con le materie tradizionali. In particolare, nelle coltivazioni orticole sono finanziabili anche impieghi di filo e clips biodegradabili e compostabili per il sostegno delle piante (pomodori, melanzane ecc. ). A questi viene riconosciuto un aiuto pari al 66% del costo al chilo del materiale acquistato. Nel caso di pacciamatura biodegradabile, tale valore è invece calcolato nella
misura del 60% del costo totale sostenuto per l’acquisto. Analogamente in Portogallo e in Belgio esistono misure che finanziano il differenziale di costo tra i materiali biodegradabili e quelli convenzionali. In sintesi nei principali paesi produttori di ortaggi, la strategia ambientale nazionale prevede il supporto a mezzi tecnici innovativi che riducano la produzione di rifiuti plastici da parte delle pratiche agricole. L’Ocm ortofrutta è stato uno dei primi regolamenti a livello europeo che di fatto ha puntato a sostenere comportamenti virtuosi in grado di proteggere l’ambiente. Il terzo driver del cambiamento: la ricerca Nel 2014 la Ue ha varato il programma di finanziamento alla ricerca Horizon 2020 che prevede l’investimento di risorse pari al 3% del Pil di ciascun Stato membro, per un ammontare pari a circa 80 miliardi di euro, con i seguenti obiettivi: rafforzare il ruolo della Ue nel settore agricolo, promuovere l’innovazione industriale per creare nuovi investimenti in tecnologia, affrontare le problematiche quali il cambiamento climatico, il trasporto sostenibile e le energie rinnovabili. Il settore agricolo, le innovazioni e gli aspetti ambientali rientrano quindi tra le priorità dell’agenda del legislatore europeo. L’insieme delle misure finanziarie messe a disposizione dei produttori europei, seppur complesse nella loro applicazione, consentono al sistema agricolo di disporre di risorse tali da rendere applicabili le innovazioni necessarie a soddisfare le esigenze sia dei produttori che dei consumatori. La fase di stagnazione che vive l’agricoltura europea deve essere superata reagendo alle sollecitazioni dei consumatori e all’esigenza di “nutrire il pianeta” a fronte di una riduzione dei mezzi della produzione (disponibilità di acqua e di terra). Un modello economico diverso, come è quello proposto dalla bioeconomia, unito all’uso di prodotti a minore impatto sull’ambiente e al maggiore riutilizzo di risorse interne all’azienda agricola possono essere una risposta alle sfide ambientali e demografiche previste per il futuro.
Ocm Ortofrutta Previsto dal Reg.Ce 1308/2013, l’Ocm Ortofrutta – nata per aggregare i produttori e la produzione – crede nell’innovazione per gestire la competitività. L’Organizzazione comune dei mercati costituisce lo strumento fondamentale del mercato comune agricolo nel quadro della Politica agricola comune (Pac) e copre circa il 90% della produzione agricola dell’Ue. L’Ocm ortofrutta ha come soggetto leader attuatori del regolamento, le Organizzazioni dei produttori (Op) costituite per volontà degli stessi.
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materiarinnovabile 11. 2016
Un’Europa
A TUTTO GPP La fotografia del livello di attuazione nei 28 paesi Ue del Green public procurement: una torta da 1.800 miliardi di euro. di Simona Faccioli
Simona Faccioli si occupa di Gpp da diversi anni, prima all’Onr, presso il ministero dell’Ambiente, poi come Direttore di ReMade in Italy. È componente della Redazione normativa di reteambiente.it.
Una volta tanto siamo i primi della classe. L’Italia ha da poco reso obbligatorio il Gpp (Green public procurement), dopo anni di una scarsamente efficace esortazione. Ora, con il nuovo codice degli appalti, tutte le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di inserire i criteri ambientali nelle procedure di appalto. Quei “criteri ambientali minimi”(Cam) che da diversi anni il ministero dell’Ambiente emana per le varie categorie di prodotti e servizi che acquista la pubblica amministrazione.1 E le amministrazioni pubbliche italiane – i Comuni, ma non solo – si stanno rendendo conto di questa rivoluzione. I cittadini, ci immaginiamo, sono soddisfatti per l’impiego che viene fatto delle risorse pubbliche e gli impatti positivi per l’ambiente e il decollo della circular economy sono prevedibili.
ReMade in Italy, www.remadeinitaly.it
Ma cosa succede negli altri Stati europei? Ce lo chiediamo perché il Gpp è innanzitutto una “questione europea”: è da sempre posto in primo piano nelle comunicazioni e negli atti strategici comunitari. Lo è anche nel recente pacchetto
1. Per la precisione, l’inserimento dei criteri ambientali nelle procedure d’acquisto pubblico è stato prima reso obbligatorio dal “Collegato ambientale” (legge 221/2015), in vigore dal 2 febbraio 2016. Per una disamina completa sulle fonti normative del Gpp: Paola Ficco, “Il Gpp: principi e posizionamento disciplinare. Le novità del ‘Collegato ambientale’ sull’accesso al mercato degli ‘acquisti verdi’, nella logica dell’economia circolare”, Rivista Rifiuti n. 237, marzo 2016; Id. “Il ‘Nuovo Codice appalti’ (Dlgs 50/2016) e la revisione del Green public
procurement (Gpp)”, Rivista Rifiuti n. 240, giugno 2016. 2. “L’anello mancante: un piano d’azione europeo per l’economia circolare”, Comunicazione della Commissione europea, 2 dicembre 2015. Si tratta di un articolato pacchetto di misure che comprende la revisione di alcune proposte legislative sui rifiuti, nonché un piano d’azione generale, con l’obiettivo di porre le basi per un’economia circolare che aumenti la competitività globale, promuova la crescita economica sostenibile e crei nuovi posti di lavoro.
Le revisioni legislative riguardano: la direttiva 2008/98/Ce (direttiva quadro rifiuti), la direttiva 1999/31/Ce (discariche di rifiuti), la direttiva 94/62/ ce (imballaggi e rifiuti di imballaggio), la direttiva 2003/53/Ce (veicoli fuori uso), direttiva 2006/66/ Ce (pile e accumulatori), direttiva 2012/19/Ce (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). Il piano d’azione sull’economia circolare integra tali proposte stabilendo misure che fungono da “anello mancante” nell’economia circolare e affrontano tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto: dalla
sull’economia circolare che gli riconosce un ruolo fondamentale per innescare il circolo virtuoso verso le soluzioni eco-innovative per prodotti e servizi in grado di accelerare il cambiamento.2 Partendo dalla ricognizione offerta dalla Commissione europea, abbiamo mappato il livello di Gpp nei 28 Stati della Ue.3 Il livello dell’attuazione, ai fini di questa ricognizione, si basa su tre indicatori: esistenza di una pianificazione nazionale sul Gpp, settori di acquisto per i quali sono stati definiti i criteri ambientali, obbligatorietà delle misure introdotte. L’obiettivo di questa panoramica europea sul Gpp è anche di avviare successivi approfondimenti economici e strutturali, a livello nazionale ed europeo. Per esempio: quale impatto provocano le misure in ciascun settore specifico? Le aziende sono attrezzate per rispondere alla immensa domanda di mercato green che sta arrivando? Quali impatti ci saranno sull’economia green globale? E quali su quella immensa fetta del 14% del Pil Ue, rappresentato dagli acquisti pubblici per prodotti, lavori e servizi, e pari a circa 1,8 trilioni di euro annui?4
produzione al consumo, fino alla gestione dei rifiuti e al mercato delle materie prime secondarie. Il piano d’azione include anche un certo numero di interventi volti al superamento delle barriere del mercato in specifici settori, come la plastica, i rifiuti alimentari, le materie prime critiche, la costruzione e la demolizione, le biomasse e i bioprodotti. In questo contesto svolgeranno un ruolo cruciale strumenti trasversali quali l’ecoinnovazione, gli appalti pubblici verdi e gli strumenti europei di finanziamento e di investimento. Per ulteriori informazioni: ec.europa.
eu/environment/circulareconomy/index_en 3. “National Gpp Action Plans (policies and guidelines)” che riporta una panoramica dell’implementazione del Gpp nei 28 Stati membri dell’Ue (ultimo aggiornamento ottobre 2015); tinyurl.com/hvyysrq 4. Rapporto della Commissione europea del 17 giugno 2015 “Public Procurement Indicators 2013” (tinyurl.com/ z2xbrfq). Il dato esclude le utilities e si riferisce al 2013, con un aumento dello 0,67% rispetto al dato rilevato nel 2012.
LA MAPPA DEL GPP IN EUROPA
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materiarinnovabile 11. 2016 L’attuazione del Gpp negli stati europei AAA Piano di azione nazionale sul Gpp / Criteri ambientali / Previsione di obbligatorietà piena AA+ Piano di azione nazionale sul Gpp / Criteri ambientali / Obbligatorietà limitata ad alcuni criteri AA Piano di azione nazionale sul Gpp / Criteri ambientali / Mancanza di obbligatorietà A Piano di azione nazionale sul Gpp / Mancanza di criteri ambientali / Mancanza di obbligatorietà B Mancanza di Piano di azione nazionale sul Gpp / Mancanza di criteri ambientali / Mancanza di obbligatorietà
FINLANDIA
ESTONIA
DANIMARCA
REP. CECA
CIPRO
CROAZIA
BULGARIA
BELGIO
AUSTRIA
PIANO D’AZIONE NAZIONALE SUL GPP
EMANAZIONE DI CRITERI AMBIENTALI E CATEGORIE DI PRODOTTO INTERESSATE
OBBLIGATORIETÀ
Piano adottato dal Consiglio dei ministri nel luglio 2014, riguardante 14 categorie di prodotto, in parte basato sui criteri dell’EU-Toolkit.
Prodotti tessili e leasing, apparecchiature IT nei trasporti, prodotti e servizi, mobili, servizi di ristorazione e catering, illuminazione interna, elettrodomestici, infrastrutture (indoor e outdoor), edilizia, elettricità, prodotti per il giardinaggio e servizi di pulizia, forniture per ufficio, carta, gestione degli eventi.
L’Agenzia federale sugli appalti, su indicazione del ministero delle Finanze, deve includere il Gpp nei propri acquisti, per quanto riguarda i veicoli stradali (recepimento della direttiva 2009/33 Ce) per requisiti di consumo di energia, anidride carbonica e diossido di azoto.
Fiandre: Piano d’azione strategico su Gpp (2015-2020), del 18 novembre, 2015. Bruxelles: Ordinanza in materia di inserimento di clausole ambientali ed etiche in materia di appalti pubblici, dell’8 maggio 2014 (decreto attuativo previsto nel 2016). Vallonia: Piano d’azione del novembre 2013 (sarà rinnovato nel 2016). Cinque circolari sono state adottate anche da parte del governo: una circolare generale sugli strumenti disponibili e quattro su diverse categorie di prodotti.
Criteri ambientali su 70 categorie di servizi e prodotti. Per ognuna di queste categorie sono allo studio specifici criteri: •• materiali da costruzioni; •• ristorazione e catering; •• vernici.
Sono raccomandati i criteri sviluppati a livello nazionale. In mancanza di questi si consiglia di applicare le norme Ue in materia di Gpp. In mancanza di entrambi si possono prendere come riferimento le norme dei paesi vicini.
Piano di azione nazionale per il Gpp, periodo 2012-2014, del 13 ottobre 2011.
Criteri di efficienza energetica per le 5 categorie di prodotto: apparecchiature IT per ufficio, condizionamento e raffrescamento, elettrodomestici, illuminazione per uffici e per strade, veicoli a motore.
Nel progetto di legge Ppl i requisiti di efficienza energetica riguardanti i veicoli stradali sono previsti come obbligatori in materia di appalti pubblici.
Primo piano d’azione nazionale per gli appalti pubblici verdi per periodo 2015-2017, dell’agosto 2015.
Veicoli elettrici.
È previsto che il governo centrale acquisti solo prodotti, servizi e immobili ad alta efficienza energetica.
Secondo Piano nazionale per il Gpp, del 31 gennaio 2012.
Sono raccomandati i criteri emanati dalla Ue in materia di Gpp per: apparecchiature per ufficio, carta, energia elettrica, prodotti per la pulizia e servizi, sanitari, costruzione di edifici e di strade, prodotti e servizi di ristorazione, arredo, tessile, trasporti, prodotti per giardinaggio e servizi.
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Norme per l’applicazione di requisiti ambientali negli acquisti pubblici delle amministrazioni statali, basate sull’EU-toolkit.
Mobili e apparecchiature IT per l’ufficio.
La decisione del governo 465/2010 non contiene un obbligo legale, ma una indicazione politica.
Strategia sugli acquisti pubblici intelligenti, dell’ottobre 2013.
Apparecchi elettrici, legno, trasporti.
Le istituzioni statali sono obbligate all’acquisto di prodotti in legno e/o a base di legno “sostenibile” e devono seguire le linee guida per i prodotti che utilizzano energia elettrica stabiliti dalla Danish Energy Agency.
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Alimenti e ristorazione, veicoli e trasporti, costruzioni, servizi energetici, prodotti connessi all’energia, tessile (abbigliamento da lavoro). In preparazione: mobili, servizi di pulizia, elettrodomestici da cucina professionali, criteri relativi ai servizi di stampa.
La decisione del governo è obbligatoria per gli organi del governo centrale.
AA+ AA+ AA+ AA AA AA AA+
B -
AA+ Decisione del governo per la promozione di soluzioni ambientali ed energetiche in materia di appalti pubblici, del 13 giugno 2013.
Policy PIANO D’AZIONE NAZIONALE SUL GPP
MALTA
LUSSEMBURGO
LITUANIA
LETTONIA
ITALIA
IRLANDA
UNGHERIA
GRECIA
GERMANIA
FRANCIA
Piano di azione nazionale sul Gpp, del marzo 2015.
EMANAZIONE DI CRITERI AMBIENTALI E CATEGORIE DI PRODOTTO INTERESSATE Prodotti ecologici e servizi, legname e prodotti del legno, carta ecologica, servizi ad alta efficienza energetica per l’edilizia (riscaldamento e raffreddamento), il legno come materiale da costruzione, edifici pubblici ad alta efficienza energetica, tessuti e pulizia ufficio.
AA AA+ B B AA AAA AA
OBBLIGATORIETÀ Nella legge Grenelle 1, sono fissati obiettivi in materia di: veicoli, tecnologia di comunicazione dematerializzata, gestione forestale sostenibile, cibi biologici e sostenibili, sviluppo del trasporto car-sharing, impatto ambientale degli edifici statali. Diverse linee guida: •• Prime minister guidelines (2005) per un comportamento etico dello Stato in materia di risparmio energetico (n ° 5.102 / SG); •• Prime minister guidelines (2008) per un comportamento etico dello Stato in materia di sviluppo sostenibile; •• Prime minister guidelines (2009) relative agli immobili e agli edifici statali.
Strategia nazionale sul Gpp (livello federale): programma per la protezione del clima e l’energia integrata (Integriertes Energie und Klimaprogramm IEKP), provvedimento 24. Approvvigionamento di prodotti ad alta efficienza energetica e servizi (del 2008, rivisto nel 2012 e 2013).
Costruzioni, apparecchiature e attrezzature per ufficio, veicoli, elettrodomestici, impianti termici, elettronica e apparecchiature per alimentazione elettrica, pulizia e igiene, arredo e materiali per interni, attrezzature da giardino, eventi sostenibili.
Un decreto sulla fornitura di prodotti in legno (livello federale) prevede che i prodotti in legno acquistati dall’Amministrazione federale derivino da piantagioni a gestione sostenibile. La nuova versione del regolamento tedesco sugli appalti prevede l’obbligo di chiedere un’analisi di Lcc agli offerenti.
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È in corso di elaborazione un decreto da parte del ministero nazionale per lo Sviluppo.
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Un piano d’azione nazionale (Green Tenders) del gennaio 2012.
Per queste categorie di prodotto si consiglia l’applicazione dei criteri Ue sul Gpp: edilizia, trasporti, energia, cibo e catering, tessile, prodotti per la pulizia, carta e attrezzature informatiche.
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Piano di azione nazionale sul Gpp, dell’11 aprile 2008 (aggiornato il 10 aprile 2013).
Edilizia, ausili per incontinenza, arredo urbano, carta, tessuti, illuminazione stradale, mobili per ufficio, ristorazione, informatica, serramenti, servizi energetici per gli edifici, veicoli, servizio di pulizia, toner, gestione dei rifiuti urbani, gestione del verde. In fase di sviluppo: servizi di pulizia negli ospedali, servizio di illuminazione pubblica, costruzione strade.
Il codice degli appalti, decreto 50/2016 prevede l’obbligo a carico di tutte le pubbliche amministrazioni di acquistare almeno il 50% di prodotti ecosostenibili (100% per i prodotti ad alto consumo di energia e l’edilizia). Il decreto 24 maggio 2016 ha introdotto soglie differenziate (vedi box).
“Green Procurement support plan for 2015-2017”, del 17 febbraio 2015.
Carta da ufficio, apparecchiature IT, arredamento per ufficio, prodotti per la pulizia e servizi, alimentazione e servizi di catering, trasporto pubblico, lavori edili e servizi.
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Misure in materia di Gpp per l’anno 2016-2020 previste per l’approvazione a ottobre 2015 (aggiornamento non reperibile).
Carta, forniture per ufficio, stampa, veicoli privati (auto e veicoli leggeri), autobus, servizi di trasporto pubblico, servizi di manutenzione, mezzi per la raccolta di rifiuti, apparecchiature IT per uffici, toner, lavanderie, lampadine, gestione degli eventi, mobili, costruzione, tessili, giardinaggio, ristorazione, pannelli a parete; illuminazione stradale; costruzione di strade, isolamento termico, serramenti, rivestimenti per pavimentazioni; illuminazione interna; rubinetteria sanitaria.
Secondo le modifiche della legge sugli appalti pubblici realizzati nel 2010, tutte le amministrazioni aggiudicatrici devono applicare i criteri ambientali nella conduzione degli appalti pubblici di beni, servizi e lavori specificati.
Linee guida (Oekologischer Leitfaden) per le opere di edilizia sostenibile e l’uso dei prodotti da costruzione.
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Piano nazionale d’azione sul Gpp, dell’agosto 2011 (in corso di revisione).
Copia e carta grafica, giardinaggio, tessuti, attrezzature IT per ufficio, pulizia, edilizia, trasporti, mobili, ristorazione, produzione combinata di calore ed elettricità, illuminazione pubblica, cellulari, elettricità.
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materiarinnovabile 11. 2016
SVIZZERA
REGNO UNITO
SVEZIA
SPAGNA
SLOVENIA
SLOVACCHIA
ROMANIA
PORTOGALLO
POLONIA
PAESI BASSI
NORVEGIA
PIANO D’AZIONE NAZIONALE SUL GPP
AA+
EMANAZIONE DI CRITERI AMBIENTALI E CATEGORIE DI PRODOTTO INTERESSATE
OBBLIGATORIETÀ
Piano nazionale per il Gpp (anni 2007-2010).
Servizi alberghieri, mobili per ufficio, servizi di pulizia, edilizia, tessile, pianificazione edilizia e design, attrezzature Ict, carta per copie, cassette di toner, buste, servizi di stampa, veicoli e trasporti.
Gli enti pubblici locali e nazionali hanno l’obbligo di considerare gli aspetti ambientali e dei costi del ciclo di vita negli appalti pubblici, e devono – per quanto possibile – specificare i requisiti ambientali per gruppi di prodotti prioritari.
Nel Piano nazionale d’azione per lo sviluppo sostenibile sono inclusi alcuni obiettivi specifici per il Gpp (anno 2003). Obiettivo di arrivare al 100 % di acquisti verdi entro il 2015.
45 gruppi di prodotti: servizi di pulizia, edifici, luce e gas, apparecchiature IT, ristorazione e di catering, mobili, toner, apparecchiature per elaborazione di immagini, servizi di stampa, forniture per ufficio, carta, illuminazione pubblica, abbigliamento da lavoro, 6 set per i trasporti, servizi Ict e apparecchiature audiovisive, elettrodomestici da cucina, prodotti per ufficio, impianti per il controllo del traffico, impianti idrici e di trattamento dei fanghi, opere infrastrutturali (costruzione, terra lavori, preparazione del sito e di bonifica, manutenzione, demolizione), fognature, cavi, fiori, manifestazioni e strutture ricettive.
Il governo centrale è vincolato da una mozione del parlamento. I governatori locali sono vincolati da accordi presi.
Il terzo Piano nazionale per il Gpp per il periodo 2013-2016, del 3 aprile 2013.
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Strategia nazionale sul Gpp per il 2008-2010, del 2007. È in attesa di approvazione una nuova strategia.
Edilizia, trasporti, energia, attrezzature per ufficio, apparecchiature IT, materiali per ufficio tra cui carta, prodotti per la pulizia, servizi di manutenzione per gli edifici pubblici.
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Disegno di legge che stabilisce quadro giuridico del Gpp, in fase di consultazione.
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Piano nazionale d’azione Gpp per il 2011-2015 (in aggiornamento per il periodo 2016-2020).
Prodotti e servizi di pulizia, costruzioni, carta grafica e per copia, elettricità, ristorazione, mobili, apparecchiature per immagini, attrezzature IT per uffici, tessile, trasporti.
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Piano nazionale sul Gpp, del 21 maggio 2009.
Carta, elettricità, apparecchiature per ufficio, mobili, trasporti, alimentare e della ristorazione, edilizia, pulizia.
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Costruzione e manutenzione, energia, trasporti, apparecchiature per ufficio, carta e pubblicazioni, mobili, prodotti e servizi per la pulizia, eventi.
Decreto del 2015 in fase di approvazione: contiene misure per l’uso obbligatorio dei criteri ambientali.
Piano nazionale d’azione, dell’8 marzo 2007.
Veicoli e trasporti, informatica e telecomunicazioni, servizi di pulizia e lavanderia, attrezzature da ufficio, mobili e tessuti, assistenza ospedaliera, servizi di ristorazione e di catering, illuminazione interna, costruzione, edifice scolastici (senza sostanze tossiche), giocattoli, piumoni, materassi.
Obbligatorio per gli organi governativi acquisto/leasing di auto e taxi ecologici.
• Greening Government Commitments: indica la policy per il governo riguardo a “Greening operations” e appalti. • Scottish Government Sustainable Procurement Action Plan. • Welsh Assembly Government’s Procurement Policy. • Northern Ireland’s plan.
12 categorie per circa 60 prodotti: costruzioni, materiali da costruzione, prodotti per la pulizia, materiale elettrico, prodotti alimentari e della ristorazione, mobili, orticoltura, attrezzatura Ict per ufficio, carta, tessuti, trasporti, prodotti a base d’acqua.
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Non indicati
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AA+ A AA B AA AA
AA
Piano nazionale sul Gpp, del 21 gennaio 2008.
AA+ AA A
Fonte: sintesi, a cura dell’autore, del Rapporto della Commissione europea “National Gpp Action Plans (policies and guidelines)”.
Policy
Questo articolo è stato realizzato grazie al sostegno di Viscolube.
Ma questa panoramica è anche utile per provare a immaginare il livello di realizzazione di una società full Gpp, caratterizzata cioè da un mercato globale fortemente connotato da una scelta pubblica in parte “forzata” verso prodotti e servizi a minor impatto ambientale. Tanto per fare qualche esempio, una società nella quale l’illuminazione pubblica sia solo
ad alto rendimento, nella quale gli edifici pubblici posseggano elevati standard di sostenibilità ambientale (dalla progettazione alla costruzione e manutenzione), nella quale per l’arredamento di uffici e scuole vengano scelti prodotti riciclati e privi di sostanze nocive. E nelle mense scolastiche siano somministrati cibi biologici e a filiera corta. Ci arriveremo?
L’obbligatorietà del Gpp in Italia In Italia, l’obbligatorietà del Gpp è arrivata con il recepimento del “pacchetto direttive appalti” (direttive 2014/24/Ce, 2014/24/Ce e 2014/25/Ce) avvenuta con il Dlgs 50/2016 entrato in vigore il 20 aprile 2016: il nuovo “Codice appalti”. Questa norma impone a tutte le pubbliche amministrazioni5 (art. 34) di inserire i criteri ambientali minimi (ovvero i Cam adottati dal ministero dell’Ambiente) nella documentazione progettuale e di gara, secondo soglie minime fissate. I Cam si riferiscono a ciascuna categoria di acquisto di prodotti e servizi e riportano le modalità che la Pa deve seguire per rendere green i propri acquisti: integrazione nell’oggetto dell’appalto, requisiti dei candidati, specifiche tecniche che il prodotto o il servizio devono possedere per essere considerati ecosostenibili, criteri di verifica
dei requisiti fissati da parte della stazione appaltante. Un ruolo centrale è dato all’offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del rapporto qualità/prezzo, valutata sulla base di criteri oggettivi tra i quali sono compresi quelli ambientali e sociali o sulla base del costo che consideri però il costo del ciclo di vita, Lcc (artt. 94 e ss.). Grande importanza è affidata alle certificazioni ambientali di prodotto, che possono essere imposte dalla stazione appaltante o accettate come mezzo di prova, ma solo a condizione che assolvano agli elevati requisiti di attendibilità posti dall’articolo 69. Nella tabella che segue si riportano i criteri ambientali minimi emanati dal ministero dell’Ambiente, con specifico riferimento e soglia minima di applicazione imposta.
CATEGORIA
DECRETO
Illuminazione pubblica
Dm del 23/12/2013 in fase di revisione
Apparecchiature elettroniche per ufficio
(Dm 13/12/2013)
Servizi energetici per edifici
Dm del 7/3/2012
Edilizia
Dm del 28/12/2015
Servizio di gestione dei rifiuti urbani
Dm del 13/2/2014
Servizio di gestione del verde pubblico
Dm del 13/12/2013
Arredo urbano
Dm del 5/2/2015
Carta in risme
Dm del 12/10/2009, agg. Dm 4 aprile 2013
Servizi di pulizia e la fornitura di prodotti per l’igiene
Dm del 24/5/2012
Arredi per ufficio
Dm del 22/2/2011 in fase di revisione
Cartucce per stampanti
Dm del 13/2/2014
Prodotti tessili
Dm del 22/2/2011 in fase di revisione
Ausili per incontinenza
Dm del 28/12/2015
Veicoli adibiti al trasporto su strada
Dm del 8/5/2012
Aspetti sociali negli appalti
Dm del 6/6/2012
Servizio di ristorazione collettiva e fornitura di derrate alimentari
Dm del 27/5/2011
5. Amministrazioni dello Stato, enti pubblici territoriali, altri enti pubblici non economici, organismi di diritto pubblico, associazioni, unioni, consorzi.
SOGLIE MINIME DI APPLICAZIONE
100%
50% fino al 2016 62% nel 2017 71% nel 2018 84% nel 2019 100% dal 2020 (Dm 24 maggio 2016)
50%
anche < 50%
65
66
materiarinnovabile 11. 2016
Gli acquisti pubblici
si fanno ancora più verdi Per l’Italia più di 42 miliardi di euro per centrare obiettivi nell’ambito – per esempio – dell’innovazione, istruzione, trasporti e ambiente: il ruolo dei fondi strutturali europei per favorire una crescita economica sostenibile e inclusiva. L’ingresso dei criteri ambientali minimi nel nuovo codice degli appalti per regolare gli acquisti verdi. di Enrico Cancila
Enrico Cancila, economista esperto di gestione ambientale, è coordinatore del Gruppo di lavoro Gpp e fondi europei, Stati generali della Green Economy, Ervet, e responsabile Unità sviluppo economico ed ambiente, Agenzia di sviluppo dell’Emilia Romagna.
Accordo di partenariato 2014-2020, www.agenziacoesione. gov.it/it/ AccordoPartenariato/ 1. Dlgs 50/2016 (art.34).
I fondi strutturali sono strumenti di intervento, creati e gestiti dall’Unione europea, programmati ogni sette anni affinché gli Stati membri possano intraprendere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva dove il principio dello sviluppo sostenibile dovrà ispirare in maniera trasversale tutte le azioni che verranno finanziate. Rappresentano la maggiore fonte di finanziamento per i progetti che si sviluppano a livello nazionale e regionale: impegnano, infatti, oltre il 35% del bilancio complessivo dell’Unione europea. In Italia, l’accordo di partenariato, adottato il 29 ottobre 2014, rappresenta il quadro di riferimento per la programmazione operativa delle risorse comunitarie dal 2014 al 2020 attraverso programmi nazionali (Pon) e regionali (Por), ed è articolato in 11 obiettivi tematici. A ogni obiettivo corrisponde un’allocazione di risorse finanziarie pertinenti uno o più dei fondi di riferimento (vedi tabella 1). In particolare si distinguono il Fesr – Fondo europeo di sviluppo regionale (finanzia per lo più attività produttive legate all’industria e ai servizi), il Fse – Fondo sociale europeo (persone, formazione), il Feasr – Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (agricoltura) e il Feamp – Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (zone costiere, pesca). Alcuni di questi obiettivi perseguono finalità direttamente ambientali (gestione delle acque
e dei rifiuti, prevenzione dei rischi e adattamento ai cambiamenti climatici, recupero dei siti inquinati, produzione di energie rinnovabili e risparmio energetico, biodiversità), mentre altri finanzieranno azioni solo in parte legate all’ambiente. È il caso dei trasporti dove parte dei fondi sarà destinata alla sostenibilità (modalità ferro\nave), o della ricerca e innovazione che prevede l’inclusione di azioni volte a processi, trasferimento di tecnologie e cooperazione nelle imprese incentrati sull’economia a basse emissioni di carbonio. O ancora dell’istruzione e della formazione, dove però esistono espliciti riferimenti ai temi ambientali e della sostenibilità. Un’altra opportunità da non sottovalutare per la promozione di un’economia verde è rappresentata dai consistenti investimenti inseriti nei programmi nazionali (Pon) come, per esempio, “Imprese e competitività” e “Ricerca e innovazione”. In questa complessa programmazione le autorità di gestione dei fondi (ogni regione ne ha identificata una per ogni fondo, come il livello nazionale ne ha una per ogni Pon) saranno chiamate anche a interfacciarsi con il nuovo codice degli appalti1 per il quale, come è noto, è prevista l’obbligatorietà del Green public procurement (Gpp) per le stazioni appaltanti italiane. I criteri ambientali minimi (Cam) emanati dal ministero dell’Ambiente divengono dunque un importante documento di base e riferimento per tutti gli appalti che saranno previsti dai fondi strutturali con il conseguente possibile emergere di alcune
Policy opportunità ma anche criticità. Sicuramente, qualora i fondi strutturali finanzino progetti diretti a beneficiari che siano enti pubblici il meccanismo di applicazione del nuovo codice degli appalti implica l’utilizzo dei criteri ambientali minimi per determinate categorie quantificando le soglie da raggiungere in termini di percentuale del valore complessivo della gara. Nella tabella 2 sono riportati i Cam che risulteranno maggiormente applicati analizzando le tipicità di spese ammissibili nei fondi strutturali.
L’aspettativa è, quindi, che tutte le procedure di affidamento di opere pubbliche avviate da enti pubblici dovranno essere verdi; se non verranno applicati i criteri ambientali minimi, tali procedure, potranno essere oggetto di ricorsi. Rispetto alla situazione precedente si tratta di un enorme passo avanti in quanto prima l’applicazione era volontaria e venivano fissate solo percentuali da raggiungere a livello regionale e nazionale (50% degli appalti complessivi nel piano d’azione nazionale) verificate tramite un monitoraggio mai arrivato
Tabella 1 | Italia – Allocazione delle risorse comunitarie per obiettivo tematico e per fondo (milioni di euro)
OBIETTIVI TEMATICI
FESR
FSE
FEASR
FEAMP
TOTALE
OT1 Rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione
3.352,7
-
441,9
-
3.794,7
OT2 Migliorare l’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nonché l’impiego e la qualità delle medesime
1.845,5
-
257,9
-
2.103,4
OT3 Promuovere la competitività delle piccole e medie imprese, il settore agricolo e il settore della pesca e dell’acquacoltura
3.575,3
-
4.103,9
218,7
7.897,9
OT4 Sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori
3.138,6
-
797,7
12,7
3.948,9
OT5 Promuovere l’adattamento al cambiamento climatico, la prevenzione e la gestione dei rischi
811,9
-
1.546,7
-
2.358,6
OT6 Tutelare l’ambiente e promuovere l’uso efficiente delle risorse
2.341,6
-
1.894,6
215,5
4.451,7
OT7 Promuovere sistemi di trasporto sostenibili ed eliminare le strozzature nelle principali infrastrutture di rete
2.473,5
-
-
-
2.473,5
OT8 Promuovere l’occupazione sostenibile e di qualità e sostenere la mobilità dei lavoratori
-
4.086,5
224,1
58,1
4.368,7
OT9 Promuovere l’inclusione sociale, combattere la povertà e ogni forma di discriminazione
1.032,9
2.268,9
789,2
-
4.091,0
OT10 Investire nell’istruzione, formazione e formazione professionale, per le competenze e l’apprendimento permanente
959,6
3.156,4
79,4
-
4.195,3
OT11 Rafforzare la capacità istituzionale e promuovere un’amministrazione pubblica efficiente
410,2
593,8
-
-
1.004,0
19.941,9
10.105,3
10.135,3
505,0
40.687,8
709,6
361,6
294,4
32,2
1.397,9
20.651,5
10.467,2
10.429,7
537,3
42.085,7
Totale OT Assistenza tecnica Totale generale
Fonte: Accordo di partenariato 2014-2020.
67
68
materiarinnovabile 11. 2016 Tabella 2 | Criteri ambientali minimi di maggiore interesse nei fondi strutturali e percentuale obbligatoria del valore della gara da raggiungere
OBBLIGO AL 50%2
Gestione dei rifiuti urbani (DM 13 febbraio 2014)
OBBLIGO AL 100%
Illuminazione pubblica (Dm 23 dicembre 2013) IT prodotti elettronici (Dm 13 dicembre 2013) Servizi energetici (raffrescamento/riscaldamento, forza motrice e illuminazione di edifici) (Dm 7 marzo 2012) Veicoli su strada (Dm 6 maggio 2012, aggiornato a novembre 2012) Edilizia (Dm 24 dicembre 2015) Fonte: Ervet.
2. È uscito il Dm 24 maggio 2016 che aumenta le percentuali di applicazione dei Cam (per le categorie merceologiche ora al 50%) a partire dal 2017, fino ad arrivare al 100% al 2020. 3. Il Cam sui trasporti su strada riprende la metodologia introdotta con la direttiva 2009/33/ CE (Dlgs 24/2011). 4. Sono stati introdotti con la Comunicazione della Commissione europea 14.12.2007 – Com (2007) 799.
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a regime e che non implicava alcuna sanzione per inadempienza. Se questo è un elemento positivo che garantirà un’applicazione maggiore dei Cam e un aumento della sostenibilità ambientale degli acquisti pubblici, sicuramente esistono ancora elementi di perplessità. In primo luogo è evidente che l’applicazione dei Cam può non rappresentare una vera spinta all’innovazione ambientale diciamo “radicale”. Da un lato, infatti, i contenuti degli stessi criteri ambientali, non a caso definiti anche “minimi”, seppure incentivano prodotti e servizi a basso impatto ambientale non vanno oltre la soglia dell’innovazione che abbia già trovato un ampio riscontro sul mercato (anche in virtù del principio di non discriminazione). Dall’altro è emersa l’esigenza di rinnovare alcuni criteri emanati diverso tempo fa basati sul vecchio codice degli appalti e sulla normativa antecedente al collegato ambientale. Altro elemento di criticità è la mancanza di strumenti operativi di valutazione dei costi dell’intero ciclo di vita di un prodotto Life cycle costing, introdotta nel nuovo codice degli appalti. Il Life cycle costing è, infatti, di difficile realizzazione poiché non esiste ancora, nemmeno a livello europeo, una metodologia di calcolo chiara e realisticamente applicabile alle diverse categorie merceologiche come è risultato da esempi di applicazioni concrete per esempio ai Cam sui trasporti.3 Questa carenza implica una evidente difficoltà a definire un trade-off corretto fra costo economico e costo ambientale. In secondo luogo è utile non sottovalutare quanto già emerso a livello generale, ovvero il drastico taglio dei flussi di spesa della pubblica
amministrazione che non incentiva gli enti pubblici, e in generale le stazioni appaltanti, a investire in un Green public procurement “spinto” che potrebbe comportare dei costi aggiuntivi. Infatti, seppure le spese sostenute siano escluse dal Patto di stabilità nel caso di utilizzo di fondi europei, si teme che gli enti beneficiari li utilizzino per coprire spese che con le entrate ordinarie non riuscirebbero a soddisfare. Questi elementi portano a dire che se vogliamo che in Italia l’applicazione del Gpp sia traino di innovazione e per il raggiungimento di rilevanti risultati ambientali, nei fondi strutturali si dovrà operare rapidamente per fornire alle stazioni appaltanti (e alle autorità di gestione) informazioni e strumenti rivisti e più semplici. In ultimo, è bene sottolineare un elemento dei fondi strutturali in sinergia positiva con il Gpp: ovvero la possibilità di finanziare gli appalti pre-commerciali.4 Il Pre commercial procurement (Pcp) è un appalto di soli servizi di ricerca e sviluppo al fine di acquistare il prodotto o il servizio non presente ancora sul mercato, mediante una serie di modelli di aggiudicazione di appalti. Il Pcp prevede la condivisione di rischi e benefici tra il committente pubblico e le imprese, il co-finanziamento da parte delle imprese partecipanti, la sperimentazione su un volume limitato di nuovi prodotti e servizi. I Pcp attengono dunque a quegli appalti “concernenti servizi di ricerca e sviluppo diversi da quelli i cui risultati appartengono esclusivamente alla stazione appaltante perché li usi nell’esercizio della sua attività, a condizione che la prestazione del servizio sia interamente retribuita da tale amministrazione” e potrebbero entrare in utile sinergia con quanto i fondi strutturali finanzieranno sugli obiettivi 1 e 3 (ricerca e competitività).
La VIA del calcestruzzo Una pavimentazione stradale in calcestruzzo dura anche 50 anni. È al 100% riciclabile, è più sicura e nel lungo periodo costa anche meno. Ma in Italia si continua a preferire il bitume. di Roberto Rizzo
Federbeton, www.federbeton.it
Aumenta la sicurezza delle gallerie stradali in caso di incendio, riduce drasticamente il consumo di energia per l’illuminazione e ha una vita utile di durata parecchio superiore rispetto a quella degli altri materiali utilizzati per la pavimentazione. Non solo, in un’ottica di economia circolare, è un materiale di provenienza locale e una volta giunto a fine vita può essere riciclato praticamente al 100%. Sono tanti i motivi che spingerebbero a puntare sul calcestruzzo per la pavimentazione delle gallerie stradali e per preferirlo al bitume. Cosa che già avviene in tanti paesi, ma non ancora in Italia. E se ci fosse bisogno di un motivo in più, ci sono le analisi del ciclo di vita (Life cost analysis-Lca) a dimostrare che la pavimentazione in calcestruzzo, più costosa da realizzare, sul lungo periodo consente però notevoli risparmi in termini finanziari rispetto al bitume. “L’impiego del calcestruzzo può garantire una durabilità anche di 50 anni nelle pavimentazioni delle gallerie stradali, durabilità che con eventuali manutenzioni straordinarie si allunga ancora”
spiega Giuseppe Marchese di Federbeton, la federazione aderente a Confindustria delle associazioni della filiera del cemento e del calcestruzzo. “Se la manutenzione ordinaria di una strada in bitume si fa di norma quasi ogni anno, con il calcestruzzo si può fare ogni 10-15 anni. Questo grazie al fatto che il calcestruzzo è un materiale molto più compatto del bitume dal punto di vista chimico e quindi risulta assai più resistente agli agenti atmosferici e all’attrito prodotto dagli pneumatici. La manutenzione straordinaria, poi, consiste nell’eliminare almeno 4-5 centimetri del manto stradale per ricostituirlo: nel caso del bitume è necessaria in genere ogni 4-5 anni, per il calcestruzzo tipicamente ogni 50 anni.” Perché in Italia si preferisce il bitume? Visti i tanti vantaggi, c’è da chiedersi per quali motivi in Italia si continuano a realizzare le pavimentazioni delle gallerie stradali in bitume e non in calcestruzzo. Anche perché il nostro paese è primo in Europa per la lunghezza complessiva delle gallerie della rete Tern (Trans-european road network).
70
materiarinnovabile 11. 2016 “Un primo motivo è di carattere culturale” afferma Marchese. “Storicamente, in Italia costruiamo in calcestruzzo armato. Questo vale per gli edifici residenziali (villette e condomini) ma anche per le infrastrutture. A questa tradizione che vede il calcestruzzo protagonista delle strutture se ne contrappone una altrettanto radicata di strade in bitume. Quella delle strade in calcestruzzo è, in realtà, una tradizione che il nostro settore delle costruzioni ha perso nel tempo con il risultato che oggi in questo campo non abbiamo più aziende attive e competenze. C’è poi il fatto che spesso le committenze
Roberto Rizzo è un giornalista scientifico esperto di tematiche energetiche e ambientali e dal 2010 insegna al Master di Giornalismo Scientifico della Sissa di Trieste.
ragionano a breve periodo nella realizzazione delle strade: preferiscono farle a basso costo in bitume e prevedere quasi ogni anno degli interventi di manutenzione, piuttosto che fare maggiori investimenti iniziali e considerare i futuri risparmi per la collettività sul lungo termine grazie alle opere in calcestruzzo”. La normativa italiana ed europea Agli inizi degli anni Duemila gli incidenti avvenuti nel traforo del Monte Bianco, nel Tauerntunnel e nel traforo del San Gottardo
Costo attualizzato complessivo pavimentazione e illuminazione – vita utile 20 anni Fonte: Dipartimento di Ingegneria civile edile e ambientale (Dicea) dell’Università degli Studi di Roma.
Costo attualizzato complessivo pavimentazione e illuminazione (euro/m2)
800 700 600 500 400
Calcestruzzo
300
Conglomerato bituminoso
200 100 0 500
1.000
1.500
2.000
2.500
Lunghezza galleria (m)
Confronto dei costi cumulati per galleria di 2.000 metri di lunghezza – 10 milioni di passaggi/anno Fonte: Dipartimento di Ingegneria civile edile e ambientale (Dicea) dell’Università degli Studi di Roma.
90.000.000
80.000.000
70.000.000
Calcestruzzo
Costo cumulato (euro)
60.000.000
Conglomerato bituminoso
50.000.000
40.000.000
30.000.000
20.000.000
10.000.000
0
5
10
15
20
Anno di esercizio
25
30
35
Case Studies hanno spinto l’Unione europea ad accrescere i livelli di sicurezza nelle gallerie. La Commissione europea è intervenuta con la direttiva 2004/54/ CE indicando requisiti minimi di sicurezza per le gallerie della Tern, senza imporre tuttavia l’utilizzo di un materiale piuttosto che un altro. Questa direttiva è stata recepita in Italia dal Dlgs 264/2006, che però non ha definito le caratteristiche delle pavimentazioni da adottare a differenza di quanto avvenuto in altri paesi europei (Austria, Germania, Slovacchia, Slovenia e Spagna) che hanno emanato normative e linee guida contenenti indicazioni riguardanti le pavimentazioni in galleria e i requisiti dei materiali più idonei. Le normative di questi paesi, pertanto, richiedono sempre l’impiego del calcestruzzo per la realizzazione delle pavimentazioni in galleria. Fa eccezione la normativa tedesca, che non prevede esplicitamente l’utilizzo del calcestruzzo, ma di materiale non infiammabile e che in caso di incendio non rilasci sostanze pericolose.
Caratteristiche soddisfatte al 100% dal calcestruzzo, materiale inerte non combustibile, che non emette gas tossici e mantiene le proprie prestazioni strutturali anche a temperature assai elevate. Cosa quest’ultima che garantisce maggior sicurezza grazie alla non deformazione del manto stradale. Meno manutenzione “Realizzare una pavimentazione in calcestruzzo rientra poi a pieno titolo nella filosofia dell’economia circolare” prosegue Giuseppe Marchese. “Primo perché le strade così realizzate sono a chilometro zero in quanto il calcestruzzo, per sua stessa natura, è un materiale locale e contribuisce allo sviluppo dell’economia del luogo. Secondo: quando l’opera giunge al fine vita, il materiale può essere recuperato quasi al 100% per realizzare inerti riciclati da utilizzare in sottofondi stradali, riempimenti o per ricavarne nuovo calcestruzzo. È però fondamentale
Risparmiare con il colore Il colore chiaro è una caratteristica fondamentale delle pavimentazioni in calcestruzzo, che pertanto hanno un coefficiente di riflessione superiore a quello delle pavimentazioni in bitume: 0,10 contro 0,07. Ciò fa sì che i conducenti di un autoveicolo possano riconoscere meglio eventuali ostacoli e percepiscano con maggiore precisione le dimensioni della carreggiata, fattori fondamentali per garantire una maggiore sicurezza in galleria. Inoltre, un coefficiente di riflessione più elevato comporta un minor consumo energetico legato all’illuminazione. Lo ha dimostrato una recente ricerca dell’Università La Sapienza di Roma che ha preso in esame alcune gallerie a due corsie di marcia di cinque lunghezze diverse: 750 metri, 1.000, 1.250 , 1.500 e 2.000. Per ciascuna lunghezza e livello di traffico sono state dimensionate sia la pavimentazione in calcestruzzo a lastre non armate, sia quella in conglomerato bituminoso; è stata quindi effettuata un’analisi tecnico-economica delle pavimentazioni e degli impianti di illuminazione a Led (80.000 ore di funzionamento totali) con riferimento all’intero ciclo di vita, assunto pari a 20 e 30 anni. Ne è emerso che nelle gallerie di lunghezza inferiore a 750 metri, il costo di primo impianto della galleria (costruzione della pavimentazione e dell’impianto dell’illuminazione a Led) risulta inferiore per le pavimentazioni in calcestruzzo. Aumentando la lunghezza della galleria, la convenienza economica della pavimentazione in calcestruzzo diminuisce per quanto riguarda il costo di primo impianto, ma il costo complessivo attualizzato
al metro quadrato delle pavimentazioni in calcestruzzo risulta inferiore a quello delle pavimentazioni in conglomerato bituminoso, qualunque sia il periodo di analisi. I ricercatori hanno anche calcolato l’anno di break-even in cui la pavimentazione in calcestruzzo risulta avere un costo complessivo (costruzione, manutenzione e illuminazione) inferiore a quello della pavimentazione in conglomerato bituminoso. Nelle gallerie di lunghezza inferiore a 750 metri il calcestruzzo risulta essere più economico già dall’anno di costruzione, mentre per quelle superiori a 1.000 metri il vantaggio si ottiene pochi anni dopo. Considerando infine i costi attualizzati per tutta la vita della pavimentazione, si ottiene un risparmio totale variabile fra il 23 e il 27% in funzione della lunghezza della galleria e della vita utile. Paola Di Mascio, docente del Dipartimento di Ingegneria civile edile e ambientale, Università La Sapienza di Roma, rileva che “lo studio condotto insieme alla Prof.ssa Laura Moretti (Università La Sapienza di Roma, Dip. di Ingegneria civile edile ambientale) ha evidenziato una evidente sostenibilità economica delle pavimentazioni in calcestruzzo in galleria. Infatti, rispetto alle pavimentazioni stradali all’aperto, la cui convenienza emerge solo nel medio-lungo periodo grazie alla ridotta manutenzione, è risultato un vantaggio economico già nel costo totale di primo impianto della pavimentazione e degli apparecchi di illuminazione (nel caso di Led) soprattutto nelle gallerie di lunghezza inferiore a 1.200 metri. Una convenienza che aumenta se si considerano anche i costi di manutenzione nell’arco della vita utile”.
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materiarinnovabile 11. 2016 La strada scelta a Laives Nel dicembre 2013 è stata aperta al traffico la galleria Laives, la più lunga della provincia autonoma di Bolzano: 2.858 metri. È una galleria bidirezionale, a un’unica carreggiata, con una corsia per senso di marcia larga 3,75 metri, costruita rispettando i criteri delle “Norme funzionali e geometriche per la progettazione e costruzione di strade” emanate dalla provincia di Bolzano nel 2006. Essendo – secondo questa normativa – classificata in classe A, il committente e i progettisti hanno deciso di sostituire la pavimentazione in conglomerato bituminoso prevista nel progetto originario, con una in calcestruzzo. Pertanto, prendendo come riferimento tecnico la normativa austriaca (visto che quella italiana non contempla il calcestruzzo), sono state utilizzate lastre in calcestruzzo non armato di spessore pari a 20 cm, gettate su uno strato di separazione in conglomerato bituminoso di 5 cm steso su uno di fondazione di almeno 30 cm. Il costo di costruzione della pavimentazione, incluso lo strato bituminoso di separazione e la realizzazione di tutti i giunti, è stato di 58 euro al metro quadrato, con risparmi energetici per l’illuminazione stimati in circa il 25%. L’aumento dei costi di realizzazione dell’opera è stata pari solo allo 0,7%.
Le strade così realizzate sono a chilometro zero in quanto il calcestruzzo, per sua stessa natura, è un materiale locale e contribuisce allo sviluppo dell’economia del luogo.
Differenza di costo fra conglomerato bituminoso e calcestruzzo Lunghezza della galleria
750
Percentuale di risparmio utilizzando il calcestruzzo
26% 27%
Fonte: Dipartimento di Ingegneria civile edile e ambientale (Dicea) dell’Università degli Studi di Roma.
20 anni 30 anni
1.000
26% 26%
1.250
26% 25%
1.500
25% 25%
2.000
23% 24%
progettare fin dall’inizio in maniera adeguata la soluzione in calcestruzzo: ogni galleria e ogni situazione di traffico ha le proprie caratteristiche. Lo stesso, d’altronde, avviene anche in edilizia: un’infrastruttura in calcestruzzo che deve rimanere per decenni nell’acqua di mare deve garantire performance diverse da una realizzata in alta montagna”. Più impegnativo, invece, pensare alla sostituzione delle strade già esistenti in bitume con quelle in calcestruzzo, in quanto in genere in Italia i servizi (per esempio la rete del gas o quella idrica) si trovano sotto la sede stradale e non al lato della stessa e quindi con una pavimentazione in calcestruzzo gli eventuali interventi successivi potrebbero risultare assai impegnativi. “Ma a parte queste situazioni, per il resto sarebbe possibile utilizzare il calcestruzzo praticamente ovunque” spiega Giuseppe Marchese. “Se fossero in calcestruzzo tutte le gallerie, gli arrivi ai caselli e gli svincoli, aree dove il manto stradale è sottoposto a particolare stress e il bitume si usura più rapidamente, la comunità risparmierebbe tanti soldi. Ritengo, infine, che il calcestruzzo non sarebbe solo vantaggioso ma indispensabile nelle gallerie di lunghezza superiore al chilometro per
motivi di sicurezza e per i risparmi che consente di avere nell’illuminazione”. “Da un punto di vista più generale, l’utilizzo del calcestruzzo azzera i costi sociali, non considerati nelle valutazioni tecnicoeconomiche, legate ai disagi e ai rischi per i continui lavori di manutenzione del manto stradale nonché quelli connessi alle condizioni di visibilità” afferma Giuseppe Mancini, professore ordinario del Dipartimento di Ingegneria strutturale, edile e geotecnica del Politecnico di Torino. “Inoltre, il ritardo culturale che in questo momento si manifesta in Italia nei riguardi dell’impiego del calcestruzzo nelle pavimentazioni in galleria deriva da una più generale arretratezza socio-culturale nei riguardi della straordinaria evoluzione che ha vissuto il materiale ‘calcestruzzo’ nel corso degli ultimi venti anni. Oggi in tutto il mondo e anche in Italia, si produce il cosiddetto tailor made concrete idoneo a rispondere a tutti i diversi requisiti prestazionali che il progettista possa richiedere e quindi in grado di consentire la realizzazione di pavimentazioni stradali durevoli e ad alta prestazione nei riguardi delle azioni di esercizio e accidentali cui potranno essere soggette nel corso della loro vita”.
Le
BIOMASSE
possono fare la differenza di Maurizio Cocchi
Per mantenere entro 2 °C l’aumento della temperatura terrestre non dobbiamo immettere più di 1.000 miliardi di tonnellate di carbonio. E visto che siamo già a quota 730, servono subito soluzioni immediate ed efficaci. L’uso sostenibile delle biomasse è una di queste. È una panoramica unica sullo stato delle cose nel settore delle biomasse – e sul loro ruolo fondamentale nella transizione a un’economia a basse emissioni – quella emersa dalla ventiquattresima Conferenza ed esposizione europea sulle biomasse di Amsterdam (Eubce 2016 - European Biomass Conference and Exhibition).
Maurizio Cocchi, editor-in-chief di BE-Sustainable Magazine e consulente Bioenergy presso ETA-Florence Renewable Energies.
Dopo lo storico accordo sul clima raggiunto alla Cop21 di Parigi, istituzioni internazionali e organizzazioni scientifiche concordano sul fatto che le biomasse e la bioeconomia sono fondamentali per raggiungere l’obiettivo di mantenere entro i 2 °C l’aumento di temperatura globale causato dai cambiamenti climatici. Secondo alcuni studi scientifici sono già state consumate 730 Gt (miliardi di tonnellate) del budget di 1.000 Gt di carbonio consentito per mantenere le temperature globali al di sotto
di questa soglia: dunque il tempo a disposizione per applicare misure efficaci è davvero ridotto. Abbiamo bisogno di soluzioni a basse emissioni di carbonio che siano operative ora: l’uso sostenibile delle biomasse è indubbiamente tra queste. La stessa bioenergia può contribuire tra il 10 e il 30% alla riduzione globale delle emissioni di CO2: un obiettivo raggiungibile inserendo la bioenergia nel contesto integrato della bioeconomia, al fine di massimizzare l’efficienza nell’utilizzo di queste risorse, per produrre energia rinnovabile, cibo e materiali. L’Olanda – il paese che ha ospitato quest’anno la Eubce – rappresenta un buon esempio di come la bioeconomia possa contribuire a creare crescita e sviluppo. Nel paese, infatti, questo settore vale già tra i 2,6 e i 3 miliardi di euro di valore aggiunto (dal 2011), considerando la produzione di materiali, sostanze chimiche ed energia. Nell’agricoltura
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1. Kwant K., “Bio-based Energy and Materials in the Netherlands”, BE-Sustainable Magazine, n. 7, maggio 2016; issuu.com/ besustainablemagazine/ docs/be-sustainable_ issue7_may2016 2. Panoutsou C., Carrez C., “A Vision for 1 Billion Dry Tonnes Lignocellulosic Biomass by 2030 in Europe”, BE-Sustainable Magazine, n. 7, maggio 2016; issuu.com/ besustainablemagazine/ docs/be-sustainable_ issue7_may2016
la lavorazione dei raccolti e la rivalorizzazione degli scarti stanno costantemente migliorando. Ci sono consorzi industriali che sviluppano metodi per ricavare residui ricchi di proteine da materie prime vegetali e usarli come alimenti. Altre iniziative di ricerca industriale studiano sistemi per estrarre enzimi dalle piante da utilizzare nell’industria chimica. In questo ambito l’Olanda si è posta l’obiettivo di sostituire entro il 2030 il 15% delle risorse di origine fossile nei prodotti chimici, mentre sono già in fase avanzata di realizzazione iniziative per produrre biobased building blocks (intermedi chimici a base biologica, per esempio l’acido succinico), polimeri e resine di origine biologica, bioplastiche e composti.1 Utilizzare le biomasse sostenibili Una delle principali sfide per attrarre investimenti nella bioeconomia europea consiste nell’utilizzare materie prime derivate dalle biomasse in modo sostenibile ed efficiente. Questo implica anche l’impiego di materie prime lignocellulosiche non derivanti da colture alimentari. Secondo la letteratura scientifica è possibile ricavare un milione di tonnellate di biomassa lignocellulosica entro il 2030 in Europa. E questo può essere fatto in maniera sostenibile.2 Ciò significherebbe raddoppiare l’attuale utilizzo delle biomasse: il che basterebbe a soddisfare
Eubce 2016 Mettere insieme una rinomata conferenza scientifica internazionale e un’esposizione industriale in costante crescita: questa la formula alla base del successo di Eubce. Un binomio che qualifica questa manifestazione come uno dei più importanti eventi al mondo sulle biomasse. L’obiettivo chiave della ventiquattresima edizione Eubce, tenutasi dal 6 al 9 giugno scorsi ad Amsterdam, è stato promuovere l’interazione tra ricerca, industria e politiche. Durante la conferenza si sono quindi affrontati argomenti come i processi di conversione per biocarburanti, le bioenergie, le bioraffinerie, le applicazioni industriali dei risultati della ricerca, per arrivare fino alle politiche e agli impatti sull’ambiente. Non ultima, l’analisi del ruolo delle biomasse nell’emergente bioeconomia. La Eubce è sostenuta da organizzazioni europee e internazionali come la Commissione europea, il settore scienze Naturali dell’Unesco, la Netherlands Enterprise Agency, la Global Bioenergy Partnership, la European Biomass Industry Association e altre organizzazioni. Il programma tecnico è coordinato dal DG Joint Research Centre della Commissione europea.
Info www.eubce.com www.besustainable magazine.com web2.etaflorence.it/cms/
la richiesta stimata sia di carburanti sia di biobased materials. Queste biomasse possono derivare da quattro fonti principali. Prima di tutto dagli scarti agricoli – per esempio la paglia dei cereali, gambi e foglie di mais – attualmente sottoutilizzati e che invece potrebbero fornire considerevoli quantità di biomassa. Una seconda fonte è rappresentata dalla silvicoltura sostenibile, che è già una delle principali fonti di biomassa lignocellulosica per esempio per l’industria cartaria. Ci sono poi gli scarti lignocellulosici (rifiuti cartacei, frazione legnosa dei rifiuti solidi urbani, scarti di giardinaggio ecc.). Infine biomassa aggiuntiva potrebbe derivare da colture industriali dedicate (per esempio prati perenni, canneti ecc.) fatte crescere su terreni agricoli inutilizzati o marginali, anch’essi largamente disponibili in Europa. Pertanto la distribuzione non sostenibile del cibo e la perdita di copertura forestale possono essere evitate grazie a una maggiore efficienza nell’agricoltura, una corretta gestione degli allevamenti e un recupero di terreni degradati. Creando così importanti sinergie tra bioeconomia e produzione alimentare sostenibile ed efficiente. Le tecnologie avanzate ci sono, manca una struttura legislativa Dopo decenni di ricerca e di sviluppo tecnologico, la costruzione di alcuni impianti dimostrativi su scala industriale ha confermato che le biomasse possono effettivamente essere convertite in energia, biocarburanti avanzati e prodotti a base biologica. Di seguito alcuni esempi. •• In Germania, l’impianto di digestione anaerobica della Verbio produce biometano per il trasporto impiegando solo paglia, quindi esclusivamente scarti agricoli, senza utilizzare mais insilato o altre colture dedicate. •• In Finlandia, la bioraffineria dell’Upm a Lappeenranta converte residui dell’industria della cellulosa in carburante diesel rinnovabile. •• In Svezia, la bioraffineria della Stora Enso utilizza lignina ed emicellulosa per produrre una gamma di prodotti per le industrie attive nel packaging, nelle costruzioni, nel settore automobilistico e nella cura della persona. •• In Italia, Novamont sta sviluppando un’idea che punta a utilizzare bioraffinerie localmente integrate per ottenere bioplastica e prodotti di origine biologica da fonti rinnovabili, attraverso la riconversione di aree industriali dismesse. Riconoscere il valore di questi esempi è fondamentale al fine di creare il consenso necessario per realizzare un contesto di politiche europee stabili, che è tuttora mancante ma essenziale per permettere lo sviluppo su larga scala della bioeconomia. Se finora l’attenzione dei politici e dei media si è concentrata troppo sui possibili effetti negativi della bioenergia, deve ora focalizzarsi sui contributi positivi che la bioenergia e la bioeconomia possono portare per raggiungere un’economia a basse emissioni di carbonio.
Case Studies
ECOMONDO
si rigenera con l’economia circolare Intervista ad Alessandra Astolfi a cura di Ilaria Brambilla
L’appuntamento riminese festeggia il ventesimo anniversario unendosi alla manifestazione gemella Key Energy per offrire un punto di incontro per le eccellenze dell’economia e della sostenibilità internazionali. Dall’8 all’11 novembre 2016. Quest’anno Ecomondo, la fiera internazionale del recupero di materia ed energia e dello sviluppo sostenibile, compie venti anni. Nata a Rimini nel 1997 come “Ricicla”, è andata crescendo con una progressione eccezionale avendo saputo mettersi al servizio di un settore importante dell’economia italiana, quello ambientale, che ancora faticava a imporsi all’attenzione del mercato. La crescita della manifestazione, dunque, grazie anche all’appoggio di consorzi e associazioni, ha accompagnato quella del mercato. Per questa edizione – che si terrà dall’8 all’11 novembre prossimi – Ecomondo ha deciso di improntare il focus sui cambiamenti climatici e sull’economia circolare. Abbiamo parlato con Alessandra Astolfi, responsabile di Ecomondo, per sapere cosa dovremo aspettarci dalla quattro giorni di Rimini. Alessandra Astolfi, Exhibition Manager di Ecomondo sin dalla prima edizione, si occupa dell’organizzazione e del coordinamento di eventi fieristici e dello sviluppo dei contenuti attraverso la relazione con le principali associazioni di riferimento del settore environmental and green.
“È una scelta che ci è sembrata giusta, nel pieno rispetto della nostra mission, che è quella di studiare il mercato e andare incontro alle sue esigenze. Uno degli obiettivi di Horizon 2020 – il Programma quadro dell’Ue per la ricerca e l’innovazione – è di posizionare l’Europa come capofila nello sviluppo di una economia circolare fondata sul concetto di sostenibilità. Sulla scia di questa decisione a Rimini presenteremo la grande piattaforma espositiva sviluppatasi, appunto, secondo i criteri della circular economy e della lotta al climate change.”
Chi saranno i protagonisti di Ecomondo 2016? “Tutti gli stakeholder del sistema ambiente ed energia nella sua più vasta accezione, con un occhio particolare alle green technologies e alla biobased industry. Il salto di qualità verso una nuova società improntata ai concetti della circular economy potrà essere fatto solo se sapremo acquisire conoscenze approfondite sulla disponibilità delle materie prime seconde e riunire tutti gli attori del sistema (industria delle materie prime, utilizzatori finali, istituzioni, società consumatori) in un’unica piattaforma che li metta insieme per raggiungere comuni obiettivi di riutilizzo e riciclo lungo tutta la catena produttiva e distributiva. Non a caso svilupperemo la nostra offerta espositiva all’insegna di tante novità: fra queste la prima mostra in Europa sulle eccellenze già esistenti e case hystory della economia circolare. L’obiettivo è rendere visibili e fruibili agli operatori del settore, alle industrie, al mondo politico e istituzionale, i molti casi di eccellenza già esistenti nell’ambito dell’economia circolare, in modo che possano rappresentare modelli di riferimento per altre realtà analoghe. Un focus molto importante verrà dedicato all’efficienza energetica in termini industriali e alle soluzioni applicative urbane all’interno dell’area Città Sostenibile, che diverrà una sorta di hub dove saranno tangibili i percorsi avviati sotto i vari profili dell’efficienza, da quella energetica a quella nell’edilizia. Le aziende presenti hanno messo a punto soluzioni eco-innovative capaci di trasformare le economie
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materiarinnovabile 11. 2016 Info www.ecomondo.com www.keyenergy.it
Ilaria N. Brambilla è geografa e comunicatrice ambientale. Collabora con istituti di ricerca, agenzie di comunicazione e con testate italiane e straniere sui temi della sostenibilità.
Horizon 2020, ec.europa.eu/ programmes/horizon2020/ Stati Generali della Green Economy, www.statigenerali.org Fondazione per lo sviluppo sostenibile, www.fondazione svilupposostenibile.org
tradizionali e di rendere più sostenibile lo stile di vita dei cittadini europei. Anche il settore dedicato al ciclo idrico integrato sarà organizzato sotto la lente di ingrandimento dell’economia circolare e dell’efficienza dei processi. Interverrà Willy Verstraete, professore emerito di ecologia microbica all’Università di Gent (Belgio) e presidente del cluster sul recupero di risorse nei depuratori municipali dell’International Water Association. Ci saranno anche il commissario europeo all’ambiente Karmenu Vella e numerosi rappresentanti della commissione europea a testimoniare la qualità e la strategicità dei contenuti affrontati nelle quattro giornate di Ecomondo.” Da sempre Ecomondo offre incontri e seminari di livello per gli addetti ai lavori. Quest’anno cosa ci aspetta sul tema dell’economia circolare? “Ne abbiamo organizzati tanti, e tutti altamente qualificati. Non sto a elencarli, i lettori li troveranno sul sito. I temi sono di grande attualità e non a caso la nostra manifestazione è punto di riferimento imprescindibile di aggiornamento e formazione. L’offerta convegnistica punterà alla decisa promozione culturale delle materie seconde e dell’economia circolare. I comitati tecnico scientifici saranno guidati da Fabio Fava (Ecomondo) e da Gianni Silvestrini (Key Energy). Inoltre è riconfermato, nelle prime due giornate di fiera, l’appuntamento con gli Stati Generali della Green Economy, organizzati dal consiglio nazionale della Green Economy, composto da 64 associazioni di imprese green, in collaborazione con il ministero dell’Ambiente e il ministero dello Sviluppo Economico e con il supporto tecnico della Fondazione per lo sviluppo sostenibile presieduta da Edo Ronchi. Anche in questa edizione, inoltre, ci sarà la sezione organizzata insieme alla Commissione europea e alla Public Private Partnership Biobased Industry dedicata alla Biobased Industry & Bioeconomy. Tra gli eventi più importanti: ‘Sustainable food and water nexus in the Mediterranean area’ e ‘Horizon 2020 and the bio-based industries joint undertaking (BBI JU): opportunities for jobs and growth in the mediterranean region’. Cito un ultimo appuntamento: il convegno a cura di Atia Iswa e Acr+ ‘Economia circolare e gestione dei rifiuti urbani: cominciamo a... circolarci dentro. Cosa deve cambiare, come e quando’ nel corso del quale si cercherà di fare chiarezza sulle implicazioni dell’applicazione dei principi dell’economia circolare nel sistema di gestione dei rifiuti urbani.” A questo proposito parliamo del quartiere fieristico di Rimini. La manifestazione sarà gestita secondo i principi dell’economia circolare (per esempio materiali riutilizzabili, sistema di gestione e valorizzazione dei rifiuti)? “Assolutamente sì. Ma non solo: tutto il quartiere fieristico è a basso impatto ambientale. L’energia
Ecomondo in World Tour Ecomondo, a cui nella sola scorsa edizione hanno partecipato più di centomila visitatori, è l’hub, il veicolo di diffusione dell’evoluto know-how italiano di settore e leader al mondo, che sempre più spesso la manifestazione esporta: solo quest’anno in Turchia, Bulgaria, Croazia, Macedonia, Slovenia, Russia, Emirati Arabi, Messico, Romania e Oman. In tutto 32 le tappe previste, in ogni continente, con l’obiettivo di massimizzare la componente internazionale della manifestazione. Inoltre, grazie a una ramificata rete di contatti, a Rimini saranno presenti delegazioni di buyers esteri altamente profilate e qualificate; inoltre sono già in corso attività in paesi chiave in Africa, Medio Oriente, Balcani. E poi Iran, Cina, Russia, Usa e Brasile, dove – come abbiamo visto – l’Italia ha già esportato una della sue più virtuose manifestazioni.
utilizzata è prodotta da un impianto fotovoltaico di ultima generazione posizionato sui padiglioni, le fontane sono a ricircolo d’acqua, il legno impiegato per le volte viene dalle foreste della Scandinavia rimboschite e controllate. E vengono usate caldaie a condensazione, ‘banche del freddo’ per l’aria condizionata.” Quest’anno Ecomondo e Key Energy – l’esposizione parallela a Ecomondo con un focus su efficienza energetica – saranno unite: cosa ha portato a questa decisione? “Ecomondo e Key Energy già rappresentavano tutto lo sfaccettato mondo della sostenibilità. Ecco perché, più integrati, si arricchiranno e completeranno a vicenda. Non dimentichiamo poi gli altri importanti appuntamenti verticali di filiera: Key Wind, l’evento italiano di riferimento per le aziende del settore eolico; H2R Mobility for Sustainability, con i grandi marchi automobilistici e i loro modelli all’avanguardia: macchine alimentate a metano, Gpl, elettriche, ibride o plug-in; Città Sostenibile, la via italiana alle Smart Cities e Condominio Eco, l’evento nazionale del mondo condominio. Last but not least, Ecomondo Brasil, che dal 4 al 6 ottobre a San Paolo terrà la seconda edizione. Combinando l’esperienza italiana di Rimini Fiera e quella di Fimai, la prima edizione di Ecomondo Brasil nel 2015 ha rappresentato un’eccellente piattaforma di business nel settore delle tecnologie ambientali a livello internazionale. Obiettivi per l’edizione 2016 sono quelli di presentare al mercato globale attrezzature e soluzioni sempre più innovative per lo sviluppo sostenibile, con focus nei settori acqua, rifiuti ed energie rinnovabili, e di favorire i contatti tra gli investitori della green economy in Brasile e potenziali partner commerciali esteri.”
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Rubriche Il circolo mediatico
La finestra sul domani Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.
L’economia circolare e la filosofia del recupero e del riuso sono idee che per fortuna si diffondono sempre di più, sia nel campo dell’attività economica sia nella vita di tutti i giorni. Così come i cittadini e le famiglie sanno che i loro rifiuti vanno divisi e differenziati, così come le aziende sono consapevoli che sprecare energia o acqua è una follia, anche i mezzi di informazione, il cinema, il mondo della cultura, quello straordinario strumento di “educazione popolare” che è il web registrano e amplificano questa onda virtuosa. Questa volta parliamo di Demain, un film di Mélanie Laurent e Cyril Dion: lei una delle attrici di Quentin Tarantino, lui un attivista ambientalista, portavoce e co-fondatore del Mouvement Colibris. Uscito in Francia lo scorso dicembre a ridosso della Cop21, questo documentario è diventato un vero e proprio caso di successo: visto da oltre un milione e trecentomila spettatori in Francia, ha ricevuto il premio César come miglior documentario francese del 2015. Presentato in anteprima al recente XIX festival CinemAmbiente di Torino, il film sarà distribuito in Italia da Lucky Red dal prossimo ottobre.
Mouvement Colibris, www.colibrislemouvement.org
CinemAmbiente, www.cinemambiente.it
Demain, ha detto Mélanie Laurent, è nato dopo la lettura di un allarmante saggio su Nature; ma subito l’intenzione è stata quella di andare oltre la semplice denuncia. Sappiamo che l’ambiente è in pericolo, che il clima sta cambiando, che sono dinanzi a noi rischi e pericoli spaventosi; tanto spaventosi da indurci anche a una sorta di depressa inazione. Demain invece è un vero e proprio inno alla speranza, una finestra su un possibile domani differente, uno sprone alla resistenza individuale e collettiva. E dunque racconta in modo garbato cosa sta accadendo al pianeta e alle nostre vite, mostrando soluzioni e raccontando storie che fanno stare bene. Laurent e Dion così hanno percorso dieci paesi fra Europa, Usa, India e Africa incontrando “pionieri” che stanno reinventando l’agricoltura, l’economia, l’approvvigionamento energetico, la democrazia e l’educazione. Insomma, il film restituisce l’immagine positiva di un mondo ricco di iniziative, di sfide ambientali e sociali che non sono condannate alla sconfitta, ma che – anzi – vengono affrontate con soluzioni concrete e sperimentate con successo. Demain sostiene una visione ottimistica da cui emerge quale potrebbe essere il mondo di domani se tutti facciamo la nostra parte. “In passato
– ha dichiarato Dion – ci siamo innamorati di un racconto che ci ha fatto pensare che saremmo stati felici consumando e producendo all’infinito. Ecco, quando abbiamo deciso di girare Demain abbiamo pensato a come fare per far innamorare le persone di un altro modello. E, per questo, abbiamo fatto un film pieno di speranza, con persone alle quali spero gli spettatori vogliano assomigliare”. E dunque, quelle che vengono proposte nel documentario sono soluzioni tutto sommato facili da imitare, di impatto locale, e non massimaliste alternative globali che – già lo sappiamo – sono difficili, se non impossibili, da realizzare. Dion e Laurent citano alcuni studi nell’ambito delle neuroscienze: se ci viene comunicata una notizia catastrofica e non ci vengono offerte soluzioni e alternative praticabili, inevitabilmente subentrano meccanismi di fuga, di negazione, rimozione, rassegnazione e cinismo. Quando invece per sistemare i moltissimi problemi del Pianeta occorre entusiasmo, creatività, desiderio e speranza e voglia di fare. Qualche esempio? Nella prima parte del film, dedicata all’agricoltura, viene mostrato come a Detroit, città socialmente desertificata dal crollo dell’industria automobilistica, siano sorte ben 1.600 fattorie urbane in cui i cittadini coltivano i propri ortaggi. È una piccola ma importantissima rivoluzione per un paese nel quale il cibo percorre in media 2.400 chilometri per arrivare dal produttore al consumatore. Nel capitolo sull’energia vengono mostrati gli esempi virtuosi di Malmö, Reykjavik, Copenaghen e dell’isola della Reunion, dove si lavora per arrivare all’ambizioso traguardo di una copertura energetica al 100% con fonti rinnovabili. La capitale danese è, come sempre, il modello per le città del futuro: il 67% degli abitanti di Copenaghen si muove senza utilizzare mezzi privati e il 26% utilizza la bicicletta. La terza parte affronta il tema delle valute alternative, illustrando esempi che funzionano, come quello di Totnes, in Gran Bretagna, dove si stampano banconote da 21 (!) sterline con l’effigie di David Bowie. Nel capitolo sull’istruzione Demain si sposta in Finlandia, dove l’insegnamento è considerato una ricchezza nazionale. L’ultimo capitolo è dedicato alla politica: fra i casi riportati c’è quello di Kuthambakkam, in India, dove si praticano meccanismi avanzati di democrazia diretta.
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Pillole di innovazione
La fine delle viti e dei chiodi Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.
Grandi come un frullatore oppure come un container, e in mezzo a questi due estremi tutti i formati. Le stampanti 3D – se ne parla in continuazione – costruiranno un sacco di cose: gioielli e pareti di case, protesi dentarie e scocche di automobili. La cosa singolare è che questo strumento consente, a chi ha costruito gli stessi oggetti prima, di fare gli oggetti che ha sempre sognato di fare ma che con gli strumenti tradizionali non era possibile fare. Molti artigiani che stanno provando le stampanti 3D scoprono questa potenzialità. È possibile andare oltre, e qui la vicenda può diventare più strana. Thomas Demand è un artista tedesco che ha posto al centro della sua attenzione il mondo sotterraneo delle grotte. Stalagmiti, stalattiti e quelle collinette tutte a strati, strisce di sedimenti sovrapposti, nei millenni. La natura nelle grotte lavora da milioni di anni con il metodo delle stampanti 3D: costruisce le sue forme strato su strato. Allora Demand sta procedendo verso la costruzione di grotte bellissime, usando le stampanti naturalmente. Per il momento si limita a dei diorama di circa tre metri per due, ma in una logica alla Christo potrebbe spingersi ben più in là. Così avremmo quelle grotte che la natura avrebbe potuto fare ma che non ha fatto. Cosa pensare di ciò? Vedremo. Ci sono quindi innovazioni che aprono nuovi mondi, ovvero non si limitano – sebbene le loro potenzialità siano rivoluzionarie – a consentire di fare in altro modo quello che si è sempre fatto con altre procedure. Eccoci ai chiodi e alle viti, allora. Nei musei dedicati alle più antiche civiltà ci sono sempre dei chiodi, e pure delle viti. Le viti, in legno, hanno almeno duemila anni perché ci volle un po’ di tempo per imparare a costruire la forma elicoidale, mentre il chiodo è più immediato, ovviamente, ma anche meno efficiente nel tenere insieme le cose. Ebbene, il futuro è delle colle. È un futuro gestito dalla scienza dei materiali, che ha cambiato il concetto di collosità. Le colle avanzate, infatti, si basano su materiali che interpretano la struttura materica alla quale devono agganciarsi e a essa offrono una superficie, come dire, complementare. È un po’ come se si fossero scalate le pareti indossando dei chewing gum appiccicaticci e poi si fosse scoperto che degli scarponi
rigidi con i ramponi, adattandosi alle tante piccole sporgenze della pietra e alle pareti di ghiaccio, sono molto più efficienti. All’Università Riken, in Giappone, hanno realizzato una striscia di stoffa collosa che tiene su qualche centinaio di chili attaccandosi al vetro. Le nuove collosità, però, mostrano una tendenza pervasiva che va ben oltre l’abolizione di chiodi e viti. C’è chi (sono quelli di Google che lavorano all’auto che si guida da sola), ragionando sul fatto che negli incidenti d’auto cittadini nei quali è coinvolto un pedone, gli sventurati sono colpiti e anche gettati sulla strada, magari addosso a un’altra auto, sta progettando superfici super collose da collocare sul cofano delle auto con l’obiettivo di agganciare il pedone e ridurre i danni. Va segnalato che, in generale, tutte queste nuove colle hanno anche la particolarità di poter essere rimosse facilmente. Tengono centinaia di chili, ma poi si tolgono come se fossero uno scotch. Nel caso del pedone sul cofano questo fatto è ovviamente importante. Altrimenti, se l’incidente fosse grave bisognerebbe seppellirlo insieme all’auto. Se i danni fisici invece fossero modesti, la sua vita cambierebbe molto, diventando anche monotona perché, collocandosi sul cofano e ostruendo la visibilità del guidatore, l’auto finirebbe in sosta permanente e non ci sarebbe nemmeno la possibilità di andare un po’ in giro.
A B B I A M O T O LT O UN PESO INIMMAGINABILE D A L L E S P A L L E D E L F U T U R O.
Noi di Ecopneus in soli 4 anni abbiamo recuperato 1 milione di tonnellate di pneumatici fuori uso, il peso di 8 navi da crociera. E le abbiamo trasformate in qualcosa di più. Grazie a un lavoro etico e trasparente, 100 milioni di pneumatici fuori uso hanno fatto sudare e divertire tantissimi sportivi diventando campi di basket, tennis e calcio. Hanno ridotto il rumore negli uffici plasmandosi in pareti fonoassorbenti. Hanno protetto migliaia di bambini come gomma antiurto nei parchi giochi. Hanno rivestito chilometri di strade con manto gommato e attenuato le vibrazioni di numerose linee ferrotranviarie. Hanno dato energia sostenibile ad aziende in Italia e all’estero. Ma soprattutto, hanno fatto una cosa inestimabile: reso il nostro Paese un posto più vivibile per le generazioni future.