Materia Rinnovabile #12

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 12 | settembre-ottobre 2016 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Ellen MacArthur: la signora che ha bocciato l’economia lineare •• Ecodesign: a che punto siamo? •• Kiribati: una lezione dalle isole (s)perdute

Dossier Canada/Bioeconomia: dall’acero alla chimica verde •• Pacchetto Ue: chi vince e chi perde nel futuro circolare •• Crowdfunding, oggi la colletta si fa online

Biobutandiolo, meglio con lo zucchero che con il petrolio •• Attenti alla carbon bubble •• Missione compiuta al 99% •• Un viaggio dove la materia è per sempre •• Dai rifiuti all’edilizia green

Euro 12,00 - Versione online gratuita su www.materiarinnovabile.it

Oceano di plastica •• Quando necessità fa virtù




NOVITÀ DA EDIZIONI AMBIENTE

Nonostante se ne parli parecchio, in pochi hanno chiaro cos’è davvero l’economia circolare. Sarà perché si tratta di un concetto ancora giovane, sarà perché è un ombrello sotto cui rientrano idee e pratiche diverse come la bioeconomia, il remanufacturing, la sharing economy, la biomimesi… Serve una mappa? Che cos’è l’economia circolare di Emanuele Bompan e Ilaria Nicoletta Brambilla 160 pagine, formato tascabile euro 15,00 Acquisto su www.edizioniambiente.it Info: libri@edizioniambiente.it


GRUPPO

Gruppo CAP a Ecomondo 2016 Ricerca, innovazione, sostenibilità, economia circolare

8 -11 RE OVEMB

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lione D1 g i d a P a er o Rimini Fi ater Exp Global W 5 stand 14 4 a i s r co

Dalle sperimentazioni per produrre energia dai fanghi alle soluzioni innovative per il servizio idrico, dallo smart metering alla ricerca dei microinquinanti: presenteremo i nostri progetti per confrontarci sulle sfide ambientali che chiamano in causa anche il mondo dell’acqua.

Martedì 8 novembre 10.30 - 11.00 Stand Gruppo CAP Workshop: si scrive Water Safety Plan e si legge rivoluzione per l’acqua del rubinetto 14.30 - 17.00 Sala Global Water Expo Convegno: Acque potabili, inquinanti emergenti e prime applicazioni di piani di sicurezza 16.00 - 17.00 Stand Gruppo CAP Workshop: Lo strumento della consultazione preliminare di mercato per la valorizzazione dei fanghi da depurazione

Mercoledì 9 novembre 10.30 - 11.00 Stand Gruppo CAP Workshop: La ricerca perdite in sistemi acquedottistici medio-piccoli. In collaborazione con Blue Gold, BM Tecnologie, Pide, More 10.00 - 13.00 Sala Global Water Expo Convegno: Water management within the circular economy. Resource recovery from the water cycle: market, value chains and new perspective for the water utilities and chemical industry 13.00 - 14.30 Piazza delle Utilities Lunch conference: Da depuratore a bioraffineria, l'esperienza del Gruppo CAP. In collaborazione con: Austep, Althesis, Agrosistemi e Sever Trent, CNR, CIB, Veolia, Università di Verona

Giovedì 10 novembre 10.30 - 11.00 Stand Gruppo CAP Workshop: Smart Metering – Interoperabilità Drive by e Fixed network e sperimentazione di sistemi di Gamification nel ciclo idrico. In collaborazione con Gest srl e Politecnico di Milano 14.30 - 17.00 Piazza delle Utilities Convegno: Gestione Acque Meteoriche in ambito urbano: situazione attuale e prospettive 14.30 - 17.00 Stand Gruppo CAP Workshop: Enerwater - Stato dell'arte e ipotesi di applicazione nella Water Alliance. In collaborazione con Università di Verona

Venerdì 11 novembre 10.30 - 11.00 Stand Gruppo CAP Workshop: Il webgis a rete – La tecnologia a servizio della sharing economy. In collaborazione con Abitat Sit, One team, Brianzacque e Uniacque Bergamo 13.30 - 14.30 Stand Gruppo CAP Workshop: La rete rurale a supporto della laminazione dei deflussi di piena provenienti dai territori urbanizzati, in collaborazione con Consorzio Est Ticino Villoresi, Consorzio di bonifica Muzza Bassa Lodigiana 14.30 - 16.30 Piazza delle Utilities Convegno: Fanghi di depurazione in agricoltura fra Scienza, Economia, Legislazione e Cronaca

#acquadainnovare

www.gruppocap.it comunicazione@capholding.gruppocap.it


A B B I A M O T O LT O UN PESO INIMMAGINABILE D A L L E S P A L L E D E L F U T U R O.

Noi di Ecopneus in soli 4 anni abbiamo recuperato 1 milione di tonnellate di pneumatici fuori uso, il peso di 8 navi da crociera. E le abbiamo trasformate in qualcosa di più. Grazie a un lavoro etico e trasparente, 100 milioni di pneumatici fuori uso hanno fatto sudare e divertire tantissimi sportivi diventando campi di basket, tennis e calcio. Hanno ridotto il rumore negli uffici plasmandosi in pareti fonoassorbenti. Hanno protetto migliaia di bambini come gomma antiurto nei parchi giochi. Hanno rivestito chilometri di strade con manto gommato e attenuato le vibrazioni di numerose linee ferrotranviarie. Hanno dato energia sostenibile ad aziende in Italia e all’estero. Ma soprattutto, hanno fatto una cosa inestimabile: reso il nostro Paese un posto più vivibile per le generazioni future.


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e

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Ogni tonnellata di vetro riciclato evita l’emissione di 670 kg di CO 2 .

Riduce le emissioni di CO 2 e fa risparmiare energia

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Produzione a ciclo chiuso

Produzione

da quante volte viene riciclato in un ciclo chiuso.

indipendentemente da quante

Raccolta e riciclo

Perché non perde mai le sue proprietà chimiche

Perché il vetro è un materiale permanente?

Materiale grezzo riciclato

Cos’è un materiale permanente?

Consumo: uso e riuso

Produzione

@FeveEU h //feve.org 2016

di vetro è di colmare il gap nel riciclo a ciclo chiuso.

Oggi più di 7 contenitori di vetro su 10

minimizza la dipendenza da materie prime vergini. Il riconoscimento legale

Per promuovere l'economia circolare

Materie prime

dalla legislazione?

Legislazione

Raccolta

Riciclo

Vetro - Un materiale permanente Si veda lo studio “Permanent Materials in the framework of the Circular Economy concept: review of exis ing literature and de ini ions, and classi ica ion of glass as a Permanent Material”, Stazione Sperimentale del Vetro, giugno 2016


Partner

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Media Partner

MATERIA RINNOVABILE Networking Partner

Sostenitori

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Partner Tecnici

Stampato da Geca Industrie Grafiche con inchiostri a base vegetale privi di oli minerali. Il sistema produttivo di Geca non produce scarichi e ogni sfrido delle nostre lavorazioni è immesso in un processo di raccolta e riciclo. www.gecaonline.it

Stampato su: copertina Crush Mais 250 g/m2, interno Crush Lenticchia 120 g/m2. Crush Lenticchia è la nuova carta ecologica di Favini realizzata gli scarti di lavorazione delle lenticchie provenienti dagli stabilimenti Pedon che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero. www.favini.com

Eventi


Editoriale

Due test per l’Europa di Antonio Cianciullo

La ratifica dell’accordo di Parigi e il Pacchetto sull’economia circolare. Sono due test per l’Europa. Servono a misurare la sua capacità politica ma anche la nostra capacità di leggere la politica. Perché per entrambe le questioni si possono fornire versioni opposte, ognuna condita con una certa dose di logica e con un folto gruppo di sostenitori. Proviamo a riassumerle. Prima tesi: gli apocalittici. L’accordo di Parigi è l’ennesima presa in giro del circo che da oltre due decenni ruota attorno alle Nazioni Unite per produrre conferenze che non portano a risultati pratici. Volete una prova? Eccola. Gli scienziati, compresi quelli dell’Ipcc, cioè dell’Onu, hanno detto chiaro e tondo che per mettere in sicurezza l’atmosfera occorre tagliare in maniera drastica e rapida le emissioni di gas serra. Dunque bisogna lasciare sottoterra due terzi delle riserve di combustibili fossili finora note, altro che cercarne di nuove come ancora si continua a fare. Le chiacchiere sui tagli futuri sono solo greenwashing: la verità è che si continua a inquinare alla grande. La strada maestra era quella indicata nel Protocollo di Kyoto: mantenere il principio dei tetti di emissione da non superare, con sanzioni per chi sgarra. Quanto al Pacchetto dell’economia circolare basta vedere come il testo proposto dalla commissione Juncker ha ridotto gli obiettivi proposti dalla commissione Barroso: una vergogna. Sia l’accordo di Parigi sia il nuovo Pacchetto sull’economia circolare sono beffe. Seconda tesi: gli integrati. L’intesa di Parigi è non solo il massimo ottenibile, ma anche un ottimo accordo. Pensare che si potesse andare oltre è follia: la governance globale sui grandi ecosistemi è un estremismo che non porta da nessuna parte. Gli orfani del comunismo tentano di riciclarsi, ma il libero mercato è l’unica forza in grado di guidarci fuori dalla crisi economica. Si andrà avanti per gradi, tenendo presente le priorità economiche. Così come per il Pacchetto dell’economia circolare ci sarà da faticare già per realizzare le proposte della commissione Juncker, figuriamoci per le altre. A questo punto del ragionamento spesso si usa dire che la verità sta nel mezzo. Un’affermazione

amata dai cerchiobottisti, ma poco calzante in questo caso. In entrambi i ragionamenti quello che non funziona è la gerarchia: gli apocalittici pongono l’ambiente al vertice e l’economia sotto, gli integrati rovesciano le priorità. Ed entrambi gli schieramenti hanno una visione statica, come se la partita fosse ormai chiusa e il verdetto definito. Non è così. Le ragioni dell’ambiente senza sostenibilità economica portano a un rapido collasso della società, e le ragioni dell’economia senza sostenibilità ambientale portano un poco più lentamente allo stesso risultato. Inoltre la partita è più che mai aperta. Il dibattito sull’economia circolare e l’intervista a Ellen MacArthur che ospitiamo in questo numero mostrano che un percorso di crescita eco eco (economica ed ecologia) è possibile a patto di giocare una battaglia che si sviluppa all’interno e all’esterno dei parlamenti, con l’opinione pubblica e i new media che svolgono un ruolo sempre più determinante. Quello che è stato ottenuto finora è certamente insufficiente per la messa in sicurezza dei grandi ecosistemi, ma rivela un trend che si sta accentuando e che sta dividendo anche il mondo dei combustibili fossili, in parte tentato dalla riconversione per inserirsi nel mercato green in rapida crescita. “Non si tratta di fare un po’ meno peggio ogni anno, ma di ricostruire un modello diverso con un grande potenziale economico”, dice a Materia Rinnovabile la fondatrice della Ellen MacArthur Foundation definendo il Pacchetto sull’economia circolare “un inizio di grande successo”. Certo la tecnologia da sola non basta: servono un nuovo atteggiamento e nuove abitudini, ma l’economia circolare è un modello che tiene assieme proprio questi due elementi. Negli ultimi mesi abbiamo visto la nascita del primo impianto industriale a livello mondiale per produrre biobutandiolo senza una goccia di petrolio e una crescita dell’approccio sharing nel campo della mobilità. Se il finale di partita è incerto, si può dire che le carte che oggi ha in mano il fronte dell’innovazione sono notevolmente migliorate. Bisogna giocarle al meglio.


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M R

12|settembre-ottobre 2016 Sommario

MATERIA RINNOVABILE Antonio Cianciullo

RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014

a cura di

Think Tank

Hanno collaborato a questo numero Agnese Agrizzi, Piero Attoma, Diego Barsotti, Jeremy Benstein, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Simona Bonafè, Filippo Brandolini, Rudi Bressa, Mark Campanale, Luigi Capuzzi, Giacomo Cassinese, Gianfranco Di Segni, Joanna Dupont-Inglis, Simona Faccioli, Sergio Ferraris, Roberto Giovannini, Marco Gisotti, Daniele Gizzi, Global Affairs Ministry & Natural Resources Canada, Irene Ivoi, Josu Juaristi Abaunz, Gianfranco Locandro, Ellen MacArthur, Glenn Mason, Alessandro Massalin, Achille Monegato, Ivana Pais, Mauro Panzeri, Piernicola Pedicini, Federico Pedrocchi, Matteo Piras, Fabio Simonelli, Nils Torvalds, Silvia Zamboni, Luca Zocca

Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi

Policy

Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini

12

La signora che ha bocciato l’economia lineare Intervista a Ellen MacArthur

Mauro Panzeri

18

Lezione a Kiribati

Antonio Cianciullo

22

“Sul clima serve giustizia ambientale”

Irene Ivoi

24

Il design della non materia

a cura di

28

Vincitori e sconfitti di un futuro circolare

Simona Faccioli

32

Curare il verde con il Gpp

Silvia Zamboni

36

Se la colletta si fa online

Joanna Dupont-Inglis

Ringraziamenti Ilaria Catastini, Alessandro Colantoni, Eliana Farotto, Margherita Gagliardi, Patrizia Giuliotti, Stefania Maggi, Emma Mariconda, Federica Mastroianni, Paolo Palleschi, Mario Pinoli, Luigi Radice Caporedattore Maria Pia Terrosi

Due test per l’Europa

Emanuele Bompan

Direttore responsabile Antonio Cianciullo Direttore editoriale Marco Moro

9

Dossier Canada a cura di

41

Design & Art Direction Mauro Panzeri Impaginazione Michela Lazzaroni Traduzioni Erminio Cella, Laura Fano, Franco Lombini, Mario Tadiello

Dall’acero alle bioraffinerie

Mario Bonaccorso Dossier Canada a cura di Global Affairs Ministry Canada & Natural Resources Canada

46

a cura di Global Affairs Ministry Canada & Natural Resources Canada

49

Una rinascita industriale

Dossier Canada Tutte le risorse del Canada


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Coordinamento generale Anna Re

Emanuele Bompan

54

Meglio lo zucchero del petrolio

Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabile relazioni internazionali Federico Manca

a cura di

58

Diego Tavazzi

Case Studies

Rudi Bressa

La bolla degli incombustibili Intervista a Mark Campanale

61

L’edilizia green che nasce dai rifiuti

Marco Moro

66

L’olio disegna un cerchio perfetto

Sergio Ferraris

70

Un viaggio dove la materia è per sempre

Emanuele Bompan

74

Artificiali e sicuri

Sergio Ferraris

78

Filiere incrociate

Marco Gisotti

82

Missione compiuta al 99%

Sergio Ferraris

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Più riciclo in rete

Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright ©Edizioni Ambiente 2016 Tutti i diritti riservati

Rubriche

Il circolo mediatico Roberto Giovannini

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Oceano di plastica

Pillole di innovazione Federico Pedrocchi

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Quando necessità fa virtù

In copertina Jan Brueghel il Vecchio e Peter Paul Rubens, L’Eden e la caduta di Adamo ed Eva (particolare), olio su tavola, c. 1615 Pinacoteca Reale Mauritshuis, L’Aia, Paesi Bassi Wikimedia Commons, public domain


Ellen MacArthur


Think Tank

La signora che ha bocciato

l’economia lineare

Intervista

Come – e perché – una navigatrice da record è diventata l’icona della circular economy. Ecco la storia della Ellen MacArthur Foundation, nota nel mondo come acceleratore verso la transizione. a cura di Emanuele Bompan

Ellen MacArthur è la velista che ha stabilito il record mondiale per la circumnavigazione del globo non stop più veloce mai effettuata. È divenuta icona dell’economia circolare dando vita alla Ellen MacArthur Foundation, che ha lo scopo di reinventare le modalità di consumo e produzione.

Energica, discreta, autorevole, esplicita, complessa. Ellen MacArthur è la signora dell’economia circolare. Ha convinto Google e il Forum economico mondiale che il modello dell’economia lineare è al capolinea. E che si può davvero cambiare il modo in cui nel mondo si produce e si consuma. Ellen MacArthur è nata quarant’anni fa in Inghilterra. Allora non sapeva che il suo destino sarebbe stato segnato dalla forma geometrica più perfetta: il cerchio. Nel piccolo villaggio di Whatstandwell nel Derbyshire, lontano dal mare, risparmiò ogni centesimo per comprarsi una barca. Il suo scopo? Circumnavigare il globo, solcare gli oceani come navigatrice. Cosa che ha fatto. Meglio di chiunque altro. Il 7 febbraio del 2005 ha infranto il record mondiale di circumnavigazione solitaria del globo, un’impresa che le ha dato notorietà internazionale. Ha impiegato 71 giorni, 14 ore, 18 minuti e 33 secondi per percorrere le 27.354 miglia nautiche (50.660 chilometri). Nel 2010 ha deciso di concentrarsi su un altro cerchio. Il 2 settembre di quell’anno si è ritirata dalla sua carriera di navigatrice. Aveva in mente qualcosa di unico. Creare una fondazione (la Ellen MacArthur Foundation, oggi nota in tutto il mondo) per lavorare con il mondo del business e dell’istruzione al fine di accelerare la transizione verso un nuovo tipo di economia. Un nuovo modello in cui tutto è volutamente rigenerativo e ricostitutivo. Un sistema in cui niente viene

buttato, nessun materiale rappresenta un valore inutilizzato, in cui il prodotto entra in un ciclo di “reincarnazione” e trasformazione, usando fonti di energia sostenibile e generando un impatto positivo sull’economia. Un’economia che ha la forma di un cerchio, l’economia circolare. Ellen e la sua fondazione hanno lavorato per dare un ruolo centrale a questo nuovo modello, coinvolgendo il Forum economico mondiale, e grandi aziende come Google, Ikea e Banca Intesa, in partnership con società di consulenza come McKinsey e ispirando pensatori e ricercatori. Le onde non l’hanno mai fermata. E una volta che hai addomesticato l’oceano, niente può più fermarti. Quindi ha deciso di fare qualcosa che richiede ancora più coraggio. Portare la nave-Terra fuori dal modello economico tradizionale lineare e petro-capitalistico. E potrebbe anche stabilire un altro record. Materia Rinnovabile l’ha raggiunta nel suo ufficio di Cowes, sull’Isola di Wight, per parlare dell’entusiasmante futuro dell’economia circolare e del suo sforzo per arrivare a qualcosa che nessuno è mai stato capace di raggiungere. E di come navigare in solitaria può cambiare il mondo. Signora MacArthur, sei anni fa lei ha fondato la Ellen MacArthur Foundation, una delle iniziative di maggior successo per creare un nuovo modello industriale, ispirata da pensatori come Amory Lovins, Gunter Pauli

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Tutte le immagini sono tratte dal sito www.ellenmacarthurfoundation.org

materiarinnovabile 12. 2016

Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008. Autore con Ilaria Brambilla del libro Che cos’è l’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016).

Pubblicazioni Ellen MacArthur, www.ellenmacarthur foundation.org/ publications

e William McDonough. Come è partita questa avventura e qual è lo scopo della fondazione? “Lo scopo è quello di estendere l’idea di un’economia circolare all’economia globale. Il primo passo che abbiamo compiuto verso il successo è stato lavorare sull’economia circolare, darne una definizione e cercare di capirla nel miglior modo possibile. È in continua evoluzione e attualmente comprendiamo solo una piccola parte di quello che è realmente. Ma per capire la natura e la mutazione sistemica dell’economia circolare dobbiamo tenere conto delle materie prime, dei cicli biologici, della tecnologia, del settore terziario e di quello bancario: comprende tutto. Inoltre, è fondamentale capire che l’economia circolare è sistemica. Una volta che abbiamo definito cos’è l’economia circolare abbiamo dovuto rendere pubblica l’idea. Per questo negli anni abbiamo presentato otto rapporti e tre libri sull’economia circolare. Il primo rapporto, presentato al Forum economico mondiale del 2012, era focalizzato sulla circolarità media-complessa su un periodo compreso tra uno e dieci anni. Il totale del potenziale economico, stimato nel 2005, era pari a 600 miliardi di dollari. I numeri erano grandi, nonostante fossero riferiti al solo riciclo del 25% dei materiali componenti i prodotti all’anno. Ma il rapporto è stato una rivelazione e ha fatto sì che la gente cominciasse ad aprire gli occhi e a essere più consapevole dell’esistenza di una reale opportunità. Nel gennaio 2013 poi, siamo andati avanti con un secondo rapporto, incentrato sui Fmcg (Fast-moving consumer goods), i beni di largo consumo, e abbiamo scoperto un potenziale economico di 700 miliardi di dollari nel mercato globale, non così difficile da raggiungere perché il ciclo produttivo dei beni a largo consumo è molto più veloce. Abbiamo guardato gli elementi biologici contenuti nei rifiuti alimentari e le confezioni di plastica come materiali con un alto potenziale. Con il secondo rapporto siamo stati invitati

al Forum economico mondiale (Wef) di Davos (siamo al terzo anno di partnership col Wef). Nel terzo rapporto – realizzato insieme al Wef – abbiamo studiato come la global supply chain e la catena del valore possono diventare circolari. Abbiamo avuto un impatto sull’economia globale.” Da allora come vi siete evoluti? Rivoluzionare l’economia globale, bisogna ammetterlo, non è un compito da poco. “Quando abbiamo lanciato la fondazione abbiamo stabilito di occuparci di tre settori cruciali. Primo: lavorare direttamente con le aziende, studiando come potrebbero diventare più circolari. E , all’inizio sapevamo molto poco di questo percorso, avevamo solo una vaga idea di come potesse apparire il successo. In secondo luogo volevamo approfondirne l’analisi, comprendere la razionalità economica. Infine, volevamo studiare le opportunità per l’economia circolare derivanti dalla formazione. Io insisto molto su questo aspetto, proprio perché formiamo dirigenti. Bisogna andare oltre la semplice pubblicazione di articoli economici: noi mostriamo il valore educativo dell’economia circolare. Portiamo avanti questo progetto educativo per creare business leader veramente ‘circolari’ e allo stesso tempo per offrire un punto di vista che sia d’ispirazione, cosicché le persone vedano che la nostra economia può funzionare in un modo diverso. Ciò vale specialmente per i giovani, che sono ancora in una fase della loro vita in cui le idee si radicano. Abbiamo feedback fantastici da loro, perché all’improvviso c’è così tanto da fare, e più lo facciamo – e più lo facciamo velocemente – più abbiamo possibilità di avere una potente economia ricostitutiva e rigenerativa. Speriamo che, in futuro, arrivi una generazione circolare.” Come si evolverà il vostro lavoro? “Credo che la fondazione continuerà a lavorare sulla formazione, a collaborare col mondo del business, con le città e con il governo, a lavorare


Think Tank sulla comunicazione e sulle pubblicazioni, accelerando le idee e promuovendo iniziative sistemiche. Secondo la nostra visione continueremo a focalizzarci su queste cinque aree e a spingere più forte possibile, come abbiamo sempre fatto, come squadra. Ora lavoriamo in molti luoghi: abbiamo persone in Brasile, negli Stati Uniti, qui in Gran Bretagna, in Europa. Abbiamo un team a Bruxelles, in India e in Cina, che osservano gli studi economici e danno vita a iniziative. Il nostro lavoro sta accelerando molto rapidamente, sta diventando globale a una velocità mozzafiato che solo tre anni fa non avrei neanche potuto immaginare. Solo per portare avanti queste cinque cose a livello globale, con la stessa modalità applicata con successo dal Forum economico mondiale, abbiamo ancora molta strada da fare. È tutto così complesso che è impossibile dire a che punto saremo tra dieci anni.” Il vostro è l’osservatorio più sofisticato e globale sull’argomento. In quali luoghi l’economia circolare si sta maggiormente radicando? “È più avanti in Europa. Ci sono elementi che si stanno sviluppando in molti paesi, ma pensando che si tratta di un cambiamento sistemico, direi che si sta maggiormente evolvendo in Europa. Oltreoceano il mercato sta cominciando a prendere l’avvio: abbiamo un team in Usa e portiamo avanti confronti incredibilmente positivi, abbiamo partner globali negli Stati Uniti. E anche i mercati emergenti hanno un enorme potenziale nell’economia circolare. Nel mondo occidentale abbiamo costruito il sistema lineare, abbiamo una produzione lineare, un pensiero lineare, una progettazione lineare, è difficile uscirne. Nei mercati emergenti si può sfuggire a questo. Se si costruisce da zero, andare direttamente all’economia circolare ha molto più senso e crea un enorme vantaggio.” Come state promuovendo le idee dell’economia circolare nelle economie in via di sviluppo? La fondazione ha provato a influenzare le agenzie di cooperazione e sviluppo per fare in modo che creino un ponte tra questi modelli? “Abbiamo avuto molti colloqui, con organizzazioni come la Banca Mondiale, l’Asian Development Bank e naturalmente il Forum economico mondiale, così come incontri informali con leader economici mondiali. Stiamo puntando in particolare sull’Africa e sul suo potenziale di sviluppo: ci sono molti dibattiti in corso sui benefici dell’economia circolare e in quel continente ci sono tante opportunità. Una volta che ci si rende conto di quanto grande sia questa opportunità, subito si costruisce un modello ricostitutivo, che fa in modo di mantenere i prodotti e i materiali al loro massimo valore. Non si tratta di fare un po’ meno peggio ogni anno, ma ricostruire un modello diverso con un grande potenziale economico. Certo sarà una sfida, ci sono molti ostacoli sul percorso.”

L’Ue ha appena approvato un Pacchetto sull’economia circolare, che contiene una serie di politiche per incentivare l’industria a sviluppare modelli di business basati sull’economia circolare. Pensa che servano politiche più ambiziose di queste? “Questo fa parte del processo. Sappiamo ancora così poco dell’economia circolare. Come nella politica, cercare di fare la cosa giusta è davvero incredibilmente difficile, perché l’ultima cosa che si vuole è attuare qualcosa con le migliori intenzioni per poi scoprire che genera l’effetto contrario. L’economia circolare è correlata alle politiche, non le prescrive. Quindi le politiche possono aiutare, ma non necessariamente devono definire esattamente cosa bisogna fare. Si tratterà di imparare dagli errori, ne sono sicura, ma ciò che è stato incredibilmente positivo è che la Commissione europea ha cambiato obiettivo, passando dalla semplice gestione dei rifiuti a un vero Pacchetto sull’economia circolare, con un cambiamento sistemico e il lancio, nell’estate scorsa, di una consultazione pubblica, cosa che ha fatto la differenza. Io penso che il Pacchetto sia stato un inizio di grande successo. Guardate ai feedback venuti dal business, da città e regioni che hanno lavorato su questo per molti anni, che tornano alla Commissione dopo il primo Pacchetto, dicendo che dobbiamo realizzare l’economia circolare, non solo occuparci della gestione dei rifiuti. Penso che abbiamo una reale opportunità di creare una legislazione innovativa: entrambe le parti vogliono creare l’economia circolare.” Qual è il paese europeo leader in questo campo? “Di sicuro si sta facendo molto in Olanda. Qui negli ultimi dieci anni si è lavorato parecchio con il governo e la cittadinanza. Nei Paesi Bassi hanno un atteggiamento un po’ diverso, molto aperto. Inoltre, alcune difficoltà che hanno avuto legate alla geografia e alla limitatezza del territorio

Ellen MacArthur Foundation, www.ellenmacarthur foundation.org

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materiarinnovabile 12. 2016 sono sicuramente un motivo per cui il pensiero circolare è stato diffusamente accettato. Ci sono alcuni esempi sorprendenti di processi industriali. Ma ci sono nicchie in posti inaspettati. Abbiamo lavorato, per esempio, con la città di Phoenix o con Barcellona, luoghi in cui il pensiero è veramente proiettato al futuro.” Come possono una città o una regione diventare leader di un’economia circolare? “Bisogna coinvolgere tutte le parti in causa. Creare un cambiamento sistemico non è facile perché non lo si può fare da soli, bisogna farlo con molti altri partner. Per riuscirci è necessario riunire tutti intorno a un tavolo.” Molti temono che il modello circolare abbia un impatto negativo sull’occupazione. Cosa dice la vostra ricerca? “Quando abbiamo effettuato lo studio sull’Europa, all’inizio della consultazione pubblica per il Pacchetto circolare, abbiamo lavorato specificamente con il German Employment Economic Group, cercando in particolare di capire quale influenza avrebbe avuto l’economia circolare sul mondo del lavoro. Ci sarà un aumento o un calo dell’occupazione? I risultati hanno mostrato che – molto probabilmente – ci sarà un impatto positivo. Effettivamente l’occupazione potrebbe diminuire nell’industria della lavorazione delle materie prime, ma aumentare in quella della rilavorazione e nei servizi. Prendiamo Airbnb come esempio di economia circolare: enormi hotel si costruiscono in tutto il mondo – chiaramente seguendo un modello lineare – quando improvvisamente arriva Airbnb e dimostra che c’è un sacco di spazio inutilizzato all’interno degli edifici, che può invece essere usato. E attraverso la rivoluzione digitale dell’IT sblocca spazi precedentemente non disponibili, quasi introvabili. Improvvisamente abbiamo questa visibilità all’interno degli spazi ancora liberi dell’economia globale. Si potrebbe trattare di materiali di riserva,

attrezzature di riserva, qualsiasi cosa: di colpo tutto può essere connesso. E questo crea posti di lavoro. È il momento ideale per l’economia circolare perché abbiamo la tecnologia informatica che facilita la realizzazione di tutto ciò. Cinque anni fa non avremmo potuto predire che effetto avrebbe avuto la rivoluzione digitale sull’occupazione, tutto a un tratto l’economia informale, la condivisione e l’economia circolare stanno svelando delle opportunità.” Come cambierà il commercio con l’economia circolare? “Nell’impresa tradizionale si acquista il prodotto e lo si vende, e poi lo si rivende in caso di vendita al dettaglio. Fine dalla storia. Questo cambierebbe perché i clienti non possiederanno i materiali, li useranno solo per un po’ di tempo. Per l’azienda quell’attrezzatura sarà ‘a casa di qualcun altro’ per un po’. In realtà per il settore finanziario questo sarà un cambiamento enorme. Le società finanziarie stanno cercando di capire come un business che ha adottato un modello circolare sbloccherà un maggiore potenziale economico e stabilirà il suo modello di gestione del fatturato. È fondamentale che il settore finanziario capisca la differenza tra lineare e circolare.” La Fondazione compie molti studi. Collabora con tanti centri di ricerca? “Abbiamo 14 partnership con le università, per supportare l’insegnamento e la ricerca sull’economia circolare: dalla London University all’Università Bocconi di Milano. Stiamo vedendo un crescente interesse nelle partnership di ricerca. I professori vogliono essere coinvolti, vedono l’opportunità, vogliono capire l’economia circolare più in profondità. Ci sono molti modelli da comprendere, le conseguenze della loro adozione, prendiamo Uber o Airbnb come esempi. Faremo le cose diversamente, creeremo l’opportunità di avere veicoli di riserva, edifici di riserva, per rilavorare tutto, e dobbiamo trovare un modo per utilizzarli, per trarre beneficio da questi processi. Stiamo realizzando un’immagine di cos’è l’economia circolare: più completa sarà l’immagine, più facile sarà per altre aziende, città, regioni entrare nello spazio circolare.” Come è successo che una navigatrice da record sia diventata l’icona dell’economia circolare? “È stata una cosa assolutamente inaspettata; non avrei mai immaginato di farlo. Tutto ciò che volevo fare da quando avevo quattro anni era navigare in barca, e ho passato tutto il mio tempo libero pensando alla navigazione. Per anni ho risparmiato i soldi che avevo per la scuola per potermi comprare una barca, ho lasciato la scuola a 17 anni per diventare un’istruttrice di navigazione, a 18 anni ho pianificato il mio giro del mondo in solitaria. Tutto era navigazione, stare sul mare, trovare uno sponsor, uscire e stare sull’acqua, e io lo amavo più di ogni altra cosa. Anche oggi


Think Tank lo amo come sempre, essere sul mare per me è una vera calamita. Non c’era assolutamente nessun motivo per smettere, dovrei essere ancora lì a farlo. Ma qualcosa mi ha fatto smettere. È incredibilmente difficile andare per mare. Immagini di stare per partire oggi dall’Italia per circumnavigare il mondo, senza soste, porterebbe tutto quello che è necessario alla sua sopravvivenza. Tutto. Ha una barca, il suo piccolo mondo, e mette tutto lì sopra, per sopravvivere tre mesi, o quattro o cinque, a seconda di quanto è veloce la barca. Ora quando parte, è tutto lì. Il suo collegamento con la terraferma finisce, e si prepara a essere in mare per l’intera durata del viaggio. Se esaurisce qualcosa non ce n’è più, non può fermarsi a comprarne ancora, nell’oceano aperto si è a 2.500 miglia dalla città più vicina, a cinque giorni di distanza dal luogo di arrivo della tappa e da qualunque altra cosa: si è davvero isolati e si sviluppa davvero un altro modo di pensare. Ci si abitua e ci si predispone in una modalità diversa. E improvvisamente – durante il secondo giro del mondo – ho pensato che la nostra economia non è tanto diversa dalla barca, visto che abbiamo un mondo con risorse limitate. Anche se in barca quando finisco il mio viaggio torno indietro, mi rifornisco e riparto. Mentre noi non possiamo farlo, non abbiamo altre risorse.

World Economic Forum, The Race for Resources with Ellen McArthur, At a Glance, Earth Timelapse, Davos, aprile 2016, Video Still

La nostra economia non è tanto diversa dalla barca, visto che abbiamo un mondo con risorse limitate. Anche se in barca quando finisco il mio viaggio torno indietro, mi rifornisco e riparto. Mentre noi non possiamo farlo, non abbiamo altre risorse.

E questo all’improvviso mi ha colpito, non sapevo niente dell’economia circolare, ovviamente non avevo mai sentito neanche il termine, non ci avevo mai pensato. Questo è ciò che mi ha portato a cercare di capire l’economia globale. Ho cominciato a leggere tutti i libri che potevo, ho incontrato esperti, scienziati, economisti, educatori, cercando di capire. Se l’attuale modello che utilizziamo non funziona, quale può funzionare? E inizialmente si punta sul ‘dobbiamo usare meno, dobbiamo viaggiare meno’. Ma poi ci si rende conto che tutto questo è essenziale, dobbiamo assolutamente essere attentissimi a quello che usiamo ora, perché le nostre risorse non sono infinite. Non si tratta di educare tutti i giovani del mondo, dicendo loro ‘dobbiamo usare tutto un po’ meno’. Si sa che non funziona, perché abbiamo dei desideri. E allora si comincia a pensare ‘allora cosa funziona?’. E improvvisamente si scopre che se cambiamo il sistema, possiamo recuperare tutti i materiali, possiamo usare la progettazione biomimetica, condividere modelli economici – il che porta all’utilizzo estremo dei prodotti – e utilizzare un’economia di performance in cui si potrebbe fare la stessa cosa con prodotti più complessi. Di colpo si vede che il pensiero sistemico può cambiare tutto. Ed è il viaggio personale che ho intrapreso che mi ha fatto realizzare che il sistema non funziona, l’economia lineare non funziona sul lungo termine. Ecco come ho cominciato a pensare, da sola sulla mia barca, a una nuova economia, in grado di essere ricostitutiva e rigenerativa, per ricostruire il capitale naturale, che fondamentalmente si è degradato dall’inizio della Rivoluzione industriale. E ora il viaggio è iniziato!”

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Lezione a Kiribati Paradisi naturali e isole sperdute nel Pacifico nascondono storie più complesse di una cartolina esotica: ad esempio atolli che scompaiono, ormai sommersi dalle acque. Due viaggiatori raccontano in un libro Kiribati, un arcipelago che sta dall’altra parte del mondo. di Mauro Panzeri

Oceano Pacifico, circa 14.500 chilometri dall’Italia: Kiribati, dall’inglese Gilbert Islands, è una repubblica dal 1979 e fa parte, geograficamente, della Micronesia. Composta da 33 atolli corallini a filo d’acqua, si estende su una superficie totale di 717 chilometri quadrati dove vivono circa 100.000 persone, ad altissima densità abitativa e con elevato tasso di disoccupazione. È un popolo di pescatori, marinai e agricoltori, la metà dei quali vive a Tarawa, l’atollo in cui si trova la capitale. Contrariamente a quanto farebbero supporre le mappe dei paradisi “mordi e fuggi”, Kiribati non vive di turismo. Ne ricordiamo la storia più recente: è stato protettorato britannico, un colonialismo che ha coinciso con uno sfruttamento eccessivo delle risorse e anche con un trasferimento coatto di parte della popolazione a Nauru, 700 chilometri da Tarawa,

per l’estrazione dei fosfati. Poi arriva il Giappone, che nel 1942 occupa queste isole ma le perde poco dopo in una terribile battaglia con gli Stati Uniti; infine i test nucleari anni ’60 quando in quest’area vengono sganciate più di 30 bombe a idrogeno. Una storia non proprio semplice, per un paradiso. E oggi Kiribati è di fronte a un nuovo, inquietante problema. Queste isole nel Pacifico hanno dovuto affrontare il problema delle mutazioni del clima: l’innalzamento del livello del mare causato dal riscaldamento globale e le forti tempeste hanno messo in pericolo il loro fragile ecosistema e ne hanno eroso le coste facendo penetrare acqua salata all’interno degli atolli, contaminando l’acqua potabile e distruggendo le coltivazioni. Così Kiribati sta lentamente scomparendo. In parte già sommersa, in 20 anni sarà inabitabile e in 50/100 anni scomparirà definitivamente


Tutte le immagini ©24 ORE Cultura, 2016

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dalle mappe. Questo almeno ci raccontano le informazioni facilmente reperibili in rete. Il nome Kiribati è diventato famoso nel mondo ambientalista, discusso nelle grandi assemblee internazionali, un esempio efficace e un argomento a supporto. Questo oggi è il suo fardello. È diventato un caso, oltre che controverso, di difficile soluzione. Qualche anno fa l’ex Presidente Anote Tong acquistò un terreno libero di 5.000 acri a Vanua Levu nelle isole Fiji (3.000 km a sud), con l’obiettivo di trasferirvi la popolazione, in una migrazione graduale ma ad altissimi costi, soprattutto umani, quella dei migranti ambientali, altro argomento ben conosciuto. Attratti da queste e altre storie così lontane, due giovani progettisti italiani, Alice Piciocchi e Andrea Angeli, lasciato il loro lavoro, decidono di scavalcare il mondo e raggiungere Kiribati. “Siamo partiti dall’Italia con l’idea di trovare una nazione in stato d’emergenza, famiglie spaventate con le valigie pronte e una strategia di evacuazione consolidata e condivisa a livello nazionale. Quello che ci siamo trovati davanti è stato uno scenario molto diverso”, scrivono nella prefazione al volume che oggi è la testimonianza del loro viaggio. Kiribati. Cronache illustrate da una terra (s)perduta è un libro nato al ritorno dalla loro lunga visita, che non è stata certo turistica. A Kiribati i due stranieri, tra i pochi presenti, hanno frequentato

famiglie e cerimonie, raccolto appunti, video, fotografie, registrazioni, e intessuto relazioni e amicizie. L’impegno era sì di farsi accogliere, ma anche di essere sensibili, mettendosi in ascolto per capire e documentare. Solo al ritorno gli autori decidono di rivedere il tutto e trasformarlo in libro. Ne è valsa la pena, perché Kiribati non merita solo di essere un caso ambientale da manuale. Gli autori scoprono, per esempio, che gli abitanti non vivono l’ansia dell’emergenza e che nessuno ha un’idea precisa del futuro. Vivono una vita al contempo semplice e difficile, tra piante e pesci meravigliosi e problemi d’alimentazione, inquinamento delle falde acquifere, obesità dovuta ai prodotti d’importazione, antiche tradizioni e impatto con il presente, scarse comunicazioni. L’ispirazione al libro l’hanno data le memorie di viaggio di tradizione ottocentesca, illustrate, narrative e ricche di leggende: Kiribati è un volume di etnografia leggera e gentile, assolutamente contemporaneo ma senza una fotografia, disegnato con raffinate cromie e scritto con la semplicità di un diario personale; le tavole illustrate raccontano la gente, i sogni, le architetture, i riti, gli animali e i frutti, l’acqua e il cielo. E vi sono pure belle infografiche che lo rendono ancor più attuale. Volete conoscere Kiribati e la sua gente? Questo volume vi aspetta. Le illustrazioni di questo articolo provengono da lì.

Alice Piciocchi e Andrea Angeli, Kiribati. Cronache illustrate da una terra (s)perduta, 24 ORE Cultura, 2016

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“Sul clima serve

GIUSTIZIA AMBIENTALE” di Antonio Cianciullo

Il rabbino Gianfranco Di Segni e Jeremy Benstein, docente di etica ambientale e direttore associato dell’Heschel Center for Sustainability di Tel Aviv, spiegano il punto di vista del mondo ebraico sulla sfida per il recupero dell’equilibrio tra uomo e natura.


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Heschel Center for Sustainability, www.heschel.org.il/ heschelen-media

Lynn White, “The Historical Roots of Our Ecologic Crisis”, Science 10 marzo 1967, v. 155, n. 3767, pp. 1203-1207; doi: 10.1126/ science.155.3767.1203

L’etimologia di “giardino” (gan) che in ebraico è la stessa di “conservare” o “proteggere” (le-hagen). Il passaggio del Deuteronomio (20:19-20) in cui si prescrive il divieto di distruggere gli alberi da frutto persino quando ci si trova in guerra e si assedia una città. La richiesta (Numeri 35:2-5) di lasciare attorno alla città una striscia di territorio della larghezza di mille cubiti dove non sono permesse né case né coltivazioni perché serve “per la bellezza della città”, come spiega il rabbino italiano Ovadià da Bertinoro (Bertinoro, 1455 – Gerusalemme, 1516). E l’invito (Qohelet Rabbà 7) a non fare danni irreparabili: “Quando l’Onnipotente creò Adamo lo condusse a fare un giro nel giardino dell’Eden. Gli disse: ‘Guarda le mie opere, quanto sono belle, meravigliose! Le ho fatte tutte per voi. State bene attenti a non spogliare e distruggere il mio mondo, perché se lo farete nessuno potrà porvi rimedio”. Sono tracce per esplorare la strada della sensibilità ambientale nel mondo ebraico. Tutte e tre le religioni monoteiste (come abbiamo visto nei servizi pubblicati sui numeri 4, 6/7 e 10 di Materia Rinnovabile) hanno in comune l’aspirazione alla cura del creato. Ma questa indicazione ha dovuto fare i conti con una storia travagliata e con interpretazioni che spesso hanno finito per spingere l’umanità in direzione opposta. Sull’onda dell’allarme prodotto dalle dimensioni bibliche che rischia oggi di assumere il cambiamento climatico, il mondo religioso è percorso da un fermento di preoccupazioni ambientali che però si esprimono in modo diverso in base alle tradizioni delle singole comunità e alle modalità organizzative che ogni religione ha scelto. Con la Laudato si’ il papa ha dato su questo tema un segnale di inedita forza facendo anche riferimento alla necessità di superare concretamente il problema rilanciando l’uso delle fonti rinnovabili e il recupero della materia, in contrapposizione alla logica dello spreco. Il mondo musulmano è segnato da spinte contraddittorie nei confronti della modernità e dunque dell’impegno alla soluzione dei nodi ambientali. Qual è la sensibilità dell’ebraismo davanti all’attualizzarsi di rischi che nessun testo antico poteva prevedere e che quindi vanno giudicati interpretando in chiave contemporanea gli insegnamenti? Circa un terzo dei precetti religiosi ebraici è riconducibile a indicazioni sulla tutela della salute e dell’ambiente, ma come vengono attualizzati? Il rabbino Gianfranco Di Segni indica elementi che possono fornire chiavi di interpretazione. Per esempio il rapporto con il cibo: “L’umanità in origine era vegetariana, nell’era messianica tornerà a esserlo e in ogni caso l’alimentazione

va organizzata senza procurare sofferenza agli animali. Inoltre nel Talmud si precisano le distanze a cui vanno tenute, rispetto alle abitazioni, le attività a maggior impatto ambientale sotto il profilo dell’inquinamento o del rumore. Sono tutti segnali, assieme al grande rispetto per gli alberi, che rivelano un’attenzione antica a questi temi che oggi è più che mai d’attualità”. Attenzione antica con riferimento ad aspetti puntuali, problemi nuovi che riguardano aspetti globali. Come si fa a colmare questa distanza? “Non è facile rispondere per due motivi. Il primo è che ‘come risolvere il problema climatico’ non è una delle questioni su cui l’ebraismo è più concentrato”, risponde Jeremy Benstein. “Il secondo è che ci sono 16 milioni di ebrei, moltissime comunità e opinioni contrastanti sui principali temi d’attualità: è complicato dire cosa pensa il mondo ebraico inteso come assieme. Posso ricordare per esempio che a Filadelfia c’è un gruppo molto impegnato sui temi ambientali, ma potrei citarne altri che la pensano diversamente. In sintesi, comunque, direi che non si fa abbastanza”. Esiste un punto di riferimento teorico a cui agganciare il rilancio dell’attenzione? “Il concetto di stewardship, citato anche da Lynn White in The Historical Roots of Our Ecological Crisis”, continua Benstein. “È l’idea di una leadership che si conquista mettendosi al servizio degli altri. Si tratta di partire dai beni condivisi per costruire strategie di gestione nell’interesse comune. Non siamo di fronte a un gioco a somma zero in cui ciò che qualcuno guadagna è qualcun altro a perderlo. È piuttosto una prospettiva win-win in cui solo tutti assieme possiamo vincere”. Eppure il luogo in cui lei vive sembra rispondere a una logica opposta: il conflitto arabo israeliano è alimentato anche dalle tensioni per il controllo delle risorse ambientali, a cominciare dall’acqua. “Io credo che esista una responsabilità individuale e vada perseguito l’obiettivo della giustizia ambientale. Se i palestinesi soffrono per la mancanza di acqua non può esserci pace né sostenibilità in tutta la regione. E questa è un’indicazione che ricavo dalla Bibbia: abbiamo da poco festeggiato la Pasqua che è la liberazione dalla schiavitù. Chi è fuggito dalla schiavitù in Egitto non può che essere contrario a ogni forma di schiavitù: è la radice della richiesta di una giustizia ambientale e sociale”.

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Il design della

NON MATERIA Tra futuro immateriale e rimateria da in-formare di Irene Ivoi

1. Come celebrati da Ernesto Nathan Rogers nel 1952. 2. Come ci ricorda Robert J. Gordon in The Rise and Fall of American Growth: The U.S. Standard of Living since the Civil Wars, Princeton University Press, 2016, la vita media, cresciuta poco nell’Ottocento, si allungò di un anno ogni tre tra il 1890 e il 1950; l’allungamento medio si dimezzò poi nel restante mezzo secolo. E diventò anche più sana grazie soprattutto ai grandi investimenti nei sistemi fognari e nell’acqua corrente domestica, alle scoperte di Pasteur e in particolare all’automobile che ridusse drasticamente, nelle zone rurali, il tempo di viaggio dei medici tra un paziente e l’altro.

All’università ci insegnano che il design industriale nasce nell’Inghilterra della Rivoluzione industriale con la progettazione e il disegno di manufatti da replicare in numerose copie (uno degli esempi più luminosi sono le ceramiche Wedgwood). Ma è stato nell’Ottocento e nei primi del Novecento che i designer hanno avuto l’opportunità di disegnare davvero qualsiasi cosa, inventando prima di tutto loro stessi, la propria identità culturale e filosofica. Di fatto tenendo in mano la forma e le funzioni dei landscape domestici e urbani degli ultimi 200 anni. Certo, non tutti gli oggetti circolanti erano il frutto di una mente progettante: molto design anonimo (si veda la mostra “Hidden forms” tenutasi nel 2014 alla Triennale di Milano) ha compiuto eccellenti intrusioni nella nostra vita, ma “dal cucchiaio alla città”1 i designer molto hanno potuto. Ed è stato questo molto – più di qualsiasi rivoluzione industriale – che ha trasformato la vita umana: le piccole e grandi innovazioni disponibili negli Usa nella prima metà del Novecento hanno generato un incredibile aumento del benessere e della qualità della vita.2 Le voci critiche che si sono sollevate a partire dagli anni Settanta – basti pensare a giganti come Victor

Papanek ed Enzo Mari – sono rimaste confinate in un’area intellettuale, all’interno di un dibattito culturale destinato a pochi. Poi negli anni Ottanta, stanchi e consumati dal “tutto” che era stato disegnato, i designer si sono presi la briga di ridisegnarlo. In quegli anni il mercato dell’offerta non si poneva molte domande, chiedeva quasi solo forme: questo doveva fare il design. Il diktat era interpretare la forma, che doveva essere seduttiva e meravigliare: una fiera delle vanità neppur lambita dai primi dibattiti in Italia e in Europa sui limiti dello sviluppo. Il progettista agiva indisturbato inventando superfici sensuali e setose, mistificando la materia, rendendo cool qualsiasi tipo di impiallacciatura e pattern. Così il nostro universo materico è diventato sempre più misto, frammisto e confuso. L’economia però girava: generava deficit e debiti pubblici, ma girava e nessuno si faceva domande. La nascita del dubbio I primi dibattiti sulla raccolta differenziata dei materiali – risalenti a circa 20 anni fa – si sono posti anche come un tentativo, raramente compreso fino in fondo, di semplificare una realtà obesa, onnivora e quindi complessa. Nel mentre sono arrivate le direttive sui rifiuti a cambiare la faccia delle politiche pubbliche


Think Tank 3. Libro verde sulla politica integrata relativa ai prodotti, Com (2001) 68 def del 7 febbraio 2001. 4. Con il termine ecodesign o progettazione ecocompatibile si intende “l’integrazione degli aspetti ambientali nella progettazione del prodotto nell’intento di migliorarne le prestazioni ambientali nel corso del suo intero ciclo di vita” – Direttiva 2005/32/CE del 6 luglio 2005 relativa all’istituzione di un quadro per l’elaborazione di specifiche per la progettazione ecocompatibile dei prodotti che consumano energia e recante modifica della direttiva 92/42/CEE del Consiglio e delle direttive 96/57/ CE e 2000/55/CE del Parlamento europeo e del Consiglio – Art. 2, def. 23.

Irene Ivoi si occupa di ricerca, attuazione e comunicazione di politiche di prodotto e strategie di prevenzione impatti ambientali per consorzi di filiera, enti pubblici e imprese. Laureata in industrial design, crede in un ruolo del designer più attento a (eco) processi e servizi.

e delle responsabilità anche private in materia di gestione rifiuti (che ancora non si chiamavano risorse). In particolare fu il Libro verde sulle politiche integrate di prodotto (Ipp) del 20013 a chiamare in causa l’importanza del ciclo di vita e quindi il valore dell’ecodesign. In effetti, già dalla fine degli anni Novanta l’Europa ha richiamato a una riflessione basata sulla necessità di integrare le politiche ambientali per migliorare prodotti e servizi nell’arco del rispettivo ciclo di vita. Il nodo era come ottenere, nel modo più efficiente possibile, prodotti più ecologici: allora si parlava molto di rivoluzione imminente prodotta dai materiali riciclati che si proponevano di entrare nella nostra vita come rimateria e come farli utilizzare dai consumatori. Per sperare in un futuro più luminoso – e meno gravido di conseguenze da gestire – la partita da giocare era quella. Ma purtroppo i designer che si accostavano a quel tema erano pochissimi perché gli imprenditori attivi in quel mondo e capaci di ricorrere a loro erano radi; il design era un concetto ancora esotico e quindi i green product erano a quel tempo brutti, pochi, poveri e spesso anche troppo di sinistra. Non avevano appeal, erano ideologici. E neppure democratici visto che costavano troppo e poche

volte alla portata dei portafogli dei più. È però negli anni Novanta che si inizia a chiedere al designer un nuovo compito: progettare nuovi processi e servizi ecologici, non più solo di prodotti. Con la fine dell’edonismo reaganiano, il designer ha l’opportunità di reinventarsi – nel ruolo e funzione – in chiave sostenibile. E per passare dal prodotto al servizio trova in Ezio Manzini il suo più noto profeta. Sono gli anni in cui di fatto emetteva i primi vagiti la necessità di esprimere creatività non solo nel progettare merci, ma anche percorsi, interazioni, reciprocità, nuovi paradigmi e funzioni sostenibili. Oggi i principi dell’ecodesign4 definiti per i prodotti legati al consumo di energia o all’efficienza energetica (Direttiva 2009/125/CE) appaiono letteratura. Tuttavia, seppur scontati e incapaci di fare notizia, la loro applicazione consentiva e consente grandi benefici per l’ambiente e il portafoglio. E le best practices, che 10-15 anni fa erano poche decine, si sono sempre più consolidate nelle imprese: lo dimostrano i programmi formativi che via via proliferano, i dibattiti in Commissione europea, a livello nazionale e persino locale. La green economy, ora circular economy,

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materiarinnovabile 12. 2016 5. Legambiente al forum rifiuti di giugno 2016 stima prudenzialmente 199.000 nuovi posti di lavoro creati in Italia dall’economia circolare, al netto di quelli persi a causa del superamento del modello produttivo precedente. Una stima della Commissione Ue parla di 400.000 posti in Ue, a cui vanno aggiunti 180.000 grazie al pacchetto sull’economia circolare; secondo l’Ong britannica Wrap i nuovi posti di lavoro sarebbero 3 milioni in Ue; secondo la Green Alliance per l’Italia i nuovi occupati saranno fino a 541.000, anziché 199.000. Numeri tutti interessanti, ma ancora vaghi.

ha accresciuto il numero di addetti che impiega:5 secondo stime della Commissione Ue i posti di lavoro in Europa nel settore sono arrivati a 400.000. Circular significa capacità di produrre e consumare merci in modo da generare una ricchezza che non si disperde, che non genera output inservibili e che rigenera e usa tutto quello (o quasi) che trova sul suo tracciato. Un’economia autotrofa che trova radici e creatività (anche nel suo dispiegarsi) nella recente crisi. Ma, quasi contemporaneamente, entra in scena la terza Rivoluzione industriale, ovvero la società digitale. Quella destinata a disintermediare con sempre più disinvoltura i codici della produzione, quella che smaterializza la conoscenza per poi riaggregarla secondo altri paradigmi, disegna un futuro sfidante e impensabile fino all’altro ieri. Da una parte, quindi, la crisi, che rende vantaggioso il ricircolo della materia rigenerando anche l’idea di economia del dono e dei servizi.

Dall’altra l’innovazione del digitale, che permea il mondo con bit al posto di materia. Il ruolo del designer diventa allora sempre più centrale perché, insieme e grazie ai nuovi imprenditori, deve dare forma al cambiamento... altro che solo crudi prodotti! Alcuni designer riescono a farlo diventando autoproduttori, altri portando ecoinnovazione6 (talvolta anche digitale) nelle imprese tradizionali, spesso progettando processi di accesso ai beni invece che possesso.7 Altri ancora operando nel sociale ridisegnando relazioni e interazioni il cui teatro sono i contesti urbani e gli attori sono la società civile, oggi alla ricerca di articolazioni e relazioni più contemporanee. Il fare circolare E quali sono i principali criteri distintivi della circular che orientano oggi il “fare” dei designer? Nel caso dell’autoproduzione, la capacità di usare risorse locali che viaggiano poco

Accessori per la tavola Leuvehaven Progetto di Sebastiano Tonelli sviluppato a Rotterdam nell’ambito di un Erasmus presso la Willem de Kooning Academie. Sebastiano Tonelli si è laureato nel 2015 con “collezione 25%” alla Naba di Milano, dove ha conseguito il triennio in design e il biennio specialistico in Product Design. Leuvehaven scaturisce dal confronto culturale con l’artigianato locale e i suoi prodotti: in Olanda è infatti ancora molto forte il richiamo al ricamo e al mondo della pesca. Leuvehaven nasce dal recupero iconico di questa tradizione e delle reti da pesca impiegate.


Think Tank 6. Uno dei casi più luminosi è www.miniwiz.com 7. Un esempio divertente è www.mudjeans.eu/

(e quindi inquinano poco) e diventano espressione di territorialità che è uno dei cardini su cui si basa la circular. Se poi tali risorse sono scarti di produzione, quindi di processi che trovano un possibile reimpiego nel prodotto e nell’autoprodotto, si attua uno dei principi più cari alla circular economy: la simbiosi industriale. Il riuso si può praticare ogni volta che un materiale presenta caratteristiche di ri-lavorabilità senza perdere performance prestazionali, anzi migliorando il suo valore (upcycling). E suona come una svolta anche culturale perché di fatto tali processi si affidano a mani artigianali, a tirature limitate, che sempre più sdoganano l’imperfetto, rinunciando all’odiosa chirurgia estetica. Alla circular piace anche lo sharing di risorse, tecnologie e conoscenza perché tutto ciò che è condivisione ottimizza spesso i processi di produzione e genera efficienza; i designer sono stati pionieri nel condividere attrezzature, creatività e risorse.

E pensare allo sharing di stampanti 3d (con i fablab, i service 2.0 ecc.) fa pensare che un altro comune denominatore tra prodotto/designer e circular è proprio il mondo della stampa tridimensionale che semplifica i processi (si abbrevia la progettazione, sviluppo e time-to-market), usa materia misurata (no scarti), può funzionare con alimentazione da energia rinnovabile, impiegare materia riciclabile, generare componenti aggregabili ma separabili dagli altri... e soprattutto favorire la riparazione puntuale. Quindi la 3dprint, di cui molti maker sono innamorati, abilita la manutenzione/riparazione delle merci generando una ricambistica di supporto laddove quella standard fosse inesistente o inaccessibile. Potrebbe essere uno dei più grandi driver nemici dell’obsolescenza programmata e quindi può piacere molto a chi crede in un futuro che rigenera beni invece che cannibalizzarli in eterno. Ma la 3d è circolare anche laddove riesce a usare risorse locali (evitando rischi di approvvigionamento di materia volatile o geopoliticamente fragile) e i designer sono cellule sensibili al territorio, capaci più di altri di cogliere sfumature sociali, interpretandole con elasticità spesso meglio di un’impresa strutturata. Rigenerare una comunità, non solo un prodotto

Pillole di ecodesign I principi dell’ecodesign definiti nell’allegato I della Direttiva 2009/125/ CE (ERP – Energy Related Products) prevedevano: minimizzazione del consumo di materiali ed energia riduzione dell’uso di sostanze pericolose

minor produzione di rifiuti e minor uso di risorse output di processo e consumo qualitativamente meno inquinanti e dannosi

facilità di reimpiego e riciclaggio del prodotto

minor produzione di rifiuti a parità di prestazione

utilizzo di risorse rinnovabili, biocompatibili e locali

effetti sia sulla quantità sia sulla qualità dei rifiuti generati

ottimizzazione della vita dei prodotti (quindi loro estensione) attraverso una facile aggiornabilità, manutenzione e una scarsa obsolescenza funzionale

minor produzione di rifiuti a parità di prestazione nel tempo

semplificazione delle operazioni di disassemblaggio del prodotto

miglioramento nella differenziazione delle tipologie di rifiuto e conseguente aumento della sua qualità

Senza dimenticare, poi, il ruolo social del design. In tal senso è illuminante il percorso di Alvaro Catalàn de Ocòn. Con le sue Pet Lamp ci insegna che le tradizioni locali, massimo e magistrale esempio di autoproduzione, possono ancora rinnovarsi sotto l’ombrello di un’autoproduzione moderna e intelligente. Cioè non sono necessariamente destinate a restare polverose, antiquate o kitsch come talvolta accade nel nostro immaginario. Tutt’altro, forme archetipe si possono riconnotare grazie al global (rifiuti di bottiglie in Pet presenti ovunque) che si integra così con il local, restituendo un diverso senso a chi le fa (e conosce da sempre), rigenerando una comunità e un mestiere, non solo un prodotto. Il potere della progettazione è anche questo: rigenerare un mestiere, assumere e svolgere così un ruolo sociale. E anche questo fattore è aderente alla circular economy perché va nella direzione dell’ottimizzazione delle risorse: quelle umane/ sociali. Infine a tale riguardo non si può non citare la rivoluzione degli hub, poli/aggregatori di creatività diffusa e di nuove identità solidali. Qui si ricorre ai designer ancor meno che per progettare materia bensì per riprogettare i processi e le relazioni sui territori, inventare formule nuove per stimolare e convogliare creatività e risorse, pensare in modo disruptive e per questo più capaci di immaginare un futuro. E quando a un designer di prodotto chiediamo di parlare di ecodesign o se si riconosce attento alla sostenibilità la risposta è: “È roba da secolo scorso! Oggi se non hai un approccio anche eco al progetto, non esisti!”

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VINCITORI e SCONFITTI

di un futuro circolare a cura di Joanna Dupont-Inglis

Chi guadagnerà e chi no nella transizione all’economia circolare. Quali gli ostacoli da rimuovere. Quali i fattori su cui puntare. L’opinione di quattro membri del Parlamento europeo che, esaminando il Pacchetto Ue, sta fissando le coordinate di questo fondamentale passaggio.

Joanna Dupont-Inglis dal febbraio del 2009 è entrata a far parte di EuropaBio, l’associazione europea delle bioindustrie, e dall’aprile 2011 dirige il settore delle biotecnologie industriali.

Nella ricerca di avviare lo sviluppo dell’economia circolare in Europa, la leadership è ora passata dalla Commissione europea al Parlamento e al Consiglio. Con gli emendamenti in bozza e un aperto dibattito già in corso, il voto è ormai atteso nei prossimi mesi. Per offrire uno sguardo approfondito sulle priorità e gli obiettivi del Parlamento europeo abbiamo interpellato alcuni tra i suoi membri più influenti che hanno maggiormente lavorato sul tema: la relatrice sul “pacchetto” economia circolare Simona Bonafè (Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici), e i “relatori ombra” Josu Juaristi Abaunz (Sinistra unitaria europea – Sinistra verde nordica), Piernicola Pedicini (Europa della Libertà e della Democrazia diretta) e Nils Torvalds (Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa). Pur provenendo da diversi orientamenti politici le risposte alla domanda-chiave, su chi potrà maggiormente beneficiare dall’adozione del “pacchetto economia circolare” sono arrivate chiare e forti: l’ambiente, l’economia e i cittadini europei.

Rimangono però da chiarire dettagli importanti: con quali strumenti contrastare le barriere – come i perduranti sussidi ai settori carbon-intensive – che ostacolano l’accesso al mercato delle soluzioni tecnologiche pulite, e quale sia il modo migliore per stabilire target e misure che aiutino la riduzione del consumo di materiali, il riciclo dei prodotti e dei rifiuti, senza distorcere i mercati o impattare negativamente sull’occupazione e la crescita. La sfida cui si trovano di fronte questi leader sarà “centrare” il giusto equilibrio tra obiettivi ambiziosi per l’economia, l’ambiente e i cittadini, individuando soluzioni pragmatiche che possano essere implementate a livello nazionale e regionale. Il loro obiettivo comune è dare forma a una politica che si imponga sui tradizionali settori ad alta intensità di risorse mentre favorisce i settori emergenti, più sostenibili e competitivi. In questo numero di Materia Rinnovabile ci rivelano alcuni tra quelli che considerano essere i cardini su cui impostare lo sviluppo dell’economia del futuro.

Simona Bonafè

©www.simonabonafe.eu

Gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento europeo

Chi, secondo lei, saranno “i vincitori e i vinti” nella transizione verso un’economia circolare? “Partirei da una premessa. Oggi in Europa, con l’attuale sistema economico lineare, ci sono circa 600 milioni di tonnellate di rifiuti con potenzialità di riutilizzo che perdono valore e sono completamente esclusi dal ciclo produttivo. Il che ha effetti negativi sia sulla competitività industriale sia sulla sostenibilità ambientale. Incentivando il riutilizzo e il riciclo potremmo

passare a un modello di produzione e consumo in grado di ribaltare questi svantaggi in opportunità e vantaggi. L’intera società sarebbe ‘vincitrice’: da una parte, per esempio, i produttori che potranno beneficiare di materie prime a prezzi minori; dall’altra i cittadini che usufruiranno di prodotti con una maggiore durata di vita. I dati presentati dalla Commissione parlano chiaro. Se – entro il 2030 – si riducesse il fabbisogno di fattori produttivi di una percentuale compresa tra il 17 e il 24%, si avrebbe un risparmio annuo


Policy Simona Bonafè è Referente sul Circular Economy Package dell’Ue. In questo ruolo ha il compito di schematizzare la posizione del Parlamento sul tema e di rappresentare i Mep durante gli incontri trilaterali con la Commissione e il Consiglio europeo. In quanto parlamentare Ue, Simona Bonafè è membro dell’Environment, Public Health and Food Safety Committee e substitute member del Committee on Industry, Research and Energy.

per il settore industriale europeo nell’ordine di 630 miliardi e una contemporanea riduzione delle emissioni totali di gas a effetto serra del 2-4%. Al contrario i ‘perdenti’ saranno coloro che non capiranno la spinta innovativa della transizione verso un’economia circolare. Forse non se ne renderanno conto nel breve periodo, ma nel giro di pochi anni vedranno come i consumatori preferiranno i nuovi modelli business in grado di offrire prodotti maggiormente riutilizzabili, riparabili e riciclabili.” Vede un ruolo per la bioeconomia all’interno dell’economia circolare? Se sì, quali collegamenti individua tra i due sistemi? “La bioeconomia svolge un ruolo fondamentale all’interno dell’economia circolare. Un uso più efficiente dei rifiuti urbani potrebbe costituire, infatti, un incentivo importante alla catena di approvvigionamento della bioeconomia. Mi riferisco in particolare, a una gestione sostenibile dei rifiuti organici che offra la possibilità di sostituire le materie prime ottenute utilizzando combustibili fossili con prodotti sostenibili ricavati grazie all’uso delle rinnovabili. Per incentivare su ampia scala questo modello e promuovere l´integrazione tra produzione industriale biobased e gestione dei rifiuti è necessaria una legislazione sui rifiuti che indichi chiaramente quali obiettivi si vogliono ottenere. E quali e quante risorse finanziarie pubbliche si hanno a disposizione per raggiungerli.” L’Italia è uno dei leader mondiali nello sviluppo e nella commercializzazione di prodotti rinnovabili a base biologica. In un periodo di prezzi del petrolio bassi e di continui ingenti sussidi all’industria dei combustibili fossili, quali misure bisogna

adottare per assicurare la transizione da un’economia lineare a un’economia circolare e rinnovabile? “In Italia il comparto della bioeconomia coinvolge circa il 7% degli occupati, con tassi in continua crescita. È un dato incoraggiante che indica anche la bontà delle politiche messe in atto negli ultimi anni. Con il nuovo collegato ambientale (Environmental Bill) si è data un’ulteriore spinta in questa direzione. Mi riferisco alle nuove disposizioni in tema di Green public procurement per le amministrazione pubbliche, allo schema nazionale sull´impronta ambientale dei prodotti o agli incentivi per le imprese che producono beni dal recupero di scarti. Il passo successivo da compiere è di utilizzare in maniera più razionale la leva fiscale, andando a premiare i prodotti che hanno un ‘indice di circolarità’ più elevato.” Come, secondo lei, l’economia circolare può ridisegnare il “panorama dei materiali” delle economie europee? Possiamo immaginare prospettive differenti per i cosiddetti “materiali permanenti” – come vetro e metalli – per promuovere efficacemente il riciclo a ciclo chiuso? “Saranno gli stessi consumatori a influenzare il material landscape orientando le proprie scelte di acquisto verso prodotti e materiali in grado di essere riutilizzati, di durare più a lungo ed essere più facilmente riciclati e/o riparati. Obiettivo del legislatore è creare un quadro normativo chiaro che rispecchi le priorità presenti nella gerarchia dei rifiuti. In questo contesto si inseriscono i permanent material che per loro caratteristiche possono già adattarsi ai principi dell’economia circolare. E i tassi di crescita di questi settori (per esempio l’alluminio) confermano ancora una volta quanto i consumatori premino queste caratteristiche.”

Josu Juaristi Abaunz

©WikiCommons / Euskal Herria Bildu

Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica

Chi, secondo lei, saranno “i vincitori e i vinti” nella transizione verso un’economia circolare? “Tutta la società, nel suo insieme, guadagnerà dalla transizione a un’economia circolare europea: cittadini, business, ambiente e autorità pubbliche. Questa transizione darà l’opportunità di reinventare la nostra economia, rendendola più sostenibile e competitiva. E l’ambiente ne beneficerà poiché le nostre risorse potranno ri-entrare nel ciclo economico. Risorse naturali che – dobbiamo ricordarcelo – sono limitate e le stiamo esaurendo. In aggiunta a questo, l’economia circolare creerà nuove opportunità di business collegate, da una parte, all’innovazione e all’ecodesign e dall’altra

al recupero di risorse e agli impianti di riciclo. Inoltre, i cittadini stessi trarranno vantaggi dalla crescita economica e occupazionale e dall’opportunità di vivere in un Europa più sana e più attenta all’ambiente. Ciò nonostante, vorrei sottolineare che questo obiettivo potrà essere raggiunto completamente solo modificando l’attuale piano d’azione. Specie per quanto riguarda gli inceneritori; perché non solo le discariche, ma anche gli inceneritori sono altamente inquinanti e all’origine di problemi sanitari. Secondo noi, il testo finale dovrebbe quindi ridurre al minimo le possibilità di uso degli inceneritori, per esempio introducendo il divieto di bruciare materiali riciclabili. Credo, comunque, che la transizione dovrebbe

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materiarinnovabile 12. 2016 Josu Juaristi Abaunz è un giornalista eletto nel Parlamento Ue per il gruppo GUE/NGL nel maggio 2014. Come Mep e membro del Commitee on the Environment, Public Health and Food Safety si è occupato di economia circolare, problemi energetici, radiazioni ed emissioni dei trasporti. Juaristi Abaunz è anche substitute member del Committee on Regional Development.

avvenire senza impatti negativi a lungo termine. È vero che – nel breve termine, nella fase di adattamento – alcuni settori del business potrebbero avere problemi economici, ma saranno ricompensati sul lungo periodo. Inoltre, va tenuto presente che queste aziende riceveranno assistenza durante la transizione.” Vede un ruolo per la bioeconomia all’interno dell’economia circolare? Se sì, quali collegamenti individua tra i due sistemi? “Entrambi i concetti sono collegati, naturalmente. La bioeconomia è la risposta a cruciali sfide ambientali che il mondo sta già fronteggiando. È finalizzata a ridurre la dipendenza dalle risorse naturali, a trasformare i processi produttivi, promuovere la produzione sostenibile di risorse rinnovabili dalla terra, dall’industria ittica e dall’acquacoltura e la loro conversione in cibo, mangimi, fibre, prodotti a base biologica e bioenergia, facendo crescere l’occupazione e l’industria. Proponiamo che le risorse siano gestite in modo da preservare il loro valore e la loro energia, quindi rendendo possibile un’economia circolare come pure una riduzione dei costi per le autorità pubbliche e la minimizzazione degli impatti su ambiente e salute.” L’Ue è già leader mondiale nello sviluppo della tecnologia per ottenere prodotti rinnovabili a base biologica ma a volte fatica a commercializzarli. In un’epoca di prezzi del petrolio bassi e di continui abbondanti

sussidi all’industria fossile, quali misure chiave bisogna attuare per assicurare la transizione da un’economia lineare a una circolare e rinnovabile che ci aiuti a rimanere nel limite che ci siamo posti per la riduzione delle emissioni di gas serra? “Prima di tutto gli incentivi per promuovere prodotti rinnovabili e di origine biologica dovrebbero essere dati sia al business sia ai consumatori. La creazione di un mercato di materie prime secondarie, con garanzie, è cruciale per rompere il blocco della commercializzazione e accedere ai mercati. Inoltre, una buona progettazione dei prodotti e l’ecodesign sono i prerequisiti per assicurare una vera transizione a un’economia circolare. Questo perché permette all’energia incorporata di rimanere efficacemente nel sistema più a lungo preservando il valore dei materiali e consentendo un’economia circolare resiliente che crea posti di lavoro locali e non fa male alle persone. I prodotti che non possono essere riutilizzati, riparati, disassemblati, rilavorati, riciclati o compostati dovrebbero essere riprogettati o progressivamente eliminati dal mercato. In più ci sono ottimi esempi da cui possiamo imparare. Tra il 2011 e il 2015 la provincia di Gipuzkoa nei Paesi Baschi ha quasi raddoppiato il tasso di riciclo rendendo così inutile l’investimento in un impianto di incenerimento. Quanto accaduto a Gipuzkoa è la prova tangibile del fatto che una transizione verso un sistema di gestione delle risorse basato sull’economia circolare è possibile.”

Piernicola Pedicini Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia diretta

Chi, secondo lei, saranno “i vincitori e i vinti” nella transizione verso un’economia circolare? “I principali vincitori saranno i cittadini dell’Unione europea: in termini di miglior salute e qualità dell’ambiente in cui viviamo. Ci saranno vari benefici, a partire da una migliore informazione sull’impronta ambientale dei prodotti che permetterà ai consumatori di fare scelte informate. In un’economia circolare, i piani per l’obsolescenza sono estromessi e i cittadini non si ritroveranno con prodotti che si rompono appena dopo la scadenza della garanzia. L’economia circolare incentiverà i produttori a pensare prodotti che durino di più e siano più facili da riparare e riciclare. E l’intera società beneficerà anche di nuovi posti di lavoro ‘verdi’. Ma anche i produttori saranno vincitori nella transizione, poiché l’economia circolare darà una spinta al mercato di materie prime

secondarie, che saranno più accessibili e avranno costi di produzione ridotti. Direi che le sole perdenti in questo processo saranno le società che vorranno continuare a estrarre e sfruttare risorse secondo l’economia lineare, come le aziende del settore fossile.” Vede un ruolo per la bioeconomia all’interno dell’economia circolare? Se sì, quali collegamenti individua tra i due sistemi? “Senza dubbio il settore della bioeconomia gioca un ruolo importante nella riduzione della dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili. E, grazie a questo suo potenziale, dovrebbero essere promosse nuove tecnologie e nuovi processi per la bioeconomia ad alto potenziale di sostenibilità. La bioeconomia può fornire prodotti e materiali a uso efficiente delle risorse che sono cruciali in un’economia circolare. Un esempio: il legno sostenibile


Policy Piernicola Pedicini è un fisico medico e ha un background come direttore sanitario. In quanto Mep, è membro del Committee on Environment, Public Health and Food Safety, è substitute member del Committee on Industry, Research and Energy e coordinatore del gruppo politico Efdd.

che può essere usato come sostituto di materiali non rinnovabili.” L’Ue è già leader mondiale nello sviluppo della tecnologia per ottenere prodotti rinnovabili a base biologica ma a volte fatica a commercializzarli. In un’epoca di prezzi del petrolio bassi e di continui abbondanti sussidi all’industria fossile, quali misure chiave bisogna attuare per assicurare la transizione da un’economia lineare a una circolare e rinnovabile che ci aiuti a rimanere nel limite che ci siamo posti per la riduzione delle emissioni di gas serra? “Per concretizzare la transizione la misura più urgente da adottare è eliminare tutti i sussidi ecologicamente dannosi, come quelli al settore del fossile o i fondi per gli inceneritori. Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale, nel 2015, l’Ue ha speso 330 miliardi di euro in sussidi al fossile.

Lo stesso studio stimava che l’eliminazione dei sussidi nel 2015 avrebbe aiutato i governi a risparmiare 2,9 miliardi di euro (corrispondenti al 3,6% del Pil), tagliato le emissioni di CO2 di oltre il 20% e ridotto le morti premature dovute all’inquinamento atmosferico del 55%, salvando quindi 1,6 milioni di vite umane. È anche essenziale definire gli obiettivi e gli indicatori riguardanti la misurazione del consumo di risorse e l’impronta di carbonio dei prodotti. Anche gli standard di ecodesign sono fondamentali per assicurare che tutti i prodotti siano efficienti nell’uso delle risorse, facili da riutilizzare, riparare, riciclare e smantellare. L’attuale revisione della legislazione sui rifiuti è molto importante per migliorare la gestione dei rifiuti e per stabilire una gerarchia nel loro trattamento. Così come sono necessarie misure per prevenirne la formazione e il riuso, insieme a un progressivo abbandono dell’incenerimento e dell’utilizzazione della discarica.”

Nils Torvalds

©WikiCommons / Foto di David Iliff. Licenza CC-BY-SA 3.0

Gruppo dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa

Finlandese di lingua svedese, Nils Torvalds è uno scrittore e giornalista radiotelevisivo. Come parlamentare Ue, è membro del Committee on Environment Public Health and Food Safety e substitute member di altri cinque comitati, tra cui quello sul budget, sull’itticoltura e sugli affari economici e monetari.

Chi, secondo lei, saranno “i vincitori e i vinti” nella transizione verso un’economia circolare? “In questa transizione non sceglierei tra ‘vincitori e vinti’ in quanto tali. Il concetto dell’economia circolare non è nuovo in realtà, ma è intrinsecamente logico: la necessità di usare in modo efficiente le risorse è sempre presente, specie in una prospettiva di business. Tutti noi potremmo beneficiare di un modo di pensare più circolare. Dovremmo, certo, tenere in mente soprattutto gli effetti amministrativi di questa transizione: dovrebbe essere facile, non gravoso, fare la cosa ‘giusta’.” Vede un ruolo per la bioeconomia all’interno dell’economia circolare? Se sì, quali collegamenti individua tra i due sistemi? “Assolutamente sì. Il significato di bioeconomia si modifica facilmente a seconda di chi risponde alla domanda: cos’è la bioeconomia? Ci sono molte svolte tecnologiche (e ambientali), che stanno contribuendo al passaggio a un’economia più circolare. Si è creato un collegamento tra ‘bio’ ed ‘economia’, che in molti casi può essere vantaggioso. Comunque, dovremmo fare attenzione a ciò che intendiamo con ‘bio’ e a quello a cui attacchiamo questo marchio.” L’Ue è già leader mondiale nello sviluppo della tecnologia per ottenere prodotti

rinnovabili a base biologica ma a volte fatica a commercializzarli. In un’epoca di prezzi del petrolio bassi e di continui abbondanti sussidi all’industria fossile, quali misure chiave bisogna attuare per assicurare la transizione da un’economia lineare a una circolare e rinnovabile che ci aiuti a rimanere nel limite che ci siamo posti per la riduzione delle emissioni di gas serra? “È essenziale avere strutture legislative chiare, a lungo termine e stabili, sia a livello politico sia economico. Inoltre, visto che il lavoro legislativo è spesso più lento dello sviluppo dei prodotti o del mercato, noi – come legislatori – dobbiamo stare attenti a non restare bloccati sulle soluzioni. Certo, si tratta di una sfida ardua, perché è difficile legiferare per il futuro senza sapere esattamente come questo futuro apparirà.”

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Curare il verde con il Gpp Negli anni passati – in anticipo sui tempi – le municipalità di Barcellona e Lille hanno deciso di gestire il proprio verde pubblico adottando criteri ambientali. Ecco l’analisi di due casi che possono essere presi a modello. di Simona Faccioli

Simona Faccioli si occupa di Gpp da diversi anni, prima all’Onr, presso il ministero dell’Ambiente, poi come Direttore di ReMade in Italy. È componente della Redazione normativa di reteambiente.it.

Il Gpp può davvero rappresentare la leva per scardinare la rigidità dal modello “produciconsuma-dismetti” tipico dell’economia lineare e piegarlo nel verso dell’economia circolare? Sembrerebbe proprio di sì, soprattutto se si dà uno sguardo alle, non buone, ma ottime pratiche di Gpp adottate da alcune realtà europee e ai risultati che queste hanno prodotto per l’ambiente e l’economia del territorio. L’utilità del Gpp (Green public procurement) per il nuovo modello auspicato risiede in ragioni complesse e strutturali, ma quella più immediatamente comprensibile è il largo impiego di materiali rinnovati, derivanti dal riciclo dei rifiuti, che il Gpp auspica e talvolta (come in Italia)1 impone alle pubbliche amministrazioni. Se scorriamo tutti i criteri ambientali europei, infatti, risulta chiaramente che uno dei più diffusi è la richiesta di orientarsi verso la scelta di materiali e prodotti aventi un contenuto minimo di riciclato. Certo, le previsioni del Gpp sono

ben più ampie, e forse il seppur largo consenso verso questo tipo di materiali “rinnovati” non rende giustizia al suo grande valore ambientale, se strutturalmente considerato: si pensi all’impatto di efficienza energetica per le apparecchiature a basso consumo di energia. O alle limitazioni dell’utilizzo di sostanze nocive nei prodotti, con riflessi per il suolo, l’aria e la sicurezza dei cibi che mangiamo. Per le aree pubbliche, i parchi, le scuole, gli uffici dell’amministrazione, gli ospedali… Se diamo un’occhiata alla buone pratiche, anche europee, è possibile verificare come queste abbiano reso possibile l’innovazione in interi settori, imponendo ai propri fornitori l’adozione di specifiche tecniche ambientali, monitorandone l’applicazione e verificando nel tempo gli effetti per l’ecosistema e il territorio. Innescando così una “virtuosa circolarità” di azioni: sul fronte delle aziende che decidono così di orientare la produzione verso l’eco-sostenibilità dei prodotti e dei servizi che offrono. E sul fronte


Wurmkos, Vestimi #2, performance. Parco Agricolo dei Paduli, San Cassiano (LE), 2015

1. In Italia il Gpp è diventato obbligo di legge con il nuovo Codice Appalti (Dlgs 50/2016 entrato in vigore il 20 aprile 2016) che impone a tutte le pubbliche amministrazioni di inserire i “criteri ambientali minimi” (ovvero i Cam adottati dal ministero dell’Ambiente) nella documentazione progettuale e di gara, secondo soglie minime differenziate per categorie di servizi e di acquisto. Per una disamina del livello di attuazione del Gpp in tutti gli Stati europei si rimanda a quanto pubblicato su Materia Rinnovabile n. 11 luglio-agosto 2016, a cura di S. Faccioli “Un’Europa a tutto Gpp”; www.materiarinnovabile. it/art/241/UnEuropa_a_ tutto_Gpp.

dei cittadini-consumatori, che possono mettere in atto azioni di emulazione nei propri consumi rispetto a quanto attuato dal consumatorepubblica amministrazione. L’Italia è l’unico paese europeo a essersi spinto così avanti fino a introdurre l’obbligo del Gpp a carico di tutte le stazioni appaltanti, che devono applicare i Cam (Criteri ambientali minimi) emanati dal ministero dell’Ambiente. Tuttavia, a livello sia italiano sia europeo, ci sono realtà significative di applicazione del Gpp su base volontaria, anche risalenti a qualche anno fa. Con questo spirito, si analizzano alcuni casi di Gpp applicato a un settore complesso e dai molteplici risvolti (ambientali, economici e sociali), ovvero quello relativo alla cura del verde pubblico. Un settore che presenta un’ampia gamma di possibili azioni sostenibili dal punto di vista ambientale , che vanno ben oltre la richiesta di attuare una “circolarità delle risorse” (per esempio per gli scarti vegetali e l’acqua), ma riguardano anche aspetti relativi alla corretta gestione dei rifiuti, all’utilizzo di sostanze potenzialmente nocive, all’inquinamento del suolo, dell’aria e alla cura della biodiversità. Si parte da due casi concreti di successo per il Gpp europeo riconosciuti meritevoli

di attenzione dalla Commissione europea, e che – pertanto – possono essere presi a modello per analoghe applicazioni: quelli attuati nelle municipalità di Barcellona in Spagna, e Lille in Francia. Ne vengono monitorati l’ambito di applicazione, le risorse impiegate, le misure concretamente introdotte e i benefici riscontrati. A Barcellona, una gestione dei parchi esemplare L’area metropolitana di Barcellona ha pubblicato una gara d’appalto con procedura aperta per la manutenzione dei parchi dell’intera area: ne fanno parte 36 comuni, con una superficie totale di oltre due milioni di metri quadrati. I servizi richiesti riguardano giardinaggio e manutenzione dell’arredo urbano, marciapiedi, strutture ed edifici ubicati all’interno dell’area. Il valore dell’appalto è di circa 41 milioni di euro in sei anni, per il periodo compreso tra il 2014 e il 2020. Nella gara sono stati imposti criteri ambientali su tutte le fasi del servizio, non solo per la gestione dei rifiuti, ma anche per l’utilizzo di prodotti sostenibili (prodotti chimici, lubrificanti, imballaggi) e per l’utilizzo delle risorse, che deve


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materiarinnovabile 12. 2016 essere finalizzato alla massima efficienza. Per il contenimento delle emissioni, sia acustiche, sia di inquinanti in atmosfera, sono state imposte prescrizioni per l’utilizzo di veicoli e macchine da giardinaggio. Il servizio richiede, inoltre, una cura particolare nelle fasi di ispezione da parte del contraente, il monitoraggio della prestazione da parte dell’amministrazione, la rendicontazione degli effetti ambientali prodotti e la loro comunicazione. Per la gestione dei rifiuti, sono state inserite prescrizioni precise e dettagliate per ogni frazione di rifiuto prodotto (per esempio potature, fogliame, erba, fanghi), per una loro corretta raccolta separata e riutilizzo in loco come compost, fertilizzante o per i reinterri. È sempre vietato l’utilizzo di sacchetti di plastica. Nell’uso dei prodotti sono stati richiesti criteri di sostenibilità ambientale, in particolare per quelli pericolosi per l’ambiente e la salute (vernici, detergenti, pesticidi ecc.) e per gli imballaggi. In primo luogo, Gpp a 360°: nella gara si chiede al contraente di acquistare prodotti verdi, prodotti eco-responsabili e riportanti marchi di qualità ecologica riconosciuti (per esempio Ecolabel). Si richiede l’uso di prodotti a bassa tossicità, evitando irritanti, prodotti corrosivi e quelli che possono causare l’emissione di gas serra e/o contenere altri composti pericolosi. Vietato l’uso di prodotti classificati come molto tossici, tossici, cancerogeni, mutageni o che interferiscono con la riproduzione o che presentano il pericolo di effetti irreversibili molto gravi a seguito di esposizione prolungata. Anche per i lubrificanti, le indicazioni sono precise: per i veicoli a motore, si richiede l’utilizzo di oli con un contenuto minimo di base rigenerata del 20%. Se i mezzi sono utilizzati all’aperto, gli oli devono essere biodegradabili. Inoltre, una particolare attenzione è dedicata all’uso efficiente dell’energia e delle risorse. Previste misure per il risparmio energetico (per esempio ricorrendo a un ampio utilizzo di Led), per il risparmio idrico, laddove viene imposto di impiegare diffusamente economizzatori dell’acqua e di introdurre sistemi di controllo per le perdite. Viene richiesto di ridurre al minimo l’impatto e l’impiego di materiali, per esempio negli uffici, per contenere la produzione di rifiuti: laddove possibile, nelle mense meglio utilizzare prodotti biologici e biodegradabili; preferire le divise da lavoro contenenti fibre naturali e/o riciclate. Il contraente dovrà promuovere l’uso di prodotti in possesso di ecoetichettature (affidabili e riconosciute) e attuare una politica per quanto riguarda il rispetto dei diritti fondamentali dei dipendenti. E, naturalmente, va minimizzata ogni forma di inquinamento: emissioni, polvere e rumore. A tal fine, vengono dettagliate le prescrizioni da introdurre nell’utilizzo di veicoli, macchinari e attrezzature: la documentazione di cui il veicolo

deve essere in possesso, i controlli periodici, la manutenzione. Ma non solo, ci sono indicazioni più precise. Qualche esempio: il motore deve rimanere acceso solo per il tempo strettamente necessario a effettuare l’operazione relativa e comunque essere spento se non utilizzato per più di cinque minuti; i veicoli devono essere guidati senza brusche accelerazioni e a una velocità ridotta; in caso di vento forte vanno evitate le operazioni che comportano l’uso di materiali che possono generare polvere. E una volta definite le specifiche tecniche di ogni fase del servizio, cosa succede? L’amministrazione riconosce l’importanza di monitorare costantemente il contratto, per verificare la sua corretta applicazione e per individuare ulteriori criteri green che possono essere aggiunti per il successivo approvvigionamento. Le prestazioni del contraente vengono attentamente monitorate in ogni parte e valutate su base mensile, attraverso un’analisi che determina l’indice qualitativo (IQ) tenendo conto di ogni aspetto del servizio, e attribuendo a esso il proprio peso relativo. Esempio: IQ = 35% giardinaggio + 15% arredo + 10% marciapiedi + 15% servizi + 20% edifici + 5% società di servizi. Se l’esito dell’analisi determina un valore inferiore alla soglia minima che l’amministrazione ha fissato, il livello della qualità è inaccettabile o critico con conseguente applicazione della penalità prevista, commisurata alla gravità e al tipo di discrepanza. Lille, Hellemmes e Lomme: in appalto la cura della biodiversità Già nel 2001 la città di Lille, con un Piano d’azione per lo sviluppo sostenibile nell’ambito di Agenda 21,

La forte attenzione alla biodiversità ha portato Lille a diventare la Capitale della biodiversità francese nel 2012.


Policy ha introdotto obiettivi globali per promuovere la biodiversità, ridurre l’inquinamento, limitare l’uso di pesticidi e di prodotti chimici. Queste prescrizioni sono state trasferite nel 2012 nella documentazione di gara riguardante la manutenzione degli spazi verdi a Lille e nelle comunità adiacenti di Hellemmes e Lomme. L’amministrazione non è stata eccessivamente esigente nella richiesta del possesso di un sistema di gestione ambientale da parte delle aziende partecipanti, ritenendo che ciò avrebbe potuto scoraggiare gli offerenti e allontanarli dallo scopo della gara, che era quello di mettere in atto pratiche e specifiche di sostenibilità ambientale e migliorarle nel corso della durata del contratto. Tra i criteri ambientali introdotti, una particolare attenzione è stata rivolta a tutti gli aspetti inerenti la conservazione delle caratteristiche tipiche del territorio e la cura della biodiversità. Sotto questo ultimo aspetto, viene richiesta all’offerente un’approfondita conoscenza del territorio e degli animali che lo abitano, al fine di preservare le migliori condizioni per la loro conservazione. A tal fine, per esempio, nell’esecuzione del servizio, è stato indicato di prevedere corridoi naturali tra gli habitat, affinché lo spostamento degli animali non sia intralciato, così come di individuare zone adatte ai rifugi degli esemplari e – al fine di creare idonei habitat – lasciare mucchi di rami secchi circondati o coperti da detriti. Per il pascolo e il bestiame, è richiesta l’adozione di misure specifiche per mantenere la biodiversità e la salute del gruppo (quale la pratica di riunire razze “antiche” che si sono adattate a diverse malattie insieme a razze differenti). Deve essere inoltre prevista una zona cuscinetto con un bacino idrico, per garantire la biodiversità delle specie che la abitano. Per la gestione dei rifiuti, la procedura di gara incentiva il più ampio utilizzo degli sfalci e delle potature come compost e della pacciamatura per proteggere i campi dall’insolazione e dall’erosione. Ma non solo: il pacciame e gli altri materiali utilizzati devono avere una provenienza tracciata e socialmente responsabile. Tra le specifiche tecniche ambientali sono stati previsti punteggi premianti nel caso di messa in atto di pratiche avanzate per la gestione del territorio e la cura delle specie, sia animali sia vegetali. Tra queste: •• censimento e controllo dell’origine delle piante; •• introduzione di metodi sostenibili per il taglio dell’erba, minimizzando il disturbo nei confronti degli animali; •• corretta gestione delle specie vegetali invasive, con prodotti non nocivi; •• riduzione al minimo dell’inquinamento acustico dovuto ai macchinari utilizzati; •• uso di combustibili alternativi a quelli fossili; •• utilizzo di oli biodegradabili e provenienti da rigenerazione; •• azioni di sensibilizzazione pubblica e comunicazione per la cittadinanza, rivolte

alla descrizione della biodiversità presente sul territorio e all’importanza della loro conservazione; •• introduzione di sistemi di monitoraggio e riduzione del consumo di acqua, e, quando possibile, suo riutilizzo per irrigazione. Attraverso l’introduzione di tali misure e un costante monitoraggio sulla loro applicazione, un rilevante numero di impatti ambientali potenzialmente nocivi associati al mantenimento di aree verdi sono stati mitigati durante l’esecuzione del servizio, in particolar modo l’inquinamento del suolo e delle acque causato dai pesticidi. A questo proposito, le previsioni riportate nella gara d’appalto hanno determinato una graduale eliminazione dell’uso dei pesticidi in tutte le aree verdi del Comune di Lille. La forte attenzione alla biodiversità ha portato Lille a diventare la Capitale della biodiversità francese nel 2012. Secondo gli amministratori locali, un importante fattore che ha contribuito al successo di questo contratto è stata la conoscenza del mercato, che ha permesso una suddivisione del servizio posto a base di gara in modo appropriato. La municipalità ha creduto nell’efficacia di dare il buon esempio: la diffusione delle pratiche di Gpp – sia per i servizi condotti internamente dalla pubblica amministrazione, sia per quelli forniti da aziende esterne – produce un effetto positivo di sensibilizzazione anche nei confronti del cittadino/utente.

Buone pratiche Gpp con Cap 2. www.remadeinitaly.it/cap

La buona notizia è che in Italia molto si sta muovendo sul fronte del Gpp, sull’onda dell’entrata in vigore dell’obbligo contenuto nel Codice Appalti. Si riporta, tra le numerose iniziative, l’esperienza condotta da Cap Holding – gestore del sistema idrico dei comuni dell’area milanese particolarmente sensibile alle politiche di sostenibilità ambientale a 360° – che lo scorso luglio ha concluso una sperimentazione sul campo, insieme ad alcuni comuni associati (Abbiategrasso, Cesano Boscone, Cornaredo, Gorgonzola, Inveruno, Ossona, Segrate, Vanzago). In pratica, li si è accompagnati nella comprensione della normativa e delle tecniche di applicazione del Gpp, partendo dall’indagine diretta dei fabbisogni specifici dell’ente e guidandoli con indicazioni per integrare i criteri ambientali in alcune delle procedure di appalto in scadenza. La sperimentazione è giunta a modellizzare un set di strumenti pratici, raccolti in un manuale-guida che può servire per l’applicazione in casi analoghi. Il Progetto, svolto con il supporto di Remade in Italy, è denominato “Cap per un nuovo Gpp”.2

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Se la colletta

SI FA ONLINE

Più di 34 miliardi di dollari raccolti complessivamente nel 2015, di cui 6,4 in Europa. Che hanno finanziato le idee di ricercatori, start-upper, musicisti e scrittori. Così come interventi di restauro e progetti di solidarietà. E anche l’Italia si sta muovendo: 69 le piattaforme di crowdfunding attive e 13 in fase di lancio. di Silvia Zamboni

Silvia Zamboni, giornalista professionista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.

1° Rapporto italiano sul CrowdInvesting, tinyurl.com/hjsqlft

Avete presente la classica “colletta” che si faceva tra compagni di classe per acquistare un regalo? Bene, associatela al potenziale virale delle tecnologie digitali, delle piattaforme internet e dei social, a progetti di solidarietà, di ricerca o imprenditoriali a caccia di finanziamenti. Aggiungete qualche zero finale al numero dei soggetti coinvolgibili sulla rete e avrete il crowdfunding, il fundraising telematico per progetti non profit e for profit. Un canale di finanziamento diffuso ai quattro angoli del pianeta che offre visibilità a un mondo di start-upper, ricercatori, musicisti, designer, video-maker, scrittori, associazioni di volontariato. Arrivando a coinvolgere fino alle amministrazioni locali tramite il neighbor crowdfunding, il cosiddetto crowdfunding civico per il finanziamento collettivo di opere e interventi pubblici. Per effetto della crisi finanziaria (che ha indotto le imprese a ricercare fonti di finanziamento alternative) e dell’azzeramento dei rendimenti risk free (che ha spinto gli investitori a rivolgersi a nuovi prodotti) si tratta di un mercato mondiale che nel 2014 valeva oltre 16 miliardi di dollari, per il 70% veicolati dal peer2peer lending, e così distribuiti: 9,46 miliardi nel Nord America e Usa, 3,26 in Europa e 3,4 in Asia (fonte: 1° Rapporto italiano sul CrowdInvesting, Politecnico di Milano). Un flusso di risorse che, secondo le stime del Massolution Crowdfunding Industry Report 2015, l’anno scorso

ha fatto un ulteriore balzo in avanti toccando 17,25 miliardi di dollari nel Nord America e Usa, 6,40 in Europa e 10, 54 in Asia. A livello mondiale è l’americana kickstarter. com la piattaforma numero uno del reward-based crowdfunding, quello basato su ricompensa: le offerte in denaro ai progetti pubblicati vengono ricompensate con un regalo a carattere non finanziario, come un gadget, una t-shirt, biglietti per eventi. O con la prevendita a prezzo ridotto del prodotto qualora la raccolta fondi raggiunga l’obiettivo fissato per entrare in produzione. Qualche gradino sotto, troviamo l’altro colosso a stelle e strisce, indiegogo.com, che di recente si è lanciato anche nell’equity crowdfunding, in cui l’investitore partecipa al capitale di rischio della start-up diventandone socio. A settembre 2016 kickstarter, ora attiva anche in Italia, contava oltre 15 milioni di donatori. L’hit-parade dei progetti più gettonati vedeva un tale Ben Harkins – dj e sviluppatore di giochi di società e di software – proporre un insolito gioco da tavolo ispirato alla progettazione di artistiche vetrate per la Sagrada Familia, la celebre cattedrale incompiuta dell’architetto catalano Antoni Gaudì. Con oltre 80.000 dollari raccolti Harkins aveva più che triplicato la cifra richiesta. Sugli scudi anche Fathom, azienda specializzata in esplorazioni marine: per un drone subacqueo ad alta definizione, portatile e maneggevole,


Policy scattata dal report 2015 Il crowdfunding in Italia, una mappatura delle piattaforme italiane realizzata dall’Università del Sacro Cuore di Milano, con la sponsorizzazione di Tim, il supporto tecnico di starteed.it e sotto il coordinamento della docente Ivana Pais, attenta conoscitrice del fenomeno (vedi intervista). Se l’incremento dei player conferma la crescente attenzione verso i canali alternativi di finanziamento su internet, è però anche indice di una penalizzante frammentazione. Non a caso il trend incrementale si accompagna a un alto tasso di mortalità delle piattaforme. Per quanto riguarda le fonti di introiti, prevale la percentuale sul transato, seguita dall’offerta di servizi di consulenza a pagamento, sponsorizzazioni e pubblicità. Tra le piattaforme censite, Smartika e Prestiamoci, le due realtà leader del social lending peer-to-peer, il settore più dinamico per volume di denaro movimentato.

Kickstarter, www.kickstarter.com Indiegogo, www.indiegogo.com

Il crowdfunding in Italia. Report 2015, tinyurl.com/zazp37a

Per un approfondimento sul social lending vedi S. Zamboni, “Quando il prestito è social”, Materia Rinnovabile 11; tinyurl.com/jxavmqf

che promette di far vedere il mondo con occhi diversi, aveva raccolto oltre 194.000 dollari, pari al 124% dell’obiettivo fissato. Tombola anche per Sabina Radeva che, dopo la laurea in biologia molecolare al Max Planck Institute in Germania, ha abbandonato la ricerca per la carriera di graphic designer che le “dà più soddisfazione del lavoro in laboratorio”, come scrive nel suo sintetico profilo su kickstarter: a 46 giorni dalla scadenza della pubblicazione dell’annuncio, il suo libro illustrato per insegnare ai bambini la teoria darwiniana della selezione naturale aveva superato di ben nove volte l’obiettivo. Proposto da Emily Hunt Turner, giovane avvocata di New Orleans, spiccava anche All Square, un progetto non profit con finalità sociali: una rivendita di formaggio alla griglia per dare lavoro a persone con precedenti penali. Obiettivo: 50.000 dollari per le spese di avvio della start-up. Zoomando sull’Europa, il paese di riferimento è il Regno Unito, primatista europeo nel settore dell’equity crowdfunding. La piattaforma crowdcube. com da sola ha raccolto finora oltre 168 milioni di sterline. I numeri italiani

Eppela, www.eppela.com/it

Starsup, www.starsup.it

In Italia, che pure era partita per prima a livello internazionale con produzionidalbasso.com – autentica pioniera internazionale nata nel 2005, prima ancora di Facebook, per finanziare autoproduzioni artistiche, dalla musica all’editoria, dal teatro al design – le cifre sono più ridotte, benché in netta ascesa. E con elementi di originalità, come vedremo più avanti. Complessivamente, a fine ottobre 2015 nel nostro paese si contavano 69 piattaforme attive e 13 in fase di lancio, con un aumento del 68% rispetto al 2014, quando le attive erano 41. La foto è stata

In tema di crowdfunding reward-based generalista, non riferito a uno specifico settore progettuale – come è invece, per esempio, il caso di musicraiser.com, dedicato a iniziative in campo musicale – la piattaforma numero uno in Italia è eppela.com, con sede a Lucca. Fondata a fine 2011, ha già permesso di finanziare oltre 2.500 progetti e raccolto intorno ai 12 milioni di euro. E con circa 250.000 utenti registrati e più di 80.000 visitatori unici la settimana, per contatti, progetti e raccolta fondi guida la classifica italiana delle piattaforme reward-based e si piazza tra le prime cinque in Europa. I progetti ospitati online spaziano dai settori comics e games, arte e design, cinema e teatro, a tecnologia e innovazione sociale non profit. La selezione pre-lancio è durissima: “Delle 60 proposte che ci arrivano in media ogni giorno, il 90% viene cestinato, a garanzia della solidità di quelle approvate e a tutela dei finanziatori-donatori”, sottolinea Fabio Simonelli, socio e project manager di Eppela. Una scelta che finora ha pagato, visto che il 60% delle campagne raggiunge l’obiettivo. Eppela, inoltre, è la piattaforma di riferimento delle iniziative di crowdfunding di colossi quali Poste Italiane, UnipolSai e Fastweb, con cui ha raccolto 1,5 milioni di euro. Si parla toscano anche a starsup.it, il portale di casa a Livorno, leader nazionale nel settore dell’equity crowdfunding. “La nostra piattaforma ha come focus l’innovazione scientifica e tecnologica” spiega Matteo Piras, uno dei quattro soci. “I settori in cui operano le start-up che abbiamo ospitato sono green economy, software, ricerca farmaceutica, apparecchiature mediche, moda, smart city, nautica e meccanica” elenca. Partita a gennaio 2014, a fronte dei quattordici progetti chiusi (due sono ancora in corso) Starsup ne ha all’attivo ben sei che si sono chiusi con successo, per un totale di 1.656.000 euro. Tra questi, Cantiere Savona, che ha raccolto

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materiarinnovabile 12. 2016 380.000 euro per lo sviluppo di uno yacht a propulsione ibrida termica e solare, ed Enki Stove che ne ha incassati 240.000 per produrre ecologici barbecue che sfruttano il processo di pirolisi aperta. Obiettivi raggiunti anche per le eliopompe NS1 di Nova Somor, un prodotto a energia solare che assorbe le radiazioni producendo direttamente lavoro meccanico utile, così da eliminare le perdite dovute al passaggio da energia solare a elettricità fotovoltaica a lavoro meccanico finale.

Negli Usa e nel Regno Unito c’è un humus molto più favorevole per le start-up d’impresa innovative e il mercato dei finanziatori privati. Da noi, invece, si continua a investire in bot, assicurazioni, obbligazioni, immobili.

Secondo Piras “il profilo della start-up vincente deve presentare un giusto mix di competenza ed esperienza, ovvero un team di giovani e persone più mature. Altro fattore strategico è l’attendibilità del budget-obiettivo: una stima ridotta all’osso insospettisce l’investitore sulla capacità di tenuta del business plan”. E il classico testimonial può essere d’aiuto? “Per ispirare fiducia nel progetto serve semmai l’endorsement da parte di un soggetto autorevole, un leading investor, come un incubatore universitario, un partner industriale, un investitore professionale o un cosiddetto business angel”, risponde Piras. Cosa invidia al mondo anglosassone, gli chiediamo. “Tutto! Negli Usa e nel Regno Unito c’è un humus molto più favorevole per le start-up d’impresa innovative e il mercato dei finanziatori privati. Da noi, invece, si continua a investire in bot, assicurazioni, obbligazioni, immobili”. A Bologna ha il suo quartier generale un’innovativa piattaforma reward-based, fondata da cinque giovani laureate in management di attività culturali creative. Si chiama Ginger, acronimo che sta per Gestione Idee Nuove e Geniali per l’Emilia-Romagna. Prima in Italia e in Europa ad aver fatto questa scelta strategica, la sua particolarità è di essere legata a un territorio di riferimento. Inoltre, a differenza dei “puristi del digitale”, ai progettisti che ospita suggerisce di svolgere eventi di presentazione anche offline, perché, come ci spiega la cofondatrice Agnese Agrizzi, “gli incontri face2face aiutano a costruire la comunità dei donatori a partire dai cosiddetti family and friend, ossia le persone più vicine sul territorio”. La notorietà Ginger l’ha raggiunta con “Un passo per San Luca”, una delle prime campagne di crowdfunding civico condotta in collaborazione con il Comune di Bologna per cofinanziare il restauro del portico di San Luca, tre chilometri e mezzo di arcate seicentesche che si arrampicano sulla collina bolognese fino alla basilica omonima, meta di pellegrinaggi votivi e di laiche camminate salutiste. Uno degli atout che ne ha decretato il successo è stato l’originale oggetto di arte contemporanea offerto come ricompensa: una mega rana di plastica disponibile in vari colori. Nel repertorio dei successi non mancano storie di solidarietà, come la campagna “Il mio nome è coraggio”, lanciata dai genitori di una bambina affetta da una rara malattia genetica per coprire le spese volte ad alleviarle il dolore fisico e a sostenerne le funzioni

fisiologiche primarie. La risposta degli oltre cinquecento donatori è stata straordinaria: l’obiettivo fissato a 15.000 euro è stato raddoppiato. Passando alla già citata produzionidalbasso.com, a oggi ha raccolto 3.154.254 di euro per oltre 1.400 progetti. Di recente ha ospitato con successo “Che aria tira? Progetto di autocostruzione di centraline per il rilevamento della qualità dell’aria”, un’iniziativa promossa a Firenze da “Mamme no inceneritore”. Ci sono poi piattaforme dedicate alle donazioni classiche, come retedeldono.it e iodono.com, che dopo l’alluvione che colpì l’isola, ha ospitato il progetto “È l’ora della solidarietà: emergenza Sardegna”: ha raccolto 138.896 euro. Gli errori da non fare Ma quali sono gli errori più diffusi da evitare per non far fallire la raccolta? “Caricare online il progetto senza coinvolgere, prima, durante e dopo la campagna, la community di riferimento dei donatori, illudendosi che i soldi arriveranno magicamente. Altro errore: una scadente presentazione del progetto, non accompagnata da un video, che deve essere breve, fresco, d’effetto, in cui il progettista ci mette la faccia trasmettendo l’entusiasmo per la sua proposta; l’offerta di ricompense banali, non appetibili” elenca Giacomo Cassinese, che ad aprile ha organizzato Crowdfest, il primo festival italiano per fare conoscere il crowdfunding e metterne in rete i protagonisti, “visto che ognuno fa per sé, mentre c’è bisogno di interazione per diffonderne la cultura” lamenta. Venendo alle prospettive presenti e future del crowdfunding in Italia, la sua debolezza, secondo Agrizzi, è dovuta alla scarsa consapevolezza che cultura, arte, imprese creative e giovanili sono componenti essenziali della società, un’insensibilità che origina scarsa propensione alla donazione in sé, con le aggravanti del digital divide e della diffidenza per gli acquisti e i pagamenti online con carta di credito. Per questo Ginger incoraggia la raccolta di fondi offline nel corso di eventi e ha introdotto la donazione tramite bonifico bancario. Due, viceversa, i segnali positivi in atto: “Si stanno delineando alcune piattaforme leader, un trend che aiuterà a superare la frammentazione. Inoltre, sempre più spesso siamo invitate da università, incubatori, fondazioni, associazioni economiche di categoria a tenere laboratori sul crowdfunding, perché si è finalmente capito che per essere efficaci ci vuole il giusto know-how”. Anche Simonelli vede positivo: “In Italia c’è una considerevole presenza di smartphone, ragion per cui, se l’analfabetismo digitale da fisso oggi è un fattore frenante, sul mobile il digital divide non esiste. Ed è su questo che bisogna lavorare” chiosa.


Policy Intervista

a cura di S. Z.

Crowdfunding: così si costruisce un progetto vincente Ivana Pais, docente di Sociologia economica presso la facoltà di Economia dell’Università Cattolica

Esperta di social network e comunità professionali digitali, coautrice del volume “Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità” (Egea, 2014), Ivana Pais è professore associato di Sociologia economica presso la facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ecco il suo parere sul tema. Cifre alla mano, sono i paesi anglosassoni a guidare le classifiche mondiali del crowdfunding. Come lo spiega? “Non essendo un’alternativa secca ai canali convenzionali di finanziamenti bensì un canale complementare, nei paesi anglosassoni che si caratterizzano per un tessuto socioeconomico avvezzo a usare gli strumenti digitali, per una sviluppata filiera di venture capital, di investimenti e finanziamenti privati alle imprese, e per un sistema imprenditoriale fortemente orientato all’innovazione, il crowdfunding trova un suo posizionamento, mentre fatica a svilupparsi là dove manca questo tessuto di venture capital.”

Stime recenti segnalano l’emersione dei mercati asiatici. “In termini numerici gli ultimi rapporti internazionali parlano di una forte crescita del mercato cinese, del quale non abbiamo però ancora messo a fuoco le caratteristiche e la portata del boom, anche se va da sé che il numero di soggetti che frequentano le piattaforme incide sulla performance complessiva. E la popolazione cinese a nove zeri è sicuramente uno straordinario bacino.” Venendo al mercato italiano, quali sono i punti di forza del crowdfunding italiano? “Una forte attenzione al sociale. Forse non è un punto di forza in senso proprio, di sicuro è un elemento di forte caratterizzazione rispetto alle piattaforme anglosassoni che hanno un orientamento più imprenditoriale.” E i punti di debolezza? “La struttura socioeconomica del paese ancora largamente refrattaria ai pagamenti digitali. C’è inoltre un elemento di debolezza strutturale di natura linguistica: una piattaforma in inglese può accedere a un mercato molto più ampio se paragonata a una in italiano.” Che caratteristiche hanno i progetti vincenti? “Dalla nostra analisi dei progetti del terzo settore è risultato che i più finanziati risultano circoscritti, hanno una buona diffusione sui social network, in particolare su twitter, e nella campagna online si descrivono tramite un video, una pratica che all’estero è la regola, ma non in Italia.” Qual è l’identikit del frequentatore delle piattaforme? “La differenza di base è tra chi investe (equity crowdfunding), chi pre-acquista un oggetto (reward-based) e chi dona. I tratti comuni sono l’accesso a internet e al pagamento elettronico, e la disponibilità di denaro. Quindi non è un ambiente per ragazzini, ma vi prevalgono gli uomini, specialmente del nord Italia, mentre nelle donazioni hanno spazio anche le donne.” Vede dei legami tra crowdfunding ed economia circolare? “Non diretti. Tuttavia molti dei prodotti più finanziati evidenziano, nella presentazione, forte attenzione al riuso dei materiali e agli aspetti di sostenibilità come valori intorno ai quali costruire la community. La logica alla base del crowdfunding e che lo differenzia dal venture capital, è appunto la costruzione di comunità intorno a sensibilità condivise. In questo senso l’economia circolare funziona da valore aggregante.”

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Dossier

CANADA Con 348 milioni di ettari di foreste e 67 milioni di ettari occupati dal suolo agricolo, la biomassa ha sempre avuto un ruolo chiave nell’economia canadese. Ma la vera sfida è stata quella di aver saputo coniugare questa risorsa con l’innovazione. Una formula che si sta rivelando vincente per lo sviluppo del paese. Con il patrocinio di:


Policy

DALL’ACERO a cura di Mario Bonaccorso

alle bioraffinerie Il Canada ospita il 10% del patrimonio forestale mondiale. Posta al centro di un nuovo modello di sviluppo sostenibile, la bioeconomia già oggi attrae consistenti investimenti dall’estero. E molte sono anche le aziende canadesi attive nel settore.

Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

Bioindustrial Innovation Canada, www.bincanada.ca

Ampia disponibilità di materie prime rinnovabili, infrastrutture e supporto da parte delle istituzioni. Sono questi gli ingredienti che fanno del Canada uno dei maggiori attori della bioeconomia a livello mondiale. Non potrebbe essere in altro modo per un paese che ha come simbolo nazionale, impressa anche nella propria bandiera, la foglia d’acero. Le foreste canadesi occupano 348 milioni di ettari di superficie e rappresentano il 10% del patrimonio forestale globale. Sono 67 milioni, invece, gli ettari occupati dal terreno agricolo. “La biomassa agricola e forestale gioca un ruolo essenziale nello sviluppo della bioeconomia canadese”, ci dice Murray McLaughlin, fino allo scorso giugno direttore esecutivo di Bioindustrial Innovation Canada, uno dei più importanti centri di ricerca e commercializzazione focalizzato sulla bioeconomia. “Le imprese stanno sviluppando innovazioni per trasformare il legno in zuccheri e per ampliare gli usi della lignina”. Una strategia entro la fine dell’anno In Canada, oggi la bioeconomia è al centro di un nuovo modello di sviluppo sostenibile, supportato con forza dal governo di Justin Trudeau, che ha posto la lotta ai cambiamenti climatici al vertice della propria agenda politica. Proprio la partecipazione alla COP21 di Parigi ha fatto da volano alla redazione di un piano nazionale per la bioeconomia, che dovrebbe essere presentato

in forma di bozza per la discussione pubblica entro la fine di quest’anno. Il compito più difficile – in questo scenario – sarà conciliare gli interessi della bioeconomia con quelli dell’industria petrolifera presente in Canada, visto che il paese attualmente è il terzo detentore al mondo di riserve petrolifere accertate dopo Arabia Saudita e Venezuela (fonte: BP Statistics). “È essenziale – sottolinea McLaughlin – se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati dal nostro governo. A Sarnia parliamo di cluster ibridi, intendendo con ciò che i prodotti di origine biologica e quelli di origine petrolchimica devono lavorare insieme per far crescere la bioeconomia ed estendere la durata del petrolio consumandone meno. Non ci sono però politiche in campo per favorire questa collaborazione”. La particolarità delle riserve petrolifere del Canada – sostengono gli addetti ai lavori – sta nel fatto che, a differenza dei tradizionali giacimenti petroliferi, nel paese nordamericano questa risorsa si estrae per lo più dalle cosiddette sabbie bituminose. Si tratta di un tipo di petrolio molto più difficile da estrarre e da raffinare: le sabbie bituminose sono una miscela di argilla, acqua, sabbia, fango e, appunto, bitume. Essendo questo un petrolio allo stato solido o semi-solido, ha una lavorazione molto più costosa, non solo in termini economici ma anche ambientali. Se per ottenere un barile di petrolio convenzionale si producono 29 chilogrammi di CO2, per un barile di petrolio dalle sabbie bituminose diventano circa 125. Gli esperti stimano così che il 44% dei gas serra prodotti dal Canada tra il 2006

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materiarinnovabile 12. 2016 Gli esperti stimano così che il 44% dei gas serra prodotti dal Canada tra il 2006 e il 2020 sarà causato dall’estrazione e dalla produzione di petrolio bituminoso.

e il 2020 sarà causato dall’estrazione e dalla produzione di petrolio bituminoso. Si comprende quindi l’importanza di dotarsi presto di un piano per la bioeconomia. A Parigi il governo canadese si è impegnato a ridurre entro il 2030 del 30% rispetto ai valori del 2005 le proprie emissioni di CO2. Ciò significa – secondo gli studiosi – solo una cosa: una conversione al 100% di energia rinnovabile nei prossimi 35 anni per stare nell’obiettivo dell’1,5 gradi. Qualche anno in più per l’obiettivo dei 2 gradi. Tutto questo passa dalla chiusura immediata delle centrali a carbone. Misura che è stata già attuata in Ontario nel 2014, sostituendo il carbone con il legno, e che lo sarà in Alberta entro il 2020. “E altre province – ci dice McLaughlin – stanno rivedendo i loro piani”. In Canada, infatti, il ruolo delle province nella bioeconomia è di primissimo piano: a loro competono le politiche per l’energia e l’ambiente. Alcune, come Alberta e Columbia britannica, hanno già introdotto una carbon tax nel proprio sistema fiscale. Altre, come Ontario e Quebec, stanno lavorando all’implementazione di nuove politiche che limitino l’impiego del carbone. E per assicurare un quadro omogeneo, il governo federale sta sviluppando linee guida nazionali che dovrebbero essere presentate entro il 2017. “L’auspicio degli attori della bioeconomia canadesi – aggiunge McLaughlin – è che il piano per la bioeconomia comprenda anche un sistema di appalti pubblici verdi che favorisca la diffusione dei bioprodotti, simile al programma Biopreferred introdotto negli Stati Uniti”. L’attrazione degli investimenti

Comet Biorefining, cometbiorefining.com/

Ma nonostante l’assenza di un piano nazionale, il Canada è stato già in grado di attrarre numerosi investimenti sul proprio territorio negli ultimi anni. “Ci sono state iniziative locali che hanno consentito lo sviluppo della bioeconomia”, afferma McLaughlin. Qualche esempio? “A Sarnia, Ontario, ci si è focalizzati sui prodotti chimichi biobased; a Winnipeg, Manitoba, sui biocompositi; nella Drayton Valley, Alberta, sulle biomasse legnose”. “In Alberta – conferma Stan Blade, preside della facoltà di Agraria dell’Università dell’Alberta – abbiamo diversi programmi per favorire lo sviluppo delle bioenergie, sia dal lato delle infrastrutture, sia da quello della concessione di crediti agevolati”. Inoltre, il Canada ha diversi punti di forza favorevoli alla bioeconomia: la ricchezza di biomassa, la presenza di foreste certificate, una forza lavoro altamente qualificata, una ricerca eccellente, i fondi messi a disposizione dall’agenzia Sustainable Development Technology Canada, la vicinanza al mercato statunitense e l’esistenza di siti industriali dove localizzare impianti piloti e commerciali. Non è un caso, quindi, che una società come l’americana BioAmber, che produce acido succinico biobased, abbia deciso di collocare a Sarnia il proprio impianto commerciale. “La ragione principale – spiega Mike Hartmann,

vicepresidente esecutivo di BioAmber – sta nel basso costo dello zucchero e dell’energia”. L’acido succinico è un intermedio chimico con numerose applicazioni nel campo degli ingredienti alimentari, della cura personale, delle vernici e della plastica biodegradabile. “Attualmente l’acido succinico – sostiene Hartmann – ha un mercato che vale circa 60.000 tonnellate e le stime lo danno in crescita del 35% all’anno”. A Sarnia, la società americana del Delaware quotata al Nasdaq e all’Euronext di Parigi, che oggi ha il proprio quartier generale a Montreal (Quebec), ha costruito e reso operativo dal novembre 2015 un impianto da 30.000 tonnellate per anno, grazie al quale sarà possibile ridurre le emissioni di CO2 di 210.000 tonnellate rispetto a quelle derivanti dalla produzione dell’equivalente acido ottenuto dal petrolio. Il che equivale a togliere dalle strade ogni anno 45.000 automobili. Tra gli investitori della società figura il colosso giapponese Mitsui & Co., che detiene il 40% del capitale, la tedesca Lanxess e alcuni fondi di venture capital come il francese Sofinnova e il canadese Cliffton Group. Le imprese canadesi Sempre a Sarnia, a partire dal 2018, sarà operativo anche l’impianto commerciale della Comet Biorefining, un’impresa canadese che ha sviluppato una tecnologia per produrre in modo sostenibile, da biomassa non alimentare, glucosio cellulosico per applicazioni nel campo dei biocombustibili e dei prodotti chimici biobased. “Il Canada – rivendica Andrew Richard, fondatore e presidente della Comet Biorefining – è all’avanguardia nella bioeconomia. C’è un alto grado di allineamento tra le agenzie governative canadesi che sostengono il settore. Che si tratti di agenzie di sostegno del settore agricolo e forestale, di programmi tecnologici e di innovazione, come Sdtc (Sustainable Development Technology Canada), o di iniziative locali di sviluppo economico, ogni programma è ben definito e gli obiettivi sono complementari. Questo allineamento è un vantaggio significativo, che consente alle imprese di muoversi

Chi c’è nel Ben Ecco le associazioni che fanno parte del Bio-Economy Network: •• Automotive Parts Manufacturers’ Association; •• BIOTECanada; •• Canadian Bioenergy Association (CanBio); •• Canadian Renewable Fuels Association; •• Chemistry Industry Association of Canada; •• CropLife Canada; •• Forest Products Association of Canada; •• FPInnovations; •• Bioindustrial Innovation Canada / Sustainable Chemistry Alliance.


Policy I Fondi per innovare Sviluppo sostenibile tecnologia Canada (Sdtc) è una fondazione senza fini di lucro che finanzia e sostiene lo sviluppo e la dimostrazione di tecnologie pulite che forniscono soluzioni ai problemi del cambiamento climatico, l’aria pulita, la qualità delle acque e del suolo, e che offrono benefici economici, ambientali e sanitari ai canadesi. I fondi gestiti da Sdtc finalizzati allo sviluppo e alla dimostrazione di soluzioni tecnologiche innovative sono due.

La tecnologia di Enerkem utilizzata nell’impianto di Edmonton inaugurato a giugno 2014 ha permesso alla città canadese di far crescere la propria percentuale di diversione dei rifiuti dal 60 al 90% producendo etanolo e metanolo.

SD Tech Fund •• budget totale del progetto: 550 milioni di dollari; •• i contributi sono a fondo perduto. NextGen Biofuels Fund •• budget totale del progetto: 500 milioni di dollari; •• fornisce finanziamento azionario ai destinatari; •• i contributi vanno rimborsati sulla base del free cash flow in un periodo di 10 anni dopo il completamento del progetto.

Enerkem, enerkem.com/

tra opportunità di finanziamento e politiche di sviluppo”. La costruzione dell’impianto della società guidata da Richard è stata resa possibile proprio da un finanziamento di 10,9 milioni di dollari canadesi elargito dalla Sdtc. Tra gli investitori della Comet figurano anche il fondo di venture capital francese Sofinnova e la stessa BioAmber, che ha siglato lo scorso aprile con la società dell’Ontario un accordo commerciale per la fornitura di destrosio. Altro fiore all’occhiello della bioeconomia made in Canada è la quebecchese Enerkem, che si sta ritagliando un ruolo di primo piano a livello mondiale grazie a una tecnologia che consente di produrre biocombustibili e prodotti biochimici utilizzando come materia prima i rifiuti solidi urbani. Fondata nel 2000 da Esteban Chornet e dal figlio Vincent, che ne è tuttora il presidente e amministratore delegato, la società ha inaugurato il primo impianto pilota nel 2003 a Sherbrooke in Quebec. Successivamente, nel 2007 ha avviato la costruzione di un impianto dimostrativo a Westbury, nel 2010 del primo impianto commerciale a Edmonton in Alberta, e nel 2012 del secondo a Varennes, in Quebec. La tecnologia di Enerkem utilizzata nell’impianto di Edmonton inaugurato a giugno 2014 ha permesso alla città canadese di far crescere la propria percentuale di diversione dei rifiuti dal 60 al 90% producendo etanolo e metanolo. Per questo motivo la bioraffineria – che lo scorso agosto

ha ricevuto (prima al mondo) la certificazione dalla Iscc (International Sustainability and Carbon Certification) per la produzione di biometanolo da rifiuti solidi urbani – è considerata dagli addetti ai lavori un vero e proprio modello di bioeconomia circolare, che il colosso chimico AkzoNobel e altri partner vorrebbero replicare nei Paesi Bassi. Mentre in Cina è il Qingdao City Construction Investment Group ad avere in programma la costruzione di una bioraffineria che utilizzerà la tecnologia di Enerkem. “La certificazione Iscc – ha affermato Tim Češarek, vicepresidente senior, business development – conferma che Enerkem soddisfa requisiti elevati di sostenibilità ecologica e sociale. Enerkem vende già il suo biometanolo in Nord America e, con la certificazione, ora stiamo aggiungendo flessibilità per esportarlo come biocarburante in Europa (la certificazione di parte terza è richiesta dalle misure stringenti previste dalla direttiva europea sull’energia rinnovabile, ndr)”. Il ruolo del Bio-Economy Network Secondo un’analisi presentata dal ministero dell’Agricoltura e dell’Agroalimentare (Bioproducts Survey, Statistics Canada), nel 2009 erano più di 200 le imprese canadesi che stavano sviluppando o producendo bioprodotti, con 3.000 persone occupate e un volume di affari di 1,3 miliardi di dollari canadesi (433 milioni il valore dell’export). E con un totale di biomassa prodotta pari a 27 milioni di tonnellate. Si tratta di numeri certo da aggiornare, ma che danno bene l’idea di un paese in cui la bioeconomia rappresenta un settore con un grande potenziale di crescita, considerato dal governo un’ottima opportunità per rafforzare e diversificare il settore agricolo, trasformando gli scarti della produzione in prodotti ad alto valore aggiunto. Per sfruttare appieno questo potenziale, il ministero dell’Agricoltura ha istituito un gruppo di lavoro interdipartimentale sulla bioeconomia (Biwg, Bioeconomy Interdepartmental Working Group), che riunisce dipartimenti federali e agenzie al fine di coordinare tutte le politiche di settore. Un’iniziativa a cui si è affiancato nel 2012 il Bio-Economy Network (Ben), una rete di stakeholder della bioeconomia canadese che punta a sfruttare pienamente il potenziale emergente nel mercato globale per i prodotti a base biologica e a cui il governo federale ha assegnato di recente il compito di redigere la prima bozza del piano nazionale per la bioeconomia. “Abbiamo visto la politica aggressiva sulla bioeconomia di Stati Uniti, Cina ed Europa e non vogliamo stare a guardare”, ha dichiarato Catherine Cobden, vicepresidente esecutivo dell’Associazione canadese dei prodotti forestali, chiamata a presiedere Ben. “Non vogliamo – ha detto Cobden – che il Canada finisca in una posizione vulnerabile in un contesto concorrenziale sempre più feroce. Qui in Canada abbiamo risorse naturali che gli altri paesi ci invidiano. Vogliamo lavorare oltre i confini tradizionali e preparare il paese per il futuro.”

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materiarinnovabile 12. 2016 Intervista

a cura di M. B.

Un futuro che parte dalle foreste Glenn Mason, assistente viceministro, Canadian Forest Service, dipartimento Risorse Naturali del Canada

Canadian Council of Forest Ministers, www.ccfm.org/english/

Signor Mason, il Canada possiede 348 milioni di ettari di foreste: che ruolo gioca l’industria della silvicoltura nella bioeconomia canadese? “I 348 milioni di ettari di foresta del Canada significano che il paese possiede una delle maggiori fonti di biomassa sulla Terra. Ogni anno qui viene abbattuto meno dello 0,5% delle foreste ma la lavorazione del legname genera tra i 28 e i 32 milioni di tonnellate (pari a 500 milioni di GJ) di residui di segheria all’anno. E sempre più spesso si trovano nuovi impieghi per i sottoprodotti della lavorazione della polpa di cellulosa e della carta, come la lignina. Il settore della silvicoltura può, quindi, dare contributi significativi alla bioeconomia canadese: i progressi tecnologici nell’uso e nella trasformazione della fibra di legno in energia, carburanti, sostanze chimiche o materiali avanzati forniscono costantemente nuove opportunità per ridurre le emissioni di gas serra, assicurare un immagazzinamento a lungo termine del carbonio e garantire sostenibilità economica alle aree rurali. Nel futuro del Canada noi vediamo un ruolo chiave per il settore forestale.” Per raggiungere gli obiettivi fissati di contenere l’aumento della temperatura media entro 1,5 °C rispetto alle medie del periodo preindustriale e ridurre le emissioni del 30% entro il 2030 rispetto al 2005 occorre eliminare il carbone come combustibile e incrementare gli investimenti nelle rinnovabili e nella bioeconomia. Come pensate di farlo? “Il nostro obiettivo è di supportare tutti i diversi aspetti della bioeconomia. In primo luogo, il Canada sostiene con forza la scienza che fornisce i dati per l’analisi del ciclo di vita e la contabilità del carbonio contenuto nelle foreste. In secondo luogo, incoraggia la creazione e la commercializzazione di nuovi prodotti e tecnologie attraverso sovvenzioni governative che finanziano tutti gli stadi del continuum innovativo, dalla scienza che ne sta alla base fino alla ricerca e sviluppo e alla commercializzazione. I settori coperti spaziano dalla bioenergia alle costruzioni, ai materiali avanzati o alle sostanze chimiche elementari. Come lei ha ricordato, l’energia rappresenta la prima frontiera per lo sviluppo della bioeconomia dato che ha un forte potenziale per la mitigazione delle emissioni di gas serra. In una dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti, il Canada si è impegnato a definire e condividere un piano e una timeline per sviluppare alternative al diesel innovative nell’utilizzo delle rinnovabili e nell’efficienza e per far progredire l’adattamento della comunità ai cambiamenti climatici. Il governo del Canada è decisamente impegnato a proteggere l’ambiente e nello stesso tempo a far crescere l’economia.”

Quali sono le priorità nell’azione del governo canadese? “Il governo del Canada è decisamente impegnato a proteggere l’ambiente e nello stesso tempo a far crescere l’economia (‘Protecting the environment and growing the economy’ è uno slogan di Justin Trudeau, primo ministro canadese, ndr). Le priorità riguardano la riduzione dell’inquinamento da carbonio, la lotta ai cambiamenti climatici, gli investimenti strategici in tecnologie pulite. Tali priorità si sono tradotte in numerosi impegni a collaborazioni e finanziamenti – in un periodo che va dai prossimi 2 a 10 anni – che faranno progredire i biocarburanti e la bioeconomia grazie a grandi investimenti in infrastrutture, tecnologia pulita per i settori delle risorse naturali e un fondo per un’economia a basse emissioni di carbonio. Inoltre, il Canada sta sviluppando un Forest Bioeconomy Framework attraverso il Canadian Council of Forest Ministers (Ccfm). Il Framework è parte dell’Innovation Action Plan del Ccfm per i prossimi quattro anni.” Quali politiche avete adottato in Canada a sostegno della bioeconomia? “Negli ultimi dieci anni i governi canadesi, quello federale e quelli provinciali e territoriali, hanno messo in atto numerose politiche e programmi per sostenere lo sviluppo della bioeconomia. Il governo federale del Canada ha le Renewable Fuel Regulations, che specificano la media annua del contenuto rinnovabile nella benzina, nel diesel e nel combustibile da riscaldamento. E alcune province hanno legislazioni che vanno oltre e al di là dei limiti federali. Inoltre, il governo federale sostiene lo sviluppo della bioenergia e della bioeconomia con vari programmi e sovvenzioni collaborando con l’industria nella ricerca e nello sviluppo della tecnologia e delle materie prime, come pure in progetti dimostrativi. Per esempio: il programma Investment in Forest Industry Transformation (Ifit) stanzia 100 milioni di dollari in quattro anni per i progetti che sviluppino nuove tecnologie riguardanti prodotti forestali ed energie rinnovabili non tradizionali e ad alto valore. EcoEnergy for Biofuels è un programma che prevede investimenti fino a 1,5 miliardi di dollari al fine di potenziare la produzione di alternative rinnovabili a benzina e diesel, e incoraggiare la crescita di una industria domestica competitiva dei carburanti rinnovabili. Inoltre, il Growing Forward 2, è un framework sulle politiche messo a punto per il settore agricolo e agroalimentare che prevede un investimento di tre miliardi di dollari in cinque anni (2013-2018) da parte dei governi federale, provinciali e territoriali (Fpt) in programmi focalizzati sull’innovazione, competitività e sviluppo del mercato.


Policy E anche alcune province stanno sviluppando proprie strategie nel settore.”

The Canadian Trade Commissioner Service, “Why Invest in Canada?” tinyurl.com/pyp9yyo

Il Canada è il maggior detentore di riserve di petrolio dopo Arabia Saudita e Venezuela. È anche il terzo produttore di gas naturale a livello globale. Come si possono conciliare gli interessi di questi settori con quelli della bioeconomia? “Progredire sul cammino della bioeconomia non sarà un compito facile, né è possibile che un singolo soggetto lo possa compiere da solo. Occorre sviluppare un sistema di innovazione trans-settoriale che cerchi di allineare gli interessi e gli obiettivi di vari settori. Per esempio, i recenti progressi nelle tecnologie per la conversione idrotermale della biomassa possono facilitare la produzione di bio-greggio, che si potrebbe produrre in modo sostenibile nelle raffinerie esistenti per generare una serie di biocarburanti e sostanze biochimiche. Governi e industria dovranno lavorare insieme per sviluppare una visione per la bioeconomia, in modo che gli sforzi siano allineati e di utilità reciproca.” Ci sono misure come il Green Public Procurement e la carbon tax nel sistema delle politiche canadesi? “La Government of Canada Policy on Green Procurement è diventata effettiva il primo aprile del 2006. Prevede che i dipartimenti federali integrino le considerazioni sulla performance ambientale come fattore chiave nelle decisioni sulle acquisizioni. Ai dipartimenti viene inoltre richiesto di definire gli obiettivi del green procurement e di monitorare e riferire annualmente sulla loro performance negli ‘acquisti verdi’. Come priorità, il governo canadese sta lavorando per fornire una guida nazionale nella riduzione delle emissioni di gas serra, nel combattere i cambiamenti climatici e fissare un prezzo alle emissioni di carbonio.

Insieme alle province e ai territori, il governo del Canada sta lavorando per assicurare loro la flessibilità necessaria affinché possano mettere a punto le proprie politiche di prezzo sulle emissioni di carbonio. Tali politiche riconosceranno il costo economico e l’impatto che un aumento superiore ai 2° nelle temperature medie globali rappresenterebbe.” Il Canada ha dimostrato grande capacità di attrarre gli investimenti delle compagnie che operano nella bioeconomia. Quali sono i punti forti del suo paese? “Primo, il Canada è un leader mondiale riconosciuto nella gestione sostenibile delle sue foreste: nel 2015 possedeva la più grande area al mondo di foreste certificate da enti indipendenti, pari a 166 milioni di ettari. La gestione sostenibile delle foreste in Canada è sostenuta da leggi, regolamenti e politiche, da un rigoroso processo di pianificazione della gestione delle foreste e da un approccio scientifico al processo decisionale, alla valutazione e alla pianificazione. Gli investimenti risultano attrattivi grazie alla reputazione del paese considerato fonte di prodotti forestali e biomassa prodotti legalmente e in modo sostenibile. Inoltre il Canada possiede ricercatori e forza lavoro di prim’ordine. Per esempio, gli scienziati canadesi hanno scoperto due nuovi biomateriali rivoluzionari di origine forestale – i filamenti e i nanocristalli di cellulosa – che possiedono il potenziale per contribuire a posizionare il settore forestale nazionale all’avanguardia nella bioeconomia globale. Non solo. Il nostro paese ha anche una sana legislazione e un settore commerciale stabile, oltre a una storia di forti relazioni commerciali con molti paesi: gli investitori stranieri avranno anche un accesso preferenziale attraverso l’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta) e altri accordi. Infine, tra tutti i paesi del G7, il Canada è quello con la più bassa pressione fiscale sul business.”

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Foto di Enerlab

Foto di Kruger

Dossier Canada

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Una rinascita 1

INDUSTRIALE

15 miliardi di dollari l’anno: tanto vale oggi l’industria forestale in Canada. Ed ecco come si è trasformata: da leader mondiale nella fornitura di risorse naturali a produttrice di biomateriali innovativi e sostenibili. a cura di Global Affairs Ministry Canada & Natural Resources Canada

FPInnovations, fpinnovations.ca/Pages/ index.aspx

Nonostante tutta l’attenzione dedicata al Canada in quanto nazione ricca di risorse, c’è un’altra storia che merita di essere raccontata. Parla di trasformazione e innovazione, di adattamento di fronte alle avversità e di commercializzazione del cambiamento. Protagonista principale è il settore forestale canadese, un segmento dell’economia che vale circa 15 miliardi di dollari all’anno e dà lavoro direttamente a 195.000 persone.

In conseguenza di queste spinte al cambiamento, al settore si presentarono nuove opportunità di crescita. Il governo e l’industria privata si unirono, insieme a università e altre organizzazioni di ricerca, dando vita a FPInnovations, la più grande organizzazione pubblica-privata di ricerca forestale al mondo. A loro volta, i partner avviarono una serie di investimenti e innovazioni nei vari ambiti che compongono il settore forestale del Canada.

Dopo il fuoco, la rinascita

Una tripla vittoria: nuovi prodotti, tecnologie più pulite, maggiore occupazione

Per generazioni, in Canada il settore forestale ha goduto di un grande successo come produttore a basso costo e fornitore mondiale. Tuttavia verso la fine degli anni Duemila sono cambiate molte cose. Prima di tutto, il mercato immobiliare americano, dal quale dipendeva gran parte dell’esportazione forestale canadese, è collassato. Poi, è diminuita la domanda di carta per i giornali. Infine, la quotazione del dollaro canadese è cresciuta fino quasi alla parità con quello americano, facendo emergere la competitività di altri paesi che potevano offrire prodotti forestali simili a costi inferiori.

Come risultato, l’industria forestale canadese ha completato la sua gamma di prodotti convenzionali orientati all’uso efficiente delle risorse con nuove e più redditizie opportunità legate allo sviluppo di bioprodotti innovativi come i nanocristalli di cellulosa e altre materie prime per ottenere carburanti, sostanze chimiche e materiali. I produttori canadesi hanno creato questi bioprodotti principalmente usando biomassa proveniente dalle foreste. E poiché per produrli spesso si usano tecnologie che riducono le emissioni di gas serra e hanno anche altri benefici per l’ambiente, di fatto i bioprodotti


Foto di Corruven Foto di TTS

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4 1. Enerlab 2000 Inc. Schiuma di ISO-LIGNINA spruzzata per creare pannelli isolanti ad alte prestazioni con proprietà personalizzabili come resistenza al fuoco e densità specifiche

2. Kruger BioMaterials Inc. FiloCell® filamenti di cellulosa – un materiale biobased innovativo che conferisce forza, leggerezza e altri pregi a plastica, calcestruzzo, carta e molti altri prodotti

3. Miller Western Tre cisterne di digestione anaerobica ibrida convertono gli scarti organici delle cartiere in bioenergia per l’alimentazione di mulini per pasta di cellulosa

hanno il potenziale per migliorare la performance ambientale di tutta l’economia canadese. Senza dimenticare che lo sviluppo e l’applicazione delle nuove tecnologie sostiene la competitività del Canada a livello mondiale e crea occupazione. E si tratta di un cambiamento implementato responsabilmente. L’industria forestale canadese sta aprendo nuovi mercati mentre riduce le conseguenze indesiderate grazie a pratiche di gestione sostenibile delle foreste.

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Kruger Biomaterials: dai giornali ai biomateriali

Kruger Biomaterials, biomaterials.kruger.com/en

Enerlab, www.enerlab.ca

La Kruger Biomaterials è uno dei tanti esempi di società del settore che ha deciso di cambiare. Fino a poco tempo fa, il suo mulino a Trois-Rivières nel Quebec, produceva carta da giornale. Dall’azienda uscivano 360.000 tonnellate di prodotto all’anno. Ma col diminuire delle vendite in tutto il mondo, l’azienda, con l’assistenza di FPInnovations, ha scelto di scommettere sulla creazione di nuovi prodotti. Nel 2014 la Kruger ha costruito il primo impianto su scala industriale per produrre filamenti di cellulosa, un biomateriale con proprietà di rinforzo uniche. I filamenti di cellulosa FiloCell sono ottenuti esfoliando meccanicamente le fibre di legno in fili molto lunghi e sottili. Il processo produce un materiale flessibile, ultraleggero con eccezionali proprietà di adesione. Le fibre FiloCell possono essere usate per rinforzare diversi materiali come termoplastiche, calcestruzzo, adesivi, tessuti non tessuti e rivestimenti. Altre esperienze positive: Enerlab, AE Côte-Nord, Corruven, Tekle e Millar Western Fortunatamente, la storia di Kruger non è unica. Vicino a St-Mathieu de Beloeil in Quebec, l’azienda produttrice di isolamenti Enerlab2000 Inc.

4. Tekle Technical Services Inc. Tappetini di fibre lavorate ricavate dai residui di lavorazione del legno vengono modellati per creare pannelli per l’interno di automobili

5. Corruven Canada Inc. Il pannello in composto leggero della Corruven ha un ampio potenziale di utilizzo in materiali edili, mobili e nel settore dei trasporti

ha sviluppato un processo mediante il quale realizza nuovi pannelli isolanti e strutturali usando lignina derivata dal legno (un sottoprodotto della polpa di cellulosa) invece di materie ottenute dal petrolio. I processi della Enerlab trasformano la lignina organica in poliuretani che possono essere prodotti in diverse forme (da schiume a bassissima densità fino a composti ad alte prestazioni) e sono utilizzabili per sedili ad alta resilienza, pannelli isolanti di schiuma rigidi, adesivi ad alta performance, rivestimenti di superficie, packaging, sigillanti superficiali e fibre sintetiche. Nei prossimi anni Enerlab svilupperà una nuova linea di produzione che può fabbricare fino a 10 milioni board feet (il board foot è un’unità di misura specifica per il volume del legname: corrisponde al volume di un piede quadrato e un pollice di spessore, ndr) di differenti tipi di pannelli strutturali. Il che potrebbe far scendere del 20% i costi delle materie prime per l’edilizia, ridurre l’impronta ecologica e soddisfare la domanda di materiali da costruzione ecologici basati sul poliuretano. Rimaniamo in Quebec. Ensyn Bioenergy Canada, Arbec Forest Products e Rémabec Group hanno creato una nuova azienda, Ae Côte-Nord Canada Bioenergy Inc., che sta costruendo il primo impianto commerciale al mondo che impiegherà la tecnologia Rapid Thermal Processing (Rtp) per convertire gli scarti forestali in bio-greggio liquido. Una volta ultimato, l’impianto produrrà 40 milioni di litri di bio-greggio all’anno utilizzando circa 65.000 tonnellate di residui di mulino. L’uso di questo combustibile per produrre energia, ridurrà le emissioni di gas serra tra il 70 e il 90%, mentre in termini occupazionali si otterranno circa 30 posti di lavoro nell’impianto e molti altri nell’indotto. In New Brunswick, sulla costa atlantica canadese, Corruven Inc., un fornitore di tecnologia all’avanguardia business-to-business per diversi settori industriali (nei materiali per l’edilizia,


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Kenora Declaration on Forest Innovation, www.ccfm.org/pdf/ Declaration_E.pdf

industria del trasporto e mobilifici), realizza pannelli di legno ondulato partendo da fibre di legno di basso livello. Il prodotto mette insieme la forza naturale del legno con la chimica verde e la forma ondulata. Questi pannelli possono essere utilizzati per il packaging di alto livello, come struttura per letti di nuova generazione e come materiale nell’architettura e nell’industria delle costruzioni. Paragonati ai pannelli di composti di legno standard, per produrre i pannelli Corruven core occorre il 60% in meno di legno, il 40% in meno di energia e il 40% in meno di resine. Sul versante occidentale del paese, in Alberta, la Tekle Technical Services (Tts) ha messo a punto un nuovo processo di lavorazione in grado di ottenere tappetini di fibra da residui di legno e fibre agricoli, utilizzabili come rivestimenti interni per auto e materiali per l’edilizia avanzati ed ecologici. Biocomposites Group, un’azienda spin-off della Tts, è stata creata nella Drayton Valley – sempre in Alberta – per operare come agenzia commerciale indipendente. Si ritiene che l’azienda possa creare 20 nuovi posti di lavoro e, inoltre, dovrebbe contribuire a ridurre la domanda di fibra di vetro e di plastiche di derivazione petrolchimica e tagliare le emissioni di gas serra fino a 50.000 tonnellate. Il laboratorio e il centro operativo della Tts a Edmonton, in Alberta, continuano a sviluppare applicazioni del tappetino di fibra e biocomposti sostenibili associati per altri settori industriali (edilizia, arredamento), creando così molte importanti opportunità per i canadesi e l’industria forestale.

Natural Resources Canada, www.nrcan.gc.ca/home

A Whitecourt, la Millar Western Forest Products Ltd., con il suo impianto di produzione di polpa di cellulosa, diventerà presto la prima azienda canadese a impiegare una innovativa tecnologia di digestione anaerobica ibrida per migliorare il trattamento delle acque reflue e generare bioenergia. Con questa tecnologia, Millar Western produrrà un biogas ricco di metano da usare in una centrale elettrica. Si prevede che il nuovo sistema anaerobico produca abbastanza biogas per generare 5,2 MW di elettricità rinnovabile e ridurre il consumo di elettricità del mulino di ulteriori 1,6 MW. Il risparmio totale di energia equivale alla quantità di elettricità consumata da più di 6.500 abitazioni in un anno. Ma il progetto porterà ulteriori benefici ambientali. Le emissioni dirette di gas serra scenderanno di 10.300 tonnellate all’anno, il consumo di acqua calerà del 10%, e la produzione di liquami sarà ridotta del 40%. Migliorerà anche la qualità delle acque reflue scaricate nel fiume Athabasca riducendone il contenuto organico del 65%. Infine, e non meno significativamente, il progetto ridurrà i costi operativi e la pressione sull’attuale sistema di trattamento, rendendo quindi l’impianto per la produzione di pasta di cellulosa più competitivo e prolungandone il tempo di operatività.

La strada per il futuro: la Dichiarazione di Kenora Ma le storie qui raccontate di Tekle, Enerlab, AE Côte-Nord, Corruven, Kruger e Millar Western non saranno le sole. Il Canadian Council of Forest Minister (Ccfm) ha recentemente approvato una dichiarazione per sostenere e far progredire l’innovazione nel settore forestale. La Dichiarazione di Kenora, così è conosciuta, è stata approvata nel luglio 2015 da quasi 70 soggetti, dal governo alle università al settore privato. Nel 2016 è stato messo a punto un piano di azione, che guiderà il settore fino al 2020 per rafforzare ulteriormente la sua presenza nelle industrie emergenti di bioprodotti, bioenergia e biomateriali. E per offrire ulteriori opportunità di sviluppo economico. Tre i pilastri che sostengono la Dichiarazione di Kenora. Il primo, la collaborazione, richiede ai principali soggetti del settore forestale, al mondo del business, ai lavoratori, al governo e ai ricercatori, di collaborare per innovare, ridurre la sovrapposizione di impianti simili, e “contaminare” reciprocamente le idee. Collaborare è particolarmente importante visto che le aziende canadesi di prodotti forestali sono relativamente piccole rispetto ai loro competitori globali: solo lavorando insieme possono guadagnarsi una più consistente fetta del mercato globale. Il secondo pilastro è rappresentato dal coinvolgimento: riguarda partner non tradizionali, come istituzioni accademiche e soggetti non associati normalmente all’industria forestale, ma ugualmente importanti nell’ambito della ricerca e sviluppo, in quanto la diversità è un fattore chiave del sistema di innovazione. Mediante la collaborazione, l’industria spera di coinvolgerli in nuove discussioni sull’innovazione, di capire meglio le loro proposte di valore e di identificare nicchie raggiungibili nelle nuove catene di rifornimento. La Dichiarazione punta anche a sviluppare strategie di coinvolgimento per connettere gli attori chiave nell’innovazione del settore forestale e creare una piattaforma aperta per l’innovazione mediante la quale gli innovatori esterni possano proporre nuove soluzioni tecnologiche. Il terzo pilastro della Dichiarazione è la mobilitazione. Il Canadian Council of Forest Minister – e le giurisdizioni che ne fanno parte – intendono mobilitare i talenti e le tecnologie necessarie ai produttori del settore forestale. Il Consiglio punta a stabilire connessioni più forti tra università, studenti laureati e aziende di prodotti forestali, in parte collaborando con la Mitacs, un’organizzazione non-profit canadese di ricerca e tirocinio che facilita i collegamenti tra l’industria, gli accademici e il governo. Così come intende anche continuare a promuovere il ruolo vitale dei popoli indigeni canadesi nel settore forestale – come lavoratori, proprietari di aziende, esperti nella conoscenza dell’ecosistema e parte della comunità.


Policy

Dossier Canada

Tutte le risorse

del Canada

Dalla bioeconomia può venire sviluppo economico, una spinta all’occupazione, vantaggi ambientali e climatici. Lo ha capito il governo di Ottawa che è riuscito a creare un ambiente attraente e stimolante per lo sviluppo del settore. a cura di Global Affairs Ministry Canada & Natural Resources Canada

È risaputo che il Canada è ricco di biomassa. Meno noto è il fatto che il paese abbia anche una miriade di industrie fortemente avanzate in grado di far crescere il potenziale della bioeconomia. Si tratta di piccole e medie aziende – e anche divisioni di aziende più grandi – attive in vari ambiti industriali che stanno avviando attivamente la commercializzazione di bioprodotti, così come la Ricerca e Sviluppo nei processi di conversione della biomassa in biofibre, biocarburanti, biomateriali e oli industriali biologici. Non solo. Come paese impegnato a favore della transizione verso un’economia basata

su tecnologie pulite, a basse emissioni di carbonio, il Canada è anche nel pieno del processo di sviluppo e allineamento degli strumenti politici e degli incentivi necessari per sfruttare a fondo questo potenziale. Un vantaggio naturale Il Canada sa che la bioeconomia rappresenta un’opportunità notevole per dare una spinta all’occupazione e alla futura crescita economica, sia per le comunità rurali sia per quelle urbane, ringiovanendo le industrie esistenti o creandone di nuove. Anche se il paese trae il suo maggior vantaggio economico dai settori

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1. Bio-economy Network, Industry perspective on Bioeconomy, Canadian Bioenergy Association, 2013. 2. Bioproducts: Canada’s Competitive Advantages, Invest in Canada Bureau, Global Affairs Canada, 2012. 3. Idem. 4. Idem. 5. Canada – Strategic Location for Biorefinery Investment – Final Report, preparato per Global Affairs Canada, 2015 Suthey Holler Associates.

estrattivi, la crescente convergenza tra industrie minerarie, petrolifere e del gas e gli sviluppatori di biotecnologia industriale, combinata con i progressi della tecnologia, si concretizza in una maggiore efficienza del processo e in una riduzione dell’impronta di carbonio e degli impatti ambientali.1 Una vasta serie di tecnologie biobased è in fase di sviluppo, usando diverse piattaforme tecnologiche e sono molti i processi nei quali è riconosciuta al Canada una forte competenza (vedi box). Il Canada, infatti, offre un approccio pragmatico alla creazione di un ambiente attraente per lo sviluppo di bioprodotti e bioraffinerie, sia già in corso sia in fase di fase di aggiustamento. La conversione della biomassa è un’area di interesse strategico per il Canada. Il governo federale lavora a stretto contatto con le sue controparti provinciali, municipali e industriali per sostenere lo sviluppo di questa industria, attraverso meccanismi e programmi di finanziamento, R&D e lo sviluppo di impianti a scala industriale.2 L’industria dei bioprodotti canadese ha di fronte una significativa opportunità di crescita: comprende aziende che producono biocarburanti, prodotti chimici biobased, materiali plastici e prodotti speciali usando materie prime di origine biologica e lavorazioni biologiche. E sono molte le industrie tradizionali che continuano sempre più a passare all’uso di combustibili, prodotti chimici e materiali biobased. Bioenergia

Iogen Corporation, www.iogen.ca Ensyn Technologies Inc., www.ensyn.com Greenfield Ethanol, www.greenfieldethanol.com

Grazie alle ingenti riserve di risorse agricole e forestali e quantità significative di rifiuti organici, il Canada ha il più alto tasso pro capite di biomassa al mondo. L’industria della bioenergia canadese sta mettendo a punto sistemi all’avanguardia di addensamento e conversione dei biocarburanti in forma liquida (etanolo o i carburanti diesel rinnovabili), gassosa (biogas o syngas) o solida (pellet o char). Le tecnologie canadesi stanno facendo progressi nel settore della combustione, della pirolisi, della gassificazione, della digestione anaerobica, dell’utilizzo del biogas delle discariche, della fermentazione e dell’idro-trattamento degli oli ricavati dalla biomassa. Aziende leader in questi settori sono: Iogen Corporation, Ensyn Technologies Inc. e Greenfield Ethanol.3 Biomateriali

Stemergy, www.stemergy.com GreenCore Composites, www.greencorenfc.com

La canapa canadese, il lino e altri vegetali sono convertiti per applicazioni ad alto valore, come tessuti, composti plastici, materiale isolante e carta. I residui di paglia del grano vengono riciclati nei cartoni di pasta di paglia, nel calcestruzzo, in filler per composti plastici e nelle lettiere degli animali. Pionieri in questo campo: Stemergy azienda dell’Ontario che sviluppa

prodotti per il settore edilizio e automobilistico; GreenCore Composites, un produttore, con base a Toronto, di materiali per modellatura a iniezione rinforzati con fibra naturale. Ci sono anche aziende che con procedimenti estruttivi utilizzano questi biomateriali in una vasta gamma di prodotti: parti di automobili, contenitori, equipaggiamenti sportivi e mobili.4 Sostanze chimiche La produzione biobased di sostanze chimiche e polimeri è sempre più considerata dall’industria economicamente ed ecologicamente attraente. La biomassa fornisce le materie di base per saccarosio, amido, cellulosa, emicellulose, lignina, oli e proteine, che compongono sostanze chimiche e materiali. Per esempio: Greenfield Ethanol, attiva nella produzione di etanolo, produce anche alcool di alta qualità per l’industria dei liquori, mentre BioAmber ha sviluppato un processo per ottenere acido succinico, una sostanza chimica a base biologica. Un lavoro di squadra Inoltre, il Canada è all’avanguardia nell’intraprendere attività e iniziative decisive utili per delineare come le industrie che si basano su prodotti forestali e agricoli possano rapidamente passare alla bioeconomia.5 Industrial Bioproducts Value Chain Roundtable. Il Comitato per la catena di valore dei bioprodotti è un forum industriale centrato sul settore agricolo e ospitato dalla Agriculture and Agri-Food Canada (Aafc). Fu fondato ritenendo che i bioprodotti diano un’opportunità di trasformare raccolti agricoli e biomassa non alimentare (per esempio paglia, fibre di lino e gambi di canapa, raccolti specifici dedicati) in bioprodotti ad alto valore in grado di sostenere l’innovazione, aumentare

Biobased: le tecnologie eccellenti •• •• •• •• •• •• •• •• •• •• •• •• •• ••

Digestione anaerobica Materiali e composti biobased Gassificazione della biomassa Idro-trattamento catalitico degli oli ricavati dalla biomassa Etanolo cellulosico Prodotti chimici piattaforma e intermedi Tecnologia Fischer-Tropsch migliorata Logistica per la fornitura e il monitoraggio delle materie prime Tecnologie di fermentazione Nanocristalli di cellulosa Pellettizzazione della produzione di Biochar Genomica vegetale Tecnologie di pirolisi Tecnologie per produrre energia dai rifiuti


Policy Canada di FreeVectorMaps.com

DOVE SONO I CLUSTER DI BIOPRODOTTI

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3 2 1. PROVINCE OCCIDENTALI Edmonton e Drayton Valley Bio-Mile, Alberta | Saskatoon, Saskatchewan | Winnipeg, Manitoba | British Columbia Leader industriali: Agrisoma Biosciences, Plains Industrial Hemp Processing, Himark BioGas, Metabolix, Nexterra Systems Corp., Novozymes, Linnaeus Plant Sciences, Prairie Plant Systems, S2G BioChemicals.

2. ONTARIO & QUEBEC Port Colbourne Valley, Ontario | SarniaLambton Biohybrid Chemistry Cluster, Ontario | Thetford Mines, Quebec | Guelph, Ontario | Thunder Bay, Ontario Leader Industriali: Airex Energy, BioAmber, BIOX Corp., CelluForce, EcoSynthetix, Enerkem, Ensyn Corporation, GreenCore Composites, GreenField Specialty Alcohols, LANXESS, Tembec, The Woodbridge Group.

la competitività degli agricoltori, contribuire a risolvere i problemi ambientali, creare occupazione pulita nell’economia canadese nell’ambito della Ricerca e Sviluppo, dell’agricoltura e delle lavorazioni a valore aggiunto. Canadian Biomass Innovation Network. È un network di ricercatori federali, program manager, decisori politici e consiglieri esperti in una partnership con industria, università, Ong, altri livelli di governo e la comunità internazionale. Lo scopo del network è di assicurare la disponibilità di conoscenza e di tecnologia e delle politiche attuative necessarie per supportare lo sviluppo di una bioeconomia sostenibile nel paese.6 Canadian Bio-economy Network. Le principali associazioni industriali canadesi con interessi nella bioeconomia, hanno creato il Bio-economy Network (Ben). Il consorzio è un forum industriale con una larga base che rappresenta 900 aziende

3. PROVINCE ATLANTICHE Innovacorp Demonstration Centre, Brooklyn, Nova Scotia | Perennia Innovation Centre, Bible Hill, Nova Scotia Leader Industriali: ADI Systems, Atlantec Bioenergy Corp., Atlantic Council for Bioenergy Cooperative Limited, AV Cell, Canadian BioEnergy Centre, Cavendish Farms, Chatham Biotec, Ocean Nutrition Canada, Solarvest BioEnergy, Tekmash Group.

associate, sostiene oltre 2 milioni di posti di lavoro e genera oltre 300 miliardi di dollari di entrate annue. Ben collabora con il governo per facilitare lo sviluppo della bioeconomia lungo le catene di valore in diversi settori,7 come industrie minerarie, petrochimiche, alimentari e automobilistiche. Una risposta ai cambiamenti climatici Il governo di Ottawa fornisce una leadership nazionale aggiungendosi alle province e ai territori per agire sul piano dei cambiamenti climatici, assegnare un prezzo al carbonio e ridurne l’inquinamento. Così come si impegna a proteggere le comunità canadesi e a far crescere l’economia grazie a significativi investimenti in infrastrutture verdi e tecnologie pulite. Questi investimenti comprendono: •• la Low Carbon Economy Trust di 2 miliardi di dollari per finanziare progetti finalizzati alla riduzione del carbonio;

6. www.nrcan.gc.ca/ energy/renewableelectricity/bioenergysystems/17160 7. www.fpac.ca/creatinga-canadian-advantage-inthe-bio-economy/

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materiarinnovabile 12. 2016 •• l’impegno del G20 ad azzerare i sussidi per l’industria del fossile; •• la collaborazione con province e territori per sviluppare una Strategia energetica canadese per proteggere la sicurezza energetica del paese, incoraggiare il risparmio di energia e immettere nella rete elettrica energia più pulita e rinnovabile.

8. www.climatechange. gc.ca/default. asp?lang=En&n= 72F16A84-1 9. Vedi nota 2.

Inoltre, il governo si è impegnato a lavorare con partner internazionali per raggiungere un ambizioso accordo fondato su basi scientifiche che faciliti la transizione globale a un’economia a basse emissioni di carbonio e resiliente al clima. Ma il Canada è anche impegnato nell’aiutare i paesi più poveri e vulnerabili ad adattarsi agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, cercando di mobilitare investimenti significativi per ridurre le emissioni nei paesi in via di sviluppo.8 Il network di cluster bioindustriali L’industria biobased canadese si è strategicamente sviluppata intorno a zone specifiche per ridurre i costi di accesso alle materie prime originate dalla biomassa e godere dei benefici economici del gruppo. A sua volta, ciò ha incoraggiato e alimentato lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia per la conversione della biomassa e la formazione

di bio-cluster in tutto il paese basati sulla conoscenza. Per esempio, i cluster di prodotti forestali si svilupperanno intorno alle aree di produzione di polpa di cellulosa e carta (come la Drayton Valley, Alberta). I cluster di prodotti chimici biobased si svilupperanno intorno ad aree dove le aziende chimiche sono già presenti e sono disponibili materie prime da biomassa locali (come Sarnia, Ontario), mentre i cluster di prodotti agricoli nelle zone agricole centrali (come Saskatoon, Saskatchewan).9 Quest’ultimo è uno dei luoghi più dinamici e vibranti per l’innovazione e la commercializzazione di biotecnologia agricola e scienze biobased. Il Cluster di Saskatoon ha accesso a grandi quantità di paglia derivanti dalla produzione di grano e orzo e oli vegetali dalla canola (Brassica napus), camelina (Camelina sativa) e carromata (Brassica carinata). Il Plant Biotechnology Institute del National Research Council a Saskatoon offre alle aziende una vasta gamma di servizi, tra cui l’accesso a laboratori e strumenti avanzatissimi per la genomica. I suoi programmi di partnership proteggono il business nei primi critici anni di sviluppo, assicurando


Policy Tembec, una storia di successo Tembec è il maggior produttore di cellulosa speciale e sottoprodotti, i ligninsolfonati. Per questa società con quartier generale a Montreal, la leadership mondiale è iniziata con la collaborazione con il Wwf per garantire una buona gestione delle foreste per gli anni a venire mediante l’implementazione degli standard Forest Stewardship Council (Fsc). Le bioraffinerie Tembec producono polpe di cellulosa speciali per una vasta gamma di mercati: farmaceutico, alimentare e dei rivestimenti, mentre i suoi prodotti a base di lignina possono essere impiegati nel settore edile o per generare bioenergia. I suoi impianti di cogenerazione in Francia e in Canada consumano corteccia e scarti di mulino per produrre energia verde venduta alla rete elettrica e producono energia termica. L’azienda gestisce anche tre impianti di trattamento anaerobico dove microorganismi convertono inquinanti organici contenuti nelle acque di scarico in biogas per sostituire il gas naturale negli essiccatoi della polpa di cellulosa. www.tembec.com

10. Idem. 11. Idem. 12. www.genomecanada. ca/en/about-us/visionand-mission 13. www.agr.gc.ca/eng/ programs-and-services/ list-of-programs-andservices/agriinnovationprogram/?id= 1460123349608 14. www.nrcan. gc.ca/forests/federalprograms/13139 15. www.nrc-cnrc. gc.ca/eng/solutions/ collaborative/industrial_ bio_index.html 16. www.nrc-cnrc.gc.ca/ eng/irap/about/index.html

Genome Canada. È un’organizzazione non-profit che agisce come catalizzatore per sviluppare e applicare la genomica e le tecnologie da essa derivate al fine di creare benefici economici e sociali per la società. L’organizzazione: •• connette idee e persone nel settore pubblico e privato per trovare nuove applicazioni della genomica; •• investe su larga scala in scienza e tecnologia per l’innovazione dei carburanti; •• traduce le scoperte in soluzioni in settori chiave, tra i quali salute, settore agricolo e agroalimentare, silvicoltura, itticoltura e acquacoltura, ambiente, energia e settore estrattivo. Genome Canada non fa solo progredire la scienza e la tecnologia della genomica ma trasforma anche la conoscenza delle sfide e le opportunità etiche, ambientali, economiche, legali e sociali in politiche sane e pratiche che accrescono l’impatto della genomica.12 AgriInnovation Program. Condotto da Agriculture and Agri-Food Canada, questo programma opera due tipi di investimenti societari per i primi stadi: quelli indirizzati alle attività di ricerca e sviluppo e quelli che aiutano l’industria a portare i risultati della ricerca e sviluppo al mercato attraverso l’adozione/ commercializzazione da parte delle industrie.13 Investment in Forest Industry Transformation Program. Gestito da Natural Resource Canada, il programma aiuta il settore forestale a diventare economicamente più competitivo ed ecologicamente sostenibile. Supporta la trasformazione dell’industria forestale accelerando l’applicazione di tecnologie altamente innovative presso gli impianti industriali di trasformazione dei prodotti forestali. Questi progetti comprendono bioenergia, biomateriali, sostanze chimiche a base biologica.14

solide fondamenta all’expertise sulla tecnologia e sul business.10 Così si sostiene l’innovazione Il Canada favorisce un ambiente di ricerca e sviluppo stimolante che promuove le ricerche condotte insieme da università pubbliche e private sulle biotecnologie, i bioprocessi e i bioprodotti. Finanziati dai governi a livello federale e provinciale, i ricercatori del network canadese di università e istituzioni specializzate nella ricerca stanno conducendo ricerche pionieristiche che gli imprenditori e le società di qualsiasi dimensione, sia canadesi sia stranieri, potranno sfruttare per raggiungere i loro obiettivi di sviluppo del business. Le province e i territori canadesi offrono una serie di programmi e incentivi per l’innovazione e per la realizzazione.11 Ecco alcuni dei programmi federali più importanti.

Industrial Biomaterials Program. Industrial Biomaterials del National Research Council Canada favorisce il successo commerciale e gli impatti tangibili dei materiali industriali e della produzione di composti avanzati di origine biologica. Ib sviluppa resine polimeriche, fibre, rinforzi e composti economicamente vantaggiosi e di nuova generazione da fonti non alimentari rinnovabili e riciclabili.15 Industrial Research Assistance Program. L’Industrial Research Assistance Program (Irap) aiuta le piccole e medie imprese canadesi a costruire la loro abilità nella tecnologia e nell’innovazione. Il programma offre assistenza tecnica diretta, accesso agli ultimi progressi tecnologici, elevata competenza, impianti e risorse, ma anche il finanziamento a costi condivisi di processi tecnici innovativi.16 Anche l’Expert Development Canada (Edc) e la Business Development Bank of Canada (Bdc) offrono programmi di finanziamento flessibili e soluzioni su misura per sostenere globalmente le aziende nei loro sforzi di commercializzazione.

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Meglio lo zucchero

DEL PETROLIO

Dal nuovo impianto industriale di Bottrighe appena inaugurato usciranno ogni anno 30.000 tonnellate di biobutandiolo. Prodotto senza usare una goccia di petrolio. Ma grazie a un batterio in grado di svolgere il lavoro come se fosse una nano-raffineria completamente biologica e rinnovabile. Un nuovo record mondiale della chimica verde italiana. di Emanuele Bompan

C4H10O2. Si legge 1,4-butandiolo, è un composto chimico derivato dal butano, un gas incolore ottenuto dalla distillazione frazionata di petrolio e gas naturale. Un liquido di origine fossile dunque, ampiamente impiegato come solvente e per la produzione di plastiche, fibre elastiche – come lo spandex – e poliuretano. Utilizzato anche nell’industria farmaceutica, in passato è stato impiegato come stupefacente a scopo ricreativo, con nomi come “One Comma Four”, uno virgola quattro, il legame chimico di ossigeno e idrogeno. Ma non fatevi spaventare: il butandiolo è un vero tesoro per l’industria. Oggi il valore complessivo del mercato globale industriale del 1,4-Bdo – come viene chiamato dagli addetti ai lavori – si stima intorno a 3,5 miliardi di euro. I principali produttori di Bdo

da fonti fossili sono i grandi gruppi chimici mondiali: dalla tedesca Basf alla Dairen di Taiwan, passando per le statunitensi Lyondell, Isp e DuPont. Per produrlo si impiegano ogni anno centinaia di migliaia di tonnellate di petrolio. Una cifra considerevole, per un prodotto chimico. Per questa ragione, per anni si sono cercate formule alternative per sintetizzare il Bdo da fonti non fossili. Colossi della chimica, come la multinazionale Basf, hanno tentato inutilmente di sfruttare processi alternativi, senza mai arrivare alla produzione a scala industriale. Ora, però, il 1,4-butandiolo di origine non fossile sta per arrivare sul mercato. Lo scorso 30 settembre Novamont, pioniere e leader mondiale nello sviluppo di bioplastiche e bioprodotti, attraverso la controllata Mater-Biotech ha


Case Studies inaugurato a Bottrighe, nell’area industriale di Adria, in provincia di Rovigo, il primo impianto industriale a livello mondiale in grado di produrre bio-butandiolo, senza utilizzare una goccia di petrolio, facendo risparmiare oltre il 50% delle emissioni di CO2. Un nuovo record della chimica verde nostrana, che dimostra una vivacità senza paragoni. Ma con cosa è stato soppiantato il petrolio? “Novamont ha iniziato a produrre 1,4-Bdo direttamente da zuccheri impiegando una tecnologia sviluppata da Genomatica, leader nell’innovazione bioingegneristica, e integrata con il nostro know-how chimico”, ci spiega Luigi Capuzzi, responsabile ricerca Novamont. Alla base della rivoluzione di processo, un tipo di escherichia-coli (e.coli), un piccolo batterio comune che si trova nell’intestino degli animali a sangue caldo. Certo una risorsa non scarsa. Ogni giorno espelliamo in media dall’ultimo tratto del nostro intestino fino a 100 miliardi di batteri. Delle migliaia di tipi prodotti sinteticamente e testati in laboratorio è stato selezionato l’unico batterio in grado di sintetizzare lo zucchero in butandiolo in un solo passaggio attraverso la sua digestione. L’unico in grado di svolgere il lavoro come se fosse una nano-raffineria completamente biologica e rinnovabile. Il processo è stato scoperto nel 2008 a San Diego in California, dal biologo sintetico Christophe Schilling, Ceo e fondatore di Genomatica, considerato da Scientific American una delle menti più brillanti del settore. “Abbiamo ingegnerizzato geneticamente un organismo che per crescere deve secernere questo tipo di prodotto” ha detto Schilling in una recente intervista. “L’interesse di e.coli è allineato con i nostri interessi. Più ne produce, più cresce”. La società di Schilling ha lavorato per anni per ingegnerizzare geneticamente un e.coli in grado

Esistono altri processi per produrre il butandiolo da fonte rinnovabile, ma non sono altrettanto efficienti per unità di costo.

di sviluppare un apparato digerente capace di sintetizzare lo zucchero a temperature intorno ai 40 °C. “Naturalmente nessun batterio è in grado di farlo in maniera spontanea. Genomatica è l’unica ad averlo scoperto”, spiega Luigi Capuzzi, responsabile ricerca Novamont. “E noi siamo stati gli unici a impiegarlo su grande scala, rendendo il biobutandiolo competitivo anche con gli attuali bassi prezzi del petrolio”. Il vantaggio strategico di Novamont sta proprio nella procedura diretta di trasformazione. Esistono, infatti, altri processi per produrre il butandiolo da fonte rinnovabile, ma non sono altrettanto efficienti per unità di costo. “Oggi già è possibile prendere lo zucchero e trasformarlo in acido succinico utilizzando i batteri”, precisa Capuzzi. “In un secondo momento quest’acido viene trasformato in 1,4-Bdo tramite idrogenazione chimica. Ma il vantaggio competitivo e ambientale del nostro prodotto, rispetto ad altri Bdo non-fossili è proprio nel poterlo ottenere in un unico passaggio”. Con forte risparmio di costi, energia ed emissioni. Sostenibilità a tutto tondo In realtà la sostenibilità del bio-butandiolo “made in Novamont” non è esclusivamente nel prodotto, che – ricordiamo – riduce l’impiego di petrolio, ma anche nel processo. L’impianto di Bottrighe, dove si produce il biobutandiolo, è una vera eccellenza che ben rappresenta la chimica verde italiana. Per molteplici ragioni. Il polo biotecnologico Mater-Biotech è stato concepito per riutilizzare i sottoprodotti della lavorazione per il fabbisogno energetico dell’impianto stesso, ottimizzando così il ciclo di vita dell’intero flusso produttivo. Realizzato in meno di quattro anni da un vecchio stabilimento chiuso nel 2006 dove si produceva lisina (un amminoacido polare che funge da integratore alimentare), lo stabilimento sarà in grado di produrre 30.000 tonnellate di butandiolo l’anno, dando lavoro – a regime – a 70 persone,

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materiarinnovabile 12. 2016 e creando un indotto di circa 180-200 lavoratori. “Noi abbiamo acquisito la struttura, rigenerando completamente la parte di fermentazione, dato che era in buone condizioni, ma costruito da zero la parte downstream essendo la lisina un prodotto solido, un aminoacido che si purifica per cristallizzazione. Il 1,4-Bdo è un prodotto liquido che si purifica attraverso distillazione e quindi ha richiesto un impianto ad hoc. Ciò che ci rende fieri è che siamo riusciti a rimettere in circolo sia i lavoratori sia l’impianto”, spiega Capuzzi. L’impianto, di dimensioni contenute rispetto ad altre raffinerie di Bdo da fonti fossili, è parte del progetto di bioraffineria integrata Novamont, composto ora da sei siti interconnessi e quattro nuove tecnologie: il bio-Bdo, il sistema

di complessazione dell’amido, il processo per i poliesteri biodegradabili e infine il sistema di produzione di acidi (acido azelaico e pelargonico da oli). I responsabili della ricerca non nascondono la soddisfazione e l’orgoglio di aver realizzato in Italia, in tempi record, un impianto di questo tipo. “Abbiamo messo insieme la possibilità di far crescere il batterio di e.coli e la nostra capacità di trasferire su scala industriale i nostri progetti di ricerca”, spiega Capuzzi, “mettendo dentro tutto quello che c’era a valle della scelta di microrganismo e il processo di fermentazione ingegnerizzato, fino al downstream per ottenere un prodotto purissimo, in tutto e per tutto simile a quello da fonte fossile”.

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Così si ottiene il biobutandiolo

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ENERGIA/VAPORE FILTRAZIONE

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DOWNSTREAM


Info www.novamont.com

La ricerca Novamont sta lavorando per far funzionare l’impianto usando zuccheri derivati da biomassa legnocellulosica, proveniente da colture cresciute su terreni marginali, non utilizzati dall’agricoltura.

Una produzione circolare Ma come rendere ancora più verde e circolare il processo di produzione del 1,4-Bdo? Attualmente la produzione di butandiolo si avvale della “digestione” di sciroppo di glucosio prodotto da Cargill. “Per fare un chilo di butandiolo servono due chili di zucchero secondo la stechiometria del processo”, continua Capuzzi. Semplice, però lo zucchero viene da colture alimentari. Per questo la ricerca Novamont sta lavorando per far funzionare l’impianto usando zuccheri derivati da biomassa legnocellulosica, proveniente da colture cresciute su terreni marginali, non utilizzati dall’agricoltura. La coltura più avanzata oggi a livello sperimentale è quella del cardo, che ha anche il vantaggio di essere un prodotto a doppio dividendo. Da una parte, dai semi del cardo, si ricava un olio utilizzabile da Novamont nell’impianto di Porto Torres, nel processo che lo trasforma in acido azelaico (C9H16O4, la componente acida dei poliesteri che servono a fare il mater-Bi® mentre la componente alcolica è

proprio il butandiolo). Dall’altra, lo stelo del cardo può essere usato come massa legnocellulosica per il Bdo. Questi due elementi insieme sono alla base delle bioplastiche Novamont. “Contiamo di fare del nostro 1,4-Bdo un uso captivo nelle nostre bioplastiche, ottenendo prodotti a elevate performance ambientali e in un ciclo di produzione ristretto, nel pieno rispetto degli assiomi della bioeconomia”, conclude Capuzzi. Non sorprende, dunque, l’interesse di Novamont a investire nella coltura del cardo, fondamentale per ricavare zuccheri di seconda generazione, acido azelaico, oltre che a una serie di proteine per l’alimentazione animale. In questo modo si chiude il ciclo d’uso bio-integrale del prodotto, derivato da una pianta che cresce in terreni non irrigui inutilizzati per l’agricoltura, attraverso un impianto in grado di mettere in servizio e recuperare gli output, e un batterio sintetico. Il tutto evitando di usare una sola goccia di petrolio nello stream. Il futuro per la chimica (italiana e non) è verde e circolare.


La BOLLA degli incombustibili Intervista a Mark Campanale a cura di Diego Tavazzi

Mark Campanale è un investitore professionista che dal 1989 lavora nella finanza sostenibile, nella gestione degli investimenti e nella finanza aziendale. I suoi due principali progetti indipendenti, il Social Stock Exchange e la Carbon Tracker Initiative (nata nel 2010), cercano di colmare importanti lacune nel funzionamento dei mercati di capitali.

Unep Inquiry, web.unep.org/inquiry

Mark ha elaborato – con il suo co-fondatore Nick Robins, oggi co-direttore dell’Unep Inquiry – l’idea del “carbonio non bruciabile” e della carbon bubble. I concetti si sono diffusi in tutto il mondo e sono comunemente usati da investitori, analisti, media e – più di recente – da regolatori finanziari tra cui Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra. Questa teoria innovativa è il risultato di un lungo viaggio che Mark ha intrapreso a partire dalla finanza sostenibile alla fine degli anni Ottanta, quando ebbe la possibilità di sviluppare alcune idee innovative per rimodulare i mercati di capitali.

Rapporto Unburnable Carbon – Are the world’s financial markets carrying a carbon bubble?, tinyurl.com/na7xywd

Cos’è la Carbon Tracker Initiative? Chi l’ha fondata e con quali obiettivi? “È un think tank finanziario non-profit, composto da ex analisti energetici della City, ideatori di sistemi esperti e comunicatori, che ha l’obiettivo di collegare mercati di capitali e cambiamenti climatici.

Circa dieci anni fa ci siamo accorti che nel mondo veniva finanziata più CO2 di quanta potesse esserne emessa senza rischiare pericolosi cambiamenti climatici. In altre parole, si era creata una ‘bolla del carbonio’. Grazie ai finanziamenti per le start-up del Growald Family Fund, del Rockefeller Brothers Fund e della Tellus Mater Foundation, abbiamo avuto le risorse necessarie per approfondire questa tesi. E dopo che sono entrati nella nostra squadra James Leaton, attuale direttore delle ricerche, e Jeremy Leggett che dirige il Board, Carbon Tracker è emersa come una nuova voce che evidenzia il rischio finanziario associato ai cambiamenti climatici.” Quando è nata l’espressione “carbon bubble? “Nel 2011 Carbon Tracker ha pubblicato il suo primo report: Unburnable Carbon – Are the world’s financial markets carrying a carbon bubble?. Questa analisi innovativa dimostra che le riserve conosciute di combustibili fossili contengono una quantità di CO2 cinque volte superiore a quella che può essere emessa se si vuole mantenere l’aumento del riscaldamento globale antropogenico al di sotto dei 2 °C. Questo rapporto ha suscitato una vasta attenzione, in particolare quella dell’ambientalista Bill McKibben. Bill ha scritto un articolo per Rolling


Case Studies Stone, che fa riferimento a questa semplice matematica, e che è uno dei testi online più letti sui cambiamenti climatici. La nostra analisi finanziaria dimostra che la maggior parte dei combustibili fossili deve rimanere nel sottosuolo perché il settore rischia di perdere redditività a causa di una rapida transizione energetica. Rendendo gli investitori consapevoli dei rischi dell’azione climatica per i mercati finanziari, Carbon Tracker sta accelerando una rapida allocazione dei capitali verso un futuro basato sulle energie rinnovabili.”

Bill McKibben, “Global Warming’s Terrifying New Math”, Rolling Stone 19 luglio 2012; tinyurl.com/8yvcdvy

Mark Campanale è fondatore e direttore esecutivo della Carbon Tracker Initiative.

Dopo la pubblicazione dei due rapporti “Unburnable Carbon” nel 2011 e nel 2013, le espressioni carbon budget, carbon bubble e stranded asset sono entrate nel gergo della finanza e della politica. Può chiarirci di cosa si tratta? “Partiamo dal concetto di carbon budget. Rappresenta la quantità massima di anidride carbonica che può essere immessa in atmosfera se vogliamo avere una ragionevole possibilità di mantenere l’aumento del riscaldamento globale entro i 2 °C. Se lo si confronta con le emissioni di carbonio prodotte bruciando le riserve e i giacimenti noti, è evidente che solo un terzo di queste risorse potrà essere utilizzato: questa è la bolla del carbonio. Gli altri due terzi, dunque, devono rimanere nel sottosuolo. E questo senza poi parlare degli investimenti sprecati per cercare combustibili fossili in luoghi come l’Artico o nelle profondità oceaniche. Per essere chiari, non abbiamo mai detto che si tratta di una bolla finanziaria. Ci sono tuttavia importanti implicazioni finanziarie. Il governatore della Banca d’Inghilterra ha affermato che se gli investitori decidessero di colpo di riesaminare la capacità del settore fossile di centrare i propri obiettivi di lungo periodo, ‘si potrebbe innescare una potenziale destabilizzazione dei mercati’. Ecco perché è importante che il pianeta intraprenda una transizione ordinata verso un futuro a basse emissioni di carbonio, così da evitare ripercussioni finanziarie e perdite di valore. Con l’introduzione di concetti come quelli di stranded assets (‘investimenti incagliati’) e ‘carbonio incombustibile’, Carbon Tracker ha creato un nuovo lessico finanziario. Lo stesso The Wall Street Journal ha dichiarato che ‘il concetto della carbon bubble è diventato mainstream’. L’idea della carbon bubble segnala agli investitori che rischiano di ritrovarsi con degli stranded assets, investimenti in combustibili fossili resi

improduttivi da una combinazione di progressi tecnologici, norme sul clima più severe e passaggio alle rinnovabili. Nel 2013 abbiamo scoperto che tra il 60 e l’80% delle riserve di carbone, petrolio e gas delle compagnie elencate pubblicamente non possono essere bruciate, se non vogliamo superare i 2 °C. Abbiamo poi sviluppato un modello finanziario che analizza le implicazioni per i piani di investimento dell’industria del fossile di un scenario caratterizzato da una riduzione della domanda di idrocarburi, associata a prezzi più bassi e a una diminuzione delle emissioni. Riteniamo che per prepararsi alla transizione in corso verso un futuro a basse emissioni di carbonio, i mercati di capitali debbano dare un giusto prezzo ai rischi climatici e ai ‘veri’ costi dell’investimento in combustibili fossili.” Quali sono i rischi che devono fronteggiare investitori, decisori politici, utility e movimenti popolari? E quali raccomandazioni fornite a questi settori? “Primo, un rischio fisico: la comunità scientifica ha dimostrato che, per evitare gli impatti più pericolosi legati ai cambiamenti climatici, dobbiamo limitare l’aumento del riscaldamento globale a 2 °C, un obiettivo ora adottato unanimemente dai governi grazie all’epocale Accordo sul clima di Parigi. Tuttavia sappiamo che se dovessimo bruciare tutte le riserve e le fonti di combustibile fossile conosciute, andremmo ben oltre questo limite, con il rischio potenziale di danni irreversibili causati da eventi meteo estremi e dall’innalzamento del livello del mare. Tutto ciò si traduce immediatamente in un rischio finanziario: come spiegato dal chairman della compagnia assicurativa Axa, ‘un mondo più caldo di 4 °C non è assicurabile’. Egualmente importanti – ma non altrettanto ovvi – sono i rischi finanziari che Carbon Tracker ha portato all’attenzione dei mercati. Se fino ai due terzi dei combustibili fossili non possono essere bruciati, chi investe in questi progetti rischia di ritrovarsi con 2.000 miliardi di dollari di investimenti incagliati. Ecco perché è importante spostare i capitali da progetti altamente costosi e inquinanti verso una green economy sempre più redditizia.” Dopo l’Accordo di Parigi quali sono le prospettive per la finanza del carbonio? Qual è la posta in gioco? Di che cifre stiamo parlando? “Lost in Transition e Danger Zone, due studi elaborati da Carbon Tracker, dimostrano che da qui al 2025 ci sono più di 2.000 miliardi di dollari in investimenti su petrolio, carbone e gas naturale che rischiano di incagliarsi dal punto di vista finanziario. Passando invece alle opportunità, ‘Sense & Sensitivity’, un nostro report pubblicato di recente, ha evidenziato che le major del petrolio potrebbero valere fino a 140 miliardi di dollari in più se allineassero la loro produzione per rispettare il limite dei 2 °C.

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materiarinnovabile 12. 2016 Inoltre, in collaborazione con il Grantham Institute dell’Imperial College di Londra stiamo per lanciare un’importante ricerca, focalizzata sul potenziale destabilizzante delle tecnologie pulite. Vogliamo capire quale sarà il mix energetico del futuro tenendo conto dei costi in caduta libera del solare fotovoltaico e dei veicoli elettrici, oltre che del disaccoppiamento tra domanda di energia e crescita economica. Apple e Tesla dimostrano che possono verificarsi dei cambiamenti massicci e più rapidamente del previsto. Si tratta quindi di una ricerca particolarmente interessante per gli investitori più lungimiranti.”

Report Energy Access: why coal is not the way out of energy poverty, www.carbontracker.org/ report/energyaccess/

Info www.carbontracker.org www.socialstock exchange.com

Quali attori finanziari e istituzioni hanno recepito meglio le vostre proposte? Dove avete incontrato maggiori difficoltà? “Diverse istituzioni politiche e finanziarie importanti hanno integrato l’analisi di Carbon Tracker per prendere decisioni lungo la catena degli investimenti. Hsbc e Citigroup hanno per esempio utilizzato alcune argomentazioni di Carbon Tracker per consigliare agli investitori di valutare il crescente rischio di stranded assets nel settore dei fossili. In base alle stesse analisi, la compagnia assicurativa Axa ha di recente messo in liquidazione 500 milioni di dollari di asset dell’industria del carbone. Il divestment movement, anch’esso ispirato al concetto della carbon bubble, si è diffuso a una velocità mai vista. Nel dicembre del 2015 oltre 500 istituzioni hanno deciso di disinvestire dai carburanti fossili per un valore complessivo di 3.400 miliardi di dollari. Questo movimento sta crescendo molto e stiamo ora aspettando che il Divest-Invest del gruppo annunci i numeri del 2016. Di recente Mark Carney ha dichiarato che ‘tra tutte le idee per convincere il mondo a fare di più contro il riscaldamento globale, nessuna è stata così potente come il concetto degli stranded assets’. I più attenti a queste tematiche sono i fondi di investimento istituzionali dell’Europa settentrionale. Il Norwegian Pension Fund, la compagnia di servizi finanziari Storebrand, e le svedesi AP4 e AP2 hanno per esempio intrapreso azioni assai risolute per integrare il rischio climatico e decarbonizzare i loro portafogli. Anche due dei maggiori fondi pensionistici statunitensi – CalPERS (California Public Employees’ Retirement System) e CalSTRS (California State Teachers’ Retirement System) – si stanno schierando con noi per allineare i loro pattern di investimento con la strategia che punta a restare entro il limite dei 2 °C.” Come hanno reagito le compagnie fossili dopo la pubblicazione di “Unburnable Carbon”? “Di fatto Carbon Tracker sta sfidando gli assunti alla base dell’attuale settore energetico. Dopo un’intensa attività di ricerca e coinvolgimento, alcune grandi compagnie del settore fossile – come Royal Dutch Shell ed ExxonMobil – hanno iniziato a discutere

apertamente degli impatti dei cambiamenti climatici sul sistema finanziario globale. Per tutto il 2014 l’industria dei combustibili fossili si è opposta alla nostra narrazione. Sia Exxon sia Shell hanno pubblicamente minimizzato i rischi legati alla carbon bubble, cercando di rassicurare gli investitori sul loro modello di gestione del rischio. Abbiamo pubblicato due articoli tecnici in risposta a Exxon e Shell nei quali abbiamo chiarito le nostre posizioni, sostenendo che il loro approccio sottostimava il potenziale indebolimento della domanda di petrolio riconducibile a politiche climatiche più severe, ai progressi tecnologici e al rallentamento della crescita economica. In questo modo abbiamo posto le basi per un futuro coinvolgimento delle aziende, un obiettivo sempre più importante nel corso del 2016. Anticipando ulteriormente le resistenze da parte dell’industria, il nostro report ‘Energy Access: why coal is not the way out of energy poverty’ ha messo alla prova dei fatti l’idea che il carbone sia ‘essenziale per soddisfare il disperato bisogno di elettricità dell’Africa’, idea fortemente sostenuta dal gigante del carbone Peabody Energy Corp. Solo pochi mesi dopo l’industria del carbone statunitense è collassata, e anche altri mercati del carbone sembrano indirizzati su questa stessa strada.” Perché Carbon Tracker insiste tanto sulla disclosure e sulla trasparenza? “Nell’ultimo anno governi e organismi internazionali hanno cominciato a considerare seriamente le implicazioni finanziarie dei cambiamenti climatici e degli investimenti nei fossili. Il lavoro di ricerca normativa e le attività di coinvolgimento portati avanti da Carbon Tracker puntano a convincere i regolatori finanziari della necessità di considerare con maggiore attenzione i rischi climatici per i mercati finanziari. Per quantificare l’esposizione delle compagnie estrattive, è essenziale effettuare degli stresstest sui loro portafogli in relazione all’obiettivo accettato dalla comunità internazionale di contenere l’aumento del riscaldamento sotto i 2 °C. Affrontare gli attuali gap di informazione permetterà di valutare meglio come le compagnie gestiscono i rischi climatici. Gli investitori non vogliono più vedere aziende dei fossili che evitano di analizzare gli impatti che una transizione verso basse emissioni di carbonio potrebbe avere sui loro modelli di business. Per questi motivi abbiamo accolto con grande piacere la Financial Stability Board Task Force on Climate-related Financial Disclosures presieduta da Michael Bloomberg. Si tratta di uno sforzo fondamentale per creare un set standard e coerente di informazioni climatiche da richiedere alle aziende materialmente colpite dai cambiamenti climatici, che devono anche specificare le loro proposte per la transizione energetica, gli impatti fisici che devono affrontare, oltre alle politiche e ai sistemi di regolamentazione che intendono adottare.”


©Claudio Divizia/Shutterstock

Case Studies

L’edilizia green che nasce dai rifiuti

Un’azienda – unica in Europa – che ha creato una vera e propria filiera partendo dalle scorie da incenerimento e realizzando un prodotto nuovo. Una materia rinnovabile e circolare.

di Rudi Bressa

L’Europa ci chiede di arrivare nel 2025 a vietare il conferimento in discarica dei rifiuti riciclabili di plastica, metallo, vetro, carta e cartone e di quelli biodegradabili; e di impegnarci per abolire quasi completamente – entro il 2030 – il collocamento in discarica. Due fatti dai quali risulta evidente come tutta la filiera debba cambiare mentalità aumentando il livello di responsabilità. E trasformarsi. Il concetto di End of Waste È in quest’ottica che si sviluppa il concetto di end of waste (letteralmente “fine del rifiuto”). Ovvero la disciplina che permette a un materiale o a un oggetto di cessare di essere considerato rifiuto e venire utilizzato per altri scopi specifici, in grado di creare mercato o una domanda

e non produrre impatti negativi sulla salute umana e sull’ambiente (art. 184 ter. del Dlgs 152/06). È seguendo questo principio che Officina dell’Ambiente, esattamente 15 anni fa, crea una filiera nuova, innovativa, ancora oggi all’avanguardia in tutta Europa. Partendo dalle scorie generate nel processo di termovalorizzazione dei rifiuti solidi urbani, l’azienda produce una famiglia di sabbie e materiali granulari – la Matrix Family – dalle innumerevoli applicazioni nel settore edile. Laterizi, clinker di cemento, calcestruzzo preconfenzionato, malte predosate, conglomerati bituminosi. Il percorso produttivo di Officina dell’Ambiente permette di recuperare il 99,6% della scoria in entrata, realizzando un prodotto minerale stabile e ripetitivo, che – di fatto – chiude il ciclo.

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Rudi Bressa, giornalista ambientale e naturalista, si occupa di rinnovabili, economia circolare e sostenibilità.

Questo perché i prodotti Matrix Inside utilizzati nell’edilizia sono del tutto sostenibili, avendone Officina dell’Ambiente studiata e assegnata a monte la corretta percentuale d’uso attraverso lo strumento della Dop (Declaration of performance). Quindi, da un lato un nuovo step nel ciclo di recupero dei materiali, evitando l’estrazione e l’impiego di materia prima minerale; dall’altro una filiera circolare che si conclude all’atto del riutilizzo e che genera materiali totalmente riciclabili. Da rifiuto a nuova materia Due gli stabilimenti: uno a Lomello in provincia di Pavia e uno a Conselice nel ravennate, con una capacità complessiva di trattamento autorizzata pari a 500.000 tonnellate l’anno di scoria. In questi impianti non arrivano le scorie prodotte dall’incenerimento di rifiuti industriali, da siti

di stoccaggio intermedi o da miscelazioni di alcun tipo, ma solo quelle provenienti dalla termovalorizzazione dei rifiuti solidi urbani di parte dei bacini del Nord e del Centro Italia non più differenziabili o riciclabili. Un’autoregolamentazione che ha permesso negli anni di mantenere una qualità intrinseca del prodotto finale. Sia a livello tecnico sia ambientale. La scoria è un materiale composto principalmente da due frazioni: una con una composizione chimica simile a un materiale minerale e una di natura metallica (principalmente ferro e alluminio). Prima di essere lavorata la scoria in entrata viene stoccata per circa 40 giorni e subisce un processo chimico naturale definito di lito stabilizzazione. All’interno dei cumuli di stoccaggio si autogenerano temperature vicine ai 70° centigradi. L’alluminio si ossida, avviene la carbonatazione


Case Studies da parte dell’anidride carbonica e si formano nuove fasi mineralogiche. A questo punto la componente metallica, ancora di valore, viene separata grazie a una serie di nastri trasportatori, tramogge e deferrizzatori. In uscita si creano vere e proprie urban mining, miniere urbane di ferro e alluminio. Da questa frazione viene inoltre separata la parte non utilizzabile, quel 0,4% che tornerà negli impianti di incenerimento. A questo punto il materiale a matrice minerale viene ulteriormente raffinato e alla fine del processo si presenta come materia granulare di diverse dimensioni: una compresa fra 0 e 10 mm, una con granulometria compresa fra 2 e 10 mm e infine una sabbia di granulometria 0-2 mm, 0-4 mm e 2-4 mm. La tracciabilità e la certificazione Negli anni Officina dell’Ambiente ha implementato il valore del proprio lavoro registrando Emas gli stabilimenti e marcando Ce i prodotti. Lavoro che continua anche fuori dalle mura aziendali, seguendo passo passo i clienti nella

Le applicazioni concrete Porta Nuova Garibaldi Certificazione: LEED v2.0 Core&Shell Gold Prodotti utilizzati: Blocchi in CLS, massetti alleggeriti Porta Nuova Varesine Certificazione: LEED v2.0 Core&Shell Gold Prodotti utilizzati: Massetti alleggeriti Porta Nuova Isola Certificazione: LEED v2.2 NC Gold, LEED v2.0 Core&Shell Gold Prodotti utilizzati: Conglomerato cementizio per opere di fondazioni non armate (cemento) e calcestruzzo

realizzazione del loro prodotto finale Matrix Inside. A completare questo percorso arrivano anche le certificazioni ambientali volontarie. Nel 2013 la Epd (Environmental product declaration), dichiarazione di performance ambientale, che fornisce informazioni verificate e confrontabili relative all’impatto ambientale di un prodotto o servizio. Rilasciata dallo Swedish Environmental Management Council è ottenuta valutando il life cycle assestement dei prodotti, dall’arrivo in stabilimento fino allo smaltimento finale del prodotto. Grazie a questa certificazione, i prodotti della Matrix Family possono concorrere all’ottenimento della Certificazione Leed (Leadership in Energy and Environmental Design). Tutti i prodotti di Officine dell’Ambiente rispondono, inoltre, ai criteri dettati dall’entrata in vigore del green public procurement in edilizia, ovvero quei criteri ambientali minimi per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione degli edifici, con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale sulle risorse naturali e di aumentare l’uso di materiali riciclati.

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materiarinnovabile 12. 2016 Intervista

a cura di R. B.

“Perseguire la qualità del riciclo” Alessandro Massalin, direttore commerciale di Officina dell’Ambiente

L’intuizione arriva 15 anni fa, in tempi in cui di economia circolare si parlava ancora poco. Una sorta di antesignano del recupero di materia e della strategia end of waste. Officina dell’Ambiente è riconosciuta a livello internazionale per i prodotti Matrix e a oggi siete gli unici a produrre un aggregato artificiale in Europa dotato di Epd. Come siete arrivati a questo risultato? “Il ragionamento che facciamo è di perseguire la qualità del riciclo e del recupero della materia. E lo facciamo da sempre. Non abbiamo mai portato materiale in discarica in 15 anni. Ricicliamo al 100% tutto quello che è riciclabile.”

Info www.matrixoda.it

Per questo quando parla di economia circolare parla anche di qualità del riciclo. Ovvero, qual è la sua idea di economia circolare? “L’economia circolare per essere tale deve fare i conti con una consapevolezza d’uso, cosa che tutta la filiera, municipalizzate e progettisti inclusi, dovrebbe già prevedere. Ovvero dovrebbero già porsi il problema che il manufatto abbia determinate caratteristiche tecniche. L’economia circolare dovrebbe essere supportata da una sorta di intellighenzia che aumenti il livello di compliance per chiudere realmente il ciclo. Oggi, invece, si sente parlare molto di riciclo in termini quantitativi, ma poco in termini qualitativi. Nel momento in cui si presta attenzione sia alla performance tecnica del prodotto sia a quella ambientale, non si sposta più il problema su scala temporale, ma lo si risolve per sempre

alla base. Purtroppo, nel caso per esempio di molte municipalizzate, le gare di assegnazione delle scorie sono ancora oggi orientate al “quanto”, ovvero al massimo ribasso. In altre parole ancora ispirate dalla vecchia ottica di economia lineare, mentre gli orientamenti della comunità europea vanno tutti nella direzione opposta.” Ci sono però degli ostacoli. “Il passaggio da un’economia lineare a una circolare ha un suo costo. Secondo noi che siamo impegnati da anni nel settore dell’edilizia, l’unico modo per entrare a pieno titolo nell’economia circolare è di farlo in termini qualitativi. Per questo parliamo di ‘applicazione industriale etica’. Ovvero dobbiamo dare ai prodotti una consapevolezza d’uso. I nostri prodotti, infatti, sono accompagnati da una Dop (Declaration of performance): così indichiamo la massima percentuale d’uso, certificando ulteriormente la circolarità del nostro prodotto.” Motivo in più per il quale avete scelto il monomateriale, ovvero i soli rifiuti solidi urbani. Questo non ha ristretto il vostro campo d’azione e d’intervento? “Certo. Però nel momento in cui abbiamo scelto di fare economia circolare, abbiamo capito che per garantire la qualità del riciclo a lungo termine era per noi imperativo lavorare un unico tipo di rifiuto. Un rifiuto che è stabile, ripetitivo e omogeneo. Abbiamo deciso che per avere un prodotto di estrema qualità e poter garantire in questo modo la veridicità delle certificazioni, questa doveva essere la strada da perseguire.”

Intervista

a cura di R. B.

“Una filiera che ci consente il recupero della materia” Filippo Brandolini, presidente di Herambiente Spa

Il Gruppo Hera da un lato si colloca alla fine del ciclo dei rifiuti, come parte integrante del sistema di raccolta. Dall’altro è l’attore principale della filiera creata da Officina dell’Ambiente, perché uno dei principali fornitori delle scorie. Da tempo Herambiente e Officina dell’Ambiente collaborano in quello che è un perfetto esempio di economia circolare. Le scorie da incenerimento trovano un utilizzo,

trasformandosi in nuova materia. Da dove nasce questa collaborazione? “Se fino a qualche anno fa le scorie venivano principalmente smaltite in discarica, oggi esistono anche altre destinazioni. Il nostro Gruppo ha verificato negli anni la possibilità di conferire le scorie a un processo di recupero di materia, superando il conferimento in discarica. Abbiamo così scelto un’azienda con processi innovativi e consolidati, che applicasse percorsi trasparenti e fosse dotata


Case Studies di certificazioni ambientali rigorose come Officina dell’Ambiente. Scelta dettata anche dall’esigenza di assicurarci che i rifiuti affidati a terzi siano trattati nel rispetto delle regole.”

Info ha.gruppohera.it

Qual è il valore aggiunto di questa nuova filiera che si è creata? “Sono 130-170 mila le tonnellate l’anno che conferiamo a Officina dell’Ambiente, circa la metà delle scorie prodotte nei nostri impianti. Il contratto con Officina dell’Ambiente riesce a realizzare un equilibrio sia sotto il profilo economico sia a livello ambientale, grazie anche alla tracciabilità e alla certificazione di prodotto che Oda è in grado di garantire. Il secondo aspetto da sottolineare è che con questa filiera si consente il riciclo e il recupero della materia. Parlo per esempio dei materiali ferrosi e non, oltre al recupero della parte minerale delle scorie come aggregato nel settore del cemento.

In letteratura risulta che nelle scorie i metalli ferrosi siano dal 7 al 15%, mentre i non ferrosi tra l’1 e il 2%. Stiamo parlando di quantità significative per l’uso razionale delle risorse e con un valore economico interessante.” Le direttive europee puntano a una progressiva riduzione dei rifiuti conferiti in discarica, entro il 2030. È auspicabile raggiungere questo obiettivo? “Come Gruppo siamo convinti che sia possibile raggiungere questo obiettivo, ovvero ridurre lo smaltimento in discarica sotto il 10% , anche perché questo risultato per i rifiuti urbani l’abbiamo già raggiunto nel 2015. Sappiamo, però, che l’eliminazione totale dello smaltimento in discarica non sarà possibile, perché continueranno a esserci rifiuti non riciclabili e non valorizzabili energeticamente.”

Intervista

a cura di R. B.

Meno materia prima, meno rifiuti in discarica Daniele Gizzi, environmental manager di Aitec

L’industria cementiera è l’ultimo tassello del mosaico. Il settore, che nel 2015 ha prodotto circa 19 milioni di tonnellate di cemento, usa parte dei rifiuti classificati non pericolosi dalla normativa e parte della materia non classificata come rifiuto, in sostituzione delle materie prime naturali (argilla, calcare e gesso). L’Associazione italiana tecnico economica del cemento (Aitec), in rappresentanza delle aziende italiane produttrici di cemento, monitora e fornisce tutti i numeri del ciclo del cemento.

Info www.aitecweb.com

L’industria del cemento è l’ultimo anello della catena nel recupero dei rifiuti non pericolosi. Cosa comporta l’utilizzo di questa materia al settore? “Come Aitec monitoriamo fin dal 2002 la quantità di rifiuti utilizzati per il recupero di materia ed energia. Utilizzare materiali alternativi ci consente di risparmiare materie prime naturali come calcare, argilla e gesso. In particolare di quest’ultimo, visto che l’Italia non risulta esserne particolarmente ricca. Il che ci consente di ridurre l’attività estrattiva e il conseguente impatto sul territorio. Se guardiamo la questione in una logica di Lca (Life cycle assessment), abbiamo sia un beneficio per l’ambiente perché risparmiamo risorse naturali, sia per l’industria perché si riducono i costi di estrazione. Infine, abbiamo un beneficio nella riduzione dei rifiuti da smaltire: questi materiali infatti, se non recuperati, finirebbero in discarica.”

Come si posiziona il nostro paese a livello europeo, nel recupero di energia e nel recupero di materia? “L’Italia è ancora arretrata nel tasso di sostituzione calorica, ovvero nell’utilizzo di rifiuti come combustibili: nel 2015 abbiamo avuto un valore del 14,9%, mentre l’Europa ha una media del 36%. Ma se pensiamo alle cementerie in Germania (62%) e Austria (60%) il gap aumenta di molto. Cementerie che utilizzano anche combustibili alternativi derivati da rifiuti italiani. Se, invece, consideriamo il recupero di materia, siamo assolutamente in linea col resto d’Europa. Anzi siamo un paese virtuoso, in particolare nell’utilizzo delle ceneri da combustione del carbone e da termovalorizzazione.” Qual è – quindi – il valore aggiunto dell’utilizzazione dei rifiuti nella produzione del cemento? “I cementieri sono molto attenti alla composizione chimico fisica di tutti i materiali che entrano nei forni, inclusi i rifiuti. Il fatto che un materiale come il Matrix abbia tutte le certificazioni ambientali di prodotto e che le possieda ormai da anni, dà tutte le garanzie per poterlo utilizzare, sia per risparmiare materia prima sia per ottimizzare i costi del processo industriale.”

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L’OLIO

disegna un cerchio perfetto di Marco Moro

E. Bompan, “Noi ricicliamo il petrolio”, Materia Rinnovabile 6-7; www.materiarinnovabile. it/art/149/Noi_ricicliamo_ il_petrolio

Nella gestione degli oli minerali usati l’Italia ha raggiunto risultati eccellenti. L’importanza della certificazione ambientale di prodotto per estendere all’intera filiera la consapevolezza ambientale. Se c’è nel nostro paese una bella storia già consolidata di economia circolare è quella della rigenerazione degli oli minerali usati. Partiamo da un dato che parla da solo: oggi in Italia si recupera più del 95% dell’olio lubrificante usato che entra in un impianto di rigenerazione. In pratica, si riesce a reimmettere sul mercato una quantità di materia tale da configurare una circolarità quasi perfetta: un esempio evidente, e ormai da 50 anni, di economia circolare. Tutto comincia con un sistema di raccolta ben organizzato e capillare sul territorio, attuato dal Consorzio obbligatorio degli oli usati (Coou) che ha raggiunto ottimi risultati di eccellenza in questi anni. Un sistema che – grazie all’eccellenza tecnologica messa in campo dai soggetti industriali che

intervengono nella rigenerazione – permette di reimmettere sul mercato un prodotto con ottime qualità, evitando al tempo stesso la dispersione nell’ambiente di grandi quantità di un rifiuto pericoloso, l’olio usato. Un esempio di “circolarità” che si completa con una certificazione, che consente al prodotto di essere ammesso al mercato degli appalti verdi e di qualificare quindi un’intera filiera green. Ripercorriamo gli sviluppi più recenti. Il Gpp (Green public procurement), reso obbligatorio in Italia dal Codice Appalti, permette il massiccio ingresso nel mercato di prodotti ambientalmente sostenibili e rigenerati, con prestazioni pari se non superiori a quelle dei prodotti “vergini”: sono le best practices ambientali, frutto della tecnologia più avanzata, in grado di determinare un impatto


Case Studies positivo potenzialmente enorme per l’ambiente. Nel caso degli oli rigenerati l’eccellenza raggiunta nello sviluppo tecnologico – come quella messa in campo da Viscolube – permette di avere sul mercato un prodotto di qualità pari a quello vergine. E in più green. “Ma l’aspetto più premiante – spiega Gianfranco Locandro, direttore commerciale Viscolube, azienda leader in Italia nella ri-raffinazione degli oli lubrificanti usati – è che il livello qualitativo raggiunto nel processo di rigenerazione diventa il fattore di qualificazione di un’intera filiera, nella quale il prodotto finale – in questo caso la base rigenerata che viene acquistata dai produttori di lubrificanti – è tracciata, attraverso una certificazione di prodotto che evidenzia tutto il ciclo produttivo. Si verifica, cioè, l’effettiva quantità di base rigenerata presente nel prodotto finale e i flussi di materia nel corso dell’intero processo, offrendo così la necessaria garanzia per l’acquirente pubblico e un esempio anche verso il consumatore finale”. La fotografia di tutto questo è l’etichetta ambientale. La spinta del settore pubblico In tale contesto il Gpp fornisce la necessaria spinta verso l’innovazione ambientale attraverso i Cam,

i Criteri ambientali minimi emanati dal ministero dell’Ambiente, che definiscono le caratteristiche tecniche di ciascuna classe di prodotto (e di servizio) affinché possano definirsi green e permettere alla pubblica amministrazione di ottemperare all’obbligo previsto dal Codice Appalti. Un esempio concreto: il “Cam Trasporti” è un decreto del ministero dell’Ambiente emanato nel 2012, che le pubbliche amministrazioni devono applicare per ogni appalto nel quale sia richiesto il servizio acquisto, leasing e noleggio dei mezzi di trasporto pubblico. Tra le clausole contrattuali prevede obbligatoriamente che nella manutenzione dei veicoli si utilizzino oli lubrificanti per il motore a bassa viscosità, oppure oli lubrificanti rigenerati o che rispettino i criteri ecologici per l’assegnazione dell’Ecolabel. E ancora. Nel “Cam Edilizia” – decreto del 2015 – si prevede che per i veicoli e i macchinari di cantiere si utilizzino oli contenenti una quota di base lubrificante rigenerata con soglie minime variabili dal 15 al 50% a seconda della tipologia di oli. “In questo scenario – prosegue Locandro – l’impegno di Viscolube e gli investimenti effettuati verso l’innovazione in senso ambientale del settore e di tutta la filiera, trovano un’importante conferma. La tecnologia messa a punto dall’azienda permette, infatti, il trattamento di una materia prima di qualità incostante, ottenendo prodotti di qualità perfino superiore a quelli di prima raffinazione (anche per effetto delle componenti sintetiche

La certificazione ambientale di prodotto: Remade in Italy Remade in Italy è una certificazione ambientale di prodotto indipendente che verifica il contenuto di materiale riciclato in un prodotto o semilavorato. Attesta quindi la tracciabilità della produzione stessa nelle diverse fasi della filiera produttiva, partendo dalla verifica dell’origine delle materie prime in ingresso, fino al prodotto finito certificato. Lo standard contiene alcune prescrizioni per garantire la massima sicurezza nell’utilizzo del prodotto certificato. Riconosciuta nelle norme che disciplinano il Gpp in Italia, può essere rilasciata solo da ente terzo indipendente, accreditato per lo schema. Le basi rigenerate di Viscolube sono state sottoposte a un’attenta verifica da auditor competenti e qualificati durante tutto il ciclo della loro produzione: dalla provenienza degli oli usati sino alla loro lavorazione all’interno dell’impianto. Qui, grazie a un processo di ri-raffinazione brevettato, che è tra i più diffusi al mondo, sono trattati una gran varietà di oli usati producendo basi ri-raffinate, sia di Gruppo I sia di Gruppo II, utilizzate dalle più importanti società di lubrificazione mondiali. Tale processo si compone di tre parti: Preflash, Tda o deasfaltazione termica e Hydrofinishing che costituisce una delle migliori soluzioni

tecniche e ambientali per la produzione di basi rigenerate di alta qualità. Inoltre, per rendere evidenti tutti i passaggi verificati è stato elaborato un preciso Piano di tracciabilità. In esito al processo di certificazione, per ciascuna base rigenerata certificata è stata rilasciata un’etichetta, riportante la percentuale di contenuto di materiale rigenerato (nelle basi Viscolube è pari al 100%) e l’assegnazione della relativa classe. L’etichetta fotografa l’impegno ambientale nella tracciabilità della materia rigenerata, che conduce anche a importanti impatti positivi dell’intero ciclo: rispetto alla produzione primaria si ottiene un enorme risparmio di emissioni climalteranti e di energia elettrica consumata. Risultati che devono essere trasferiti agli acquirenti finali, per realizzare un’effettiva “qualificazione di filiera”. A valle della verifica, la certificazione che accompagna il prodotto – essendo accreditata e pertanto dotata del massimo livello di attendibilità – può essere utilizzata dalle Stazioni appaltanti come prova della conformità ai criteri ambientali riportati nei Cam che richiedono o assegnano punti premianti all’utilizzo degli oli rigenerati nell’impiego di mezzi e strumentazioni meccaniche.

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materiarinnovabile 12. 2016 presenti nell’olio usato raccolto). Ma Viscolube non si è fermata al raggiungimento dell’eccellenza tecnologica che da sempre la contraddistingue. Ha compiuto un passo fondamentale per promuovere la consapevolezza ambientale all’intera filiera, intraprendendo il processo di certificazione della qualità ambientale dei propri prodotti. Qualità che ha nel lavoro di raccolta capillare, selettiva e perfettamente tracciata attuata dal Coou un fattore di successo essenziale. Perché una buona raccolta permette una buona rigenerazione”.

Info www.viscolube.it

Obiettivo: il consumatore finale “Se la parte pubblica sembra aver ‘fatto la sua parte’ riconoscendo il ruolo del prodotto lubrificante ri-raffinato, per Viscolube – ribadisce Locandro – rimane ancora un obiettivo chiave da raggiungere: la sensibilizzazione del consumatore finale. Il primo passo è – come accennato – la diffusione della consapevolezza nell’intera filiera, valorizzando quindi adeguatamente non solo l’attività di raccolta, ma l’importanza ambientale e la qualità della tecnologia di rigenerazione e del prodotto che ne deriva.” In questo processo la continua innovazione tecnologica gioca un ruolo importante. Viscolube sta lavorando alla realizzazione di un terzo reattore per la produzione di basi lubrificanti di Gruppo II+, mentre le basi rigenerate attualmente immesse sul mercato sono considerate assimilabili al Gruppo I+.

Confronto tra le caratteristiche di una generica base vergine SN150 con quelle della base N150 rigenerata con processo Revivoil

METODO

UNITÀ DI MISURA

SN150

150N RIGENERATO

Colore

ASTM D 1500

-

0,5-1

L 0,5

Flash Point C.O.C.

ASTM D 92

°C

200-220

225

KV 40 °C

ASTM D 445

mm2/s

28-32

28-32

Indice di viscosità

ASTM D 2270

-

102-105

110-112

Pour Point

ASTM D 97

°C

-9/-12

-6 (-18 con PPD)

Viscosità CCS a -20 °C

ASTM D 5293

cP

2.300-2.400

2.000

Noack

CEC L-40-A-93

% massa

11-12

12-13

Zolfo

ASTM D 5453

% massa

0,8

0,04-0,12

Saturi

ASTM D 2007

% massa

75

82-90 Fonte: Viscolube.

Viscolube ha compiuto un passo fondamentale per promuovere la consapevolezza ambientale all’intera filiera, intraprendendo il processo di certificazione della qualità ambientale dei propri prodotti.


Case Studies

La qualità delle basi lubrificanti rigenerate L’olio lubrificante finito è prodotto aggiungendo a una base – vergine, rigenerata oppure sintetica – una serie di additivi prestazionali che assolvono alla funzione di rispondere alle specifiche richieste provenienti dai costruttori, sia nel campo automotive sia industriale. I parametri in gioco per valutare la qualità di un olio sono molteplici e riguardano diverse caratteristiche: •• l’indice di viscosità: più è alto, più è elevata la capacità del lubrificante di mantenere stabili le sue caratteristiche viscosimetriche con il variare della temperatura; •• la viscosità Ccs (Cold crank simulator, cioè la viscosità apparente di un olio a bassa temperatura ed elevato sforzo di taglio): più è bassa, migliore è l’olio; •• contenuto di zolfo, rappresenta la percentuale di zolfo nell’olio: più è bassa, migliore è la qualità dell’olio che, soprattutto, risulta più compatibile con i moderni sistemi di post-trattamento dei gas di scarico. Considerando questi parametri, le basi rigenerate Revivoil di Viscolube presentano caratteristiche migliori rispetto alla basi vergini: maggiore indice di viscosità, minore viscosità Ccs, minor contenuto di zolfo. In particolare, l’alto indice di viscosità e la bassa viscosità Ccs consentono, in taluni casi, di ridurre l’impiego di additivi e di altre componenti aggiuntive ad alto costo. Il livello di zolfo inferiore, invece, permette di contenere gli effetti negativi come l’avvelenamento dei sistemi di post-trattamento dei gas di scarico utilizzati sui veicoli.

Un salto di qualità importante che offre al cliente, in primis al produttore di oli lubrificanti, evidenti vantaggi qualitativi e competitivi. Arrivato al “lubrificantista”, quindi, il processo di acquisizione di consapevolezza in merito alle qualità ambientali e di performance delle basi rigenerate prosegue trasferendosi all’olio lubrificante finito. Inoltre, agendo nel proprio specifico segmento della filiera, il fabbricante di lubrificanti configura il prodotto finale sulla base delle specifiche formulate dai costruttori di veicoli e componenti meccaniche. Qui entra in scena un ulteriore anello della catena: l’utilizzatore, che a sua volta – rilasciando i codici di approvazione che certificano la rispondenza dell’olio lubrificante alle prestazioni richieste – diventa testimone della qualità del prodotto con base rigenerata. I costi dei test necessari all’ottenimento dell’approvazione vengono sostenuti dai produttori di basi e di additivi, con l’obiettivo di fornire un servizio sempre migliore ai propri clienti. Questi nel consigliare l’uso di uno specifico prodotto “chiudono il cerchio” della comunicazione, arrivando al consumatore. “Ecco – conclude Locandro – il senso ultimo dell’impegno di un produttore di basi rigenerate della più elevata qualità, come Viscolube: fare sì che la presenza di prodotto con base rigenerata diventi un valore comunicato con orgoglio lungo tutta la filiera per la consapevolezza di cosa c’è dietro e dei suoi pregi – plus – in termini ambientali.”

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materiarinnovabile 12. 2016

Un viaggio dove la materia

È PER SEMPRE

Buttare una tazzina di ceramica nella campana del vetro. Oppure utilizzare sacchetti non compostabili per raccogliere i rifiuti organici. Sono tanti gli errori fatti dai cittadini davanti ai cassonetti. L’obiettivo di Toscana Ricicla è aumentare la qualità della raccolta differenziata. E fornire così un materiale migliore alle filiere del riciclo.

di Sergio Ferraris

Revet Recycling, www.revet-recycling.com

Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.

L’economia circolare. Dove inizia e dove finisce è difficile da determinare. Si potrebbe immaginare un percorso a tre dimensioni nel quale la circonferenza diventa una spirale e il terzo asse è rappresentato dal secondo principio della termodinamica, quello della non reversibilità degli stati fisici, senza apporto d’energia. In questa maniera potrebbero avere ragione i sostenitori dell’economia lineare, per i quali, se c’è una risorsa, la si sfrutta e basta e si godono i frutti di questo “sviluppo” sul breve periodo. Ma, a rovinare questa logica c’è l’energia solare che alimenta tutto il sistema delle rinnovabili e dovrebbe accompagnarci per i prossimi quattro miliardi di anni. E quest’energia è quella che ci servirà, ai fini pratici, per far “girare” l’economia circolare nel prossimo futuro, pur con il secondo principio della termodinamica ben saldo nella sua posizione. E allora, visto che questo tipo di economia funziona, bisogna metterla a punto, affinché il dispendio d’energia – e di materia – sancito dalle leggi della termodinamica sia ridotto al minimo, consentendo risultati sempre migliori. È questa la logica secondo cui si sono mossi dodici soggetti attivi nella filiera del riciclo in Toscana, provando ad andare oltre la sola preoccupazione relativa alla percentuale della raccolta differenziata, ma puntando a migliorare la qualità di tutto il riciclo, risparmiando energie e risorse, per ridurre al minimo indispensabile gli effetti del secondo principio della termodinamica. E non è stato semplice. La filiera dei rifiuti urbani, infatti, è quanto di più complesso esista nel

contesto dell’economia circolare, perché nella prima fase, quella della produzione dei rifiuti, c’entra la sociologia. E quando parliamo di attività umane, di “pezzi” della società, le cose si complicano e il tentativo di razionalizzarne i risultati è altrettanto complesso. Già perché mentre la produzione dei rifiuti industriali è frutto di un processo “semplice” di una filiera dalla quale a un certo punto viene espulsa una sostanza o un materiale che può essere processato in maniera univoca e diventare con una certa semplicità una materia prima seconda, i rifiuti urbani possiedono nel loro dna tutta la complessità di chi li genera. Ossia gli umani. E oltretutto cambiano di composizione nel tempo e a seconda della classe sociale da cui provengono, in base a ciò che acquistiamo e a quali sono i nostri stili di vita, a qual è la nostra età. Tutte ragioni per cui spesso la tematica dei rifiuti viene studiata sotto il profilo sociologico. L’iniziativa, messa a punto in Toscana dagli attori della filiera del riciclo, si chiama Toscana Ricicla e punta a migliorare la qualità della raccolta differenziata, concentrandosi proprio sulla prima parte della filiera, quella più complessa da intercettare e sulla quale, quindi, intervenire: la separazione alla fonte. Nelle nostre case. “Abbiamo identificato come primo problema quello degli errori nel conferimento dei rifiuti in maniera corretta da parte dei cittadini – afferma Diego Barsotti, responsabile comunicazione Revet Recycling – e allora abbiamo messo a punto Toscana Ricicla”. Si tratta di una piattaforma di comunicazione integrata e condivisa tra tutti i soggetti che serve per migliorare la qualità



I dodici cavalieri del riciclo Ecco chi partecipa a Toscana Ricicla: 1. Regione Toscana 2. Aer Ambiente Energia Risorse SpA 3. Asm Ambiente Servizi Mobilità 4. Cis Srl 5. Cispel Confservizi Toscana 6. Geofor Spa 7. Publiambiente S.p.A. 8. Quadrifoglio Spa Servizi Ambientali Area Fiorentina 9. Rea (Rosignano Energia Ambiente Spa) 10. Revet 11. Sei Toscana 12. Sienambiente

Le immagini si riferiscono a scarti della selezione

Info http://toscanaricicla.com

del materiale in uscita dalle filiere del riciclo toscane che sono sviluppate e che ormai necessitano di materia prima seconda di qualità. Una filiera d’eccellenza “La Toscana parte da un contesto relativo alla raccolta differenziata buono, ma non eccelso visto che abbiamo una percentuale poco oltre il 44%” prosegue Barsotti. “Ma ciò che abbiamo voluto valorizzare è il fatto che in Toscana esiste una filiera del riciclo molto avanzata, sia rispetto

all’Italia, sia all’Europa, perché quasi tutti i materiali che si recuperano tramite la raccolta differenziata si riciclano nella regione stessa. Tutto il vetro, per esempio, si ricicla in uno stabilimento di Empoli, così come il Tetrapak che da noi non finisce nella raccolta della carta come in altre regioni”. Questo materiale, infatti, che una decina di anni fa era visto dagli ambientalisti come un demonio poiché frutto dell’accoppiamento di cartone, alluminio e plastica, ora in Toscana possiede una filiera di riciclo tutta sua, nella quale lo si raccoglie, lo si vaglia e seleziona. Poi, una volta confezionato in balle omogenee, il Tetrapak viene inviato in una cartiera in provincia di Lucca. Qui un impianto apposito per il riciclo di questo materiale riesce a estrarre le fibre cellulosiche in esso contenute che sono molto pregiate visto che provengono dalle foreste di conifere svedesi e con le quali si può (ri)produrre carta per uso domestico igienico e sanitario non sbiancata e interamente prodotta dal riciclo. Lo stesso discorso vale per l’organico che può disporre di diversi impianti di compostaggio in regione e può essere valorizzato e utilizzato direttamente in una filiera corta; così come la carta da macero che trova una destinazione d’uso nelle cartiere della lucchesia. “Infine – continua Barsotti – abbiamo la filiera delle plastiche miste che rappresenta un’eccellenza rispetto all’Europa e al resto d’Italia. In generale, infatti, tutti gli imballaggi plastici – tranne bottiglie e flaconi – sono destinati a recupero energetico perché fatti con polimeri diversi che sono a loro volta difficili da riciclare assieme. A Pontedera, a Revet Recycling, si recuperano tutti i polimeri tra di loro compatibili producendo un granulo che ha un mercato mondiale poiché ha qualità paragonabili a quello vergine ma un costo più basso. In Toscana, quindi, anche la filiera delle plastiche miste è all’avanguardia perché ci sono solo tre impianti in Italia che riciclano il plastmix”. Comunicare il riciclo Toscana Ricicla, la piattaforma organizzata dai comunicatori interni agli attori del riciclo, possiede sostanzialmente due obiettivi. Primo: far emergere la parte virtuosa della Toscana che è l’industria del riciclo ed è legata in maniera stretta all’economia circolare e che è anche quella meno conosciuta. Il secondo obiettivo è il miglioramento della qualità della raccolta differenziata. E il suo target è il cittadino e, volendo essere più precisi, il target di quest’anno è il cittadino che già fa la raccolta differenziata e che potrebbe farla ancora meglio. Insomma intervenire sulla fonte per migliorare. E i margini ci sono. Sulla raccolta multimateriale, per esempio, si arriva a una percentuale di scarti tra il 10 e il 15%, dovuti quasi sempre agli errori dei cittadini. A volte si tratta di comportamenti facili da correggere. Come quello classico che attiene all’organico spesso raccolto dai cittadini utilizzando un sacchetto di plastica non compostabile.


E i danni non sono banali. Una sola tazzina di ceramica, per esempio, è in grado d’inquinare un’intera campana di vetro. Il motivo è semplice. La ceramica, infatti, non fonde alla temperatura del vetro e i suoi frammenti sono difficilmente identificabili nel flusso del materiale e per questo i nuovi prodotti, se c’è della ceramica, nascono difettati e vengono rimessi nuovamente nel sistema con il risultato che ogni volta i frammenti di ceramica diventano più piccoli e meno identificabili. Non solo: la filiera del riciclo del vetro “soffre” per la presenza di specchi, pirex e cristalli che contengono argento e piombo. Il problema è così sentito che nella filiera del vetro si preferisce evitare il conferimento dei bicchieri, nel dubbio che si tratti di cristallo. E con tutto questo bagaglio di informazioni da comunicare ai cittadini appare chiaro come i comunicatori di Toscana Ricicla abbiamo voluto dare una coerenza di fondo all’informazione sul riciclo, la quale però soffre di un vizio originario del settore. Ci sono, infatti, nel contesto del riciclo degli errori di fondo “storici” che non sono mai stati corretti. Nel decreto Ronchi con il quale partì la raccolta differenziata in Italia, infatti, si diceva che sarebbero stati pubblicati in poco tempo i decreti attuativi con gli standard sul calcolo e sulle modalità della raccolta differenziata. In pratica si sarebbero dovute definire le tipologie dei contenitori e dei colori su scala nazionale. I decreti attuativi non sono mai arrivati ed è questa la ragione per cui in ogni comune, ma spesso anche quartieri diversi della stessa città, si trovano modalità di raccolta, contenitori e colori diversi. “E così può succedere che chi abita tutto l’anno a Firenze, se d’estate va nella casa al mare, trova tutto diverso da come è abituato. E allora ecco che si fanno errori”, continua Barsotti. Giunta al suo secondo anno d’attività, Toscana Ricicla quest’anno punterà su una comunicazione che faccia perno sulla multimedialità: con video caricati sui siti web dei giornali locali, sui social network e diffusi in televisione e con spot radio. Si è poi pensato di “colpire” i cittadini con alcune campagne virali. “Abbiamo pensato di mettere webcam puntate sui mucchi degli scarti della selezione di ogni filiera per far vedere dal vivo, e in tempo reale, quanto materiale si spreca nonostante l’impegno di tutti per il riciclo” prosegue Barsotti. “E oltre a ciò abbiamo creato la ‘Settimana della qualità’: un appuntamento periodico dove presenteremo tutto ciò che si può fare in una casa con il materiale riciclato. Sarà un evento che dopo l’edizione di Firenze – dal 18 al 27 novembre, a piazza della Repubblica – toccherà successivamente gli altri capoluoghi di provincia della Toscana. E nel frattempo, sempre nell’ambito del progetto, stiamo realizzando dei video che raccontano la storia del materiale e alcuni spot televisivi che hanno come protagonista l’attrice fiorentina Daniela Morozzi, un volto noto che ha interpretato Vittoria Guerra nella serie Distretto di Polizia”.

Tutti i contenuti, infine, saranno disponibili sul sito web di Toscana Ricicla, dove si potranno trovare anche i dati numerici del riciclo nella regione. Sempre sul sito si potrà inoltre compilare un questionario sulla raccolta differenziata finalizzato alla partecipazione a un concorso: chi vincerà non lo farà in prima persona, ma farà vincere al proprio comune arredi urbani in plastica riciclata come panchine, tavoli, bacheche e pavimentazioni. Per toccare con mano i risultati di una raccolta differenziata fatta bene.

Una sola tazzina di ceramica, per esempio, è in grado d’inquinare un’intera campana di vetro. Il motivo è semplice. La ceramica, infatti, non fonde alla temperatura del vetro.


Artificiali

E SICURI

In passato si sono ripetuti vari allarmi sulla salubrità dei campi sintetici che utilizzano gomma riciclata da pneumatici fuori uso. I risultati di un recente studio, condotto su 70 diversi campioni arrivando a classificare quasi 4.000 Pfu, hanno fatto finalmente chiarezza confermando l’assenza di rischi per la salute.

di Emanuele Bompan

Si presenta come una granella nera, con l’odore e il colore tipico degli pneumatici da cui ha origine: è la gomma riciclata da Pfu (Pneumatici fuori uso). E sono proprio il colore e l’odore responsabili del fatto che spesso questo materiale è percepito come qualcosa di sospetto, sporco. O addirittura pericoloso. E anche l’ambito in cui questa gomma viene – nella gran parte di casi – riutilizzata contribuisce ad alimentare dubbi sulla sua salubrità: un materiale progettato per rotolare sulla strada è idoneo a essere utilizzato come intaso nei campi da calcio? Oggi i campi artificiali sono costituiti da tappeti di fili di erba sintetica (PE o PP) lunghi dai 5 ai 12 centimetri mantenuti in posizione verticale da un “intaso” di sabbia e granuli elastici di varia natura. Tra questi anche la gomma riciclata da Pfu.

Ed è proprio la presenza della gomma da Pfu – in passato si usava unicamente sabbia – a garantire agli atleti che utilizzano il campo un maggior comfort di gioco. Negli ultimi 15 anni di campi in erba sintetica si è parlato molto: in pubblicazioni scientifiche, in analisi bibliografiche internazionali ma anche sui media. A far nascere i primi dubbi sulla salubrità dei campi artificiali che utilizzavano gomma da Pfu furono le elevatissime temperature misurate in alcuni casi sulla loro superficie e dovute all’assenza di adeguati impianti di irrigazione e raffrescamento. È evidente che in tali condizioni si sviluppava un forte odore di gomma, tale da indurre a eseguire i primi controlli. Analisi condotte in Norvegia rilevarono su alcuni campioni – in realtà i campi esaminati erano stati solo tre – la presenza di Ipa (idrocarburi policiclici


Case Studies aromatici), ftalati e Pcb (policlorobifenili). E sebbene tali sostanze fossero state rilevate in concentrazioni minime e tali da non generare rischi per la salute umana, i risultati dello studio riaccesero il dibattito sulla salubrità di questi materiali e sull’opportunità del loro impiego. A questo punto per mettere meglio a fuoco la situazione, in vari paesi europei e negli stessi Usa, le autorità avviarono ulteriori indagini, effettuate su oltre 115 campi e su più di 150 campioni di intasi elastomerici. I risultati furono confortanti visto che da tutte le analisi emergeva che il rischio tossicologico nell’intaso era quantificabile a livelli inferiori al valore soglia di 1x 10-6, considerato dalla comunità scientifica “un rischio accettabile”. Purtroppo lo studio passò per lo più inosservato, dato che si concluse solo nel 2009, ovvero a distanza di alcuni anni, quando l’attenzione

La complessità della supply chain degli intasi prestazionali

PFU

SCARTI DI GOMMA

ELASTOMERI TERMOPLASTICI – TPE

“GOMMA RICICLATA”

POLIURETANI, PIGMENTI, CARICHE, ECC.

MIX DI PIGMENTI, PLASTICA E GOMMA

CONTAMINAZIONE dovuta alla deposizione dell’inquinamento atmosferico

“GOMMA NOBILITATA”

SABBIA E GOMMA

TPE O ALTRI INTASI “VERGINI”

RE-INTASO (1-3% all’anno) Possibile uso di altri materiali

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Dalle analisi condotte è emerso un quadro rassicurante che conferma l’assenza di rischi per la salute dei lavoratori e degli atleti esposti periodicamente alla gomma riciclata da Pfu.

dei media era scemata e rivolta ad altri temi più attuali.

Info www.ecopneus.it

I granuli di gomma riciclata da Pfu sono chiamati genericamente crumb rubber in Usa e Sbr (gomma stirene-butadiene) in Europa. In realtà non si può essere del tutto certi della provenienza dei materiali prelevati sui campi da gioco sottoposti a indagine. Prima di tutto, infatti, non si può escludere la commistione di Pfu con altri scarti/rifiuti di gomma presso gli impianti di riciclo, pratica oggi abbandonata ma diffusa in passato. Inoltre, esiste la possibilità che granuli di gomma provenienti da altri rifiuti (per esempio frazione gomma da demolizione di veicoli, tubi freno, guarnizioni) siano venduti come Sbr pur non essendo riconducibili agli pneumatici fuori uso. La presenza di sostanze non utilizzate per la produzione degli pneumatici e i dati anomali misurati da alcuni ricercatori su un numero limitato di campioni sembrano convalidare queste ipotesi e pongono alcuni dubbi sulla rappresentatività dei materiali analizzati in passato. Inoltre, il divieto di utilizzare oli a elevato contenuto aromatico introdotto con il regolamento Reach a partire da gennaio 2010, ha modificato la composizione delle mescole di gomma utilizzate per la produzione degli pneumatici venduti in Europa e – quindi – nel resto del mondo.

Partendo proprio da tali considerazioni, nel 2014 Ecopneus (società senza scopo di lucro principale responsabile della gestione degli pneumatici fuori uso in Italia) ha avviato una serie di studi e analisi scientifiche per determinare il grado di salubrità della gomma riciclata da Pfu e l’appropriatezza delle destinazioni d’uso di tale materiale. Nonostante tali accertamenti andassero ben oltre gli obblighi derivanti dalla extended producer responsibility degli pneumatici, è innegabile il ruolo svolto da Ecopneus nella promozione degli impieghi di granuli e polverini di gomma. Inoltre, la gestione dei flussi di Pfu da destinare a riciclo o a recupero energetico spetta a Ecopneus che svolge quindi un importante ruolo nel mercato pur rimanendo fuori dal business. Lo studio è durato due anni: il piano di campionamento ha permesso la caratterizzazione chimica e tossicologica della gomma riciclata da diverse tipologie di Pfu. In pratica, presso cinque impianti di riciclo sono stati classificati quasi 4.000 Pfu in base all’età e al paese di provenienza dello pneumatico. Grazie a tale operazione, supervisionata dagli auditor di Bureau Veritas, 70 campioni di granuli e polverini di provenienza nota sono stati consegnati a quattro laboratori italiani ed esteri per eseguire una caratterizzazione completa della gomma. È stato, quindi, possibile confrontare la composizione della gomma riciclata da pneumatici prodotti in Europa o in paesi extra-europei, prima e dopo il 2010. Nel progetto un ruolo centrale è stato svolto dall’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri-IRCCS, che ha misurato il contenuto di Ipa presente nella gomma dei Pfu, ne ha valutato la biodisponibilità e quantificato i rischi associati all’esposizione dermica e inalatoria negli scenari di impiego più comuni. Contemporaneamente, gli esperti di Waste and Chemicals hanno condotto una serie di 15 monitoraggi presso campi da calcio in erba artificiale e naturale per valutare l’esposizione agli Ipa dei lavoratori durante la posa in opera della gomma e degli atleti durante le partite di allenamento sulle diverse superfici di gioco. Analoghi monitoraggi sono stati eseguiti anche su 17 cantieri stradali durante la posa in opera di asfalti convenzionali e asfalti “gommati” ossia additivati con polverino di gomma riciclata da Pfu. Dalle analisi condotte è emerso un quadro rassicurante che conferma l’assenza di rischi per la salute dei lavoratori e degli atleti esposti periodicamente alla gomma riciclata da Pfu, utilizzata sia come intaso nei campi sintetici sia come additivo per gli asfalti stradali. Infatti, il contenuto di Ipa nella gomma è risultato molto limitato in tutti i campioni analizzati: la somma degli otto Ipa classificati come sostanze cancerogene di categoria 1 B è compreso tra 5 e 10 ppm (1.000 ppm è il limite indicato per la classificazione Clp delle miscele come cancerogeno).


Case Studies Inoltre, i test di migrazione nel sudore e surfattanti polmonari effettuati dall’Istituto Mario Negri hanno evidenziato la scarsa biodisponibilità di tali sostanze che rimangono intrappolate all’interno della gomma vulcanizzata e quindi non sono assorbite dal corpo umano, né per contatto dermico o inalazione. Sono state analizzate anche le urine di lavoratori e atleti per verificare se a seguito dell’esposizione della gomma vi fosse una variazione di concentrazione dell’idrossipirene che indicasse l’assorbimento di Ipa: anche in questo caso le analisi hanno escluso l’esposizione agli Ipa riconducibile alla gomma da Pfu. In conclusione, i risultati di due anni di studi e ricerche permettono di definire “sicuro” l’uso di gomma riciclata da Pfu come intaso nei campi da gioco in erba artificiale e come additivo per gli asfalti stradali. La gomma riciclata da pneumatici contiene infatti quantità molto limitate di Ipa con un grado di biodisponibilità estremamente limitato. I risultati sono coerenti con le numerose pubblicazioni scientifiche degli ultimi dieci anni e rappresentano una risposta chiara e rassicurante ai dubbi sollevati in passato sulla sicurezza della gomma riciclata da Pfu.

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Filiere incrociate

Da scarto a protagonista. Come i fagioli che non hanno superato l’esame sono utilizzati per produrre carta da imballaggio per il packaging di altri fagioli. Un processo innovativo che nasce dal confronto delle filiere produttive di due aziende e dalla messa in comune dei loro know-how. di Sergio Ferraris

Progetto “Save the Waste”, www.savethewaste.com

Incrociare le filiere. Produttive. Questo potrebbe essere il punto cardine dell’economia circolare nel quale vedere la differenza più netta tra ventesimo e ventunesimo secolo, per quanto riguarda le risorse impiegate nei processi produttivi. Durante tutto il secolo scorso, infatti, i processi manifatturieri furono sostenuti dalle scoperte di nuovi materiali. Nel 1953 il premio Nobel Giulio Natta mise a punto assieme a Karl Ziegler una serie di catalizzatori per realizzare polimeri isotattici, prodotti che aprirono nuove e dirompenti prospettive nel campo delle plastiche; mentre nel 1954 entrò in funzione in Russia la prima centrale per la produzione elettrica che addirittura gestiva la materia nucleare. E gli esempi potrebbero essere centinaia. Sono state proprio queste scoperte su materie prime ed energia a guidare gran parte delle economie produttive

del Novecento, contando sul presupposto che l’ambiente – inteso sia come risorsa di materie prime, sia come luogo finale di destinazione – potesse essere infinito. Una logica errata che, se da una parte ci ha dato un bagaglio di conoscenze unico, per quantità e qualità, nella storia del genere umano, dall’altra ci ha reso consapevoli e capaci, forse, di cambiare strada. Tutto ciò passando da uno sviluppo lineare che necessita di una crescita esponenziale, a uno per l’appunto circolare, che ispirandosi all’ecosistema terrestre utilizza più volte le risorse, conservandone le qualità nel tempo, per le generazioni future. E non è fantascienza, ma una realtà che ha già messo radici anche grazie a un piccolo protagonista. Un seme, ossia uno degli alimenti più umili che si conosca la cui coltivazione è nota da almeno 5.000 anni: il fagiolo.


Beans disegnato da Freepik – elaborazione grafica

La fibra di cellulosa ha bisogno di alleati per fare la carta e in questa ricerca hanno lavorato assieme Favini e Pedon, per creare Crush Fagiolo.

Il fagiolo, che se seccato ha la stessa quantità di proteine della carne, dopo aver sfamato e salvato dalle carestie – grazie alla semplicità di coltivazione, alla possibilità di conservazione e al basso costo – molte generazioni degli strati più umili della popolazione, oggi è diventato l’attore principale di una storia emblematica dell’economia circolare. Quella dello “scarto” che diventa materia prima seconda nella stessa filiera produttiva dove è stato generato. Un rifiuto in crisi d’identità, potremmo dire, che si oppone all’essere messo alla porta dello stabilimento dove è stato prodotto. E non accade in un paese in via di sviluppo, ma in Italia. Siamo a Molvena nel vicentino, nello stabilimento del Gruppo Pedon – azienda da 100 milioni di euro di fatturato annuo, con 600 dipendenti – che ha il 50% del mercato dei legumi, cereali e semi lungo lo stivale. E che ha sviluppato il progetto “Save the Waste”. “Il nostro fagiolo che arriva in Veneto, con il treno, è già un legume speciale, visto che è coltivato all’interno di programmi per lo sviluppo e la salvaguardia economici degli agricoltori, non è Ogm e proviene da sementi selezionate. Sviluppiamo delle filiere etiche, come quella, per esempio, in Etiopia, dove riconosciamo un premio supplementare al prezzo di mercato attraverso delle organizzazioni no profit” ci dice Luca Zocca, marketing manager di Pedon. “In questa maniera aiutiamo le comunità locali, di cui fanno parte i nostri fornitori che sono riuniti in cinque cooperative, con servizi legati alla promozione sociale, come per esempio l’istruzione.” Un fagiolo “cresciuto” in un simile contesto, quindi, è quasi naturalmente votato a nuove forme d’economia, come, appunto, quella circolare. E l’occasione è quella di diventare uno scarto, ma attenzione, non un rifiuto. Varcata la soglia dello stabilimento, infatti, ogni singolo legume deve passare un esame d’idoneità

e quelli scartati prendevano, fino a poco tempo fa, un’altra strada. Quella dell’alimentazione animale, separandosi così definitivamente da quelli destinati alle nostre cucine. Oggi, invece, il fagiolo scartato diventa un pezzo della filiera, trasformandosi in un imballaggio indispensabile alla commercializzazione dei suoi simili che, al contrario di lui, hanno passato la selezione. E qui arriva l’idea dell’azienda che ha deciso d’avventurarsi in una zona di confine, nella quale si sperimentano metodologie e tecniche produttive su filiere esistenti senza danneggiarne la capacità di produrre valore: la zona dell’economia circolare, quella vera, fatta di risultati concreti e verificabili. Ed ecco allora che il fagiolo “non scelto” esce dallo stabilimento per trasferirsi in un’azienda vicina, la cartiera Favini, dove è ormai un’abitudine pensare a come “contaminare”, in senso positivo, la produzione della carta con altri materiali, con un’assoluta preminenza per gli scarti di altre filiere produttive. E il fagiolo in questo caso diventa da comprimario a protagonista, perché è la sua presenza per un 20% del totale a fare la differenza nella carta che diventerà a breve la scatola nella quale mettere gli altri legumi. “Prima di tutto sgombriamo il campo da tutto quello che può essere un equivoco” ci dice Achille Monegato, responsabile della Ricerca e Sviluppo Favini. “La carta è un materiale composto che non è fatto solo dalla fibra di cellulosa, ma anche da altro. La fibra è indispensabile, ma da sola non può fare la carta. Non esiste al mondo una carta fatta al 100% di cellulosa.” Ecco quindi che la fibra di cellulosa ha bisogno di alleati per fare la carta e in questa ricerca hanno lavorato assieme Favini e Pedon, per creare Crush Fagiolo. La prima azienda possiede il know-how, ormai ventennale, per decidere, in base ai principi dell’economia circolare che coniugano scarti che diventano materie prime seconde, processi e materie


materiarinnovabile 12. 2016 prime, cosa e come mettere assieme alla fibra di cellulosa. La seconda possiede lo “scarto” e la volontà d’incrementare attraverso un utilizzo inedito la sostenibilità della propria filiera. Ecco quindi cosa c’è alla base del salire alla ribalta del nostro fagiolo che ha, in questo inedito contesto delle qualità nascoste. Qualità nascoste I legumi, infatti sono differenti dai cereali visto che contengono meno amido e ci sono le proteine, sostanze che non sono, o lo sono parzialmente, solubili in acqua, hanno a disposizione dei legami a idrogeno e quindi possono formare con la cellulosa legami di tipo chimico ed elettrochimico, essenziali per dare “forma” alla carta. E il nostro amico fagiolo, essendo un legume, queste qualità le possiede tutte e può essere utilizzato come ingrediente della ricetta della carta. Ma a condizione che i materiali siano della giusta misura. E qui entra ancora una volta in gioco la ricerca applicata all’economia circolare. In precedenza, infatti, nei processi produttivi si sceglievano gli ingredienti tra quelli più adatti come costituzione, ma oggi questa filosofia nel contesto dell’economia circolare non può più funzionare. La materia prima seconda derivata dai rifiuti o dagli scarti, infatti, può non essere adatta all’utilizzo in filiera così come esce dal processo produttivo originario nonché da quello di riciclo; per questo motivo è necessario aggiungere delle lavorazioni intermedie nella filiera stessa che questo materiale accoglie. Potrebbe sembrare un dettaglio, e invece rappresenta una barriera importante per la diffusione di queste lavorazioni, ma anche un vantaggio competitivo per le aziende che questa parte di processo l’hanno messa a punto e la sanno far funzionare. Ed è un know-how prezioso, che fa bene all’ambiente, ma anche alla nostra economia. E che è rappresentato bene dal nostro amico fagiolo. Infatti, se si realizza una normale carta per fotocopie, quella con una grammatura da 80 grammi, bisogna tenere conto che ha uno spessore di 100 micron, ossia 0,1 mm: per questa ragione i materiali utilizzati devono essere di dimensioni inferiori, pena la non legatura con il supporto. Ossia possono rimanere un elemento estraneo, dando così al prodotto finale una minore funzionalità, oltre che un peggiore aspetto. E non è un problema da poco al quale in passato è dovuta l’immagine negativa che hanno avuto i primi prodotti che utilizzavano materie prime seconde, alla quale deve essere affiancata anche la modifica della filiera. Favini possiede questo pezzo aggiuntivo di filiera che è un processo di micronizzazione, brevettato, che gli consente di trattare materiali “diversi” come il fagiolo, mentre Pedon era a conoscenza del fatto che la cartiera era in grado di accogliere il fagiolo e inserirlo in maniera organica e concreta nel processo produttivo per ottenere il prodotto desiderato. “Una volta capito ciò mettere assieme

le fibre di cellulosa con altri materiali vegetali contenenti amidi, proteine e polisaccaridi poco solubili in acqua diventa relativamente semplice” prosegue Monegato. “Il caso di Pedon è stato molto interessante e ci ha consentito di fare un’esperienza inedita anche perché nessuno aveva mai utilizzato questo materiale per ottenere la carta.” Innovazione inedita Ed è interessante anche leggere questa esperienza sotto al profilo dell’innovazione di prodotto. Non deve sfuggire, infatti, che la nuova confezione dei legumi di Pedon nasce in due stabilimenti – vicini geograficamente e la cosa ha una sua importanza – confrontando le due filiere e mettendo in comune il know-how posseduto dalle due aziende. Innovazione, quindi, che deriva dalla netta contiguità dei processi produttivi, recependone le esigenze, senza però trascurare il fatto che queste devono funzionare e produrre valore quanto prima sia durante, sia dopo l’innesto degli elementi d’economia circolare. E deve essere una delle regole questo livello d’integrazione se si vuole partire ora, come le crisi climatico-ambientale e sociale, impongono.

Il clima ringrazia il fagiolo visto che, solo nella fase di realizzazione del packaging, l’impiego di fibra di cellulosa vergine è ridotto del 15% e le emissioni di CO2 del 20%.

Inoltre, su richiesta di Pedon, il cartoncino ottenuto dal fagiolo è stato certificato per gli alimenti sia in Europa sia negli Usa. Ed è la prima carta per imballaggi, che contiene scarti di lavorazione industriale, a esserlo. Un primato che – oltre ad avere un certo fascino –

Info www.pedon.it www.favini.com www.lucaprintgroup.com

Luca Zocca

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Case Studies

ha anche due aspetti qualificanti. Grazie a questa certificazione i fagioli, quelli destinati alle tavole, non necessitano d’essere imbustati prima del confezionamento finale. Risultato: un rifiuto in meno e risparmio economico per l’azienda. E non è finita. La cellulosa vergine è rigorosamente certificata Fsc (Forest Stewardship Council), la finestrella trasparente che consente di vedere il prodotto è in Pla – una plastica d’origine vegetale derivata dal mais – e per la stampa, effettuata dalla cartotecnica Lucaprint, sono stati utilizzati inchiostri d’origine vegetale. La scatola, quindi, è totalmente riciclabile nella filiera di carta e cartone. Prova ne è che gli scarti di produzione della carta Crush Fagiolo – il 10% del totale – rientrano subito nel ciclo di produzione di Favini. E ciliegina, anzi è il caso di dirlo, fagiolino sulla torta è il fatto che tutti e tre gli stabilimenti usano al 100% fonti d’energia rinnovabile. E il clima ringrazia il fagiolo visto che, solo nella fase di realizzazione del packaging, l’impiego di fibra di cellulosa vergine è ridotto del 15% e le emissioni di CO2 del 20%. Non si può trascurare, però, il conto economico. Ossia quanto costi mandare il nostro fagiolo in cartiera per migliorare l’ambiente.

Dal punto di vista strettamente economico il confezionamento dei legumi così fatto è ancora lievemente più caro di quello tradizionale. Parliamo di qualche centesimo di euro per ogni contenitore, cosa però che se viene moltiplicata per centinaia di migliaia di contenitori possiede un certo impatto economico. “Per noi è un costo i cui vantaggi vengono riconosciuti, specialmente all’estero, dai nostri clienti che apprezzano i contenuti legati alla sostenibilità che possiede questo packaging” conclude Luca Zocca. “E non siamo i soli a dirlo: una serie di ricerche di mercato hanno verificato nei fatti l’esistenza di consumatori che in tutto il mondo apprezzano contenuti etici e sostenibili. Anche a costo di qualche sovrapprezzo in più.” C’è da dire che l’utilizzo di questi contenitori, però, è ancora basso e a Pedon contano di ridurre la differenza di costo tra queste confezioni e quelle tradizionali grazie alle economie di scala introdotte da una produzione più ampia. E se l’inizio della corsa del nostro fagiolo nell’arena dell’economia circolare è stato questo, è anche lecito pensare che il traguardo della parità di costo sia più vicino di quanto possiamo immaginare.

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Missione compiuta di Marco Gisotti

al 99%

In Italia Coou raccoglie il 43% degli oli usati e ne rigenera più del 99%. Risultati eccellenti resi possibili dagli investimenti in tecnologie innovative fatti dalle imprese. Ma anche dall’aver saputo sviluppare il modello di gestione dell’intero sistema.

Cambiare spesso significa anche evolvere, adattarsi ai tempi che cambiano. E ciò che sembrava pionieristico oltre trent’anni fa, quando è nato il Consorzio obbligatorio degli oli usati, oggi è una promessa realizzata. In questi tre decenni, infatti, i rifiuti sono finalmente diventati una risorsa: i dati stessi del Coou testimoniano questo passaggio. Marco Gisotti è giornalista professionista e divulgatore, dirige l’agenzia di studi e comunicazione ambientale Green Factor.

Nel 2015, infatti, secondo l’ultimo Green Economy Report del Consorzio sono state raccolte dalle imprese del sistema Coou, 166.700 tonnellate di oli usati: praticamente il 43% del volume totale di quanto immesso al consumo durante lo stesso anno. Una percentuale vicinissima al limite massimo teorico raggiungibile, considerando che più della metà dei lubrificanti si consumano durante l’uso. Il destino degli oli raccolti è stato per il 99,7% dei casi, vale a dire 165.500 tonnellate, quello di essere avviato alla rigenerazione per il recupero di materiale. E solo una parte residuale, 465 tonnellate, sono state avviate alla termodistruzione. Un dato importantissimo che conferma un trend

in atto da diversi anni, mancando di appena un soffio il 100%. “Ciò è stato possibile – si legge nell’ultimo Green Economy Report di Coou – in virtù degli investimenti effettuati dalle imprese della rigenerazione in processi di pre-trattamento degli oli in ingresso alle raffinerie che, senza rischi per l’ambiente, consentono di assorbire nel processo di ri-raffinazione anche la quota parte di oli usati raccolti e classificati idonei al recupero come combustibile per la produzione di energia, in deroga alle norme tecniche per la gestione degli oli usati”. Ma non sono solo le imprese ad aver migliorato le proprie performance. È stato anche il Coou ad aver cambiato il proprio modello di gestione: dalla metà del 2014 il suo ruolo è diventato da quello di operatore di mercato negli scambi commerciali degli oli usati tra le imprese della raccolta e quelle della rigenerazione a quello di operatore sussidiario al mercato. In questo modo Coou assicura e incentiva comunque la raccolta, ma lascia alla libera contrattazione tra gli operatori


Case Studies La gestione degli oli usati Oli lubrificanti immessi al consumo in Italia

Fonte: Coou, Green Economy Report, 2015.

Oli consumati durante l’uso o non intercettati nel sistema 219,3 consortile

OLI NUOVI 386 Basi lubrificanti rigenerate

166,7 100,1

Oli usati raccolti nel sistema consortile Oli usati in stock

La circular economy

Acque reflue di processo

1,2

degli oli usati

15,5

gestiti da Coou nel

Oli usati gestiti per l’eliminazione

165,5

2015(kt)

42 Altri prodotti (bitumi, gasoli)

157,6

Oli avviati a termodistruzione

165

Oli usati lavorati

0,5

Oli avviati a rigenerazione

7,4 Oli usati in stock

Con il nuovo modello gestionale il Coou per limitare il proprio ruolo commerciale e agevolare i rapporti diretti tra le imprese di rigenerazione e i raccoglitori ha modificato il quadro contrattuale con le imprese della raccolta proponendo due contratti diversi.

la definizione del prezzo di acquisto/cessione degli oli usati da avviare a rigenerazione. “In questo cambiamento – spiegano dal Coou – il ruolo di sussidiarietà viene mantenuto a garanzia di un eventuale ‘fallimento del mercato’ stesso. Ossia nel caso in cui la gestione degli oli usati finalizzata alla rigenerazione risultasse antieconomica per le imprese del settore, per esempio a causa della volatilità del prezzo del petrolio, con il rischio di una gestione dannosa per l’ambiente di un rifiuto pericoloso.” Dal punto di vista operativo, secondo il vecchio modello, il Coou aveva un contratto di servizio con le imprese di raccolta autorizzate che provvedevano a recuperare gli oli usati su tutto il territorio nazionale senza costi aggiuntivi per i detentori. In questa ottica, per evitare ogni rischio legato alla movimentazione del rifiuto, gli oli usati raccolti erano conferiti in impianti di stoccaggio

Modalità di gestione degli oli usati dal 2013 al 2015

2013

2014

2015

Avviati a rigenerazione

93,9%

91,0%

99,7%

Avviati a recupero energetico

5,4%

8,7%

0,0%

Avviati a termocombustione

0,2%

0,1%

0,3%

Avviati ad altro recupero

0,5%

0,2%

0,0%

Fonte: Coou, Green Economy Report, 2015.

coordinati dal consorzio e dislocati presso le imprese di rigenerazione o in aree limitrofe. E, per garantire un’equità di trattamento, i costi di trasporto dai serbatoi di stoccaggio temporaneo presso le imprese della raccolta fino ai centri di stoccaggio, venivano corrisposti dal Coou. Da qui, poi, gli oli venivano sottoposti ad analisi e classificati secondo le modalità più idonee di trattamento. Con il nuovo modello gestionale, invece, il Coou per agevolare i rapporti diretti tra le imprese di rigenerazione e i raccoglitori ha modificato il quadro contrattuale con le imprese della raccolta proponendo due contratti diversi. Nel primo, indipendentemente dal fatto che gli oli usati raccolti vengano ceduti al consorzio o direttamente a una raffineria, il Coou riconosce ai raccoglitori un incentivo alla raccolta, inclusa la micro raccolta, nonché ulteriori compensi e indennizzi. Il secondo contratto fissa, invece, un prezzo degli oli usati per l’acquisto di ultima istanza; uno strumento per le imprese della raccolta che consenta loro di cedere al consorzio gli oli usati a un prezzo equo, qualora non riuscissero a venderli a un prezzo soddisfacente per trattativa diretta con le imprese della rigenerazione. Infine, secondo il nuovo modello, Coou mantiene il coordinamento dei centri di stoccaggio, attraverso il quale verifica i flussi e la qualità degli oli usati raccolti al fine della loro classificazione prima della cessione alle imprese della rigenerazione. Gli oli usati, così controllati, possono poi essere liberamente commercializzati tra le imprese, mentre per quel che riguarda gli oli di “ultima istanza”, cioè quelli acquistati in maniera

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materiarinnovabile 12. 2016 Quadro di sintesi di confronto delle modalità di gestione degli oli usati nei due modelli PRIMA

DOPO

Obbligo per i Raccoglitori/ Concessionari di cessione degli oli usati raccolti dal Consorzio

Nessuno

Nessuno

Obbligo di rendicontazione delle imprese di raccolta

Al Consorzio

Al Consorzio

Conferimento degli oli usati raccolti

Le imprese della raccolta cedono gli oli usati al Coou secondo accordi definiti in un contratto di servizio. Il contratto di servizio definisce il prezzo di cessione degli oli usati raccolti, nonché incentivi per la raccolta e la micro raccolta, e compensi vari per le attività svolte per la gestione degli oli usati raccolti in relazione agli obblighi di legge. Il Coou sostiene tutti i costi per il trasporto degli oli usati dalle imprese di raccolta agli impianti di stoccaggio.

Il Coou istituisce un quadro di accordi con le imprese della raccolta basato su due contratti di servizio : 1. Uno che incentiva la raccolta, inclusa la micro raccolta e riconosce un extra-compenso per le attività svolte nella gestione degli oli usati raccolti in relazione agli obblighi di legge; 2. L’altro in cui il Consorzio garantisce l’acquisto degli oli usati raccolti a un prezzo equo qualora le imprese di raccolta non trovassero un accordo di vendita con le imprese della rigenerazione. Le imprese della raccolta continuano a ricevere dal Coou incentivi e compensi per lo svolgimento delle attività di raccolta, pur potendo cedere gli oli usati direttamente alle imprese della rigenerazione a un prezzo pattuito per accordi diretti. Qualora le imprese di raccolta non riuscissero a vendere gli oli usati sul mercato, possono venderli al Coou a un prezzo equo.

Stoccaggio e classificazione degli oli usati

Il Coou coordina gli impianti di stoccaggio cui vengono conferiti tutti gli oli usati raccolti, che vengono analizzati e classificati per tipologia di possibile processo di eliminazione.

Invariato

Cessione degli oli usati raccolti alla rigenerazione

Gli oli usati raccolti e venduti al Consorzio vengono ceduti alle imprese della rigenerazione secondo un meccanismo di ripartizione “in via amministrata” come previsto dalla normativa. Il prezzo di cessione viene calcolato sulla base dell’andamento del prezzo del petrolio e dei prodotti lubrificanti derivati. Una quota viene ripartita tramite gara al miglior offerente.

Gli oli usati vengono ceduti alle imprese della rigenerazione nel rispetto degli accordi presi dalle stesse con le imprese della raccolta. La cessione avviene previo controllo da parte del Consorzio che la qualità degli oli usati scambiati secondo gli accordi presi tra le imprese sia conforme alla normativa vigente sulla caratterizzazione del prodotto.

Fonte: Coou, Green Economy Report, 2015.

Immesso al consumo e raccolta degli oli usati nel sistema Coou dal 2013 al 2015 (kt) 400

395

387

350

Fonte: Coou, Green Economy Report, 2015.

386

300

Oli immessi al consumo

250

Oli usati raccolti

200 171,2

150

166,7

167,4

100 50 0

2013

2014

2015

calmierata dal Coou stesso, vengono ripartiti alle imprese della rigenerazione in via amministrata o tramite gara. Ma non sempre cambiare è garanzia di immediato successo. A volte servono mesi se non anni prima di poter cominciare a fare i primi bilanci realmente positivi. Non è questo il caso. La trasformazione del sistema Coou ha subito confermato i trend di raccolta e riutilizzo degli anni precedenti. Non solo si è quasi giunti al limite teorico massimo di raccolta possibile, ma la percentuale di oli avviati alla rigenerazione ha raggiunto la quasi totalità. Un risultato mai visto prima. “Questa performance di raccolta – si legge nel Green Economy Report – trova riscontro anche nei primi sei mesi di gestione del nuovo modello operativo nel 2014 e per tutti i 12 mesi del 2015, durante i quali gli scambi commerciali degli oli usati nella filiera sono avvenuti prevalentemente in riferimento ad accordi diretti tra le imprese della raccolta e quelle della rigenerazione: un chiaro segnale che il sistema di imprese della filiera degli oli usati in Italia ha saputo rispondere positivamente al cambiamento di modello operativo proposto dal Coou.”


Case Studies

Info www.coou.it/it/

Così come un altro segnale importante da cogliere, e da interpretare, è quello delle performance relative al controllo dei flussi e della qualità degli oli lubrificanti usati raccolti. Anche in questo caso non sono state registrate differenze apprezzabili fra un sistema di gestione e l’altro. Indice che la filiera era matura per il salto. Un percorso durato anni, ovviamente, come dimostra la strada fatta nel riuscire a rigenerare una quantità sempre maggiore di oli. Nel tempo infatti ci sono stati andamenti altalenanti anche con trend negativi e instabili, almeno fino all’inizio degli anni Duemila, per poi riprendere un trend positivo e aumentare negli ultimi tre anni di gestione. “L’incremento dei quantitativi avviati a rigenerazione negli ultimi anni trova riscontro nel fatto che, diversamente dagli anni precedenti, una parte consistente degli oli usati raccolti e classificati dal Coou come idonei alla eliminazione per combustione con recupero energetico, sono invece stati assorbiti dalle imprese della rigenerazione, autorizzate al loro trattamento in deroga alle norme tecniche di gestione degli oli usati definite nel decreto ministeriale del 1996, nr. 392 ‘Regolamento recante norme tecniche

relative alla eliminazione degli oli usati’, come previsto dall’articolo 216-bis, comma 7 del Dlgs 152/2006 e successive integrazioni” spiega con dovizia di dettagli il Green Economy Report 2015. Non tralasciando di specificare che però si è trattato di una transizione, se non di un’opportunità vera e propria, attivata dalle imprese della rigenerazione del sistema prima dell’entrata in vigore del nuovo modello di gestione del Consorzio, contribuendo “in modo positivo al ciclo degli oli minerali usati in chiave di economia circolare, tanto più in una fase di contrazione della disponibilità di oli usati dovuta alla diminuzione, strutturale, dei consumi di lubrificanti”. In altre parole le imprese della rigenerazione hanno saputo investire in innovazione, adeguando le dotazioni impiantistiche per lo stoccaggio e il trattamento degli oli usati in ingresso al processo di distillazione (preflash) e consentendo, di conseguenza, il recupero di materia, senza rischi per l’ambiente, inclusi gli oli usati classificati “idonei alla combustione” “senza compromettere la resa finale di rigenerazione, che rimane ancorata a un valore prossimo al 65% degli oli usati lavorati e incrementando il quantitativo di basi rigenerate complessivamente prodotte”.

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materiarinnovabile 12. 2016

Più riciclo in RETE In Italia 20 milioni di persone comprano online. Non solo biglietti aerei e vacanze ma veri oggetti. Come ripensare il packaging per l’e-commerce in chiave di maggiore sostenibilità, puntando su razionalizzazione, riduzione degli scarti, riciclabilità. E rendendo la scatola il primo strumento di comunicazione del prodotto che contiene. di Sergio Ferraris

Seguire le trasformazioni in tempo reale. Così si può riassumere la nuova iniziativa di Comieco sull’e-commerce intrapresa di recente dal consorzio per indirizzare il settore, che è in forte crescita, verso una maggiore sostenibilità. E che si tratti di un segmento che possiede uno sviluppo importante lo dicono i dati degli ultimi cinque anni, durante i quali si è assistito a un raddoppio secco del volume d’affari dell’e-commerce che oggi vale il 5% delle vendite retail complessive lungo lo Stivale. Proprio osservando questo sviluppo, Comieco ha varato il progetto e-commerce, anche alla luce del fatto che sta crescendo in maniera esponenziale la quota “fisica” del commercio elettronico rispetto a quella dei servizi che cresce ma in percentuale minore e che è dematerializzata per definizione. E l’imballo degli oggetti venduti tramite e-commerce possiede di sicuro delle caratteristiche particolari. Non solo diventa un rifiuto pochi istanti dopo essere entrato nelle nostre case, ma può avere le forme più varie e soprattutto essere composto da materiali diversi, oltre al cartone. E gli scarti composti da materie

diverse sono i più complessi da avviare al riciclo, con dei saldi negativi sotto il profilo dell’economia circolare. “Abbiamo avviato questo progetto, che è nella fase iniziale, proprio perché dal nostro punto di vista si nota un incremento delle vendite e di conseguenza degli imballaggi” dice a Materia Rinnovabile Piero Attoma, nuovo presidente di Comieco. “E come consorzio riteniamo di essere in grado di collaborare con gli attori che rappresentano questo tipo di attività.” Sostenibilità in scatola La sfida, dunque, è capire se è possibile unificare le confezioni, standardizzarle relativamente ai materiali utilizzati, razionalizzarle e, quindi, inserirvi gli elementi chiave della sostenibilità e dell’economia circolare, come il riciclo e la diminuzione degli scarti. “Oggi in Italia su trenta milioni di navigatori sul web con un’età superiore ai 15 anni, venti milioni usano l’e-commerce: un numero che è raddoppiato rispetto al 2011”, ci dice Roberto Liscia, presidente di Netcomm, l’associazione sotto forma consortile


Case Studies

Che cosa è l’e-commerce in Italia

Oggi in Italia su trenta milioni di navigatori sul web con un’età superiore ai 15 anni, venti milioni usano l’e-commerce: un numero che è raddoppiato rispetto al 2011.

che riunisce gli operatori di tutta la filiera dell’e-commerce e che sta collaborando con Comieco. Uno scenario, quindi, di pieno sviluppo, sul quale si innestano fenomeni nei quali il packaging diventa importante. Cresce la quantità di merci che si spostano e, oltretutto, sono sempre più piccole; così come aumenta il fenomeno della prova con la conseguente restituzione, un test in più per il packaging. “In questo quadro è ovvio che va ripensato il packaging nel suo complesso: deve essere più piccolo, a misura dell’oggetto, facilmente apribile e agevolmente riciclabile” prosegue Liscia. Per questi motivi il lavoro sul packaging per l’e-commerce si svolge su diversi livelli. Il primo si riferisce all’ottimizzazione rispetto alla tipologia del prodotto, per evitare gli sprechi; il secondo riguarda la scelta del materiale, mentre il terzo è quello dello sviluppo della stampa, anche sul packaging stesso, dell’indirizzo del destinatario. L’ultimo livello, infine, è quello di far diventare il packaging anche uno strumento di comunicazione, magari multimediale, attraverso i QR code. “Con Comieco – conclude Liscia – abbiamo messo

Il settore dell’e-commerce in Italia cresce. Dai dati dell’ Osservatorio e-commerce B2c Netcomm del Politecnico di Milano, presentati nella XI edizione del Netcomm eCommerce Forum, emerge che il valore degli acquisti online degli italiani sarà nel 2016 di 19,3 miliardi di euro, con un incremento del 17% rispetto all’anno precedente, ossia più 2,7 miliardi di euro. I dati della crescita sono: il turismo, più 11%; l’informatica e l’elettronica, più 22%; l’abbigliamento, più 25%; l’editoria, più 16%. Bene anche i settori del Made in Italy che stanno registrando le crescite più alte: il Food&grocery avrà nel 2016 un incremento del 29% con un fatturato di 530 milioni di euro, mentre l’arredamento crescerà del 39% per 570 milioni di euro. A completare il quadro c’è anche il Beauty e Giocattoli, che riguarda il 16% del totale, per un fatturato di 2.214 milioni di euro. Ed è anche un settore che sta cambiando visto che l’acquisto online di questi prodotti cresce a un tasso più elevato, +27% rispetto all’acquisto di servizi, +10%. A livello mondiale le vendite online sono il 7%, per un totale di 2.700 miliardi di dollari (2.407 miliardi di euro), ossia il 3% del Pil mondiale. Cosa che si traduce in 1,5 miliardi di persone che comprano sul web. Il primo paese è la Cina con 900 miliardi di dollari (802,2 miliardi di euro), il secondo sono gli Usa, il terzo è la Gran Bretagna. L’Europa nel suo complesso registra vendite online per 565 miliardi di dollari (503,6 miliardi di euro), effettuate da 300 milioni di persone.

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S. Ferraris, “Territorio diVino”, Materia Rinnovabile 9; www.materiarinnovabile. it/art/195/Territorio_diVino

in piedi un gruppo di lavoro misto per affrontare questi problemi: sostenibilità, riciclo, economia circolare e unificazione degli standard”. In questo quadro Comieco desidera sviluppare l’utilizzo di imballaggi realizzati con carta riciclata, cosa che ha molte potenzialità, visto che l’Italia ha notevoli expertise, sia dal punto di vista della manifattura del cartone sia sotto il profilo cartotecnico. E c’è anche un altro vantaggio. Nell’ e-commerce non ci sono esigenze particolari circa l’utilizzo di carta vergine poiché non esistono – allo stato attuale – prodotti alimentari che vadano direttamente a contatto con l’imballaggio. “Il settore dell’e-commerce utilizza il macero, ma non sappiamo esattamente come e quanto, visto che siamo nella fase iniziale del progetto e i dati affluiranno nei prossimi mesi” prosegue Attoma. “Oggi stiamo mettendo a fuoco, grazie alla ricerca, lo stato dell’arte: Netcomm dispone di parecchi dati che però non entrano nello specifico degli imballaggi utilizzati per le spedizioni. Già conoscere, però, il volume d’affari complessivo, la provenienza e destinazione della merce e a quale tipologia di cliente si rivolge l’e-commerce, per noi, è molto importante.

Anche perché per intervenire in un settore, e quello dell’e-commerce è particolarmente complesso, è necessario conoscerlo a fondo. In questo quadro la collaborazione con Netcomm è indispensabile”. Essendo, quindi, in fase iniziale il progetto non ha ancora sviluppato un contatto diretto con i singoli soggetti che operano nell’e-commerce. “Ciò che abbiamo capito da questo primo approccio è che gli attori dell’e-commerce stanno facendo uno sforzo per migliorare le confezioni razionalizzandole, il che di sicuro ne favorisce il riciclo” prosegue Attoma. “L’eliminazione della plastica e del nastro adesivo, per esempio, è un passo avanti verso una maggiore sostenibilità dell’imballo, visto che la loro presenza ostacola il riciclo della carta”. Il colosso per eccellenza dell’e-commerce, Amazon, per esempio, ha reso nel tempo più razionali gli imballaggi, sia nelle dimensioni sia per la quantità di materiale utilizzato. L’azienda a stelle e strisce, infatti, ha realizzato imballi ad “apertura facile” privi di nastri metallici o di plastica e ha previsto la possibilità di lasciare un feedback da parte del cliente, il che offre un’indicazione sulla qualità della spedizione e dell’imballo. Si tratta di attività che sono indirizzate alla sostenibilità solo


Case Studies in maniera indiretta, anche se i risparmi sul fronte dei materiali sono importanti, ma rappresentano una base di dati e metodologie che saranno indispensabili per gli sviluppi futuri del packaging sostenibile. Ecologica a sua insaputa E su questo punto vale la pena aprire una piccola digressione. Esistono aspetti gestionali delle filiere manifatturiere che hanno una valenza ecologica, anche se “non lo sanno”. L’efficienza energetica e, in questo caso, la razionalizzazione degli imballi, sono scelte che hanno driver diversi da quello della sostenibilità – risparmi economici dovuti ai minori consumi energetici, nel primo caso e alla minore occupazione di spazio nella logistica, nel secondo – ma devono essere considerate con grande importanza perché s’inseriscono in modo “naturale” all’interno di filiere “classiche” o, per meglio dire, esistenti. E proprio per questo motivo costituiscono un’ottima base dalla quale partire per un ulteriore sviluppo dell’economia circolare, visto che rappresentano anche esperienze in grado d’accrescere la catena del valore lungo

Amazon e Fisher Price, il caso della nave pirata Un esempio di ciò che accade quando si cambia packaging – da quello utilizzato per il retail a quello usato per l’e-commerce – è il caso del giocattolo “La nave pirata” di Fisher Price. Il giocattolo in questione se è confezionato nel packaging di Amazon ottimizzato e che si chiama frustration-free package diventa, per quanto riguarda la logistica, molto più sostenibile visto che: •• il packaging è interamente riciclabile; •• vi sono cinque componenti di packaging in meno; •• si utilizzano 0,5 metri quadrati di carta in meno; •• si eliminano 380 centimetri quadrati tra Pvc e fascette metalliche; •• non necessita di packaging secondario per la spedizione.

Info www.comieco.org

la filiera e in quanto tale possono realizzare una “contaminazione” verso altre attività. E a ciò s’aggiunge anche il ruolo di Comieco che in questo quadro s’evolve in una direzione positiva, ma diversa. Il raccordo che il consorzio svolge tra le aziende produttrici degli imballi che usano anche carta riciclata – cartiere e cartotecniche in primis e le imprese che questi imballi li utilizzano – diventa una sorta d’operazione business to business, di facilitazione nello scambio. Non solo di competenze e buone pratiche, ma anche di prodotti. “Lo scopo di Comieco è quello di attenere alla propria mission, ossia incrementare il riciclo” continua Attoma. “E non si tratta più solo di favorire il riciclo aumentando la raccolta, ma di individuare e sviluppare segmenti d’intervento, prestando attenzione alle trasformazioni nei comportamenti e della società.” È una metodologia d’azione che Comieco sta adottando, per esempio nel caso degli imballi per i vini delle Langhe e per le pesche. “Lavorando con il settore della frutta abbiamo razionalizzato la produzione italiana degli imballaggi, in modo che abbiano le stesse dimensioni e che queste specifiche siano rispettate dalla totalità dei produttori” conclude Attoma. “In pratica per fare un plateau per le pesche si usano misure fisse al millimetro, con vantaggi sia per la salvaguardia delle materie prime, sia per la logistica. E questo lavoro che abbiamo fatto è stato ripreso in Europa, dimostrando che quando si fa qualcosa di buono e originale, l’esempio viene seguito.” E l’operazione della ridefinizione del packaging per l’e-commerce potrebbe essere anche una mossa vincente per il design e le buone pratiche italiane in materia di sostenibilità della filiera della carta, visto che il packaging è anche il primo contatto con la merce acquistata quando arriva a destinazione e, per questo motivo può diventare uno strumento di comunicazione per le aziende che lo realizzano. Anche grazie alle caratteristiche intrinseche di sostenibilità che ha nel proprio Dna.

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materiarinnovabile 12. 2016

Rubriche Il circolo mediatico

Oceano di plastica Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.

Film “A Plastic Ocean” , www.plasticoceans.org/ film/

Sono molti, e spaventosi, i fenomeni che ci ricordano quanto sia esposta alla distruttiva azione dell’umanità la natura del pianeta in cui viviamo. Anche il mare e gli oceani, spazi che tradizionalmente siamo abituati a considerare sconfinati e dove si scatenano forze naturali potentissime sono stati profondamente cambiati e trasformati, anno dopo anno, nel corso della sconvolgente Era dell’Antropocene. L’era i cui principali segni tangibili sono l’estinzione di massa di piante e animali, lo scioglimento dei ghiacci, i miliardi di fuochi che scaricano anidride carbonica nell’atmosfera, e soprattutto la diffusione straordinaria e incontrollabile in tutti gli ambienti di una materia non esistente in natura, ma oggi ritrovata anche all’interno di organismi viventi: la plastica. E proprio della presenza della plastica nei mari parla “A Plastic Ocean”, un documentario realizzato da un team di ambientalisti, esperti e scienziati che per quattro anni hanno lavorato per raccontare come 50 anni di inquinamento da plastica hanno cambiato gli oceani. Per poter vedere “A Plastic Ocean” al cinema o in televisione bisognerà attendere ancora un poco. Ma c’è davvero da sperare che il documentario sia visibile presto, perché il giornalista e regista britannico Craig Leeson, insieme alla produttrice Jo Ruxton e la campionessa di immersione in apnea Tanya Streeter – con la partecipazione di personaggi leggendari, come il celebre naturalista e documentarista Sir David Attenborough e la ricercatrice Sylvia Earle – riescono – usando la forza e la potenza delle immagini – a gettare una luce chiara su un fenomeno tanto preoccupante, semplificando informazioni scientifiche complesse. Visitando dozzine di siti, dai fondali del Mediterraneo alle costa delle Bermuda fino alla remotissima Lord Howe Island nel Mar di Tasmania, letteralmente non si riesce a sfuggire alla piaga della plastica. E se a Lord Howe Island, a 600 chilometri al largo dell’Australia, si trovano tanti uccelli morti di fame, ma con lo stomaco pieno di pezzetti di plastica, a Tuvalu – sempre nel bel mezzo del Pacifico, un atollo che non dispone né di discariche né di sistemi di riciclaggio o di esportazione della plastica – le persone sono costrette a gettare dove possono questi materiali, o a tentare di bruciarli in modo disorganizzato, generando dense nubi di fumo nero cariche di sostanze tossiche e cancerogene. Come spiega Leeson, “il messaggio di questo film

è che a tutti noi, dappertutto, è stato spiegato un concetto rivelatosi totalmente falso: che potevamo usare liberamente la plastica, gettarla via, e a quel punto sarebbe rimasta via per sempre. Con il documentario vogliamo che sia chiaro a tutti che questo via non esiste affatto”. Ogni anno – infatti – almeno 8 milioni di tonnellate di plastica entrano a far parte dell’ambiente marino. E se nelle aree oceaniche dove si concentrano i rifiuti – che formano le cosiddette “isole” – si arriva a contare anche 750.000 pezzettini di materiale plastico per chilometro quadrato, nel corso delle varie peregrinazioni in giro per il mondo della troupe, dalle Hawaii all’Artico, non si è mai riusciti a scendere sotto la soglia di 20.000 micropezzetti di plastica per chilometro quadrato. Questo significa che ormai zone davvero incontaminate dalla plastica non ce ne sono più. Questa rubrica sulla presenza dei temi dell’ambiente, della sostenibilità e dell’economia circolare sui media amerebbe tanto poter rappresentare a ogni puntata delle storie positive. Stavolta però non possiamo non stigmatizzare due decisioni prese dalla Rai nel giro di poche settimane. Decisioni sorprendenti. Anzi preoccupanti, considerando che stiamo parlando dell’emittente pubblica sostenuta (obbligatoriamente) dal canone dei cittadini, e che proprio per queste ragioni dovrebbe avere la forza di parlare di questioni (a volte) complesse come quelle dell’ambiente. Ebbene, prima si è appreso della cancellazione dal palinsesto di Rai3 di “Scala Mercalli”, il programma condotto da Luca Mercalli che nelle prime due edizioni ha trattato con grande efficacia il tema del cambiamento climatico e delle sue conseguenze. “Scala Mercalli” aveva certo sollevato polemiche. E del resto questo – informare e far discutere – è il compito dei giornalisti, a maggior ragione quando si ha l’onere e l’onore di essere l’unica trasmissione che tratta in modo specifico di quella che è riconosciuta come la principale emergenza del nostro pianeta, ovvero il climate change. Ebbene, solo qualche giorno dopo si è appreso della cancellazione dai palinsesti del Tgr di “Ambiente Italia”, condotto da Beppe Rovera. Un programma che andava in onda dal 1990, dallo stile pacato, una voce semplice e comprensibile. È questa la Rai del nuovo corso? Una televisione pubblica che cancella l’ambiente?


Rubriche

Pillole di innovazione

Quando necessità fa virtù Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.

In una precedente rubrica osservavo che una modalità per diffondere il messaggio di fondo dell’economia circolare è anche quella di usare dei trucchi, per esempio utilizzando certe diffuse inefficienze sulle quali inserirsi astutamente e colpire il bersaglio. Per esempio: la situazione toilette nelle stazioni. Ho già toccato, credo addirittura nella prima rubrica, il tema “utilizzo dell’urina”. Qui ci ritorno a partire da un interrogativo al quale bisogna dare una risposta. Nelle grandi stazioni ferroviarie italiane – fra l’altro profondamente ristrutturate negli ultimi anni – c’è una sola location dedicata ai servizi. Stiamo parlando di strutture, le stazioni, nelle quali passano in un giorno fino a un paio di centinaia di migliaia di persone. Non solo: molte di queste attendono coincidenze anche per un paio d’ore. E allora? Niente, i progettisti hanno deciso che si può evacuare solo raggiungendo, con tutti i bagagli, servizi igienici che possono essere collocati (si veda Roma e Milano) anche a 800 metri di distanza, scendendo e salendo scale, più o meno mobili. Non basta: poiché la toilette si paga, c’è anche un cancelletto con porte automatiche scorrevoli, che va oltrepassato con tutti i bagagli, bagagli che poi ci si porta anche in prossimità del sanitario. Ora, poiché l’aggiunta di servizi è uno scenario che non appartiene agli eventi possibili, si potrebbe introdurre un escamotage con una proposta di toilette autonome – ovvero sganciate dalla rete fognaria – nelle quali l’urina potrebbe essere raccolta invitando viaggiatori e viaggiatrici a contribuire a un grande progetto di sostenibilità e circolarità. Perché con l’urina, e qui non mi dilungo, si possono fare un sacco di cose interessanti. Quindi: una quarantina di metri quadri, con una quindicina di toilette, e un piccolo box con operatori (cooperative o consorzi per il riciclaggio) che promuovono il messaggio. E chissà, si potrebbe fare anche di più. In ognuna dei queste grandi stazioni c’è una farmacia. Si conferisca a ogni singola farmacia la possibilità – andrebbe incentivata con vantaggi sui costi per i gestori – di aprire un servizio di analisi per tracce di sangue occulto nelle feci (ormai è una prassi

delle Regioni da un certo numero di anni) e, ovviamente, di analisi delle urine. In questa direzione si aggiungerebbero, insomma, due servizi all’unico attualmente esistente. Trovandomi nel contesto ferroviario, mi si consenta una breve osservazione che non si innesta sui temi della sostenibilità. Nei nuovi Etr 1000, entrati in funzione da poco sull’alta velocità, la presa elettrica è collocata sotto ogni sedile. Sull’Etr 500 è di fronte, sotto i tavolini. Le nuove prese, quindi, non si vedono, né ci si può sdraiare sul pavimento perché i tavolini non danno spazio per questa manovra. Quindi i fori in cui inserire la spina non sono visibili. Circola voce che su alcune tratte si facciano vivi bambini e bambine che, per pochi euro, riescono a infilarsi sotto i tavoli, ma è indubbio che si tratti di spregevole sfruttamento di lavoro minorile perché, lo sappiamo, dietro queste cose c’è sempre un adulto che li sfrutta. Non voglio pensare che ci si trovi di fronte a una iniziativa di Trenitalia per diminuire le criticità di bilancio.

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