Materia Rinnovabile #13

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 13 | novembre-dicembre 2016 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Trump scalda il clima •• Green corruption •• Il continente liquido •• Le metamorfosi della materia

Dossier bioeconomia: modello danese •• A tutta birra (sostenibile) •• Terre rare, le vitamine dell’industria •• Il Sud riparte dalla chimica verde

Quando un materiale è per sempre •• Fai il pieno al depuratore! •• Un grande tesoro in un piccolo chicco

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•• L’economia circolare si mostra


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Eventi


Editoriale

Un riciclo da evitare di Antonio Cianciullo

Il riciclo è cosa buona e giusta. Ma ci sono eccezioni. E la presidenza Trump ne offre la prova. Di fronte a una comunità scientifica che quasi all’unanimità chiede di mettere in sicurezza l’atmosfera, The Donald ha deciso di porre a capo dell’Environmental Protection Agency un climascettico, l’uomo che per anni ha lottato proprio contro l’agenzia ambientale impugnandone le decisioni davanti alla Corte Suprema. La scelta di Scott Pruitt, il procuratore generale dell’Oklahoma definito da Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera “il portavoce togato della lobby energetica: petrolio e soprattutto gas”, come direttore dell’Epa non è solo una beffa, uno schiaffo alla California devastata da una siccità infinita, alle centinaia di città e associazioni statunitensi che si battono contro il cambiamento climatico, alle aziende a stelle e strisce che rischiano di perdere competitività e mercati. È anche una pericolosa forma di riciclo: quello delle tossine sociali che rischiano di spaccare gli States spargendo risentimento e divisione. E infatti il Time ha dedicato la copertina a Trump come uomo dell’anno: è il “presidente degli Stati divisi d’America”. Nella motivazione si legge: “Davanti a questo barone dell’immobiliare e proprietario di casinò diventato star di un reality e provocatore senza mai aver passato un giorno da pubblico ufficiale e gestito altro interesse che non il suo, si prospettano le rovine fumanti di un vasto edificio politico che un tempo ospitava partiti, politologi, donatori, sondaggisti, tutti quelli che non lo avevano preso sul serio e non avevano previsto il suo arrivo”. È difficile prevedere quali effetti produrrà la gestione della Casa Bianca che si è appena inaugurata: molti ritengono che sarà meno disastrosa delle premesse. Certo la mossa Pruitt non lascia grande spazio alla speranza. L’ex procuratore, in prima fila anche nelle campagne contro l’aborto e i matrimoni gay, è la voce di un’America che guarda verso il passato ed entra in risonanza con la parte dell’Europa

più spaventata dalla crisi economica, dalla perdita del lavoro, dall’aumento dei flussi migratori. Sarà il segno del prossimo decennio? In questo numero di Materia Rinnovabile Emanuele Bompan fa il punto sulle reazioni negli Stati Uniti ascoltando i suggerimenti di chi non si arrende: da Michael Brune, il direttore del Sierra Club che prevede “guerra nei tribunali, al Congresso e nelle strade” a Richard Heinberg, del Post Carbon Institute, che immagina una doppia strategia basata sul sostegno ai democratici e su proteste dal basso organizzate dalle città e dalle comunità. Per l’economia circolare, in particolare, sarà una bella sfida: si tratta di far quadrare i conti in un contesto molto sfavorevole. Missione difficile ma non impossibile. Anche perché si gioca a ruoli rovesciati rispetto a un immaginario ancora abbastanza diffuso che vede gli ecologisti come romantici che sanno tutto sulle specie in pericolo e nulla sui bilanci da salvare. Negli Stati Uniti sembra vero il contrario: appare piuttosto difficile che Trump possa mantenere gli impegni anti ambientali annunciati in campagna elettorale senza danneggiare gravemente le industrie americane impegnate nella corsa verso l’efficienza e l’energia pulita. E infatti, proprio mentre sto chiudendo questo articolo, arriva la notizia della sfida green tra due giganti. Apple ha aperto un nuovo filone di investimenti sull’eolico acquisendo il 30% delle controllate della Goldwind, con sede in Cina. Google ha annunciato che dal 2017 tutta l’elettricità di cui ha bisogno per i suoi uffici e data center sparsi nel mondo sarà al 100% rinnovabile. Sono scelte motivate sia da un diretto vantaggio economico sia dalla necessità di rafforzare i brand con azioni in sintonia con i clienti: poter dire che il bilancio energetico di un iPhone è più leggero o che si possono mandare Gmail senza far salire la concentrazione di gas serra vuol dire migliorare il posizionamento delle rispettive aziende. Mentre gli Stati Uniti che escono dalle urne sembrano voler tornare alla prima metà del ventesimo secolo, gli Stati Uniti che si misurano con il mercato rilanciano scommettendo sul futuro. Ci attendono anni interessanti.


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M R

13|novembre-dicembre 2016 Sommario

MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE

Antonio Cianciullo

5

Un riciclo da evitare

Emanuele Bompan

8

Trump scalda il clima

Carola Marzullo

12

Le metamorfosi della materia

Antonio Pergolizzi

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Quando depredare l’ambiente

www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014

Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Francesco Ansaloni, Catia Bastioli, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Ilaria Nicoletta Brambilla, Rudi Bressa, Michael Brune, Adeline Farrelly, Sergio Ferraris, Alberto Frausin, Piero Gattoni, Gabriele Giuli, Marco Gisotti, Pasquale Granata, Giulia Gregori, Richard Heinberg, Grete Holmsgaard, Raffaele Liberali, Cesare Maffei, Alessandro Massone, Bill McKibben, Carola Marzullo, Letizia Palmisano, Federico Pedrocchi, Antonio Pergolizzi, Nicoletta Ravasio, Domenico Rinaldini, Alessandro Russo, Gino Schiona, Vitaliano Torno, Sally Uren

Think Tank

Direttore responsabile Antonio Cianciullo

diventa un business

Ringraziamenti Michael Delle Selve, Rocco Andrea Iascone, Federica Mastroianni, Giulia Rognoni, Stefano Stellini

Dossier Danimarca Mario Bonaccorso

23

Un successo trainato dall’innovazione

Caporedattore Maria Pia Terrosi

Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi Design & Art Direction Mauro Panzeri

Policy

Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini

Mario Bonaccorso

29

Il continente liquido

M. B.

32

Il Sud Italia

Impaginazione Michela Lazzaroni Traduzioni Franco Lombini, Meg Anna Mullan, Mario Tadiello

riparte dalla chimica verde

Francesco Ansaloni e Gabriele Giuli

36

Terre rare: le vitamine dell’industria moderna


7

Coordinamento generale Anna Re

Focus materiali permanenti Marco Gisotti

41

Non rinnovabile, ma eterno

Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it

Focus materiali permanenti Marco Gisotti

45

Il segreto dell’acciaio

Case Studies

Focus materiali permanenti Letizia Palmisano

Marco Moro

49

53

5.000 anni di trasparenza

L’economia circolare si mostra

Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright ©Edizioni Ambiente 2016 Tutti i diritti riservati

Rudi Bressa

56

Fai il pieno al depuratore!

Ilaria Nicoletta

60

Quel tesoro contenuto in un chicco

Rubriche

Brambilla

Pillole di innovazione Federico Pedrocchi

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Ferri da stereo e frullatori per dvd In copertina foto di Pavlofox, Pixabay / CC0 Public Domain


TRUMP di Emanuele Bompan

scalda il clima

Alla Casa Bianca arriva il presidente meno green di sempre. Abile comunicatore ma con una linea poco chiara. Che prima afferma di non credere ai cambiamenti climatici e di voler rilanciare il carbone. E poi si dice aperto a valutare ogni possibilità. Intanto il mondo ambientalista si prepara. Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008. Autore con Ilaria Brambilla del libro Che cos’è l’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016).

Durante un’intervista con il New York Times il 22 novembre, Donald Trump ha dichiarato: “il clima è un tema che tengo sotto osservazione. Sono aperto a ogni possibilità. Immagino ci sia una relazione tra il cambiamento del clima e l’uomo. Sono preoccupato, però, di quanto potrà costare alle nostre aziende”. Abilissimo a far marcia indietro sulle proprie stesse dichiarazioni

– in campagna elettorale si era detto scettico sui cambiamenti climatici, pronto a bocciare l’accordo di Parigi sul riscaldamento globale e rilanciare il carbone – è difficile dire quali posizioni prenderà realmente il neo presidente quando siederà alla Casa Bianca. Materia Rinnovabile ha raccolto le prime reazioni alle affermazioni di Trump da parte di stakeholder e ambientalisti.


Think Tank Alla recente Conferenza sul cima di Marrakech, il 22° appuntamento negoziale per implementare l’accordo di Parigi, Trump è stato il vero convitato di pietra, sconvolgendo l’andamento dei lavori e mettendo una seria ipoteca sul futuro del piano più ambizioso mai raggiunto per fermare il global warming. La sua minaccia di voler cancellare la firma degli Usa sull’accordo di Parigi aveva gettato delegati e ambientalisti nello sconforto. Ma la domanda è: Trump può realmente cancellarlo? “Il presidente – spiega David Victor dell’Università della California a Science – potrebbe chiedere di abbandonare l’UN Framework Convention on Climate Change”, la convenzione delle Nazioni Unite che regola l’implementazione dei negoziati e dell’accordo. Mentre per Michael Oppenheimer dell’Università di Princeton, “basterebbe che Trump non rispettasse gli impegni previsti e cessasse il supporto a livello globale sostenuto dall’amministrazione Obama”.

e Capi di Stato. Non è servito il mezzo passo indietro del 22 novembre fatto da Trump che ha aperto uno spiraglio possibilista. Ma se la reazione dura dell’Europa (seppur debole) era attesa, anche la Cina ha subito alzato la voce contro il presidente appena eletto, affermando di voler proseguire sulla strada della decarbonizzazione. “Se si guarda alla storia dei negoziati sui cambiamenti climatici, questi hanno avuto inizio con l’Intergovernmental Panel on Climate Change sostenuto proprio dai repubblicani durante le amministrazioni Reagan e Bush senior”, ha dichiarato Liu Zhenmin, viceministro agli esteri cinese. “Speriamo che l’America continui a giocare un ruolo di leader nella lotta ai cambiamenti climatici, dato che la popolazione è preoccupata che possa ripetersi quanto successo con il Protocollo di Kyoto, mai ratificato dagli Usa.”

Europa e Cina vs Usa

Ma se il mondo della diplomazia attende la data dell’insediamento per capire meglio la posizione della presidenza Trump, la galassia ambientalista americana non ha perso nemmeno un secondo per riorganizzarsi. E iniziare una lunga opposizione all’uomo dalla chioma arancione. A partire dall’appello rivolto dal comico John Oliver a sostenere economicamente il Natural Resources Defense Council (una delle principali organizzazioni green americane), per passare al boom di donazioni ricevute dall’Earth Justice (una no-profit di avvocati a favore dell’ambiente) per portare in aula ogni possibile contrattacco contro la nuova amministrazione. E, infine, arrivare ai 9.000 nuovi sostenitori iscrittisi nel giro di pochi giorni al Sierra Club, e alle grandi campagne globali in via di preparazione da parte di 350.org,

In Europa le affermazioni del neo presidente hanno subito raccolto forti critiche da parte di Ministri Natural Resources Defense Council, www.nrdc.org

Earth Justice, earthjustice.org

La mobilitazione ambientalista

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materiarinnovabile 13. 2016 il movimento online creato da Bill McKibben, pronto a combattere “la più importante di tutte le battaglie”.

che per anni ha lavorato facendo pressione sulla Casa Bianca e riuscendo a bloccare il megaprogetto dell’oleodotto Keystone.

“Per fermare l’accordo di Parigi – spiega lo stesso McKibben – basta che Trump non faccia nulla. Facendo in modo – al tempo stesso – che nelle agenzie federali le richieste dell’industria dei combustibili fossili vengano velocemente approvate”.

Secondo Richard Heinberg, fellow del Post Carbon Institute, esiste una duplice strategia per rallentare l’azione di Donald Trump. “Da un lato sostenere attraverso i Democratici al Congresso azioni di comunicazione su stampa e social e proteste. Credo che nei prossimi quattro anni ci sarà una grande mobilitazione, e non solo su questioni ambientali”. Ma quello che più interessa a Richard Heinberg è l’azione dal basso, intesa soprattutto come azione delle città e delle comunità. “L’opposizione dovrà organizzarsi necessariamente a livello locale”, spiega Richard Heinberg nel suo ufficio a Santa Rosa, California. “Molte città hanno dimostrato di saper diventare post-carbon velocemente, prima che a livello federale. Questo sforzo ora si deve accentuare. Le aree urbane sono in mano ai democratici e questo potrebbe aiutare. Inoltre i repubblicani

“Certo nei prossimi quattro anni non rimarremo in difesa, leccandoci le ferite”, ha dichiarato Micheal Brune, direttore esecutivo del Sierra Club. “Se Trump prova a fare marcia indietro sul clima, incorrerà nella protesta di una gran massa di cittadini che gli faranno guerra nei tribunali, al Congresso e nelle strade. Se il mondo della società civile e del business inizierà a sostenere il fatto che Trump non ascolta la voce della scienza, il neo presidente potrebbe arretrare sul alcune posizioni”, continua McKibben,

Sierra Club, www.sierraclub.org

350.org, https://350.org


Think Tank

Post Carbon Institute, www.postcarbon.org

Low Carbon Usa, www.lowcarbonusa.org Forum for the Future, www.forumforthefuture. org

sono tradizionalmente contrari alle ingerenze del livello federale su quello locale”. Il business green

È fondamentale che la comunità del mondo degli affari mostri il suo impegno per fermare il cambiamento climatico.

Ma si stanno muovendo anche le imprese. A fine novembre circa 400 aziende – alcune di queste incluse nella lista Fortune 500 – hanno inviato alla Casa Bianca una comunicazione chiedendo di non interrompere i finanziamenti per sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni. “Se la creazione di un’economia low carbon fallirà, metteremo a rischio la prosperità del nostro paese”, si legge sulla lettera, pubblicata su lowcarbonusa.org. Tra i firmatari colossi del calibro di DuPont, Gap Inc., General Mills, Hewlett Packard Enterprise, Hilton, HP Inc., Kellogg Company, Levi Strauss & Co., L’Oreal Usa, Nike, Mars Incorporated, Schneider Electric, Starbucks, VF Corporation, e Unilever. Non certo nanetti dell’economia globale. Che promettono investiranno milioni di dollari a Washington DC per fare lobbying. “È fondamentale che la comunità del mondo degli affari mostri il suo impegno per fermare il cambiamento climatico”, ha commentato Barry Parkin, responsabile sostenibilità di Mars

Incorporated. “È un momento cruciale nella storia politica ed economica e dobbiamo essere uniti per risolvere la sfida del secolo per il pianeta.” Economia circolare E considerato che Donald Trump rimane un businessman pragmatico, con una forte inclinazione protezionista, potrebbe comunque essere interessato a sostenere l’introduzione di modelli di economia circolare. Un tema da presentare come una strategia nuova ai suoi elettori, andando a sostenere le grandi multinazionali che stanno lavorando in questo segmento per rendere più resiliente e sostenibile il proprio business. Del resto, di economia circolare ha iniziato a discutere persino la US Chamber of Commerce, la potente Camera di commercio americana, tradizionalmente conservatrice e molto vicina alla nuova amministrazione repubblicana. “Parlare di cambiamento climatico e di scarsità delle risorse ha una maggiore connotazione politica in Usa che in Europa”, spiega Sally Uren, Ceo di Forum for the Future, un gruppo no profit di consulenza su temi ambientali. “Per imprese che non vogliono avventurarsi in questioni politiche potenzialmente perniciose, l’economia circolare è neutrale e dunque rassicurante. Inoltre è connotata con un chiaro modello di business: se riusi la materia, riduci il rifiuto, aumenti il valore d’uso, ti aiuterà a risparmiare. E nessuno può negarlo.” Dunque, anche con un’amministrazione poco amica del clima, il mondo del business americano potrebbe trovare spazio per lanciare modelli di economia circolare nelle grandi imprese e corporation, anche con il sostegno governativo, se troveranno la forza di fare lobbying in questa direzione mentre una parte continuerà la strenua lotta per difendere le regolamentazioni dell’Epa e l’accordo sul clima.

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Per gentile concessione di Berengo Studio e Lisson Gallery

Le metamorfosi della materia


Come oggi l’arte si confronta con il rifiuto e lo scarto. In equilibrio tra etica e poetica di Carola Marzullo


materiarinnovabile 13. 2016

2. Forever bicycles apre il percorso della mostra monografica “Ai Weiwei – Libero” dal 23 settembre 2016 al 22 gennaio 2017 a Palazzo Strozzi a Firenze. In Italia è stata presentata per la prima volta con una versione differente alla mostra “Genius Loci-Spirit of Place” a Venezia nel 2014.

Già l’avanguardia Dada – in particolare il Ready Made di Duchamp – con un approccio liberatorio e dissacrante nei confronti dell’arte istituzionale ridefinì il significato di oggetti e immagini negando il loro contesto e la loro funzione d’origine. Alla fine degli anni Cinquanta poi, artisti New Dada e Nouveaux Réalistes hanno rielaborato la nozione di Ready Made riappropriandosi di tutto ciò che la società offre. Non solo prodotti, dunque,

ma anche rifiuti. Con un “nuovo approccio percettivo del reale”1 questi artisti hanno sublimato il boom economico di quegli anni trasformandone le scorie in opera d’arte. È così che lo scarto e l’oggetto comune sono diventati vera e propria materia per l’arte. Oggi poi l’arte torna a confrontarsi anche con gli impatti prodotti dalle politiche economiche sull’ecosistema del pianeta e sulla nostra stessa sopravvivenza. Gli artisti si fanno portavoce di una denuncia che impone una riflessione critica, rielabora le contraddizioni della nostra società e il suo stile di vita, invitando a osservare il mondo con maggiore consapevolezza. Riciclo e creazione artistica hanno allora lo stesso scopo: dare nuova vita a materiali già usati. In alcuni casi l’operazione è meramente concettuale ed è racchiusa nel messaggio contenuto nell’opera. In altri si manifesta più concretamente e l’artista utilizza il riciclo come metodo di creazione. Per esempio, l’occasione di riflettere su inquinamento e stile di vita ci viene da Forever bicycles del cinese Ai Weiwei.2 Forever bicycles

Hopnn©

1. Manifesto Nouveau Réalisme, 27 ottobre 1960, Parigi.

Che cosa hanno in comune la ruota di una bicicletta, uno sgabello, una tanica e una lattina? Sono tutti oggetti d’uso comune che in alcuni casi hanno abbandonato la loro funzione quotidiana facendo incursione nel mondo dell’arte. Nell’arte contemporanea, i rifiuti, le materie di scarto e i vecchi oggetti, possono assurgere a nuova vita in un nuovo contesto. Ma ri-significazione significa riciclo? In realtà non sempre, visto che ci sono molti approcci diversi che vanno dalla riappropriazione critica di oggetti e materiali, al riciclo reso esplicito come denuncia sulle questioni ambientali.

A sinistra: Hopnn, Senza titolo – Triciclo, 2013, Tour 13, Parigi In alto: Hopnn, Spintime, 2015, Roma A destra: Hopnn, Auto, 2016, trapanese

Pagina precedente: Ai Weiwei, Forever, 2014, Palazzo CavalliFranchetti, Venezia

Hopnn©

Ricercatrice in arte contemporanea Carola Marzullo porta avanti i suoi studi tra Parigi e Milano. Laureata nel 2015 all’Università Sorbona in storia dell’arte, ha collaborato con diverse istituzioni del campo tra cui il Centre Pompidou.

Hopnn©

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A destra: Henrique Oliveira, Desnaturaleza, 2011, Parigi, legno, pigmenti, cemento

Henrique Oliveira, Momento fecundo, 2014, Centre d’art e de nature de Chaumont-sur-Loire

si compone di migliaia di biciclette, in un tributo alla mobilità delle masse. Ai Weiwei reitera la Ruota di bicicletta di Duchamp evidenziando l’importanza di ampliare il nostro punto di vista sulla realtà: ci invita a osservare come una bicicletta possa diventare un oggetto che, paralizzato nell’incastro con gli altri, perde la propria integrità e funzione, in cui la sensazione di movimento è restituita solo dal gioco ottico delle sovrapposizioni. Spesso le opere di Ai Weiwei inducono a riflettere sul valore del singolo individuo collocato nella complessità del sistema sociale; in Forever bicycles questa riflessione si salda con il tema dell’impatto ecologico, delle abitudini quotidiane e dei ritmi della città contemporanea. Queste stesse questioni sono evocate anzi rivendicate, seppur con un diverso linguaggio, nei lavori di Yuri Romagnoli, alias Hopnn. Per questo street artist la rivoluzione ecologista prende forma e colore nello spazio urbano: l’intervento di Hopnn su un muro o su una

Per gentile concessione dell’artista e della Galerie GP & N Vallois, Paris / Foto: Aurélien Mole

Per gentile concessione dell’artista e della Galerie GP & N Vallois, Paris Foto: Aurélien Mole ©Eric Sander

In alto: Henrique Oliveira, Baitogogo, 2013, Palais Tokio, Parigi, compensato e rami

carcassa di auto bruciata racconta storie che vogliono ispirare l’uso della bicicletta invece dell’automobile. La bici diventa simbolo di un nuovo modo di vivere la città, esprime la scelta personale di non inquinare (espressa nello slogan +B.C. = -CO2) e di anteporre il benessere collettivo alla comodità individuale. La stessa estetica della bicicletta entra in contrasto con l’alienazione industriale del traffico urbano, in battaglie frontali in cui sono le auto ad accartocciarsi, mentre onde di ciclisti prendono il volo. Con il tema dei rifiuti e del riciclo Hopnn si è confrontato nel 2013 nella Tour 133 di Parigi, quando nell’appartamento 931 ha utilizzato l’ambiente in disuso. Trasformando in un gigantesco triciclo il parquet smantellato del pavimento. Una scultura inattesa ed effimera le cui forme non nascondono il materiale di recupero di cui è costituita. Altro esempio di come l’arte grazie al riciclo riesca ad attingere alla realtà è costituito dall’opera di Hazoumé, artista beninese.

Sito di Hopnn, hopnn.com

3. Tour Paris 13 è il progetto realizzato a Parigi nel 2013 dalla Galleria Itinerrance che ha affidato a più di cento street artists gli spazi di una palazzina destinata alla demolizione. La manifestazione è stata accessibile dal primo al 31 ottobre 2013. 4. “Maschere-bidone” è il nome che Romuald Hazoumé attribuisce alle sue opere.


A destra: Romuald Hazoumé, Miss Havana, 1999, tanica di plastica, capelli sintetici, rame Romuald Hazoumé, Ati, 1994, tanica di plastica, capelli sintetici, nylon, gomma In basso: Romuald Hazoumé, Cargo, 2006, Vespa a tre ruote, taniche in plastica, metallo

Per gentile concessione di CAAC – The Pigozzi Collection ©Romuald Hazoumé

Pagina a destra: Romuald Hazoumé, Noix de Coco / Coconut, 1997, tanica di plastica, capelli sintetici, metallo, nylon

Per gentile concessione di CAAC – The Pigozzi Collection ©Romuald Hazoumé

materiarinnovabile 13. 2016

Per gentile concessione di CAAC – The Pigozzi Collection ©Romuald Hazoumé

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Con le sue masques-bidons4 realizzate con taniche di plastica, l’artista racconta un mondo in cui i ritratti umani diventano il simulacro del traffico di petrolio tra Benin e Nigeria, emblema della corruzione e della disparità economico-politica tra Africa e Occidente. Un conflitto che si esprime nella galleria di ritratti che l’artista realizza da oltre vent’anni. Ogni maschera – nonostante la matrice standard imposta dalle taniche – mostra un carattere, un’individualità e un’unicità propria espressa dai colori, dalle incisioni, dalle scritte sulla sua pelle. Basta osservare le sculture Ati e Miss Havana per rendersi conto di quanto, a partire dallo stesso materiale, l’artista sia capace di manipolare lo scarto, creando personaggi e al tempo stesso raccontando la cultura, la tradizione e l’attualità dell’Africa contemporanea. Per focalizzare l’attenzione su come l’uomo interviene sulla natura, in un (ri)ciclo di morte e rinascita l’artista brasiliano Henrique Oliveira usa

invece il legno. Sinuosi e mostruosi rami o interi tronchi d’albero scaturiscono nel caso di Baitogogo dalle pareti bianche del glaciale ambiente White cube del Palais de Tokio di Parigi. O dalla calda atmosfera dell’ex fienile del Castello di Chaumontsur-Loire con Momento Fecundo. In realtà questi contorti alberi sono formati da pannelli e assi di legno ritrovati ai margini dei cantieri e delle favelas di Rio che l’artista recupera e lavora in modo che la materia si riappropri della forma che la natura le ha destinato e il legno torni ad abitare la forma albero. Si tratta di manipolazioni che mettono insieme l’arte del riciclare e l’atto del restituire al mondo attraverso gli scarti stessi l’evoluzione delle vite e delle cose che lo popolano. Il ciclo vissuto dal legno nelle sue tre fasi – natura, oggetto, collettività5 – riflette con critica e poesia ciò che è avvenuto e continua a succedere nella nostra società. Lasciandoci la speranza che l’arte possa dar vita a un pensiero collettivo consapevole delle proprie azioni nel mondo.

5. La “natura” corrisponde allo stato originale di nascita quando il legno è albero. Lavorato dall’uomo il legno è la materia di cui è costituito un “oggetto” che ha una funzione in rapporto a un fine preciso, spesso questo oggetto risponde a un solo bisogno o al bisogno di un solo individuo. La terza fase “collettività” equivale al momento ultimo in cui il legno lavorato da Oliveira diventa opera d’arte fruibile al grande pubblico.


Per gentile concessione di CAAC – The Pigozzi Collection ©Romuald Hazoumé

Think Tank 17


materiarinnovabile 13. 2016

Quando depredare

L’AMBIENTE

Illustrazione di Gan Khoon Lay – the Noun Project

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diventa un

BUSINESS di Antonio Pergolizzi

L’80% del taglio delle foreste amazzoniche avviene senza permessi. Come illegale è il commercio di pelli di rettili che genera un fatturato di 8 miliardi di dollari ma mette a rischio la sopravvivenza di 1/5 delle specie. In molti paesi saccheggiare l’ambiente è considerata normale prassi economica. Mentre difenderlo è costato la vita a 908 attivisti, uccisi dal 2002 al 2013. Antonio Pergolizzi dottore di ricerca (PhD), giornalista ed esperto di tematiche ambientali, dal 2006 coordina la scrittura del Rapporto Ecomafia di Legambiente (edizione 2016, www.edizioniambiente. it/libri/1126/ ecomafia-2016/).

Il nemico giurato della circular economy è la green corruption: la sua esatta antitesi, la sua tomba. Un nemico liquido che si nutre e s’ingrassa di inefficienze burocratiche e pessime governance nella gestione delle risorse ambientali, di malaffare, di mancanza di etica e di responsabilità collettiva. Nemico ben peggiore delle lobby ancora aggrappate alle fonti fossili. Ovunque nel mondo ma principalmente nei paesi con apparati istituzionali ed economici fragili o in via di transizione,

l’uso della corruzione per depredare beni ambientali è sempre stata normale strategia di politica economica. Rimedio sbrigativo per accumulare denaro senza troppi scrupoli. Soprattutto nei paesi africani, così come in quelli asiatici e del Sud America, la corruzione è servita per rapinare biodiversità a beneficio dei ricchi mercati occidentali: disboscare, importare scorie tossiche dai paesi industrializzati in cambio di armi, come stava tentando di dimostrare la giornalista Ilaria Alpi, assassinata in Somalia il 20 marzo 1994.


Policy

2. L’Appendice II include specie il cui commercio è regolamentato per evitare uno sfruttamento incompatibile con la loro sopravvivenza. 3. Silvae, Rivista tecnicoscientifica del Corpo forestale dello Stato, novembre 2013.

4. Greenpeace, The Amazon’s Silent Crisis: Night Terrors, ottobre 2014 www.greenpeace.org.uk/ sites/files/gpuk/gp_amz_ silent_crimefile_final_dps. pdf 5. Vedi conclusioni Progetto TREES (Timber Regulation Enforcement to protect European Wood Sector from criminal infiltration) www.trees-project.eu/ downloads/TREES%20 Project%20Final%20 Report/TREES_Final_ LEAs_CD.pdf

Uno dei traffici più spregevoli, e al tempo stesso remunerativi grazie alla corruzione e ai vari sistemi criminali, è diventato il commercio illegale di pelli di rettili e dei loro derivati. Pari secondo l’Onu a circa 8 miliardi di dollari all’anno, è riuscito a confondersi con i flussi regolari, portando finora a rischio di estinzione un quinto delle specie conosciute. Rispetto alla mole impressionante dei commerci, i controlli rischiano di limitarsi solo alle carte esibite, che troppe volte raccontano un mondo completamente diverso da quello reale. A livello internazionale – solo nel periodo 2008/2012 – il numero di esemplari vivi protetti movimentati è stato di circa 5 milioni, mentre sono state esportate 11,2 milioni di pelli, per un totale di 372 specie interessate (Cfs, 2015),1 tutte incluse nell’Appendice II della Cites.2 È soprattutto il mercato del lusso legato all’industria calzaturiera e dell’abbigliamento (pelli di coccodrilli e affini, pitoni e affini) ad alimentare la domanda per il mercato nero. Il compito della corruzione è di creare margini di guadagni tra i passaggi delle filiere internazionali, facendo lievitare il valore monetario dei singoli animali, dai 30 euro pagati al raccoglitore che rappresenta il primo anello della filiera fino a più di 50.000 euro per un solo capo di alta moda (Progetto Civic, 2016). Come fanno notare fonti investigative Cites, la corruzione è determinante per aggirare i controlli e aggiustare le certificazioni richieste, legittimando network criminali attivi soprattutto nei paesi di origine dei rettili in Asia, Africa e Sud America: dalle catture ai trattamenti, passando per i depositi di pelli, prima che giungano presso i laboratori artigianali europei, italiani e francesi soprattutto. L’enorme divario economico tra i paesi di origine delle pelli e quelli di vendita finale fa il resto: una bustarella intascata da un operatore addetto ai controlli nella prima fase della filiera può valere anche un anno di stipendio. Altro settore cruciale della green corruption è la filiera del legno, soprattutto pregiato e protetto dalla Convenzione Cites. Secondo dati del Parlamento europeo (2007), il 35% del legname importato nell’Unione europea nel 2006 proveniva da risorse illegali, prevalentemente da Russia, Indonesia e Cina. Non solo: quasi l’80% del taglio delle foreste in Amazzonia è fuori legge o avviene senza permessi di taglio.3 Tra agosto e settembre 2014 Greenpeace ha usato nella foresta amazzonica brasiliana la tecnologia Gps per tracciare il mercato criminale legato al taglio abusivo e successiva commercializzazione del legname, dimostrando come l’industria del legno

nello Stato del Parà sia in parte complice di questo mercato arrivando a fornire la documentazione utile per viaggiare all’estero.4 Il taglio illegale è dunque il primo passo, segue il transito dalle segherie (spesso vere lavatrici di legnami tagliati illegalmente), il trasporto e la commercializzazione (diretta o tramite intermediari). Di solito i gruppi criminali si avvalgono di élite corrotte, pubblici funzionari e personale dei corpi di polizia messi regolarmente a busta paga, tessere indispensabili per reggere i traffici transfrontalieri. In Europa, l’area dei Balcani è tra le più esposte ai traffici illeciti di legname tramite apparati corruttivi.5 È da qui, dalla Balkan route, che arriva nel resto d’Europa buona parte del legno pregiato per i più disparati utilizzi. Come l’acero usato in Italia per costruire i migliori violini al mondo.

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1. “Il commercio internazionale di anfibi e rettili in pericolo di estinzione”, di L. Brugnola, Cfs – Servizio Cites, 2015.

Proprio a causa di questa mattanza corruttiva, la Convenzione Cites, firmata a Washington nel 1973 e a cui aderiscono 182 paesi, ha inserito nelle liste di specie a rischio di estinzione più di 13.000 specie di mammiferi e uccelli, migliaia di rettili, anfibi e pesci, milioni di specie di invertebrati e circa 250.000 di piante.

©CFs – Servizio Cites

Convenzione Cites – Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora, www.cites.org/eng

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6. Global Witness, Deadly Environment. The dramatic rise in killing of environmental and land defenders 1.1.200231.12.2013, Londra 2014. 7. Fonte dati Istat, Ministero della Giustizia e Legambiente. 8. Se nel primo caso (reati ambientali e condanne per corruzione) il coefficiente di Pearson è pari a 0,4471, nel secondo caso (reati ambientali e Pil) è di -0,5822. Le stesse relazioni di linearità si ripropongono se si considerano le denunce (coefficiente 0,4923) e gli arresti in materia ambientale (coefficiente 0,4854) con le condanne per corruzione.

La facilità nell’aggirare i controlli, la difficoltà oggettiva nel certificare le procedure autorizzatorie dei movimenti e nell’applicare concretamente meccanismi di due diligence e di compliance, e soprattutto i notevoli benefici attesi, sono condizioni oggettive che spianano la strada alla green corruption. La gravità e la diffusione della corruzione nel saccheggio ambientale è testimoniato anche dal numero di persone uccise a causa del loro impegno a tutela delle risorse naturali. Dal 2002 al 2013 se ne sono contate ufficialmente 908, di 35 diverse nazioni, con una media negli ultimi quattro anni di due attivisti uccisi a settimana.6 Ma altissima è l’impunità per questi reati: solo 10 criminali sono stati catturati e puniti. Le aree geografiche più colpite risultano, dai casi noti, l’America Latina e il Sudest dell’Asia. In molti paesi, Ong, movimenti politici e semplici cittadini hanno iniziato a mobilitarsi per tentare di arginare la deriva corruttiva, ovviamente laddove è possibile manifestare. Uno dei casi più recenti riguarda il Marocco, dove, a causa dell’arrivo di 2.500 tonnellate di rifiuti speciali dall’Italia, l’associazione nazionale per la lotta alla corruzione di Rabat ha scatenato una protesta popolare impressionante. Lo stesso sta succedendo in Tunisia e a macchia di leopardo nell’Est Europa,

Oltre all’evidenza investigativa, il forte legame tra reati ambientali e corruzione è dimostrato anche facendo ricorso alle scienze sociali. Grazie all’analisi quantitativa curata dall’economista Filippo Reganati dell’Università La Sapienza, utilizzando l’indice di correlazione di Pearson (tarato su scala regionale e per l’arco temporale 2007-2011)7 tra il numero di reati ambientali – comprese le denunce e gli arresti – con le condanne per corruzione (artt. 318-322 codice penale) e con il Pil pro capite, ne viene fuori una relazione positiva e statisticamente significativa tra reati ambientali e condanne per corruzione, e una speculare correlazione negativa e statisticamente significativa con il Pil pro capite regionale.8 Ciò significa che ecoreati e corruzione vanno di pari passo e si articolano sul territorio seguendo una loro intima affinità. L’indice di Pearson ci dice anche che più alto è il Pil pro capite, meno alto è il tasso di reati ambientali accertati. Sotto questa luce, i reati ambientali appaiono particolarmente effervescenti nelle regioni con le peggiori performance economiche, dove l’economia langue in schemi vecchi e stanchi, innestando una spirale perversa e con risultati socio-ambientali disastrosi. Al medesimo risultato è arrivato Alberto Vannucci dell’Università di Pisa, seppur partendo da un indicatore diverso, più qualitativo: il Quality of Government dell’Università di Göteborg, elaborato sulla base di un sondaggio con domande relative sia alle percezioni sia alle esperienze personali di tangenti. Anche in questo caso, utilizzando i dati del Rapporto Ecomafia 2013, nelle regioni con il tasso più alto di infrazioni, arresti e denunce in materia ambientale si registra il numero più alto di condanne per corruzione. Risultati che confermano come la buona governance in campo ambientale, la qualità del capitale sociale e l’adozione di modelli economici sostenibili e fortemente legati al territorio, sono lo strumento migliore per la tutela dei beni comuni e per sbarrare la strada al malaffare. Oltre a difendere gli ecosistemi, dunque, la circular economy porta nel suo Dna i cromosomi per guardare avanti nella direzione giusta, facendo a meno della green corruption.

©Corpo forestale dello Stato

©CFs – Servizio Cites

Il legame tra Pil e reati ambientali: il caso Italia


Policy

I costi economici e ambientali sono enormi. Solo in Italia, negli anni 2001-2011 si sarebbero persi circa 10 miliardi di ricchezza per colpa della corruzione in campo ambientale (dati Legambiente, Libera e Avviso Pubblico, 2012). Sempre nel nostro paese, Legambiente negli ultimi sei anni ha censito almeno 302 inchieste di grande rilievo nazionale, concluse con 2.666 persone arrestate e 2.776 denunciate, coinvolgendo 68 procure nazionali (Ecomafia 2016, Edizioni Ambiente). La green corruption è, in sostanza, lo strumento usato per addomesticare e aggirare leggi e regolamenti, trovando l’habitat ideale soprattutto nei meandri dell’economia lineare, esasperando il classico meccanismo di privatizzazione

Inoltre, la moneta corruttiva è particolarmente efficace tra le pieghe della normativa ambientale incardinata sul paradigma del “Comanda e controlla”, che stabilisce standard ambientali minimi (cioè tassi di inquinamento accettati) che tutti debbono rispettare – soprattutto chi fa impresa – demandandone la verifica in concreto a un apparato tecnico-burocratico articolato su vari livelli geografici, dove nei margini di discrezionalità soggettivi e nelle inefficienze procedurali si generano spazi enormi per i mercati illeciti e i sistemi clientelari. E più le norme ambientali si rinforzano più si alza il prezzo della corruzione. Non a caso, esiste ampia letteratura economica che individua tra le condizioni che favorirebbero il ricorso alla corruzione l’elevata pressione tributaria, l’eccessiva regolamentazione dei mercati legali e della regolamentazione burocratica in genere, l’ingente spesa pubblica (Centorrino, 2010).

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Con la globalizzazione s’è allargato anche il mercato della green corruption. Come spiega Marco Arnone,9 più i mercati si allargano e si intrecciano a livello globale più monta la corruzione, sfruttando l’utilizzo di schemi societari tra differenti paesi che di fatto rallentano l’esercizio delle giurisdizione penali. Per Arnone,10 la globalizzazione dei mercati ha anche evidenziato che alcuni paesi sono più propensi di altri a “esportare” corruzione. Alcune multinazionali sono infatti più inclini di altre a corrompere i pubblici ufficiali del paese dove operano, “esportando”, quindi, corruzione. Esiste, infatti, una relazione positiva tra livello di corruzione interna e livello di corruzione esportata dai singoli paesi: dove il grado di corruzione è alto, gli operatori tendono a esportare questa tipologia di cultura di impresa nel resto del mondo.

dei profitti e di socializzazione dei costi ambientali e sociali. Si regge sulla forza del dogma dell’homo oeconomicus cantato a squarciagola dalle teorie neoclassiche, l’attore estremamente utilitarista, razionale e amorale che guida l’azione economica verso la massimizzazione dei propri fini, senza curarsi dei disastri lasciati dietro di sé (Karl Polanyi, 1944). La corruzione è per definizione un crimine razionale (Gary Becker, 1968), appunto. Se l’azione economica si sgancia da considerazioni sociali ed etiche e insegue solo l’utilità economica, è facile che le matrici ambientali e i beni comuni siano i primi a cedere sotto i colpi delle ciniche e razionali regole del mercato e dell’intermediazione criminale. La Tragedia dei beni comuni, ammoniva Garret Hardin negli anni Sessanta.

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e ancora in Sud Africa, Nigeria, Brasile, Colombia, El Salvador, Libano, Afghanistan.

9. Marco Arnone e Leonardo S. Borlini, Corruption – Economic Analysis and International Law, 2014, Edward Elgar. 10. “Quanto costa la corruzione”, di Marco Arnone, lavoce.info, 12 dicembre 2005.

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Dossier

DANIMARCA

Forte sostegno alla formazione, cospicui investimenti nella ricerca, capacità di trasferire l’innovazione tecnologica su scala industriale, creazione di partnership pubblico private. Sono questi gli elementi su cui si basa il modello danese per lo sviluppo della bioeconomia.


Policy

Un successo

TRAINATO di Mario Bonaccorso

dall’innovazione

Con oltre il 3% del Pil investito in ricerca e sviluppo, all’8° posto nel mondo tra i paesi che creano innovazione verde, la Danimarca è già capofila in molte tecnologie di punta nella bioeconomia. Ecco i numerosi punti di forza, ma anche gli ostacoli da superare. Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

“Plan for growth for water, bio and environmental solutions” (marzo 2013), tinyurl.com/hg34k83

Può forse bastare il solo nome di Novozymes per descrivere compiutamente la bioeconomia danese. Il colosso biotech di Bagsværd, 12 chilometri a nord-ovest di Copenaghen, detiene il 48% del mercato mondiale degli enzimi industriali che ha chiuso il 2015 con un valore superiore ai 3,3 miliardi di euro. Ma la Danimarca non vanta solo una posizione di leadership nel campo delle biotecnologie industriali. Il paese scandinavo ha una lunga tradizione di sostegno politico e di legislazione favorevole nei riguardi delle tecnologie energetiche sostenibili, come l’eolico e l’efficienza energetica. Questo sostegno gli ha garantito una posizione di capofila in molte di queste tecnologie verdi e ha condotto a vari successi commerciali. È il caso della Dong Energy, che oggi è uno dei principali investitori in impianti eolici off-shore in Europa settentrionale; o della Vestas Wind, il gigante delle turbine eoliche con installazioni in oltre 70 paesi. Soprattutto, però, a giocare un ruolo fondamentale è la visione di un governo che punta a liberare completamente dalle fonti fossili il sistema energetico e dei trasporti entro il 2050. La leadership nelle biotecnologie industriali Se le biotecnologie industriali sono il motore della bioeconomia, la Danimarca è il vano in cui alloggia questo motore. È davvero difficile trovare una bioraffineria nel mondo in cui non si impieghino gli enzimi di Novozymes:

Mossi e Ghisolfi a Crescentino (Italia), Raizen (JV tra Shell e Cosan) a Piracicaba (Brasile), St1 Biofuels a Kajaani, (Finlandia) sono solo alcuni esempi. Un’iniziativa al 100% danese è quella in corso a Northwich, nel nord-ovest dell’Inghilterra, dove è in fase di costruzione il primo impianto al mondo in grado di trattare i rifiuti domestici indifferenziati mediante enzimi per produrre bioenergie. Novozymes, che nel 2009 è stata inserita dalla rivista Forbes nella lista delle 100 imprese che sarebbero sopravvissute cent’anni, fornirà gli enzimi, ma la biotecnologia REnescience su cui si fonda l’impianto è stata sviluppata dalla Dong Energy (al pari delle biotecnologie Inbicon e Pyroneer), testata dal 2009 in un impianto dimostrativo a Copenaghen. L’impianto REnescience può gestire 15 tonnellate di rifiuti l’ora o 120.000 tonnellate l’anno. Ciò corrisponde ai rifiuti prodotti da circa 110.000 case del Regno Unito. Il biogas prodotto a Northwich sarà utilizzato per generare circa 5 MW di energia elettrica, sufficienti ad alimentare circa 9.500 abitazioni. La leadership danese nel campo delle biotecnologie industriali nasce da una vocazione storica a sostenere la formazione, la ricerca e l’innovazione. Il paese scandinavo investe oltre il 3% del proprio prodotto interno lordo in ricerca e sviluppo, secondo i dati forniti dalla Commissione europea, e si trova all’ottavo posto del Global Innovation Index 2016 stilato dal Wwf e dal Cleantech Group per analizzare i paesi che creano maggiore innovazione verde. Proprio sulla leadership tecnologica si basa anche il piano del governo nazionale per

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materiarinnovabile 13. 2016

“La Danimarca – si legge nel documento – vanta una posizione forte nel mercato internazionale per l’acqua, le soluzioni bio e ambientali. Produce tecnologie e soluzioni in molti modi diversi per aumentare l’uso efficiente dell’acqua e delle risorse, migliorare l’ambiente e ridurre l’inquinamento atmosferico. Anche le biotecnologie industriali rappresentano un punto di forza danese”.

L’iconicità materiale del design danese Famoso nel mondo per qualità, funzionalità ed eleganza, il design danese è figlio in realtà dei suoi materiali, plasmati con straordinaria maestria. Soprattutto il legno, trattato con destrezza da esperti falegnami. Le sedute sono spesso senza chiodi ma a solo incastro; compatte e durevoli, non sono certo oggetti usa-e-getta. Il design danese è “senza tempo”, è iconico e oltre la moda, e ha introdotto negli oggetti industriali un approccio sensibile ed ecologico, metafora di chi lo ha pensato e prodotto.

Børge Mogensen, Spanish Chair, 1959

lo sviluppo della bioeconomia. Non una vera e propria strategia nazionale, ma qualcosa che gli si avvicina come il “Piano per la crescita per l’acqua, le soluzioni bio e ambientali”, presentato nel marzo del 2013.

Un Panel di esperti della bioeconomia

“In Danimarca – si legge in un documento del Panel del settembre 2014 – siamo in una buona posizione per sviluppare la bioeconomia: abbiamo le materie prime (la biomassa) dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalla pesca; abbiamo un forte settore industriale biobased e la capacità di ricerca e innovazione necessaria”. Non mancano però punti di debolezza, ostacoli che vanno superati per garantire uno sviluppo adeguato alla bioeconomia. Innanzitutto – lamenta il Panel – non esistono misure che favoriscano la crescita del mercato. “Attualmente i prodotti provenienti dalle fonti

rinnovabili non possono competere con prodotti equivalenti realizzati utilizzando il petrolio greggio o altro materiale fossile. Il prezzo dei combustibili fossili non tiene conto del reale carico sull’ambiente e sul clima, mentre molte catene del valore della bioeconomia rimangono in fase di sviluppo”. Mancano quindi obiettivi politici chiari e stabili, in grado di favorire gli investimenti nazionali ed esteri nel settore: per esempio un sistema di appalti pubblici verdi o schemi di certificazione per la biomassa solida con criteri di sostenibilità trasparenti e operativi. Infine, sottolinea il Panel, esiste una oggettiva difficoltà a passare dalla ricerca agli impianti pilota e dimostrativi, fino alla scala industriale e commerciale. “La tecnologia deve essere pienamente in grado di competere con i prodotti a base fossile fin dal primo giorno, dal momento che non ci sono mercati di nicchia provvisori in cui l’investimento per lo sviluppo può essere recuperato. Di conseguenza, la soglia per il passaggio alla scala commerciale è tecnicamente elevata, mentre la possibilità di attirare il necessario capitale privato di avviamento è limitato dalla successiva difficoltà di recuperare i costi di sviluppo attraverso il mercato”. Le alleanze per la bioeconomia Per superare gli ostacoli al pieno sviluppo della bioeconomia sono sorte in Danimarca diverse alleanze pubblico-private, in alcuni casi promosse proprio dal governo. Una di queste è la Biorefining Alliance, un’organizzazione che lavora per promuovere la bioeconomia nel paese, fondata nel 2011 da Dong Energy, Novozymes, Haldor Topsoe (una società danese specializzata nella

Arne Jacobsen, Ant, 1952

Per sfruttare questi punti di forza e convertire il paese in un hub di crescita nel campo della conoscenza, della tecnologia e della produzione – e promuovere effettivamente lo sviluppo di una bioeconomia sostenibile danese – il governo ha istituito nel 2013 il Panel nazionale della bioeconomia, che raggruppa 27 esperti in rappresentanza di imprese dell’intera filiera produttiva, mondo della ricerca, organizzazioni non governative e autorità varie. Il compito principale di questo Panel, che funziona un po’ come il Consiglio tedesco della bioeconomia, è di richiamare l’attenzione sulla necessità di misure specifiche a favore di una bioeconomia sostenibile, dove le risorse e i prodotti siano usati a beneficio dell’ambiente, del clima, della crescita e dell’occupazione. Uno dei temi principali sul tavolo del Panel, che si riunisce tre volte l’anno, è relativo alla disponibilità sostenibile ed economica di biomassa, considerato un elemento vitale per lo sviluppo della bioeconomia danese. Al pari della promozione della ricerca e della creazione di un mercato per i prodotti di origine biologica. La biomassa è centrale nelle riflessioni degli stakeholder danesi della bioeconomia, non solo per il sistema agricolo nazionale o per il settore della trasformazione e della bioraffinazione, ma anche per l’allevamento di bestiame, che può beneficiare dell’accesso a nuovi e migliori tipi di mangimi proteici, affrancandosi definitivamente dall’importazione costosa di soia Ogm-free.

Hans J. Wegner, chaise longue, c.1950

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The National Bioeconomy Panel, Denmark as growth hub for a sustainable bioeconomy (2014), tinyurl.com/zrdqjww


Verner Panton, Panton Chair, 1960

Poul Kjærholm, PKO chair, 1952

Policy catalisi) e dal Consiglio danese per l’agricoltura e l’alimentazione, che rappresenta l’industria agroalimentare della Danimarca, le associazioni degli agricoltori, delle imprese e del commercio. “Il nostro obiettivo – afferma la direttrice Anne Grete Holmsgaard – è di rafforzare la posizione della Danimarca e creare occupazione nella catena del valore della produzione di biomassa sostenibile per i prodotti biologici avanzati”. Una vera e propria partnership pubblico-privata è State of Green, fondata dal governo danese, dalla Confindustria, dall’Associazione energetica, dal Consiglio danese per l’agricoltura e l’alimentazione e dall’Associazione dell’industria eolica. Patrocinata dal principe Frederik in persona, State of Green raccoglie tutti gli attori leader della bioeconomia danese, dell’economia circolare e dell’uso efficiente delle risorse. “Attraverso State of Green – racconta Finn Mortensen, direttore esecutivo – offriamo ai decisori politici, alla comunità commerciale internazionale e ai media un’occasione per conoscere e trarre vantaggio dalle tecnologie e dalle lezioni imparate dalla comunità verde danese”.

La bicicletta è bioeconomica La bioeconomia non è solo una rivoluzione economica. È anche – forse soprattutto – una rivoluzione culturale. In questo senso la forte vocazione verso la bioeconomia in Danimarca si esprime anche attraverso il vasto impiego che fanno i danesi della bicicletta come mezzo di trasporto. Sono 12.000 i chilometri di piste ciclabili nel paese scandinavo. Nel 2009 il Parlamento danese ha stanziato 134 milioni di euro per il National Cycle Fund, con cui sono stati finanziati 388 progetti. Nel giugno del 2014, il governo ha messo a disposizione altri 24 milioni per un progetto di superstrade ciclabili e per potenziare i parcheggi delle biciclette. Gli iscritti alla Federazione danese dei ciclisti sono 16.000. Non solo: l’uso della bicicletta fa bene anche al commercio. Secondo uno studio della società di consulenza Cowi, membro dell’Associazione Cycling Embassy of Denmark, i ciclisti e i pedoni contribuiscono al 50% degli incassi dei commercianti del centro delle grandi città e al 25% degli incassi nelle città medio-piccole. I ciclisti, infatti, visitano un maggior numero di negozi rispetto agli automobilisti. Viene così smentita, ancora una volta, l’idea che chiudere il centro delle città alle auto penalizzi il commercio. L’indagine ha invece dimostrato che ciclisti e pedoni influenzano positivamente la vita commerciale spendendo denaro in ristoranti e negozi.

State of Green, stateofgreen.com/en

Esiste una oggettiva difficoltà a passare dalla ricerca agli impianti pilota e dimostrativi, fino alla scala industriale e commerciale.

State of Green, quindi, è un gruppo di pressione ma anche una vetrina per la bioeconomia made in Denmark. Tra i suoi membri si trova anche la Arla Foods, la maggiore industria casearia scandinava e la settima al mondo. La cooperativa agricola che ha sede ad Aahrus ha fatto della sostenibilità ambientale un punto fondante della propria strategia di crescita. La strategia 2020, lanciata nel 2011, copre l’intera catena del valore (“dalla mucca al consumatore”) e si pone l’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 del 30% per chilogrammo di latte prodotto in fattoria rispetto al 1990, e del 25% per i processi, il trasporto e il packaging rispetto ai livelli del 2005. Ciò grazie a un impiego di energia rinnovabile per il 50%, a una riduzione dello scarto alimentare nella stessa percentuale, puntando ad arrivare allo 0% di scarto negli stabilimenti e al 100% di packaging riciclabile. “Oggi – sottolinea Anna Flysjö, Life Cycle Sustainability Manager – il 18% del totale dell’energia impiegata da Arla proviene da fonti rinnovabili e l’emissione di gas ad effetto serra è stata ridotta del 14% rispetto al 2005. Tutto ciò nonostante ci sia stato un incremento nella produzione: il che significa che per unità prodotta la riduzione è persino maggiore”. Anche l’industria delle bevande e dei giocattoli si tinge di verde L’impronta verde della Danimarca è testimoniata anche da due colossi industriali nei rispettivi campi: la Carlsberg e il Gruppo Lego. Carlsberg, quinto gruppo mondiale nella produzione di birra, presente in 50 paesi con 31.000 addetti, ha annunciato nel gennaio 2015 lo sviluppo della prima bottiglia in fibra di legno per bevande, completamente biodegradabile (Green Fiber Bottle). L’annuncio è arrivato nel corso del World Economic Forum di Davos, dove la multinazionale danese era stata chiamata a partecipare a un dibattito sugli sprechi alimentari. Si tratta di un progetto triennale tutto danese: oltre a Carlsberg, infatti, sono coinvolte la Technical University of Denmark, la ecoXpac, una società di packaging che fornisce la propria tecnologia “thermoformed fibre”, e un fondo danese (Innovation Fund Denmark) che finanzia il progetto, in sinergia con il programma europeo Horizon2020. Tutti i materiali utilizzati nella bottiglia, anche il tappo, saranno sviluppati con materiali biobased e biodegradabili, in primo luogo fibra di legno da fonti sostenibili. “Se il progetto arriva a compimento, come riteniamo, segnerà un cambiamento di rotta nelle nostre opzioni per il confezionamento di liquidi e sarà un altro passo importante nel nostro cammino verso un’economia circolare, con zero rifiuti”, ha dichiarato a Davos Andraea Dawson-Shepherd, in quel momento Senior Vice President Corporate Affairs. Il progetto Green Fiber Bottle si inserisce nella strategia di Carslberg di forte spinta all’economia circolare, promossa anche attraverso la Carlsberg Circular Community, una collaborazione tra

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materiarinnovabile 13. 2016 la multinazionale danese e altri partner selezionati che mira a realizzare un’economia con zero rifiuti utilizzando la piattaforma Cradle to Cradle®, creata dal professor Michael Braungart, per lo sviluppo e la commercializzazione di nuovi prodotti. In sostanza, i prodotti devono avere una migliore qualità per i consumatori, non comportare rischi per la salute ed essere efficienti sia sul lato economico sia su quello ambientale. Secondo quanto dichiarato da Jørgen Buhl Rasmussen, amministratore delegato e presidente del Gruppo Carlsberg, “il packaging è responsabile di circa il 45% di tutte le emissioni di CO2 di Carlsberg”. L’obiettivo di ridurre le proprie emissioni di CO2 ha spinto anche il colosso dei giocattoli Lego a investire nella ricerca, nello sviluppo e nell’implementazione di nuove materie prime sostenibili, da utilizzare nella produzione

dei suoi celebri mattoncini colorati e degli imballaggi. La società, fondata nel 1932 a Billund, ha annunciato nel giugno 2015, nell’ambito degli obiettivi di sostenibilità che si prefigge per il 2030, un piano d’investimenti da un miliardo di corone danesi (circa 135 milioni di euro) e l’assunzione di oltre 100 dipendenti, grazie all’inaugurazione del Lego Sustainable Materials Centre, che entrerà a pieno regime entro la fine di quest’anno. La grande sfida per il Gruppo Lego è arrivare nel 2030 alla commercializzazione di mattoncini completamente biobased. “Una sfida che è complessa ed emozionante”, secondo Jørgen Vig Knudstorp, Ceo e presidente del gruppo danese. E che garantirà “la ricerca e lo sviluppo di nuovi materiali che ci permettano di continuare a offrire esperienze di gioco creativo di alta qualità in futuro, senza compromettere l’ambiente e il futuro delle generazioni a venire”.

Intervista

a cura di M. B.

A tutta birra (sostenibile) Alberto Frausin, amministratore delegato di Carlsberg Italia

Produrre birra in modo sostenibile. I danesi della Carlsberg, il colosso della birra che fattura 10 miliardi di euro all’anno con i vari marchi – Carlsberg, Tuborg e Birrificio Angelo Poretti – ne hanno fatto un vero e proprio principio guida. Materia Rinnovabile ne parla con Alberto Frausin, amministratore delegato di Carlsberg Italia. Cosa significa per Carlsberg essere sostenibili? “Significa produrre birra al miglior livello qualitativo

La nostra azienda in Italia, recuperando un brevetto del Gruppo Carlsberg, ha introdotto sul mercato […] fusti in Pet riciclabile (e non in acciaio) nei quali la spillatura può avvenire senza aggiunta di CO2.

possibile, senza gravare sul prezzo finale per il consumatore. Per Carlsberg, nel concetto di qualità rientra anche la sostenibilità, che ha alla base una valutazione sull’impatto ambientale dell’intero ciclo di vita del prodotto, il cosiddetto Life Cycle Assessment (Lca).” Quanto, a suo modo di vedere, l’attenzione di Carlsberg per la sostenibilità è legata all’essere un’impresa danese?


Policy

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Datemi una birra alla spina... e (ri)solleverò il mondo

MATERIA PRIMA

LE EMISSIONI DI CO2 NELLE FASI DEL CICLO DI VITA

9 kg

9 kg

(25%)

(7%)

kg di CO2 prodotti

peso della CO2 per fase

FINE VITA

2 kg

PRODUZIONE

5 kg

8 kg

11 kg

(22%)

(8%)

kg di CO2 prodotti

(5%)

kg di CO2 prodotti

(4%)

peso della CO2 per fase

peso della CO2 per fase

base = 100 litri di birra fusto in Pet vs bottiglia di vetro

FASE D’USO

0 kg

0 kg

(0%)

(0%)

PACKAGING

8 kg

kg di CO2 prodotti

peso della CO2 per fase

kg di CO2 prodotti

DISTRIBUZIONE

9 kg

(22%) (70%)

14 kg

peso della CO2 per fase

kg di CO2 prodotti

(26%) (11%)

peso della CO2 per fase

“Direi moltissimo. La sostenibilità ambientale è nel Dna danese, al pari della forte focalizzazione sull’attività di ricerca e sviluppo, alla quale la nostra impresa destina il 25% degli utili. In un certo senso l’attenzione all’ambiente è così radicata in Danimarca da essere implicita in tutto ciò che viene realizzato: dalle scelte individuali a quelle collettive e politiche.” Nel febbraio del 2015 Carlsberg ha lanciato il progetto Green Fiber Bottle, una bottiglia 100% biobased prodotta dalle fibre del legno, totalmente biodegradabile. Quando potremo vedere sul mercato questa bottiglia? Ma soprattutto sarà in grado di preservare i profumi e il sapore della birra?

92 kg

“La data attesa per il lancio della nuova bottiglia su mercati pilota è il 2018. In quindici-vent’anni puntiamo alla sostituzione di tutte le bottiglie in vetro. Siamo certi che non solo la nuova bottiglia sarà in grado di mantenere la qualità e freschezza della birra, ma anche di poterla offrire ai consumatori allo stesso prezzo delle bottiglie in vetro. La Green Fiber Bottle sarà prodotta con fibre provenienti da fonti gestite in maniera responsabile, con alberi ripiantati in numero pari a quelli prelevati. Nonostante poi la bottiglia possa decomporsi naturalmente tanto da poter essere buttata tra i rifiuti organici, la nostra intenzione è che si metta a punto uno specifico sistema di gestione dei rifiuti. Proprio come accade oggi per bottiglie e lattine.”


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materiarinnovabile 13. 2016 Quali altri progetti sta sviluppando Carlsberg nel campo della bioeconomia, dell’economia circolare e della sostenibilità in genere? “Voglio citare un progetto di cui sono particolarmente orgoglioso, perché vede l’Italia come leader. La nostra azienda in Italia, recuperando un brevetto del Gruppo Carlsberg, ha introdotto sul mercato il sistema DraughtMaster™ Modular 20 utilizzando fusti in Pet riciclabile (e non in acciaio) nei quali la spillatura può avvenire senza aggiunta di CO2. In questo modo migliora sensibilmente la qualità della birra e si evitano i processi di saturazione e ossidazione del prodotto; la birra stessa resta inalterata e garantita per oltre un mese dall’apertura del fusto, rispetto ai 3-4 giorni del fusto tradizionale. Secondo l’analisi Lca il nuovo sistema con fusti in Pet riduce del 29% le emissioni di CO2 per ettolitro di birra prodotto, rispetto al fusto in acciaio. Mettendo poi a confronto l’impatto determinato dal sistema DraughtMaster con quello delle bottiglie emerge che ogni 100 litri di birra le emissioni di CO2 scendono a 36 kg rispetto ai 131 kg del vetro, mentre per quanto riguarda i rifiuti prodotti passano da 29 chilogrammi a soli 5, così come il consumo di acqua che in pratica si dimezza (609 litri rispetto ai 1.150 litri). Inquadrando la filiera del fusto in Pet nel discorso più ampio della sostenibilità ambientale, è evidente che ha un’impronta molto inferiore rispetto alla bottiglia in vetro, se si adotta come metro di giudizio la metodologia Environmental Footprint della

Commissione europea. Se invece ci si focalizza più strettamente sull’obiettivo della circolarità, il contributo del fusto in Pet si concretizza soprattutto nella de-materializzazione e nell’uso più efficiente delle risorse, grazie al fatto che si utilizza un materiale particolarmente leggero per confezionare e distribuire analoghi quantitativi di birra. Il fusto in acciaio, infatti, deve tornare in fabbrica per essere riempito, mentre il nostro sistema utilizza un Pet leggerissimo che poi viene riciclato in quanto Pet, anche se tuttora è prodotto utilizzando fonti fossili.” Secondo lei, cosa contraddistingue maggiormente la Danimarca in termini di sostegno all’innovazione e alla sostenibilità ambientale? “I danesi sono consapevoli che alla base dello sviluppo economico c’è la capacità che ha un paese di innovare. In questo senso ci sono investimenti continui, sia pubblici sia privati. Il livello delle università è di estrema eccellenza, con una grandissima capacità di attrarre capitale umano qualificato. Inoltre esiste un sistema di trasferimento tecnologico in grado di trasformare la ricerca di base in vera innovazione industriale. C’è solo un piccolo difetto in tutto questo sistema: la lentezza nell’implementazione delle politiche. È per questo motivo, forse, che nonostante la Danimarca sia un paese leader nella bioeconomia non c’è ancora una vera e propria strategia nazionale sul settore.”


Policy

Il continente LIQUIDO Centrale nell’economia europea – nelle sue acque passa più del 30% del commercio globale via mare – il Mediterraneo ha le caratteristiche per diventare il vero protagonista della bioeconomia del Sud Europa assicurando sviluppo e lavoro. Ma occorre una visione condivisa tra i paesi dell’area e maggiore interconnessione tra le sue sponde. di Mario Bonaccorso

“La bioeconomia in Italia: un’opportunità unica per connettere ambiente, economia e società”, tinyurl.com/j7az3zs

Un continente liquido. Così Fernand Braudel, celebre storico francese della scuola delle Annales, ha definito il Mediterraneo. Un continente fatto di acqua che bagna tre continenti diversi ed è pesantemente minacciato dagli effetti del cambiamento climatico. Se è esistita ed esiste un’economia mediterranea, allora esiste anche una bioeconomia mediterranea, saldamente interconnessa al territorio, in grado di costruire un nuovo ponte tra la sponda nord e quella sud, nel segno di uno sviluppo economico diffuso e rispettoso dell’ambiente. Il 2016 ci consegna un Sud Europa protagonista in questo settore. I governi di Spagna e Italia hanno finalmente raccolto la sfida lanciata dall’Unione europea nel 2012, quando venne presentata la strategia “Innovare per una crescita sostenibile: una bioeconomia per l’Europa”, facendo entrare la bioeconomia nella loro agenda politica. Infatti prima delle strategie di Francia e Gran Bretagna, sono arrivate quella spagnola a marzo e quella italiana a novembre, entrambe basate sull’agroalimentare e sulla chimica verde, la quale sta già dimostrando di essere volano di crescita e occupazione: da Montmeló in Catalogna, dove

è presente l’impianto per la produzione di acido bio-succinico della Succinity GmbH, joint venture tra Basf e Corbion, a Porto Torres in Sardegna dove si trova la bioraffineria di Matrìca, joint venture tra Versalis e Novamont, fino a Gela in Sicilia dove è in corso la riconversione alla chimica verde della raffineria del Gruppo Eni. Ma è il mare Mediterraneo il vero, grande protagonista della bioeconomia del Sud Europa, riserva di materie prime rinnovabili ancora in larga parte da esplorare, e al tempo stesso diretto beneficiario della nuova economia basata sulle risorse biologiche, che consentirà un minore impatto ambientale sulle sue acque. Quelle acque oggi protagoniste di uno dei fenomeni migratori più imponenti degli ultimi decenni, via verso la libertà per milioni di profughi che troppo spesso si trasforma in luogo di tragedia. “Il mar Mediterraneo – si legge nella strategia ‘La bioeconomia in Italia: un’opportunità unica per connettere ambiente, economia e società’ – è un bacino con caratteristiche bio-geo-fisiche uniche. Contribuisce in modo preminente all’economia europea sopportando il 30% del commercio globale via mare con più di 450 porti-terminali, ospitando il secondo

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materiarinnovabile 13. 2016 Migration compact, tinyurl.com/ho6whzl

Biobased Industries Joint Undertaking, www.bbi-europe.eu

più grande mercato del mondo per le navi da crociera, la metà della flotta da pesca dell’Ue e un patrimonio culturale e naturale unico. Al contempo il Mediterraneo si trova ad affrontare sfide importanti ambientali legate ai cambiamenti climatici, al crescente traffico marittimo e all’inquinamento, al sovrasfruttamento delle risorse ittiche, alle invasioni di specie aliene, per esempio. Allo stesso tempo, la biodiversità locale e le risorse di acque profonde, il turismo, la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’acquacoltura marina rappresentano importanti opportunità locali per la crescita e l’occupazione blu, ancora non efficientemente sfruttate”. La strategia italiana, inoltre, ricorda come la Bluemed initiative, avviata nel 2014 su impulso della presidenza italiana dell’Unione coinvolgendo gli Stati membri dell’area e il Portogallo, abbia consentito di “trarre vantaggi dall’avere una comune agenda strategica di ricerca e innovazione. A breve, questa iniziativa sarà estesa anche ai paesi della sponda sud, perché l’intera area possa condividere gli obblighi e le opportunità di una crescita sostenibile e duratura dell’economia del mare Mediterraneo. Così, la bioeconomia potrebbe notevolmente contribuire alla rigenerazione, allo sviluppo economico sostenibile e alla stabilità politica dell’area e, quindi, alla riduzione dei fenomeni di migrazione. Per esempio con la realizzazione di progetti di investimento locale ad alto

impatto infrastrutturale e sociale, come espresso nel documento Migration Compact proposto dal governo italiano (un contributo per una strategia europea sull’immigrazione inviato al presidente dell’Unione europea Jean-Claude Juncker, ndr)”. La stesura della strategia ha anche rappresentato un’opportunità fondamentale per l’Italia di rafforzare la propria competitività e il proprio ruolo nel promuovere la crescita sostenibile in Europa e nel bacino del Mediterraneo. È il frutto di una collaborazione interministeriale, che ha coinvolto il ministero dello Sviluppo economico, delle Politiche agricole, alimentari e forestali, il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e il ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Oltre ai maggiori attori nazionali della bioeconomia, tra cui l’agenzia per la Coesione territoriale, la conferenza delle Regioni e i cluster tecnologici nazionali della Chimica verde (Spring) e dell’Agroalimentare (Cl.an). La bioeconomia offre un’importante opportunità per la crescita e l’occupazione in Europa, anche se la regione mediterranea è in ritardo rispetto al Nord Europa, nonostante il grande potenziale in termini di disponibilità di prodotti agricoli, forestali e risorse biologiche marine, nonché terreni rurali e marginali. È il messaggio univoco che è emerso lo scorso 9 novembre in un evento organizzato dal Cluster italiano della chimica verde Spring, dalla Biobased Industries Joint Undertaking, dalla Commissione europea e dall’Università di Bologna nell’ambito di Ecomondo 2016 a Rimini. “Serve – ha dichiarato Philippe Mengal, direttore esecutivo della BBI JU – una maggiore interconnessione tra i paesi del Mediterraneo,


Policy quanto già fatto dall’iniziativa BlueMed dedicata alla crescita dell’economia del mare Mediterraneo e dal programma Prima (Partnership for Research and Innovation in the Mediterranean Area) per l’agricoltura, le acque interne e l’industria alimentare, che coinvolge anche i paesi della sponda sud, come Marocco, Libano o Egitto”.

Cluster Spring: strategia e obiettivi Nato in risposta all’avviso promosso dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel 2012 per lo sviluppo e il potenziamento di cluster tecnologici nazionali, il cluster italiano della chimica verde Spring (acronimo di Sustainable Processes and Resources for Innovation and National Growth) include circa cento realtà che a diverso titolo operano nel campo della bioeconomia e rappresentano l’intera filiera della chimica da fonti rinnovabili, a garanzia di un approccio multidisciplinare fondamentale per lo sviluppo del settore. Il cluster, di cui è presidente Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, stimola azioni di ricerca, dimostrative, di trasferimento tecnologico, divulgazione e formazione, in costante dialogo con gli attori del territorio, promuovendo a livello locale, nazionale e internazionale un modello di economia circolare incentrato su filiere innovative integrate, sostenibili e multisettoriali, partendo dalla raccolta dei bisogni delle aree locali e dall’interazione con tutte le realtà della filiera biobased. È associate member del Biobased Industries Consortium e partecipa come osservatore all’Expert Group on Biobased Products della Commissione europea. www.clusterspring.it

La bioeconomia rappresenta una grande opportunità per riconnettere economia e società e per la valorizzazione delle diversità. [...] La bioeconomia è democrazia.

Rapporto BaroMed 2015 a cura di EY, tinyurl.com/znqnlk4

sul modello nord-europeo. Da questo punto di vista Horizon 2020 e la BBI JU offrono importanti opportunità per sostenere azioni di Ricerca e Innovazione a misura locale, creando interconnessioni tra agricoltura sostenibile, foresta, industria e crescita dell’economia del mare”. “Il punto – aggiunge Jose Manuel Gonzalez Vicente del Centro per lo sviluppo tecnologico industriale, che fa capo al ministero spagnolo dell’Economia, dell’Industria e della Competitività – è che la bioeconomia non è ancora adeguatamente riconosciuta come un’opportunità nel Mediterraneo”. La pensa allo stesso modo Fabio Fava, docente di Biotecnologie industriali all’Università di Bologna e rappresentante italiano per la bioeconomia in Horizon 2020 e nella BBI JU, secondo il quale “il potenziale per la bioindustria nel Mediterraneo è enorme, occorre però un coordinamento maggiore tra i paesi del Sud Europa membri dell’Unione, a partire dai tre più grandi Francia, Italia e Spagna”. “Nell’area – sottolinea Fava – ci sono 3,5 miliardi di ettari di terreno degradato e abbandonato utilizzabili per consentire nuovo sviluppo rurale, una consolidata industria alimentare e bioraffinerie integrate nel territorio, che potrebbero essere alimentate con gli abbondanti scarti dell’agricoltura, dalla pesca, dall’acquacoltura. È fondamentale però avere una visione condivisa tra tutti i paesi dell’area, che valorizzi e completi

I segnali economici in quest’area sono incoraggianti. “Se si continuerà a promuovere l’integrazione e la collaborazione all’interno dei paesi del Mediterraneo – garantisce Donato Iacovone, amministratore delegato di EY in Italia e managing partner dell’area mediterranea – nei prossimi anni la mappa mondiale sarà arricchita dalla nascita di un nuovo mercato emergente”. Il Rapporto BaroMed 2015 realizzato da EY prevede nell’immediato futuro una crescita positiva e gli investitori sembrano dimostrare interesse nella regione. “Grazie a un mercato non ancora saturo e alle risorse presenti, non solo l’Europa e gli Stati Uniti, ma anche Cina e India considerano l’area come una meta altamente attrattiva per gli investimenti”. La ricerca di EY ha coinvolto 156 dirigenti di 20 paesi del mondo, i quali considerano il Mediterraneo un’area più attrattiva dell’Europa (51%), dell’Africa (60%) e dell’Asia (52%). Secondo Iacovone, “grazie a una posizione strategica rispetto ad Europa, Africa e Asia, e con un mercato del lavoro in crescita e con le grandi risorse presenti, la regione offre un ottimo compromesso tra crescita e costi. Nell’immediato futuro, infrastrutture più efficaci e una maggiore stabilità aiuteranno a creare più posti di lavoro sia nell’industria sia negli altri settori”. La bioeconomia, quindi, può essere la chiave di volta per assicurare crescita economica e nuovi posti di lavoro, preservando la ricchezza di biodiversità del Mediterraneo, che è ancora uno dei più importanti ecosistemi del mondo. “Il presupposto imprescindibile della bioeconomia – ha ribadito a Rimini Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont e presidente del Cluster Spring – è che suolo, acqua e aria non devono essere danneggiati perché rappresentano il patrimonio naturale su cui si fonda. Distruggere queste risorse significa distruggere l’economia stessa. Per questo bisogna puntare su filiere che rispettino la sostenibilità del territorio, in grado di fornire biomassa sostenibile. La bioeconomia va intesa come rigenerazione territoriale, come uso efficiente delle risorse. Non ci può essere competizione con il cibo, ma sinergia. La bioeconomia rappresenta una grande opportunità per riconnettere economia e società e per la valorizzazione delle diversità”. Come la stessa Bastioli ha dichiarato all’inaugurazione della bioraffineria di Bottrighe di Adria, la prima al mondo per la produzione di butandiolo da biomassa, “la bioeconomia è democrazia”. Per il Mediterraneo non potrebbe esserci occasione migliore.

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IL SUD ITALIA

riparte dalla chimica verde Matrìca in Sardegna, GFBiochemicals in Campania, Mossi Ghisolfi in Puglia, Versalis in Sicilia. Sono solo i casi più noti di un nuovo fermento industriale all’insegna della chimica verde che caratterizza il Mezzogiorno. Una chance in più per la ripresa economica in regioni in cui il comparto agricolo sta tornando a crescere. di M. B.

Finanziamenti a fondo perduto che hanno spesso nutrito le clientele della classe politica meridionale e portato alla costruzione di cattedrali nel deserto, impianti senza alcuna relazione con il territorio e, in molti

casi, del tutto incuranti del loro impatto negativo sull’ambiente e sulla salute umana. Si potrebbe sintetizzare così la storia dell’industrializzazione forzata del Sud Italia nel secondo dopoguerra. Ma oggi questa


Policy

Orange Fiber, www.orangefiber.it

Trasformare feedstock da fonti rinnovabili non alimentari, compatibili con il territorio e coltivati su terreni marginali, in bioprodotti; il tutto senza incidere sulla catena alimentare né depauperare altre risorse.

parte del paese, ancora così profondamente distante dal Nord in termini di occupazione e ricchezza, come impietosamente fotografano anno dopo anno le analisi dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), sembra aver trovato nella bioeconomia una nuova leva di sviluppo economico in grado di rigenerare, in armonia con il tessuto agricolo e rurale locale, siti industriali dismessi. Matrìca a Porto Torres, GFBiochemicals a Caserta, Mossi Ghisolfi a Modugno, Versalis a Gela sono alcuni casi emblematici di come sia possibile conciliare economia ed ecologia per creare benessere. Il Sud Italia ha una nuova chance per ripartire, un ultimo treno da prendere a ogni costo. Intanto lo scorso giugno ha incassato i nuovi dati positivi comunicati dall’Istat secondo cui, dopo sette anni di cali ininterrotti, il prodotto interno lordo è tornato a salire (+1%) insieme alla percentuale degli occupati (+1,5%). A trainare la ripresa è stata soprattutto una sostanziosa crescita del comparto agricolo (+7,3%), mentre l’industria in senso stretto è rimasta pressoché congelata. Una boccata di ossigeno che la chimica verde, fortemente collegata alla filiera agricola e forestale, è chiamata oggi a espandere nel settore industriale. Il modello lo offre Matrìca in Sardegna, la joint venture tra Novamont e Versalis che a Porto Torres sta realizzando – afferma la stessa Novamont – “il più grande e innovativo polo integrato di chimica verde al mondo, un nuovo modello di economia che coinvolge industria, agricoltura, ambiente ed economia locale in un grande progetto di riqualificazione e innovazione”. Una volta completato, entro il 2017, il progetto interesserà un’area di circa 27 ettari, con diversi impianti per una capacità complessiva pari a circa 350.000 tonnellate l’anno di bioprodotti (bioplastiche, biolubrificanti, prodotti per la cura della casa e della persona, fitosanitari, additivi per l’industria della gomma e della plastica, fragranze alimentari). “Il nostro obiettivo – afferma Giulia Gregori, responsabile Pianificazione strategica di Novamont – è di collaborare con gli attori del territorio per trasformare feedstock da fonti rinnovabili non alimentari, compatibili con il territorio e coltivati su terreni marginali, in bioprodotti; il tutto senza incidere sulla catena alimentare né depauperare altre risorse. Matrìca rafforza la capacità competitiva e di innovazione del territorio su più fronti: dal settore primario (agricoltura, allevamento, per fare alcuni esempi), a quello secondario (mezzi e attrezzi agricoli, logistica, manifatturiero di trasformazione dei bioprodotti), fino al terziario (collaborazioni con le università ed enti di ricerca locali)”. Dall’altra parte del mar Tirreno, a Caserta, si trova il primo impianto al mondo che produce acido levulinico da biomassa. A realizzarlo è stata la GFBiochemicals, una società fondata

nel 2008 da due giovani imprenditori, Pasquale Granata e Mathieu Flamini (il famoso calciatore ex Milan e Arsenal, oggi al Crystal Palace), che oggi compete con i big della chimica mondiale producendo un intermedio chimico al 100% rinnovabile con numerose applicazioni industriali: dalla farmaceutica alla cosmetica, fino alle vernici e agli additivi per carburanti. Nel 2015 la società casertana ne ha prodotto 2.000 tonnellate e punta ad arrivare a 10.000 tonnellate nel 2017 e a 50.000 tonnellate entro il 2019. Una vera e propria rivoluzione, se si pensa che i vertici dell’impresa sono certi di poter offrire al mercato, nel giro di pochi anni, l’acido levulinico biobased a un prezzo di un dollaro al chilo, contro gli attuali 4-5 dollari al chilo dell’omologo prodotto dal petrolio, e garantendo le stesse prestazioni. “La bioeconomia – sostiene Granata – ha un enorme potenziale, genera posti di lavoro e aiuta l’economia locale. L’acido levulinico derivato dalla biomassa può aiutare a realizzare un’ampia gamma di prodotti a più alta sostenibilità. Siamo in grado di rivitalizzare le regioni agricole, allargando i mercati nei quali gli agricoltori possono vendere i loro prodotti. Proprio per questo motivo con Mathieu Flamini abbiamo deciso nel 2008 di iniziare questo incredibile progetto e investire per fare della GFBiochemicals l’azienda che è diventata oggi”. Per consolidare la propria posizione di leadership nel mercato dell’acido levulinico, la società casertana ha acquisito lo scorso febbraio asset e proprietà intellettuali (oltre 250 brevetti) di Segetis, il principale produttore di derivati da acido levulinico nel mercato statunitense. “Questa acquisizione – dice Granata – ha rappresentato un momento fondamentale per GFBiochemicals, segnando l’inizio della nostra strategia di crescita sul mercato. Continueremo il nostro piano di sviluppo basato sulla crescita organica, sulla creazione di importanti partnership, su potenziali acquisizioni future di tecnologie relative a derivati dell’acido levulinico”. Sempre in provincia di Caserta (a Piana Monte Verna) si trova il centro di ricerca sulle biotecnologie di Novamont. Un altro caso esemplare di come la chimica verde possa contribuire a ridare slancio a tessuti industriali in crisi. Sì, perché il centro di ricerca della società guidata da Catia Bastioli altro non è che il ramo d’azienda di Tecnogen, il centro di ricerca sulle biotecnologie controllato da Sigma Tau Finanziaria, per mesi in liquidazione prima di essere acquistato da Novamont alla fine del 2012. “La chiusura di Tecnogen – ha dichiarato Catia Bastioli alla conclusione dell’acquisizione – avrebbe comportato la perdita di uno straordinario patrimonio di impianti e tecnologie per lo sviluppo di processi fermentativi e la dispersione di importanti competenze e conoscenze maturate in questi anni sul territorio campano. La nostra iniziativa ha l’ambizione di voler dimostrare che il nuovo settore della bioeconomia basato sull’innovazione continua può accelerare

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Dalla Campania alla Puglia, Modugno (provincia di Bari) ospita il centro ricerca di Biochemtex (Gruppo Mossi Ghisolfi) per lo sfruttamento della lignina per produrre paraxilolo e, da questo, il paraxilene, uno dei costituenti insieme al glicole etilenico (già ottenibile da biomasse) del polietilene tereftalato (il Pet utilizzato per produrre le comuni bottiglie di plastica). L’obiettivo della ricerca è ottenere Pet interamente da risorse rinnovabili non concorrenti con il consumo alimentare. In una situazione di stallo si trova, invece, il progetto di costruzione di un impianto dimostrativo della tecnologia Moghi per la trasformazione della lignina, sottoprodotto della bioraffineria, in biochemicals, in particolare in composti aromatici suscettibili di impiego nella produzione di materie plastiche. L’impianto dimostrativo, di taglia semi-industriale (2.000 m2), dovrebbe processare la materia prima (lignin cake) proveniente dall’impianto industriale di Crescentino (Vercelli).

per la produzione di elettricità e calore in impianti di piccola taglia (filiere agro-energetiche locali) e in quello dei biocarburanti di seconda generazione. La Basilicata è così la prima regione italiana che ha messo insieme i cluster della chimica verde e dell’agroalimentare per costituire il cluster della bioeconomia (Biogreen), presentato ufficialmente lo scorso marzo a Metaponto, insieme alla prima strategia regionale definita nell’ambito della S3 (Strategia di specializzazione intelligente) della Regione Basilicata. “Il nostro obiettivo – ha dichiarato Raffaele Liberali, fino a giugno assessore alle Attività produttive della Basilicata – è quello di partecipare a pieno titolo a livello nazionale ed europeo alle strategie di sviluppo di questo settore e di far diventare la Basilicata una regione pilota in tale campo. Lo scopo della bioeconomia prevede che i rifiuti da scarto diventino una materia prima importante. Questo è alla base del concetto dell’economia circolare in cui niente si disperde e tutto si ricicla. In Basilicata certamente c’è un problema rifiuti: dobbiamo smettere di pensarli come scarti da smaltire, ma piuttosto come materia prima da utilizzare”.

Un impianto dimostrativo già attivo nel Sud Italia è quello dell’Enea a Rotondella, in Basilicata. Qui la società canadese Comet Biorefining sta testando la propria tecnologia per la produzione di glucosio cellulosico da biomassa non alimentare. Nel campo della chimica verde il Centro ricerche Trisaia dell’Enea rappresenta un vero fiore all’occhiello della ricerca italiana, riconosciuto a livello internazionale, soprattutto con riferimento all’utilizzo delle biomasse come fonte energetica

Proprio in questa direzione sta andando anche la Sicilia, pur in assenza di una strategia regionale. Qui lo sviluppo della chimica verde si inserisce in un percorso di bonifica, recupero e riconversione della raffineria di Gela, sui cui pende una richiesta di rinvio a giudizio, emessa lo scorso marzo dalla procura della Repubblica di Caltanissetta, per 22 dirigenti e tecnici dell’Enimed e della società Eni “Raffineria Gela” con l’accusa di disastro ambientale. Tutti dovranno rispondere anche

lo sviluppo, sapendo utilizzare per la crescita del paese competenze altrimenti disperse”.

La Basilicata è così la prima regione italiana che ha messo insieme i cluster della chimica verde e dell’agroalimentare per costituire il cluster della bioeconomia.


©GFBiochemicals

©GFBiochemicals

Policy delle omesse bonifiche, di getto pericoloso di cose e di violazione dei codici ambientali. La via di uscita per Gela è il progetto della Green Refinery, contenuto nel protocollo di intesa siglato il 6 novembre 2014 al ministero dello Sviluppo economico tra Eni, le organizzazioni sindacali, le istituzioni e Confindustria, che prevede, attraverso la valorizzazione degli impianti esistenti e l’applicazione di tecnologie proprietarie, di convertire materie prime non convenzionali di prima (olio di palma) e seconda generazione (grassi animali, olii di frittura) in green diesel, green Gpl e green nafta. Inoltre, il protocollo contempla la realizzazione di un polo logistico per la spedizione dei greggi di produzione locale e dei carburanti green prodotti. L’entrata in esercizio della Green Refinery, che a regime occuperà 400 dipendenti Eni, è prevista entro la fine del 2017. Nel frattempo, a febbraio, nella sede della presidenza della Regione siciliana, è stata firmata una lettera di intenti che impegna Eni, Esa (Ente di sviluppo agricolo) e la stessa Regione a preparare uno studio di fattibilità per la coltivazione sperimentale del guayule, con l’obiettivo di avviare un progetto per la produzione di lattice di gomma naturale, seguendo lo sviluppo della relativa filiera agricola. Al riguardo, a inizio giugno, Eni ha comunicato che è stato concluso il trapianto di 100.000 piantine di guayule presso due aziende agricole appartenenti all’Ente di sviluppo agricolo della Regione Sicilia. I primi risultati saranno disponibili a partire dalla seconda metà del 2017.

©Novamont – Piana di Monte Verna

Dalle grandi imprese a quelle piccole. In Sicilia è chimica verde anche il progetto di due giovani

catanesi, Enrica Arena e Adriana Santanocito, che nel febbraio 2014 hanno costituito la startup Orange Fiber con l’obiettivo di creare un tessuto sostenibile, in grado di rispondere alle esigenze d’innovazione della moda, utilizzando le 700.000 tonnellate di sottoprodotto derivato ogni anno dall’industria di trasformazione agrumicola italiana. Il primo prototipo di tessuto creato dagli agrumi è stato presentato nel settembre 2014, grazie ai fondi del bando Seed Money di Trentino Sviluppo. Poi, nel dicembre 2015 – anche con il finanziamento di Smart&Start Invitalia – è stato inaugurato a Caltagirone il primo impianto pilota per la trasformazione del pastazzo di agrumi in cellulosa atta alla filatura. Tra i numerosi premi che sono stati assegnati alla startup siciliana spicca il Global Change Award, iniziativa dedicata all’innovazione nell’industria della moda lanciata dall’organizzazione no profit svedese H&M Conscious Foundation. Secondo i dati impietosi consegnati dal Rapporto Svimez 2015 (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) sull’economia del Mezzogiorno, dal 2000 al 2014 il Sud Italia è cresciuto la metà della Grecia. Dal 2008 al 2014 gli investimenti sono crollati del 38%, mentre il calo al Centro-Nord è stato pari al 27%, con una differenza di 11 punti percentuali. Negli stessi anni gli investimenti nell’industria hanno segnato -59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-17,1%). È da qui che prova a ripartire il Mezzogiorno. La bioeconomia è davvero l’ultima sfida. Da vincere a ogni costo.

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TERRE RARE:

le vitamine dell’industria moderna “Se il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare”: lo disse nel 1992 il leader Deng Xiaoping. Oggi i metalli tecnologici sono essenziali per l’industria moderna: ce ne servono 125.000 tonnellate l’anno. Un futuro incerto tra monopolio della produzione e scarse possibilità di riciclo. di Francesco Ansaloni e Gabriele Giuli

Francesco Ansaloni è professore associato in Economia dell’ambiente presso la Scuola di Scienze e Tecnologie dell’Università di Camerino. Attualmente, il tema principale della sua attività di ricerca è la produzione sostenibile. Gabriele Giuli è ricercatore universitario e docente di Mineralogia presso la Scuola di Scienze e Tecnologie dell’Università di Camerino. La principale attività di ricerca verte sulla sintesi e caratterizzazione strutturale di materiali cristallini e di vetri silicatici.

Domanda crescente. Una produzione quasi del tutto nelle mani della Cina. Margini di riciclo molto limitati. Questa la fotografia attuale del mercato delle terre rare, i “metalli tecnologici”, essenziali per un’ampia gamma di applicazioni: smartphone, microfoni, veicoli elettrici e ibridi, cuffie, auricolari, macchine a raggi X, solo per dirne alcune. Tuttavia se la domanda di terre rare, così come il loro prezzo, è soggetta a forti oscillazioni, le loro possibilità di riutilizzo sono ancora quasi nulle a causa della bassa resa e degli alti costi del processo di recupero. Le terre rare sono considerate proprio per la loro funzione essenziale le vitamine dell’industria moderna e negli ultimi dieci anni la loro richiesta è triplicata, arrivando nel 2015 a quasi 125.000 tonnellate. A importarle sono soprattutto Stati Uniti, Giappone, Corea, Russia e alcuni paesi dell’Unione europea, mentre l’offerta di terre rare è quasi completamente in mano alla Cina, che sfiora il 95% della produzione mondiale, oltre a esserne anche il maggior consumatore. Ci sono solo due strade per ottenerle: l’estrazione o il riciclo. In teoria recuperando le terre rare contenute nei vari apparecchi dismessi si potrebbe soddisfare l’intera domanda del Vecchio continente. Per questo motivo si parla di miniera urbana intendendo l’iter di recupero dei metalli delle terre rare, realizzato grazie al riciclo dei rifiuti delle attrezzature elettriche ed elettroniche (Raee). Tuttavia questo processo ha un grande limite: l’alto costo.

Riciclo: i vantaggi Partiamo però dai numerosi vantaggi economici legati al riciclo dei Raee: recupero del valore dei metalli, contenimento dei costi di estrazione, di trasporto e produzione di terre rare, aumento della loro presenza sul mercato e miglioramento delle capacità competitive delle imprese. Ci sono poi altri benefici connessi alla riduzione delle attività di sfruttamento minerario, di trasformazione industriale e di controllo dello smaltimento dei Raee, il miglioramento delle condizioni per l’ambiente e per le persone che abitano vicino ai luoghi di estrazione. E, infine, la riduzione dell’inquinamento del suolo e dell’aria. Riciclare terre rare da rifiuti elettronici è complesso perché quando sono presenti contemporaneamente più terre rare, a causa delle loro proprietà chimiche, è molto difficile separarle una dall’altra. Inoltre la riduzione degli ossidi in singoli elementi è molto costosa. Oggi le tecniche di riciclo di terre rare sono ai primi passi e, a causa della natura del prodotto e della dispersione del materiale, presentano ostacoli nell’intera filiera. A incidere sul costo del riciclo è – soprattutto – la mancanza di un metodo standard. Questo significa che estrarre metalli di terre rare da Raee è difficoltoso e richiede lunghi tempi di lavoro. Servono inoltre complessi impianti di trasformazione e un’elevata professionalità. Per tutte queste ragioni nel 2011 meno dell’1%


Policy Figura 2 | Quote di esportazione cinesi di terre rare

Figura 1 | Domanda e offerta di terre rare 2005-2015

200.000

70.000

Ton equivalenti di ossidi di terre rare REO

180.000 160.000

Domanda (t/a REO)

140.000 120.000 100.000 800.000 600.000 400.000 200.000

60.000 50.000 40.000 30.000 20.000 10.000

0

0 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015

Offerta Cina

Domanda Cina

Produttori e commercianti nazionali

Offerta resto del mondo

Totale domanda

Joint venture sino-estere

Fonte: Panneflek 2013.

Chi sta lavorando sulle terre rare

Disegno gemme: Stephanie Wauters – the Noun Project

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Nonostante da anni siano attivi molti progetti di ricerca per l’estrazione delle terre rare da rifiuti elettronici ancora non è stato ancora identificato un protocollo economicamente conveniente. A questo obiettivo stanno lavorando ricercatori italiani ed europei il cui obiettivo è identificare processi efficienti di separazione delle terre rare dai rifiuti. Per esempio grandi aziende come Osramag (Germania), Solvay Group (Francia), e la partnership fra Aerc Recycling Solutions e Global Tungsten & Powders (Usa) stanno portando avanti progetti per il recupero da lampade fluorescenti. Molti sforzi sono anche dedicati alla ricerca di processi per il recupero di neodimio e disprosio dai magneti permanenti. Il largo uso di magneti in applicazioni come memorie per computer, compressori, altoparlanti, motori ibridi ed elettrici, e pale eoliche rende, infatti, strategico questo settore di ricerca. Allo stato attuale, progetti di questo tipo sono in corso presso Ames Laboratory (Usa), Dowa Metals & Mining (Usa), Mitsubishi (Giappone) e Hitachi (Giappone). I progetti di ricerca sperimentali in corso in Europa sono descritti nel documento “Recovery of Rare Earths from Electronic Wastes: An Opportunity for High-Tech SMEs”.

Fonte: Pui-Kwan 2011.

European Pathway to Zero Waste – EPOW Report marzo 2011, tinyurl.com/hz4hyoa

“Recovery of Rare Earths from Electronic Wastes: An Opportunity for HighTech SMEs”, tinyurl.com/oqc7qad

di elementi delle terre rare è stato riciclato da rifiuti elettronici (EPOW, 2011). Ancora più complesso il loro recupero dalla polvere dei magneti. Secondo uno studio della Norwegian University of Science and Technology (Bristøl, 2012) la quantità di terre rare contenuta in questo materiale è molto scarsa. Complessivamente i quattro ossidi di terre rare (ossido di neodimio, di ittrio, di lantanio e di olmio) raggiungono in media lo 0,311% della quantità dei magneti del campione esaminato. Un dato che indica con chiarezza che il loro recupero non è oggi economicamente conveniente. Se in futuro, magari grazie a maggiore disponibilità di Raee e a un miglioramento della tecnica di riciclo e separazione dei magneti, la convenienza a recuperare terre rare potrebbe diventare più elevata, oggi la situazione è opposta. Lo scarso sviluppo delle tecniche di riciclo dipende dalle basse rese, dagli elevati costi e dalle scarse quantità disponibili di Raee. Fino a quando non si individueranno strade alternative, questi fattori costituiranno il maggior ostacolo a un riciclo economicamente conveniente. I giacimenti di terre rare Uno studio condotto nel 2015 per valutare la distribuzione di terre rare per tipologia di impiego, ha evidenziato la loro presenza principalmente nel settore specializzato dei catalizzatori (60%). A seguire (10%) i settori connessi ad applicazioni metallurgiche e leghe; quindi ai magneti

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materiarinnovabile 13. 2016 Tabella 1 | Metalli presenti in alcuni Raee permanenti e alla lucidatura del vetro (10%). Tutti gli altri ambiti si spartiscono il residuo 10%. I magneti con terre rare (neodimio-ferro-boro e samario-cobalto) sono i più forti e i più diffusi: sono impiegati nei dischi fissi dei personal computer, per altoparlanti, fari, turbine eoliche e motori elettrici ibridi. Nei generatori associati alle pale eoliche, i magneti contengono elevate quantità di terre rare, mentre negli hard-disk di personal computer e tablet è presente neodimio. I Raee contengono rame, ferro, acciaio, alluminio, vetro, piombo, mercurio e metalli speciali e preziosi, inclusi oro, argento, platino, palladio, rodio, rutenio, rame e cobalto. Secondo U.S. Epa, riciclando un milione di telefoni cellulari si potrebbero recuperare 22,65 chili di oro, 249,15 chili di argento, 9,06 chili di palladio e 9.060 chili di rame. I rifiuti tecnologici con il contenuto più interessante di terre rare sono batterie e schede elettroniche. Da queste ultime, per esempio, si può ricavare oro, argento, rame, platino e tantalio. Nei display a cristalli liquidi dei computer, smartphone e televisioni si trovano cerio ed europio. Nei magneti ad alta permanenza in lega con neodimio-ferro e boro installati nei computer e altoparlanti sono presenti il praseodimio, neodimio, samario con ferro, terbio e disprosio con ferro. Inoltre, nella polvere di magneti ci sono anche ittrio, lantanio e olmio.

La posizione privilegiata della Cina nel mercato delle terre rare è frutto di una politica precisa. Non a caso nel 1992, il leader cinese Deng Xiaoping, già membro di rilievo nell’apparato politico della Repubblica Popolare Cinese e pioniere della riforma economica, dichiarò: “Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare”. Sin da allora la politica cinese ha mirato a stabilizzare i prezzi, fissando un tetto alla produzione; a sostenere il settore nazionale riducendo le esportazioni e ostacolando l’ingresso di imprese straniere; a conservare le risorse naturali imponendo regole di produzione sostenibili; a sviluppare il settore anche grazie a joint-venture con imprese straniere. Tra il 2001 e il 2009, a causa della crescente domanda da parte delle imprese, i prezzi

CELLULARE

9

Rame

g

500

Cobalto (nelle batterie)

g

65

Argento

g

1

Argento

mg

1.000

250

Oro

mg

220

24

Palladio

mg

80

9

Nd, Eu, Ce e Tb

mg

BATTERIA A IONI DI LITIO

3,5

1.000 Fonte: AA. VV. Remedia 2012 E-waste Lab, Report finale, Politecnico di Milano.

Tabella 2 | Valore di prodotti recuperabili da 1 kg di Pc Board – 25 gennaio 2016 QUANTITÀ (g)

PREZZO euro per g

IMPORTO PARZIALE

Oro

0,25

32,8700

8,22

Argento

1,00

0,4189

0,42

200,00

0,0041

0,83

L’andamento del mercato negli ultimi 15 anni Per assicurarsi le forniture di terre rare le imprese dei settori tecnologici sono disponibili ad acquistare a un maggior prezzo, rispetto a quelli correnti: perciò il mercato è estremamente dinamico. E, a causa della scarsità globale e dell’offerta largamente controllata dalla Cina, i prezzi delle terre rare sono soggetti a una continua evoluzione.

PERSONAL COMPUTER

Rame

TOTALE

IMPORTO TOTALE (euro)

9,46 Riferimenti bibliografici delle quantità: •• Jirang Cui e Lifeng Zhang, “Metallurgical Recovery of Metals from Electronic Waste: A Review”, Journal of Hazardous Materials 158 (2008) 228-256. •• Umicore Precious Metals Refining. “Metals Recovery from e-scrap in a global environment”, Ginevra 7 settembre 2007; archive.basel.int/ industry/sideevent 030907/umicore.pdf

Fonti dei prezzi: •• finanza-mercati. ilsole24ore.com •• www.kme.com/it •• oro.bullionvault.it •• minerals.usgs. gov/minerals/pubs/ commodity •• www.goldbroker.it


Policy Tabella 3 | Valore di alcuni elementi di terre rare ottenibili da un notebook rifiuto Raee del peso stimato di kg 3,0 al 1 maggio 2015 (valori medi tra retroilluminazione del display Ccfl e Led)

QUANTITÀ (mg)

PREZZO euro per kg

PREZZO euro per mg

IMPORTO PARZIALE (euro)

IMPORTO TOTALE (euro)

%

Cerio

Oxide

0,09

3,93

0,00000393

0,00000035

0

Europio

Oxide

0,08

607,44

0,0006074

0,00004860

0,0

Praseodimio

Oxide

270,00

93,80

0,000094

0,02532506

2,5

Neodimio

Oxide

2.100,00

52,70

0,00005270

0,11067987

10,8

Terbio

Oxide

0,02

535,98

0,00053598

0,00001072

0,0

Disprosio

Oxide

60,00

303,72

0,00030372

0,01822332

1,8

1.700,00

510,00

0,00051000

0,86700000

84,9

Tantalio TOTALE

1,02 Riferimenti bibliografici delle quantità: •• Valori medi contenuto notebook Ccfl e Led [mg] fonte citata da Giuli G.

Bibliografia •• Bristøl L. M. L. 2012, Characterization and recovery of rare earth elements from electronic scrap, Norwegian University of Science and Technology, Department of Materials Science and Engineering •• Panneflek E. 2013, Why Investing In Rare Earth Elements?, www.pgm-blog. com/why-investing-inrare-earth-elements •• Ungaro A. R. 2013 “Il mercato delle terre rare: aspetti politici e finanziari”, Documenti IAI Istituto Affari Internazionali, 13/4 luglio 2013; www.files.ethz.ch/ isn/178533/iai1304.pdf

2016 Rare Earth Elements (REE): from resource to WAste, from waste to REsource (REEWARE), Presentazione del progetto

– secondo le fonti di informazione Argus Rare Earths, London Metal Exchange e InvestmentMine, riorganizzate da Mineral Prices (mineralprices.com/ default.aspx#rar accesso del 25 gennaio 2016) – restano sostanzialmente stabili. Nel triennio successivo le condizioni monopolistiche del mercato causano, invece, un aumento più significativo dei prezzi mondiali e una parallela diminuzione dei prezzi in Cina. L’incremento dei prezzi al di fuori della Cina stimola la nascita di nuovi progetti di sfruttamento di risorse alternative alle terre rare da parte di aziende straniere determinando così un aumento dell’offerta e un nuovo crollo dei prezzi. Tra il 2005 e il 2012 la quantità media di ossidi di terre rare offerta ogni anno ammonta a circa 120.000 tonnellate. Nel 2012 si registra l’aumento dell’offerta da parte del Resto-del-Mondo (Row), che contribuisce all’aumento della quantità totale di terre rare. In questo periodo, la domanda, largamente manifestata dalla Cina, mostra una costante tendenza all’aumento (figura 1). Per consolidare il settore nazionale e applicare le norme di tutela ambientale, la Cina fissa le quote di esportazione. Questa decisione crea due mercati di terre rare: il primo interno alla Cina e il secondo per il Row. L’esportazione cinese definisce la maggioranza dell’offerta Row. Lo dimostra il picco di prezzi che si verifica nel 2011 ed è speculare alla diminuzione delle esportazioni (figura 2). Questo fenomeno è stato accentuato anche da eventi contingenti. Per esempio secondo alcuni esperti, nel 2010

di ricerca REEWARE, Fondo Ateneo di Ricerca 2014-2015, Università di Camerino sites.google. com/a/unicam.it/reeware

100 Fonti dei prezzi: •• mineralprices.com/ default.aspx#rar del 1 maggio 2015 euro/kg

la riduzione delle esportazioni fu condizionata anche dalla collisione tra un peschereccio cinese e due motovedette della guardia costiera giapponese avvenuta in prossimità delle isole Senkaku, in uno specchio d’acqua conteso dai due paesi. Il capitano dell’imbarcazione cinese fu arrestato dalle autorità giapponesi perché avrebbe “invaso” le loro acque territoriali. Questo fatto scatenò in Cina un’ondata di nazionalismo e il conseguente blocco dell’esportazione di terre rare verso il Giappone. A partire dalla prima metà del 2011 si è osservata una tendenza al ribasso del 50-70%, fino ad arrivare al 90%. Lo shock sul mercato è stato tale da innescare una ristrutturazione dell’industria globale delle terre rare. Nel 2012 la Molycorp (Colorado) vende concentrati di terre rare a un prezzo medio di 36 dollari per chilo, rispetto agli 82 dollari del 2011. Nel 2014, i prezzi della maggior parte dei composti delle terre rare diminuiscono per un eccesso di offerta. Il consumo di terre rare nell’industria di materiale fluorescente cala a causa dell’incremento di uso dell’illuminazione Led. La quantità di metalli presente nei Raee dipende dal tipo e dal periodo di costruzione e il valore monetario è legato all’andamento dei prezzi dei singoli metalli (tabella 1 e 2). Tra maggio a dicembre 2015, a causa della riduzione dei prezzi degli ossidi delle terre rare, l’importo totale del valore stimato degli elementi delle terre rare ricavabili da un notebook rifiuto Raee del peso stimato di 3 kg è diminuito del 52,9% passando da 1,02 a 0,48 euro (tabella 3).

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Focus materiali permanenti


Case Studies

Non rinnovabile, di Marco Gisotti

MA ETERNO

“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.” Il vecchio postulato di Lavoisier vale oggi più che mai per i materiali permanenti riutilizzabili all’infinito. Come l’alluminio. Il cui riciclo tra l’altro consente un risparmio energetico del 95%. Pagina a sinistra: Jacques-Louis David (1748-1825), Portrait of Monsieur de Lavoisier and his Wife, chemist Marie-Anne Pierrette Paulze, 1788, olio su tela, particolare, Metropolitan Museum of Art, N.Y., Public Domain, C.C.

Virtualmente l’alluminio della lattina di birra che avete bevuto ieri sera è eterno, anche se il suo uso è invece molto recente. L’alluminio non si trova in natura, tanto che per secoli il suo valore ha rivaleggiato persino con quell’oro. Solo alla fine dell’Ottocento la sua estrazione è diventata sufficientemente conveniente dal punto di vista economico perché se ne potesse fare un uso commerciale. Una volta estratto, infatti, l’alluminio può essere riutilizzato

e in moltissimi diversi impieghi. Un materiale “permanente” – come il vetro e l’acciaio – che non si consuma, ma si usa e si riusa senza fine. “L’industria dell’alluminio italiana – spiega Cesare Maffei, presidente del CiAl, il Consorzio imballaggi alluminio – impiega materia prima derivante ormai al 100% dal riciclo. L’alluminio è sempre più percepito come un materiale permanente, con il quale è difficile competere quando si parla di performance e di costi industriali, ambientali

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materiarinnovabile 13. 2016 MATERIALE

PERMANENTE?

SINTESI DELLE PROPRIETÀ

Carta e cartone

NO

Le fibre si riducono a ogni utilizzo

Legno

NO

Possono cambiare le proprietà durante la trasformazione

Fibre naturali (cotone, lana ecc.)

NO

Le fibre si riducono a ogni riciclo

Polimeri termoplastici

NO

Durante l'uso, le molecole possono essere danneggiate e contaminate

Polimeri termoindurenti

NO

Non è possibile nessun ulteriore riciclaggio

Elastomeri (gomma)

NO

Impossibile riciclare qualunque materiale per via delle sue proprietà molecolari

Alluminio

Le proprietà intrinseche non cambiano

Acciaio

Le proprietà intrinseche non cambiano

Rame, cadmio, piombo, platino

Le proprietà intrinseche non cambiano

Terre rare

Le concentrazioni sono normalmente basse nelle applicazioni

Semiconduttori

Le concentrazioni sono normalmente basse nelle applicazioni

Vetro

I componenti di base non cambiano durante la trasformazione, ma i diversi tipi di vetro devono essere riciclati separatamente

Minerali (calcare, ceramica, granito)

NO

Una certa quantità di materiale riciclato può essere aggiunta alle materie prime

Marco Gisotti è giornalista professionista e divulgatore, dirige l’agenzia di studi e comunicazione ambientale Green Factor.

ed energetici. La logica del loop, ossia del recupero perpetuo, consente nel nostro caso di mantenere costanti nel tempo le performance chimico-fisiche del materiale e di recuperarle a ogni ‘giro di giostra’. Chi altro può vantare simili proprietà? Non certo i materiali derivati da fonti fossili”. Il ciclo dell’alluminio comincia con l’estrazione della bauxite, un minerale solitamente di colore rosso che deve il suo nome a Les Baux-deProvence, la località francese dove nel 1822 furono scavate le prime miniere. L’alluminio, infatti, pur essendo una delle sostanze più abbondanti sul nostro pianeta non si trova allo stato puro ma va estratto dalle rocce. Un processo che per quanto semplice richiede tecnologie industriali e, su scala globale, un consumo non indifferente di energia. Cosa che, a meno che non si faccia ricorso a fonti rinnovabili, prevede l’impiego di combustibili fossili. Questo quanto è accaduto a livello mondiale per quasi un secolo e mezzo: decenni nei quali la produzione di alluminio ha avuto, in termini energetici, un costo molto elevato

Fonte: “Permanent Materials – Final report”, Carbotech, 2015.

oggi non più sostenibile. E non solo in termini economici, ma soprattutto ambientali perché con la produzione di energia si sono immesse in atmosfera milioni e milioni di tonnellate di gas a effetto serra. Si stima, per esempio, che a livello europeo l’attuale recupero e riciclo dei 28 miliardi di lattine di alluminio consumate ogni anno comporta un risparmio, in termini di gas a effetto serra di 3,2 milioni di tonnellate, l’equivalente delle emissioni prodotte da una città delle dimensioni di Bilbao, Cardiff o Nizza. Questo perché il processo di riciclo dell’alluminio consente un risparmio energetico pari al 95%. Il 5% residuo è quanto serve per ottenere nuovi prodotti in alluminio da alluminio già esistente. In altre parole è come dire che l’alluminio che abbiamo estratto nell’ultimo secolo è ormai sufficiente per tutti i nostri usi e utilizzi. E, visto che tecnicamente l’alluminio non si consuma, ne abbiamo a sufficienza per i secoli a venire e potremmo non avere più bisogno di miniere di bauxite.


Case Studies

I numeri in Italia

In questo senso assume un rilievo particolare la “Risoluzione del Parlamento europeo del 24 maggio 2012 su un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse” che supera la distinzione tra risorse rinnovabili e non rinnovabili, prendendo in considerazione anche i materiali durevoli o permanenti. Alla lettera “g” di questa risoluzione si impone una rivoluzione concettuale: si afferma, infatti, “che una futura politica globale in materia di risorse non dovrebbe più distinguere solo tra risorse rinnovabili e non rinnovabili, ma considerare anche i materiali durevoli”. Cosa significa in pratica? Che ci sono risorse che non si consumano. Che, una volta immessa in circolo, quella stessa identica risorsa può essere riutilizzata più e più volte, perché ciò è nella sua natura. Mentre il petrolio viene, per esempio, bruciato o trasformato chimicamente per produrre energia o materiali plastici ed è impossibile riportarlo al suo stato originario, l’alluminio no. Ed è anche per questo motivo che oggi si sta diffondendo il concetto di “materiale permanente”,

Info www.cial.it

Secondo i dati dell’ultimo rapporto annuale del CiAl, in Italia la capacità produttiva globale di alluminio secondario nel 2014 è stata pari a 808.000 tonnellate, con un fatturato stimato di 1,87 miliardi di euro e dando lavoro a 1.600 persone. Sono numeri che rendono quello italiano un mercato importante a livello europeo sul piano economico, strategico e occupazionale. Negli ultimi anni, a partire almeno dal 2010, il nostro paese ha stabilmente superato la Germania, altro grande produttore europeo di alluminio secondario. La stima per il 2015 è di oltre 710.000 tonnellate, dato che supera – e di buona misura – le 605.000 tonnellate della Germania. Mentre nella classifica mondiale, Italia e Germania sono terze e quarte dopo Stati Uniti e Giappone. Il riciclo dell’alluminio consente un risparmio energetico del 95%. È un dato che non cambia, sia che lo si consideri a livello globale, europeo o nazionale. È la percentuale di energia che distingue la produzione di un imballaggio in alluminio a partire da metallo vergine, da quella di un imballaggio con metallo da riciclo. La differenza non è poca cosa né in termini di energia, né di costo economico e soprattutto di impatto sull’ambiente in termini di emissioni gassose. Le attività di recupero, quindi, assumono particolare importanza. Quella gestita direttamente dal CiAl, per esempio, insieme alle attività gestite indirettamente attraverso aziende del settore della fonderia “alluminio da riciclo” e dai flussi in esportazione, ha garantito nel 2015 un risultato di recupero totale pari al 75,5%, con un risultato di riciclo pari al 69,9% dell’immesso sul mercato. Per oltre il 90% si tratta di tipologie in alluminio destinate al settore alimentare, con un incremento degli imballaggi immessi nella misura del 4,9% rispetto all’anno precedente. Nel 2015 l’avvio a riciclo di 46.500 tonnellate di imballaggi in alluminio ha evitato emissioni di gas serra pari a 345.000 t di CO2 equivalenti e si è risparmiata energia pari a 148.000 tep (tonnellate equivalenti petrolio). Nella sua seconda vita l’alluminio non ha difficoltà a trovare un impiego adeguato. Il dato nazionale non si discosta molto da quello europeo, con impieghi in diversi settori, in particolare nella produzione di beni durevoli. Per il 55% nel settore dei trasporti, il 19% nella meccanica e nell’elettromeccanica, il 26% nell’edilizia e nel settore domestico.

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materiarinnovabile 13. 2016 un materiale che non si consuma e si riutilizza all’infinito, conservando, in tutte le sue numerose applicazioni, l’energia necessaria per futuri e nuovi impieghi. Le valutazioni alla base della risoluzione del Parlamento europeo, spiega il CiAl, nascono da alcune considerazioni espresse dai sistemi di rappresentanza europei del packaging metallico. In particolare si afferma che, nel considerare le credenziali di sostenibilità dei diversi tipi di packaging, bisogna essere chiari sul rapporto tra le risorse naturali utilizzate per produrre i materiali poi trasformati nei singoli imballaggi. Occorre considerare, infatti, un punto importante. Si dice spesso che le risorse naturali sono in esaurimento. Tecnicamente è vero. Lo stesso alluminio benché rappresenti circa l’8% di tutta la materia presente sul pianeta non è infinito. “Normalmente – spiega Gino Schiona, direttore del CiAl – non si tiene conto del fatto che i metalli come alluminio e ferro sono elementi e quindi

non possono essere distrutti. La Terra non ha subito alcuna perdita di elementi metallici: semplicemente sono stati spostati e appaiono in forme diverse. Alluminio e acciaio sono materiali che possono essere trasformati in imballaggi e utilizzati per molte altre applicazioni nel settore edile, automobilistico, aerospaziale, per esempio. Alla fine del loro ciclo di vita, l’alluminio o l’acciaio utilizzati possono essere riciclati e riutilizzati per altri prodotti. Ciò dà luogo a un circolo virtuoso”. In questo senso si capisce bene perché la definizione di materiale permanente ha un valore non solo linguistico, ma addirittura economico nel dibattito europeo sull’economia circolare. Si tratta di una classificazione ulteriore di un bene che non si rigenera come le fonti rinnovabili, ma di fatto neppure si consuma come le fonti non rinnovabili. Ed è perfettamente integrato nel concetto di economia circolare. Oggi il CiAl è impegnato in numerosi progetti che hanno l’obiettivo di evidenziare la principale caratteristica che regola la gestione degli imballaggi post consumo e dell’alluminio in generale: lo schema metal to metal loop e il concetto di metallo permanente. In effetti i principi dell’economia circolare sono saldamente intrecciati con i valori dell’alluminio. Il postulato fondamentale di Antoine Lavoisier, il chimico francese vissuto nella seconda metà del Settecento, per cui “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” vale più che mai per i materiali permanenti e per i metalli in particolare, che una volta estratti possono essere riutilizzati all’infinito. Come, appunto, l’alluminio. E questo, per quanto riguarda in particolare la necessità di ridurre la produzione di rifiuti, assume un significato importante. Nel suo intervento agli Stati generali della Green Economy del 2016 a Ecomondo, Gino Schiona è stato molto chiaro: “Nel packaging, un contributo interessante in termini di prevenzione alla formazione dei rifiuti si potrebbe ottenere con un utilizzo più intensivo dei materiali permanenti. L’alluminio, in particolare, ha da tempo conseguito le più alte aspettative in termini di prevenzione: per ogni tipologia di packaging si utilizza tanto materiale quanto ne serve per garantire le funzionalità richieste. Si passa dai pochi micron (un decimo di capello) del foglio in alluminio presente nei cartoni per bevande agli spessori delle lattine e quindi a quelli delle bombolette. È evidente che ‘l’alluminio è prevenzione’ se consideriamo inoltre la sua completa e infinita riciclabilità. Il packaging in alluminio, inoltre, grazie alla capacità di proteggere cibi, bevande e altri prodotti dalla luce, dall’aria e dai microorganismi, ha il più efficiente effetto barriera oggi disponibile sui mercati dei materiali. Dal design, all’impiego in edilizia o nei trasporti, questo metallo contribuisce a rendere durevole un bene, conferisce cioè la propria caratteristica di materiale permanente, superando la logica dell’obsolescenza programmata e dell’usa e getta.”


Case Studies

Focus materiali permanenti

Il segreto di Marco Gisotti

DELL’ACCIAIO Antica invenzione che ha cambiato la storia dell’umanità, l’acciaio è ancora una risorsa fondamentale nella nostra economia. Come dimostrano 1.623 milioni di tonnellate prodotte al mondo ogni anno. Per avere un materiale dalle vite infinite. Quando Jared Diamond ha scritto il suo saggio Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni intendeva dipingere un affresco di storia dell’umanità su basi ecologiche anziché solamente culturali. La domanda sulla quale costruiva l’intera opera, premiata poi col Pulitzer, era: per quale ragione le civiltà sorte a ridosso della mezzaluna fertile avevano in qualche modo conquistato il resto del pianeta?

Una serie di vantaggi ambientali nel corso della storia dell’umanità ha consentito a questi popoli di sviluppare tecniche e tecnologie belliche più avanzate, di selezionare la resistenza a malattie che più tardi avrebbero sterminato, per esempio, le popolazioni delle Americhe, e, soprattutto, di stabilire un sistema di scambi culturali che ha consentito lo sviluppo della siderurgia. L’acciaio, quindi, come scoperta o invenzione fondamentale dell’umanità.

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materiarinnovabile 13. 2016 Gli imballaggi in acciaio … questi conosciuti! Barattoli, scatolette, latte, lattine, tappi, capsule, fusti e bombolette spray: sono tanti gli imballaggi in acciaio. E sono tutti riciclabili al 100% e all’infinito. I rifiuti degli imballaggi in acciaio appartengono al grande mondo delle materie prime secondarie costituite dai rottami ferrosi sebbene con una quota relativamente modesta (circa il 3%). Ma non per questo meno importante, visto che la disponibilità nazionale di rottami per soddisfare il fabbisogno delle acciaierie e fonderie è fortemente deficitaria. Cosa che rende necessario fare ricorso a consistenti importazioni (dal 25 al 30%), sia dall’Europa sia d’oltremare. In effetti, sono numerose le tipologie di imballaggi in alluminio che incontriamo nella vita di tutti i giorni. Open Top Imballaggi di acciaio (fino a 5 chili di capacità) generalmente utilizzati per prodotti alimentari: dal tonno alla frutta sciroppata, dal caffè ai pomodori pelati. È il settore che negli ultimi anni ha conosciuto il maggior sviluppo tecnologico, insieme alle lattine per bevande. General Line Contenitori di acciaio (fino a 40 chili di capacità) usati sia nell’industria alimentare (per esempio per l’olio) sia in quella chimica (per vernici, inchiostri, smalti, mastici, lubrificanti ecc. ). Si tratta di barattoli cilindrici, rettangolari ma anche di veri e propri bidoni e fusti. Fantasia Contenitori spesso usati per oggetti da regalo: per dolci, liquori e profumi. Sono delle tipologie più svariate per dimensione, forma; possono essere decorati con litografie. Fusti e Aerosol Grandi fusti realizzati in lamierino d’acciaio, con capacità fino a 250 litri. Un tempo destinati in prevalenza ai settori petrolifero e chimico, ora sono ampiamente utilizzati anche dal comparto alimentare. Chiusure Tappi a corona della bottiglie di birra, oppure le capsule di vario tipo per bottiglie e vasetti di vetro nonché i coperchi a strappo easy open (ad apertura totale o parziale), il cui impiego è strettamente collegato alla produzione di scatole open top.

Oggi si producono 1.623 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, secondo i dati preconsuntivi del 2015. Qualcosa in meno rispetto all’anno precedente (erano 1.670 milioni nel 2014, il 3% in più) ma pur sempre un quantità grandissima. In Europa, dove si è scesi da 313 milioni di tonnellate a 304 milioni, secondo i dati del Rapporto Ricrea – il Consorzio nazionale riciclo e recupero imballaggi in acciaio – l’Italia è il secondo produttore, dopo la Germania, con 22 milioni di tonnellate, il 13% dell’intera produzione dell’Ue28. “L’acciaio è il materiale da imballaggio più riciclato al mondo: è un materiale permanente che può essere riutilizzato infinite volte senza che questo ne comprometta la qualità” spiega Domenico Rinaldini, presidente di Ricrea. “Una volta usati, barattoli, fusti e chiusure vengono raccolti, riciclati e reintrodotti nel ciclo produttivo dando vita a nuovi manufatti: un perfetto esempio di economia circolare.” D’altronde già un anno fa il direttore di Eurofer, Axel Eggert, aveva salutato con entusiasmo la pubblicazione da parte dell’Unione europea del “Circular Economy Package” che attribuiva proprio all’acciaio un ruolo importante: “L’acciaio – diceva Eggert – è riciclabile al 100%. È un materiale permanente ed è proprio questo uno dei concetti alla base dell’economia circolare”. Il “Circular Economy Package” ha significato, infatti, un passo in avanti nel dare un nuovo status ai prodotti co-generati industrialmente e,

Rapporto Ricrea 2016, www.consorzioricrea. org/wp-content/ uploads/2016/09/Rgps2016.pdf


Case Studies soprattutto, nell’incoraggiare l’uso di prodotti durevoli. Poter affermare, oggi, che l’acciaio è un materiale permanente è un balzo in avanti concettuale, ma anche commerciale, significativo.

L’acciaio è il materiale da imballaggio più riciclato al mondo: è un materiale permanente che può essere riutilizzato infinite volte senza che questo ne comprometta la qualità.

“In Italia – spiega Domenico Rinaldini – lo scorso anno è stato avviato a riciclo il 73,4% degli imballaggi di acciaio immessi al consumo, uno dei risultati migliori a livello europeo. Il nostro obiettivo è di avvicinarsi il più possibile a riciclare l’80% entro il 2020, attraverso le convenzioni con i Comuni italiani e grazie alle iniziative di sensibilizzazione che ci aiutano a promuovere la cultura del valore della raccolta differenziata, veicolo fondamentale per avviare a riciclo gli imballaggi in acciaio”. Al pari di altri materiali – come l’alluminio o il vetro – l’acciaio è riutilizzabile in teoria all’infinito. Il che significa un enorme risparmio in termini energetici, economici e ambientali, visto il suo largo impiego. Si tratta di una risorsa – una lega metallica – che ha condizionato la storia dell’umanità e verso la quale la stessa società industriale moderna è debitrice. Come ricorda anche il Rapporto Ricrea, l’acciaio ha occupato un posto di rilievo, tanto che spesso si fa coincidere l’inizio dell’era

industriale con la comparsa delle grandi unità produttive siderurgiche. In Italia la produzione siderurgica, secondo i dati 2015, è composta per il 51% da laminati lunghi (travi, rotaie, tondo per cemento armato, vergella,) e per il rimanente 49% dai laminati piani (coils, lamiere a caldo e lamiere a freddo tra cui banda stagnata, banda cromata e lamierino utilizzati per la produzione di imballaggi). Principalmente l’acciaio si produce nei forni elettrici, fondendo rottami ferrosi come materia prima-secondaria, che rappresenta più del 50% della produzione italiana. Infatti, il nostro paese storicamente povero di materie prime ha invece una buona disponibilità di rottami ferrosi che recuperiamo sul mercato interno ed internazionale. Inoltre l’acciaio che ci viene richiesto deve avere minori requisiti qualitativi perché destinato a prodotti che richiedono standard, per così dire, più semplici, come per esempio il tondo per il cemento armato. Produzioni ottenibili con profitto negli stabilimenti di piccola capacità, come sono tipicamente quelli a ciclo elettrico. I rottami arrivano in maniera piuttosto omogenea dalle demolizioni industriali, civili e persino ferroviari e navali. Ma anche dai cascami

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materiarinnovabile 13. 2016 di lavorazioni industriali e dalla raccolta presso centri autorizzati (rottami di auto, elettrodomestici, altri rifiuti domestici e imballaggi). Il mondo degli imballaggi, poi, è particolarmente vario: si va dai tappi a corona delle bottiglie ai fusti, fino alle scatolette per il tonno e i barattoli dei pomodori, passando per le bombolette spray. Il consorzio Ricrea, per quanto riguarda proprio la prevenzione e il recupero gli imballaggi, pone particolare attenzione alle fasi di ricondizionamento e rigenerazione. Per esempio i fusti e le cisternette con gabbia in acciaio, per le loro caratteristiche di solidità e resistenza, possono subire diversi processi di rigenerazione per essere nuovamente utilizzabili. A partire dal ripristino della forma (risanamento di bordi e ammaccature), pulizia (scolatura, lavaggio, asciugatura), fino alla verifica della tenuta e delle superfici interne e, infine, alla spazzolatura esterna e alla verniciatura. Diversamente, altri rottami subiscono processi di distagnazione (ovvero separazione dello stagno), di frantumazione e di riduzione volumetrica. Infine gli imballaggi lavorati in tutte queste fasi sono ormai pronti per essere portati nelle acciaierie o in quelle fonderie che utilizzano il forno elettrico, adatto a trattare questa tipologia di rottami.

Nei forni avviene quindi la fusione grazie alla quale, insieme ad altri processi, avranno luogo quelle attività metallurgiche per eliminare le impurità non metalliche e procedere alla produzione, con l’aggiunta o meno di altri metalli, di nuove tipologie di acciaio. Purtroppo al consumatore finale tutto questo, per lo più, sfugge. Figuriamoci il concetto di materiale permanente. Per questo devono entrar a far parte della filiera anche le attività di comunicazione che ruotano attorno all’acciaio e al suo riciclo. Ne è un esempio “Riprodotti”, un progetto di Ricrea attualmente in fase di studio che punta a offrire strumenti utili a indicare quali siano i prodotti realizzati con acciaio riciclato proveniente dagli imballaggi in acciaio conferiti nella raccolta differenziata e avviati a riciclo tramite la rete di operatori collegati al consorzio Ricrea. “Scopo del lavoro – si legge nel Rapporto 2016 – è dimostrare ai cittadini che l’impegno nel fare la raccolta differenziata porta a un effettivo riciclo e riutilizzo del materiale. Ma anche che la scelta di utilizzare un materiale riciclabile e riutilizzabile porta dei vantaggi al sistema nel suo complesso”.

Info www.consorzioricrea.org


Case Studies

Focus materiali permanenti

di Letizia Palmisano

5.000 anni di TRASPARENZA Il vetro è utilizzato da 5 millenni, ma solo ora si comincia ad avere una misurazione precisa dei benefici ambientali ed economici derivanti dalle sue caratteristiche: il riciclo è possibile al 100% senza alcuna perdita di massa, potenzialmente all’infinito.

Giornalista ambientale e social media manager, Letizia Palmisano si occupa di comunicazione, formazione e sviluppo di strategie di comunicazione web. È docente, in tali campi, in corsi e master, anche universitari.

Il vetro è un materiale che potremmo definire nobile. Realizzato con materie prime di origine naturale, utilizzato da ben 5.000 anni, oggi può essere differenziato e riciclato – con vantaggi ambientali ed economici – potenzialmente all’infinito. Il vetro non muta le sue caratteristiche chimico-fisiche nelle fasi di riciclo e di lavorazione di nuovi prodotti: questo ne rende possibile il riciclo al 100%, senza alcuna perdita di massa né delle proprie

qualità intrinseche e senza richiedere ulteriori materie prime vergini. In pratica un prodotto realizzato attraverso i rottami di vetro avrà le stesse proprietà dei manufatti riciclati e a sua volta, a fine vita potrà essere avviato di nuovo alle industrie di produzione del vetro, realizzando un ciclo virtuoso potenzialmente senza fine. Le proprietà del vetro fanno sì che rientri alla perfezione nella definizione di economia circolare.

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materiarinnovabile 13. 2016 Contenitori in vetro raccolta per il riciclo in Europa (2004)

Di cosa è fatto il vetro Il vetro è realizzato con una miscela di minerali molto diffusi in natura. Il materiale principalmente usato è il silicio (sabbia) che fonde a temperatura elevata e, raffreddandosi, si solidifica. Per abbassare la temperatura di fusione, nel corso della lavorazione vengono utilizzati fondenti o modificatori di reticolo. Quindi, per ottenere i contenitori e gli oggetti destinati al contatto con gli alimenti si utilizza di solito una miscela di materie prime (minerali) contenenti i vetrificanti e fondenti ovvero silicio, sodio e calcio attraverso una miscela di sabbia (SiO2), soda (carbonato di sodio Na2CO3) e marmo (carbonato di calcio CaCO3). Il vetro ha una struttura affine a quella di un liquido tanto da essere definito come un fluido altamente viscoso, allo stato rigido a temperatura ambiente. La curva di viscosità, dallo stato fluido a quello solido, è direttamente variabile con la temperatura. Per saperne di più sul vetro, si può visitare il portale di Friends of Glass, una community europea, promossa da Feve, promotrice di campagne di informazione sulle qualità del vetro.

“Permanent Materials in the framework of the Circular Economy concept: review of existing literature and definitions, and classification of glass as a Permanent Material”, giugno 2016; feve.org/glass-ispermanent-material

Svezia

102%

Regno Unito

67%

Svizzera

96%

Bulgaria

63%

Lussemburgo

95%

Polonia

59%

Belgio

94%

Lettonia

55%

Norvegia

94%

Lituania

55%

Austria

89%

Portogallo

55%

Germania

89%

Croazia

53%

Slovenia

86%

Malta

49%

Danimarca

85%

Romania

40%

Finlandia

81%

Rep. Slovacca

39%

Paesi Bassi

80%

Ungheria

36%

Irlanda

77%

Cipro

32%

Italia

77%

Grecia

21%

Francia

74%

Turchia

14%

Estonia

73%

Ue28

74%

Rep. Ceca

72%

Spagna

69%

Europa (incluso Norvegia, Turchia e Svizzera)

70%

Friends of Glass, www.friendsofglass. com/it

Al riguardo un importante riconoscimento è venuto dalla Commissione del Parlamento europeo per l’industria, la ricerca e l’energia (Itre) in relazione al pacchetto sulla circular economy. Dallo studio dei materiali e delle filiere del riciclo, sta emergendo in Europa l’individuazione di quei materiali che, oltre a permettere una filiera di produzione e riciclo rientrante nell’economia circolare, per le loro caratteristiche intrinseche e chimico-fisiche possono essere definiti come materiali permanenti. E il vetro si candida a ottenere questo status. È la stessa Commissione a riconoscere un valore superiore a tali materiali. Nel parere del 20 ottobre 2016 in merito alle modifiche di proposta di direttiva 94/62/CE sui rifiuti di imballaggio si legge: “ove possibile, gli Stati membri dovrebbero incentivare l’uso di materiali permanenti che hanno un valore superiore per l’economia circolare in quanto possono essere classificati come materiali che possono essere riciclati senza perdita delle loro intrinseche qualità, indipendentemente da quante volte il materiale in questione venga riciclato”. Nell’ambito della discussione sul cosiddetto “Pacchetto sull’economia circolare” la Commissione ha infatti espresso voto favorevole alla proposta di introduzione di incentivi per l’utilizzo di tutti i materiali permanenti.

Tale posizione ha quindi acceso un dibattito sulle future misure europee in materia di riciclo, sugli incentivi per i materiali permanenti. E sulla loro individuazione giuridica. Secondo i promotori, queste misure legislative dovrebbero incoraggiare un uso realmente efficiente delle risorse, favorendo i modelli di business che siano effettivamente circolari grazie alla possibilità di riutilizzare più volte le risorse recuperate attraverso la raccolta differenziata. Il vetro è un materiale permanente? A rispondere a questa domanda, attraverso un’analisi del prodotto e delle filiere di lavorazione del materiale, è lo studio “Permanent Materials in the framework of the Circular Economy concept: review of existing literature and definitions, and classification of glass as a Permanent Material” condotto dalla Stazione sperimentale del Vetro e commissionato dalla Feve (la Federazione europea dei contenitori in vetro). Il vetro rappresenta uno dei migliori esempi di materiali permanenti oggi in uso sia per le sue intrinseche proprietà strutturali chimico-fisiche, sia in relazione all’attuale filiera del riciclo (dalla raccolta differenziata, al trattamento al riutilizzo della materia prima seconda nell’industria produttrice di imballaggi in vetro), sia per la conoscenza diffusa tra i consumatori europei della sua riciclabilità. Il documento della Stazione sperimentale del vetro ha individuato i criteri essenziali per la definizione – in assenza di quella giuridico-normativa – di un materiale permanente e ha analizzato la presenza di tali requisiti nella produzione


Case Studies

e nella filiera del riciclo del vetro. Nel farlo la Stazione sperimentale ha preso in considerazione i seguenti studi: British standard BS 8905:2011 “Framework for the assessment of the sustainable use of materials – Guidance”, the first document to ever propose a definition of Permanent Materials; Carbotech Final Report 2014 “Permanent materials, scientific background”. Di seguito le caratteristiche che devono essere presenti e in base alle quali il vetro rientra nella definizione di materiale permanente. Non deve essere degradabile durante il corso della vita e il suo riciclo deve essere possibile all’infinito. Il vetro non subisce una degradazione apprezzabile nel corso della vita, né durante le fasi del riciclo. Dai frammenti di vetro si possono ricavare i medesimi manufatti originali e nella medesima quantità, in termini di peso. La composizione chimica del vetro, la sua curva di viscosità inversamente proporzionale all’alta temperatura, permettono di fondere eventuali rottami di vetro per creare nuovi manufatti senza alcuna perdita di massa né delle caratteristiche intrinseche e della qualità del vetro. Per fare un esempio: da un chilo di frammenti di vetro si può realizzare un nuovo oggetto dello stesso peso di un chilo. Quindi, dieci bottiglie di vetro potranno diventare quindici barattoli e poi tornare a essere dieci bottiglie della medesima qualità delle originali, senza l’aggiunta di nuove materie prime primarie. La riciclabilità deve essere tecnicamente possibile. Per parlare di un materiale permanente occorre però che la riciclabilità non sia solo teorica, ma anche tecnicamente realizzabile. Così è per il vetro per il quale in tutta Europa

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materiarinnovabile 13. 2016

sono state realizzate campagne di informazione e una filiera della raccolta differenziata (sebbene con risultati diversi, ma in ogni caso con percentuali molto elevate) ben distribuita ed è stata ben avviata un’industria del riciclo, la cui tecnologia consente anche la rimozione delle impurità (ferrose, organiche, in vetroceramica ecc.) e il recupero del 100% del vetro conferito. A riprova di ciò si può ricordare che in alcuni paesi Ue come la Danimarca, la Svezia o il Belgio il riciclaggio dei contenitori in vetro ha superato la percentuale del 95%, arrivando all’obiettivo

Info www.feve.org

di un circuito chiuso su scala nazionale (dati Feve). Il materiale deve essere utile (e non di ostacolo) allo sviluppo sostenibile. Il riciclo dei rottami di vetro produce grandi benefici per l’ambiente, in un’ottica di sviluppo sostenibile e di green economy. La filiera del riciclo, infatti, riduce lo sfruttamento delle risorse minerali non rinnovabili, comporta un risparmio di energia – richiedendo il riciclo del vetro un fabbisogno energetico inferiore a quello della produzione con materie prime – la riduzione di emissioni di CO2, e permettendo anche di ridurre il ricorso alle discariche. Grazie all’utilizzo di rottami per realizzare nuovi prodotti in vetro, nel 2014 nella Ue si sono risparmiate oltre 12 milioni di tonnellate di materie prime e si sono ridotte di oltre 7 milioni di tonnellate le emissioni di CO2: come aver tolto dalla strada 4 milioni di automobili. In termini di energia necessaria per alimentare le fornaci, si registra un risparmio del 2,5% per ogni 10% di vetro riciclato. Il processo deve essere conforme alla normativa. L’utilizzo del materiale, il suo processo di riciclo e il suo eventuale smaltimento devono essere conformi alla normativa vigente.

Tutti i vantaggi per la filiera

Vitaliano Torno

Le opinioni di Vitaliano Torno, presidente Feve e di Adeline Farrelly, segretario generale Feve

Adeline Farrelly

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A Vitaliano Torno abbiamo chiesto quali possano essere i vantaggi in termini ambientali e per l’industria del vetro, del riconoscimento dei materiali permanenti da parte dell’Unione europea. “Utilizzando vetro riciclato in un circuito chiuso, l’industria riduce in modo significativo l’utilizzo di altre materie prime vergini. Le misure legislative dovrebbero incoraggiare un impiego autenticamente efficiente delle risorse, concentrandosi sui modelli di business veramente circolari che riutilizzano, cioè, le stesse risorse produttive più e più volte. I materiali permanenti, che possono essere riciclati all’infinito senza perdere le loro proprietà intrinseche, dovrebbero essere sostenuti e incentivati. Il loro riconoscimento contribuirà a ridurre la dipendenza dell’Europa dalle industrie estrattive, il consumo del suolo e dei combustibili fossili per la produzione di imballaggi, ma anche per la fabbricazione di altri prodotti e strumenti. Dovrebbero, inoltre, essere supportate le industrie che si impegnano per fondare il proprio sistema di produzione sull’utilizzo di tali materiali. Questo – ha concluso Torno – sarebbe un passo avanti molto importante per un’economia veramente circolare in Europa”.

Tra i meccanismi incentivanti per i materiali permanenti suggeriti vi è l’inclusione degli stessi negli schemi Epr (responsabilità estesa del produttore). A spiegarci i vantaggi che comporterebbe un tal riconoscimento è Adeline Farrelly, segretario generale Feve. “Una delle condizioni fondamentali per consentire ai materiali riciclabili di essere permanentemente riciclati sotto forma di nuovi prodotti è avere uno schema Epr ben funzionante. La legislazione Ue sui rifiuti – attualmente in fase di riesame con il Pacchetto sull’economia circolare – dovrebbe fare in modo che i sistemi Epr siano di incentivo e sostegno alla raccolta differenziata dei materiali permanenti, attraverso investimenti mirati nelle infrastrutture e in sistema informativi rivolti ai cittadini sulla corretta modalità di raccolta”. Prosegue Farrelly: “Come industria stiamo già investendo molto per riutilizzare il vetro riciclato all’interno del ciclo di produzione. Questa è, infatti, la principale materia prima per noi, con importanti benefici ambientali ed economici. Come industria vorremmo poterne utilizzare una quantità maggiore, ma a condizione che sia di alta qualità e in condizioni di mercato competitive. Crediamo che il riconoscimento dello status superiore dei materiali permanenti in sistemi Epr, sarà l’incentivo che serve al mercato per incrementare l’utilizzo di materiali permanenti, come il vetro”.


Case Studies

L’economia circolare

SI MOSTRA di Marco Moro

Video “ExNovo Materials in the Circular Economy”, www.youtube.com/ watch?v=10hitUvByIo

Fotografie ©Sergio Ferraris/ www.sergioferraris.it

Creare il fermoimmagine di un fenomeno per sua natura in rapida mutazione: questa è la sfida che a Ecomondo 2016 si è cercato di vincere. Con una mostra. Per non rischiare di mandare un segnale debole, si è scelta la posizione più evidente possibile: nella hall d’ingresso della fiera, in modo che proprio non si potesse non notarla. Così, la mostra “ExNovo Materials in the Circular Economy”, ha svolto il suo compito, quello di testimoniare un cambiamento fondamentale nella cultura e nella realtà economica e politica di cui Ecomondo è il principale appuntamento in Italia, ovvero il mondo delle clean & green technologies. Giunta alla ventesima edizione, la manifestazione nata come fiera delle tecnologie per la gestione sostenibile dei rifiuti ha voluto porre con la massima evidenza (rinforzando il concetto con un nutritissimo programma di eventi) un tema: l’economia del riciclo sviluppatasi in questi due decenni è giunta a un punto di svolta. È il concetto

stesso di rifiuto che sta assumendo una nuova identità, nel momento in cui la maturazione di diversi fattori (tecnologici, di mercato, ambientali, senza trascurare la spinta delle politiche e della società) consente di superare la dicotomia tra materia vergine e materia “seconda”, a volte addirittura rovesciandone i valori di mercato. Con, in più, il “bonus” della crescita di una nuova famiglia di materie, più propriamente rinnovabili in quanto “estratte” da risorse di origine biologica. Il riciclo – ovvero le politiche e le pratiche con cui è cresciuta la capacità di reimmettere nei cicli di produzione percentuali importanti di ciò che a un certo punto nel proprio ciclo di vita assume lo status di “rifiuto” – nella visione dell’economia circolare diviene solo una delle molteplici strategie che concorrono a ridurre in modo sostanziale l’eccessivo prelievo di materie prime vergini

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materiarinnovabile 13. 2016 e il loro spreco in processi lineari di raccolta, trasformazione, uso e smaltimento. La visione integrata dei diversi processi che contribuiscono a ridisegnare il rapporto tra economia e risorse (i “nutrienti tecnici e biologici dell’economia”, nella definizione di Bill McDonough e Michael Braungart) diventa quindi l’obiettivo che da qui in poi caratterizzerà le strategie espositive e culturali di Ecomondo. “ExNovo Materials” ne è l’annuncio e la prima efficace visualizzazione.

R. Bressa, “L’edilizia green che nasce dai rifiuti”, Materia Rinnovabile 12/2016; www.materiarinnovabile. it/art/262/Ledilizia_green_ che_nasce_dai_rifiuti

Raccontare una transizione attraverso immagini statiche avrebbe significato cadere in un paradosso, che agli occhi dei visitatori sarebbe apparso evidente. La formula che si è scelta è stata quindi un mix di immateriale e materiale: i video, con cui le pareti di ogni stanza venivano animate, e i materiali, le “materie rinnovabili” fisicamente presenti all’interno dei singoli spazi, in forma di prodotti o di materiali grezzi.

di processi circolari nella gestione della materia. Per ognuno dei materiali la mostra punta a mettere in evidenza le proprietà di “rinnovabilità”, ossia la capacità di mantenere inalterato il proprio valore nel passaggio tra una vita e l’altra della materia. A rendere più immediatamente percepibile la natura di queste materie contribuiscono gli ologrammi realizzati per visualizzare dinamicamente le trasformazioni che sono in grado di compiere. Protagonisti di questa sezione sono i consorzi italiani di filiera per la gestione di imballaggi in alluminio (Cial), legno (Rilegno), acciaio (Ricrea), vetro, (CoReVe) plastiche (Corepla) e carta (Comieco), cui si aggiungono Coou per gli oli minerali, Ecopneus per gli pneumatici e Cic (Consorzio italiano compostatori) con Assobioplastiche e Corepla con il progetto “Di che plastica sei?”. Al centro lo spazio dedicato a Conai (Consorzio nazionale imballaggi) dove le identità delle diverse filiere coinvolte si presentano come sistema.

La mostra è stata strutturata in tre aree che definiscono differenti ambiti di sviluppo dell’economia circolare. Nella prima – “Labirinto delle stanze” – ogni ambiente è dedicato a uno dei materiali che in questi anni sono stati i protagonisti della cultura del riciclo e che oggi rappresentano le realtà industriali più consolidate dell’economia circolare: alluminio, vetro, acciaio, plastiche, bioplastiche, carta, legno, oli minerali e pneumatici. Al centro del percorso che si sviluppa tra le stanze, un’area è stata riservata agli imballaggi, settore che in questi anni ha svolto un ruolo guida nella messa a punto

L’area successiva presenta una serie di testimonial, ovvero le aziende che sono concreti e innovativi interpreti del cambiamento. Come Novamont, con la sua rete di poli produttivi e di ricerca che la pongono all’avanguardia nella produzione di biochemicals e biobased products, di cui nella mostra sono proposte anche numerose applicazioni. Officina dell’Ambiente, Hera e Federbeton rappresentano invece un’intera filiera circolare, che a partire da un “residuo dei rifiuti”, come le ceneri prodotte dagli impianti di termovalorizzazione, arriva fino alle applicazioni nel green building.


Case Studies Who’s who in ExNovo Materials La mostra è nata da un’idea condivisa tra Italian Exhibition Group, Edizioni Ambiente e Centro Materia Rinnovabile. Tutte le aziende e i consorzi presenti hanno attivamente contribuito alla realizzazione dei contenuti, fornendo anche i materiali in esposizione. Per la realizzazione dei visual ci si è avvalsi della collaborazione di Phantasya, per gli allestimenti di Prostand, mentre la grafica è stata curata da Mauro Panzeri-GrafCo3 Milano.

Phantasya, www.phantasya.it Prostand, www.prostand.com

Nespresso presenta il proprio programma di riciclo delle capsule in alluminio usate e del loro contenuto, quest’ultimo avviato a compostaggio. Mosaico Digitale propone resine per rivestimenti a base di resine da fonte rinnovabile. Sono, infine, presenti Syndial, società del gruppo Eni specializzata nelle bonifiche di terreni contaminati e Remedia, che illustra un progetto per promuovere la raccolta dei Raee in Africa. A chiudere il percorso espositivo un’ampia area riservata a una selezione di innovazioni proposte da start-up attive nell’ambito dell’economia circolare e della bioeconomia. L’azienda tedesca Equipolymers ha presentato il progetto per lo sviluppo di una bottiglia in plastica con il 20% di contenuto di Pet riciclato, adatta a contenere bevande per produzioni su larghissima scala, che consentirebbe risparmi di materia estremamente consistenti rispettando

Mauro Panzeri-GrafCo3, www.linkedin.com/in/ mauro-panzeri-81963919

i requisiti qualitativi necessari. Werner & Metrz Italia ha sviluppato una capacità di riciclo della plastica da raccolta differenziata che consente di realizzare contenitori di elevate prestazioni con cui l’azienda caratterizza una propria linea di prodotti per la pulizia. Le start-up offrono poi una rassegna di materiali, semilavorati e prodotti “circolari” ottenuti dalle risorse più varie: fibre di basalto riciclate per produrre scafi per la nautica (GS4C), scarti della lavorazione del latte utilizzati per la produzione di tessuti (Acquastyle DUEDILATTE), scarti della filiera agroalimentare che vanno a comporre miscele per malte (Calchera San Giorgio) o materie plastiche (Mycoplast - Mogu), biomasse non alimentari per realizzare polimeri (AEP Polymers), scarti della lavorazione della lana per produrre fertilizzanti (TCP Engineering - Fertilana), cosmetici ottenuti dagli scarti della produzione vinicola (Poliphenolia), prodotti per l’edilizia ricavati dai fanghi di segagione dei materiali lapidei (Stonebricks). In pratica la creatività applicata a tutto ciò che è rifiuto o residuo, con un occhio di riguardo al rapporto con le risorse locali e le economie dei territori. Messa alla prova durante le giornate di Ecomondo 2016, la mostra ha riscosso un notevole interesse, evidenziando una qualità divulgativa che è andata al di là delle stesse aspettative degli organizzatori. I quali si ritrovano oggi in mano un format efficace e replicabile per favorire la diffusione di una cultura della circolarità.

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FAI IL PIENO al depuratore!

A Bresso è stato installato il primo distributore italiano di metano prodotto dai reflui fognari dell’area metropolitana di Milano. Che ogni anno potrebbe arrivare a produrre 341.640 chilogrammi di biometano, sufficienti ad alimentare 416 veicoli per 20.000 chilometri. di Rudi Bressa

Rudi Bressa, giornalista ambientale e naturalista, si occupa di rinnovabili, economia circolare e sostenibilità.

Un depuratore dell’area metropolitana di Milano che si trasforma in bioraffineria. Un sito dove vengono trattate le acque reflue di una parte del capoluogo lombardo, che diventa un distributore di carburante. A chilometri zero e a ridottissimo impatto ambientale. È il progetto realizzato dal Gruppo Cap, azienda che gestisce il servizio idrico integrato sul territorio della Città metropolitana di Milano – e in diversi altri comuni delle province di Monza e Brianza, Pavia, Varese, Como – nel depuratore di Niguarda-Bresso, a ridosso della prima periferia nord del capoluogo lombardo. E proprio qui, grazie alle competenze tecniche di Cap, alla collaborazione con Austep Spa, alla supervisione scientifica del Cnr e quella tecnologica del Gruppo Fca (Fiat Chrysler Automobiles), è stato realizzato il primo distributore di metano prodotto utilizzando i reflui fognari, cioè i fanghi risultanti dalla depurazione delle acque nere. Metano che è poi stato effettivamente impiegato per fare il pieno a un’auto. “Con questo progetto siamo riusciti a estrarre tutto il valore possibile dai fanghi di depurazione”, spiega Alessandro Russo, presidente del Gruppo Cap. “Riteniamo che si tratti di un ciclo sano, circolare. Questo perché andiamo a utilizzare qualcosa che già produciamo e che può essere ulteriormente valorizzato.” Il depuratore Niguarda-Bresso raccoglie le acque reflue attraverso la rete di collettamento intercomunale di tipo civile, industriale e di origine meteorica; serve una popolazione equivalente

di 220.000 abitanti effettivi e può trattare fino a 300.000 abitanti equivalenti (con la definizione di abitante equivalente, o carico organico specifico, si indica la quantità di sostanze organiche biodegradabili, derivate da un’utenza civile o a questa assimilabile, convogliate in fognatura in un giorno, ndr). Una fonte rinnovabile inesauribile Il biometano è un gas prodotto dalla digestione anaerobica di biomasse in grandi “stomaci” chiamati digestori che lavorano in determinate condizioni di temperatura, in assenza di ossigeno e grazie alla presenza di particolari batteri. Il processo è lo stesso anche per le acque reflue che entrano nell’impianto di depurazione: una volta separate le due fasi, quella liquida da quella solida, i fanghi vengono trattati all’interno dei digestori dove si forma il biogas, che al suo interno sarà composto in media dal 65% di metano. Con le normali tecnologie di upgrading, il metano viene poi “lavato” fino ad arrivare ad avere un gas con indici di purezza superiori al 99%. Una volta compresso sarà pronto per essere immesso nelle vetture. “Si tratta di un carburante a chilometri zero. E sostenibile perché prodotto da materia praticamente inesauribile”, sottolinea Russo. “Anzi, man mano che aumenteranno gli impianti per la depurazione dei fanghi, aumenterà la capacità di produzione del gas.” Un carburante sostenibile Se si guardano i dati forniti da Cap, si vede come il solo depuratore di Bresso avrebbe la potenzialità di produrre ogni anno 341.640 chilogrammi


Case Studies di biometano, sufficienti ad alimentare 416 veicoli per 20.000 chilometri. O “l’intera flotta del Gruppo Cap”, sottolinea Russo. Ma, allargando gli orizzonti, si può pensare a una produzione a livello nazionale. Sommando, infatti, le varie stime fornite da Enea e Ispra, a livello nazionale si potrebbe arrivare a produrre ogni anno 208 milioni di chili di biometano, che potrebbero alimentare più di 250.000 veicoli (sulla base dei consumi medi di una Fiat Panda a metano e su percorsi medi di 20.000 chilometri l’anno). Il parere del Cib Cib, www.consorziobiogas.it

“Si tratta di un carburante a chilometri zero. E sostenibile perché prodotto da materia praticamente inesauribile.”

Il biometano, così come l’intera filiera del biogas, è il carburante che mostra maggiori opportunità di crescita. L’obiettivo, secondo il Cib (Consorzio italiano biogas), è di arrivare a produrre – entro il 2030 – 8,5 miliardi di metri cubi di biometano, incrementando di una volta e mezzo la quantità di gas naturale autoprodotta dal nostro paese. Coprendo così un quarto del fabbisogno annuo di tutto il territorio nazionale. “Sulla filiera del biogas-biometano si gioca una fetta importante del futuro della sostenibilità del sistema energetico italiano e di quello agricolo”, spiega Piero Gattoni, presidente del Cib. “Gli ultimi sono stati anni difficili, per effetto dei ritardi e della mancanza di visione di lungo periodo a cui la nostra politica ci ha spesso abituato,

Metano e biometano in Italia Carburante erogato

1.000.100.000 mc3

Distributori stradali

1.100

Veicoli circolanti

980.000 (7° paese al mondo, 1° in Europa)

Addetti

20.000

Fatturato

1,7 mld euro

% carburanti da rinnovabili nel 2020

10%

Impianti di biogas

1.555

Prod. attuale complessiva biogas

2,5 mld mc3/anno

di cui digestato

35.000.000 mc3

di cui da fibre

3.000.000 mc3

Bioraffinerie attive

6

Prod. potenziale complessiva biometano

8 mld mc3/anno entro il 2030

Fonte: “Biometano: la partenza di una filiera italiana”, a cura di Cib – Consorzio italiano biogas (2015).

ma le nostre aziende associate, con la loro presenza, dimostrano che, nonostante il periodo complesso, il nostro è un settore vivo che non rinuncia a fare impresa in Italia e a farlo con la qualità del fare bene che contraddistingue le nostre produzioni agricole e industriali.” E i numeri danno ragione al Cib: l’Italia oggi è il secondo produttore europeo di biogas, dopo la Germania e il quarto a livello mondiale, dopo Cina, Germania e Usa. Secondo i dati forniti dal Cib, circa l’80% degli impianti in esercizio è alimentato da liquami zootecnici, residui agro-industriali, o colture di integrazione; mentre la quota restante utilizza la frazione urbana dei rifiuti solidi urbani, i fanghi di depurazione e il biogas captato dalle discariche. Una trasformazione, quella del depuratore di Bresso-Niguarda che non rimarrà unica, non appena la legge consentirà l’immissione in rete anche di biometano prodotto da reflui fognari. Il Gruppo Cap, infatti, punta a trasformare gradualmente i principali depuratori – tra i 61 oggi operativi – in bioraffinerie capaci di produrre non solo biometano, ma anche fertilizzanti, energia elettrica e nutrienti come fosforo e azoto. Dalla gestione integrata dell’acqua nascono nuovi giacimenti, dalle potenzialità tutte da sfruttare. Così il ciclo si chiude e presto si potrà fare il pieno all’auto recuperando e depurando l’acqua.

Emissioni CO2 “Well-to-wheel”: confronto Fiat Panda con vettura elettrica di pari segmento 100%

69%

44%

43%

3%

1,2 BENZINA

1,9 T METANO

1,9 T METANO (40% biometano)

1,9 T METANO (100% biometano)

3%

ELETTRICO ELETTRICO (Mix (100% eolico) energetico UE)

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materiarinnovabile 13. 2016 Intervista

a cura di R. B.

“Sviluppare una rete di biometano su scala nazionale” Alessandro Massone, amministratore delegato di Austep

Austep è una società di ingegneria specializzata nella progettazione, realizzazione, gestione e controllo attiva – tra gli altri – anche nel settore del trattamento delle acque di processo e acque reflue. Nell’impianto di Bresso ha fornito la tecnologia per l’upgrading del biogas a biometano. Qual è stato il ruolo di Austep nella realizzazione dell’impianto? “L’obiettivo di Austep era affrontare la problematica dei fanghi di depurazione e trovare una soluzione che valorizzasse questo scarto. Il Gruppo Cap, che gestisce più di 60 impianti, ha mostrato grande interesse verso la nostra tecnologia, proponendoci una collaborazione che portasse allo sviluppo di soluzioni innovative e all’avanguardia. Negli ultimi anni, grazie anche all’introduzione di normative che incentivano la produzione di biometano da fonti rinnovabili, l’interesse verso queste tecnologie è cresciuto in maniera esponenziale. È così che abbiamo pensato di applicare la nostra tecnologia b:UP al biogas prodotto da fanghi di depurazione, rispondendo alle molteplici richieste del mercato, e risolvere il problema degli scarti di depurazione delle acque nere.”

www.austep.com

Quali sono le caratteristiche tecniche dell’impianto? “Il modulo pilota utilizzato presso l’impianto di Bresso ha una capacità di trattamento di circa 25 metri cubi/ora. La tecnologia b:UP sfrutta le diverse dimensioni molecolari e, grazie a una serie di membrane, separa in due flussi distinti il biometano e l’anidride carbonica. Le molecole di anidride carbonica, più piccole rispetto a quelle di biometano, riescono a passare attraverso le membrane e proseguire il loro percorso, mentre le seconde, più grandi, vengono bloccate e convogliate in un flusso secondario. In questo modo all’uscita del modulo avremo due flussi, uno ricco di biometano e l’altro ricco di anidride carbonica.” Quali sono le potenzialità a livello nazionale della produzione di biometano da fanghi di depurazione? “Una volta che i test che stiamo conducendo presso l’impianto di Bresso saranno conclusi e avranno restituito i risultati attesi, sarà possibile realizzare il primo distributore di biometano su scala nazionale. L’idea è arrivare a una soluzione che possa essere replicata in maniera modulare presso tutti gli impianti di trattamento delle acque reflue, così da facilitare la diffusione di questa tecnologia. Con tutti i vantaggi che comporta.”

Cap21, la sostenibilità secondo Cap Ogni giorno il Gruppo Cap serve tramite acquedotto 2.186.450 cittadini e tramite la fognatura 1.916.589. Un bacino d’utenza che necessita di adeguati e costanti controlli, anche attraverso le ultime tecnologie oggi disponibili (fibra ottica, il WebGIS, il MibSit, e lo smart metering): in questo modo Cap garantisce l’efficienza, la trasparenza e la qualità del servizio. Ma è anche attraverso il programma Cap21, con cui l’azienda ha deciso di sottoscrivere 21 impegni concreti di sostenibilità, che il tema della gestione sostenibile dell’acqua ha preso piede in maniera sostanziale. Si tratta di una chiara presa di posizione sui temi oggi più attuali: cambiamenti climatici, gestione degli eventi meteorologici estremi, riduzione della disponibilità delle risorse naturali. Tra questi fondamentale importanza ha – e avrà – la gestione sostenibile dell’acqua. Ecco perché Cap ha messo in atto 21 azioni, che in realtà ne racchiudono molte altre al loro interno, e che rappresentano l’impegno quotidiano dell’azienda nella gestione industriale, pubblica ed efficiente del servizio idrico integrato. Un investimento di 600 milioni di euro in cinque anni per arrivare a ridurre i consumi, riutilizzare l’acqua, recuperarne i nutrienti, reindirizzare l’energia e ricostituire l’ambiente circostante.


Case Studies

Info www.gruppocap.it

Fino al 95% di CO2 in meno Anche nel settore automotive il metano può rappresentare un’alternativa. In particolare in Europa si crede molto nelle potenzialità del gas naturale per la mobilità sostenibile, ritenendolo una scelta tecnologica efficace – e subito disponibile – per risolvere i problemi di inquinamento delle aree urbane e ridurre le emissioni di CO2. In questo contesto l’Italia è considerata un esempio di best practice per lo sviluppo del gas naturale tra i carburanti alternativi, come dimostra la continua crescita sia delle vendite di autoveicoli alimentati a gas, sia del numero di distributori di metano. Tra il 2005 e il 2015 questi ultimi sono più che raddoppiati, mentre sono quasi triplicati i veicoli a metano venduti, per una filiera che in Italia occupa circa 20.000 addetti e fattura circa 1,7 miliardi di euro l’anno, coinvolgendo più di 50 piccole-medie imprese e circa 5.000 officine specializzate. Con il biometano prodotto a partire da rifiuti urbani o da attività agricole e zootecniche anche il gas naturale entra di diritto nel novero delle fonti energetiche rinnovabili. Il biometano concorre quindi a risolvere il problema del recupero di scarti e rifiuti in un’ottica di economia circolare, contribuendo anche – senza sottrarre risorse alimentari – a ridurre la dipendenza energetica dal petrolio. Con importanti benefici anche per gli agricoltori, che possono utilizzare il combustibile ricavato dagli scarti delle loro attività per alimentare le proprie macchine agricole e processi produttivi, utilizzarlo come biofertilizzante oppure venderlo. Uno scenario del tutto coerente con l’obiettivo stabilito dalla Ue di arrivare a utilizzare entro il 2020 carburanti rinnovabili nella misura del 10% del totale. Inoltre, in termini di impatto ambientale il biometano produce circa il 20% in meno di emissioni dirette di CO2 rispetto alla benzina. Ma il vero vantaggio si evidenzia considerando questa risorsa sull’intero

ciclo di vita: in questo caso la riduzione di CO2 può superare anche il 95% a seconda della materia prima di origine. In un’ottica well-to-wheel, i veicoli a biometano producono pressoché le stesse emissioni di CO2 di un veicolo elettrico alimentato con energia da fonti rinnovabili. Considerando una miscela metano-biometano al 40%, le emissioni di CO2 si allineano a quelle di un veicolo elettrico alimentato con energia proveniente dal mix energetico degli impianti di produzione europei. Fca è tra i leader in Europa nel campo dei veicoli a metano, con più di 690.000 automezzi venduti (autovetture e veicoli commerciali) tra 1997 e il 2015. Con l’attuazione della direttiva europea Dafi sullo sviluppo dell’infrastruttura per i combustibili alternativi, ci si aspetta un ulteriore incremento nel numero di distributori per il metano nei prossimi anni. In questo contesto, Fca, Cnh Industrial e Snam hanno firmato a novembre 2016 un Memorandum of Understanding finalizzato a sviluppare ulteriormente il gas naturale per l’autotrazione in Italia.

Dal Gruppo Fiat Chrysler Automobiles il supporto tecnico per alimentare i primi veicoli con il biometano prodotto dal depuratore di Bresso. www.fcagroup.com

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Quel tesoro contenuto

IN UN CHICCO


Case Studies

Per produrre una tonnellata di riso bianco si generano 1,3 tonnellate di paglia, 200 chili di lolla e 70 di pula. Non rifiuti ma risorse da valorizzare per ricavare prodotti per la farmaceutica, la cosmetica, l’industria alimentare. E anche per farne pannelli isolanti e pneumatici. di Ilaria Nicoletta Brambilla

Ilaria N. Brambilla è geografa e comunicatrice ambientale. Collabora con istituti di ricerca, agenzie di comunicazione e con testate italiane e straniere sui temi della sostenibilità.

Nabekura T., “Overcoming multidrug resistance in human cancer cells by natural compounds”, giugno 2010; www.ncbi.nlm.nih. gov/pubmed/22069634

Incontro Nicoletta Ravasio, docente di chimica generale e inorganica presso il dipartimento di Chimica della facoltà di Scienze agrarie e alimentari dell’Università degli Studi di Milano, al termine di una giornata di lavoro. Al centro della nostra conversazione il progetto di ricerca “From waste to resource: an integrated valorization of the rice productive chain residues”, finanziato da Fondazione Cariplo. Un progetto – ormai giunto alle fasi finali – che ha coinvolto una squadra di 20 ricercatori tra cui Claudio Tonin dell’Ismac di Biella (Istituto per lo studio delle macromolecole), Giordano Lesma e Giovanna Speranza (anche loro docenti presso lo stesso dipartimento di Chimica). Chiaro l’obiettivo del progetto: mettere a punto l’insieme di processi e tecnologie in grado di valorizzare tutti gli scarti legati alla produzione del riso. Ovvero la paglia (il residuo della pianta dopo che è stata rimossa la spiga), la lolla (il guscio del chicco di riso) e la pula (il suo strato di rivestimento scartato dopo la sbiancatura). Partiamo dai dati: produrre una tonnellata di riso bianco genera 1,3 tonnellate di paglia, 200 chili di lolla e 70 di pula. Ma gestire questi scarti presenta alcuni problemi. “Normalmente, infatti, gli agricoltori li portano ai produttori di biogas o comunque a chi li valorizza a fini energetici” racconta Ravasio. “Nel caso del riso, però, occorre pretrattare i residui, a causa dell’elevato contenuto di silice nella pianta che, vetrificando ad alte temperature, danneggerebbe i forni. Dunque, non potendo rivalorizzare questi scarti, gli agricoltori adottano in genere due comportamenti. O bruciano la paglia direttamente nei campi, benché si tratti di una pratica illegale anche considerando che la combustione produce una quantità molto significativa di particolato (Pm10) e ossidi di azoto. Oppure la interrano con il proposito di fertilizzare il terreno; ma, quando

la risaia viene nuovamente allagata, la paglia interrata fermenta e, in assenza di ossigeno, produce metano. Secondo dati del Cnr, si calcola che questa pratica nel mondo produca tra il 10 e il 15% delle emissioni di gas climalterante.” Due quindi gli scopi principali del progetto: sottrarre la paglia a queste pratiche inquinanti e al contempo assicurare un profitto ai risicoltori italiani, minacciati dalla concorrenza dalle importazioni di riso senza dazio provenienti dal Sudest asiatico (Myanmar, Cambogia), andando a recuperare dagli scarti della coltivazione del riso tutti gli elementi che possono essere valorizzati in nuove produzioni. Perché nel riso vi è un vero e proprio capitale naturale. Partiamo dalla pula. Da questa sottile pellicola che ricopre il chicco di riso si può estrarre un olio, che rappresenta in percentuale tra il 18 e il 20% del suo peso: proiettando questi dati su scala mondiale, si avrebbero 6 milioni di tonnellate di olio di pula di riso all’anno, che potrebbe essere venduto – così come l’olio di cotone, per esempio – come commodity. Gli oli vegetali, infatti, sono beni pregiati per l’industria. In particolare l’olio di riso ha alcune particolari caratteristiche: se, da un lato, contiene l’enzima della lipasi che lo rende difficile da conservare con tendenza ad acidificarsi rapidamente e quindi poco adatto all’alimentazione, dall’altro possiede il gamma orizanolo, cioè una miscela di esteri di acidi steroli che, separati dall’olio e uniti a un prodotto a base di latte (tipicamente lo yogurt) agiscono sull’organismo abbassando il livello di colesterolo nel sangue. Non solo. Recenti ricerche hanno provato che alcune molecole presenti negli steroli esteri hanno un’azione multidrug resistance, ossia sono in grado di rinforzare le cellule sottoposte a terapie antitumorali perché continuino ad assimilare correttamente i farmaci somministrati (Nabekura, 2010). E infine, gli steroli esteri contenuti nell’olio di riso possono essere utilizzati

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Case Studies in cosmetica, per esempio sostituendo i filtri Uv di sintesi.

Info www.fondazionecariplo.it/ it/index.html

Davifil, www.davifilbioisol.com Equilibrium, www.equilibriumbioedilizia.it

Ma il team di ricercatori ha anche messo a punto un metodo per estrarre dall’olio di riso monogliceridi che potrebbero sostituire come emulsionanti gli acidi grassi trans presenti in molti alimenti confezionati, in cosmetica e in farmaceutica. “Attualmente – prosegue Nicoletta Ravasio – i monogliceridi vengono rappresentati in etichetta dalla dicitura E471, che tuttavia non specifica quale sia la loro origine. Nella maggioranza dei casi si tratta di sottoprodotti estratti da scarti animali che quindi escludono alcune categorie di consumatori (si pensi a vegetariani, vegani e chi segue un regime alimentare kosher o halal). In tal senso, l’utilizzo da parte delle aziende di monogliceridi di origine vegetale potrebbe ampliare il mercato e quindi l’indotto.” Inoltre nell’olio di riso sono presenti cere utilizzabili per produrre oleogel (le margarine), in grado di sostituire gli acidi grassi trans come addensanti e fornire la consistenza “spalmabile” ai prodotti. E infine, l’olio di riso può essere usato per realizzare dei dimeri grassi per realizzare adesivi biodegradabili ed essere introdotto, quindi, anche nell’industria del packaging. Una volta estratto l’olio, nella pula restano ancora le proteine: molto nutrienti, si possono valorizzare grazie a un processo di idrolisi enzimatica ed essere utilizzate nel latte artificiale per neonati o nella cosmetica. O ancora usarle come esaltatori di gusto per sostituire il discusso glutammato monosodico. Che, precisa Ravasio, “oltre alle questioni legate alla sua salubrità, viene prodotto esclusivamente in Asia: avere un’alternativa consentirebbe l’apertura di nuovi mercati in Italia”. Infine, un ulteriore ramo di ricerca – sul quale però non si hanno ancora dati definitivi – riguarda un polisaccaride anch’esso estratto dalla pula che sembra in grado di proteggere dai raggi gamma i pazienti sottoposti a radioterapia. Passando alla lolla, se finora è stata usata principalmente come componente delle lettiere per animali o per coibentare le tubazioni grazie al suo alto potere assorbente, si sta studiando la possibilità di macinarla e introdurla in materiali compositi – anche plastici – utilizzati per pavimentazioni esterne e antiscivolo. La silice vegetale che si estrae dalla lolla può inoltre essere impiegata per creare nuovi compositi con plastiche tradizionali e con plastiche bio: a differenza della silice minerale, essendo composta da particelle più piccole può essere ben miscelata alla gomma per ottenere degli pneumatici con un minor attrito sull’asfalto, maggior resistenza sul bagnato, più silenziosi e che permettono di consumare meno carburante. Non a caso, già Pirelli e Goodyear ne stanno sperimentando l’utilizzo. Infine, la paglia. In un precedente studio, il gruppo di ricerca aveva lavorato sulla canapa:

tra gli esiti del lavoro vi era stato lo sviluppo di pannelli termo e fonoisolanti, creati mettendo insieme lana e fibra vegetale. “Molti ignorano che la lana che si utilizza per i filati di tutto il mondo viene dall’Australia, poiché quella delle pecore europee e americane non è adatta a realizzare capi di buona qualità. Tuttavia, gli animali vanno tosati e la lana che ne deriva – che non può essere bruciata poiché rilascia zolfo – è a tutti gli effetti un vero e proprio rifiuto speciale” spiega Nicoletta Ravasio. I ricercatori esperti di fibre hanno allora sottoposto la lana a un trattamento blando a base di alcali, idrolizzando la cheratina presente che diventa così adesiva e si aggancia alla fibra vegetale, creando un materiale estremamente resistente e autoportante, con la parte vegetale che fornisce resistenza meccanica e la lana che svolge la funzione di isolante termico e acustico. Un’ulteriore caratteristica di questi pannelli è che il trattamento sulla lana la rende inattaccabile dalle tarme. Attualmente si stanno mettendo a punto dei pannelli vegetali utilizzando la paglia di riso che, grazie alla presenza di silice, dovrebbe renderli ancora più resistenti al fuoco e aumentarne il potere isolante. Inoltre, dato non trascurabile – specie per un paese come l’Italia, ma non solo – questi pannelli sono adatti a essere impiegati nelle costruzioni antisismiche. “Questo progetto di ricerca sta mostrando che esistono numerosi vantaggi economici, ambientali e per la salute da ogni singolo scarto della produzione del riso. Alcuni sono sicuramente più remunerativi di altri ma, nell’ottica di una bioraffineria, dove si suppone sia presente un portfolio di prodotti a diverso valore aggiunto, si potrebbe in effetti aumentare i redditi dei coltivatori di riso e, soprattutto, creare posti di lavoro nell’ambito della bioeconomia”, precisa Ravasio. Alcune aziende si stanno già muovendo in questa direzione: dal progetto sulla canapa a cui ha lavorato la stessa Ravasio, sono nate filiere produttive italiane molto interessanti. La Davifil di Biella produce pannelli termo e fonoassorbenti realizzati con lana e canapa; la Equilibrium di Lecco che realizza prodotti per la bioedilizia con mattoni di canapa, a seguito della recente legge per il reintegro della produzione di canapa in Italia, ha iniziato a utilizzare materia prima proveniente da piantagioni di nuova installazione. Con tutto ciò che il gruppo di lavoro ha dimostrato si può estrarre dal riso, non si fatica a immaginare che impatto si potrebbe avere utilizzando questo cereale. “L’approccio – conclude la docente – che dobbiamo avere nei confronti di ogni scarto è questo. Prima di bruciarlo o gettarlo bisogna guardare cosa contiene, come si può reimpiegare, come valorizzare le sue componenti. Abbiamo un quantitativo immenso di molecole e componenti prodotte in natura e, talvolta, non riproducibili sinteticamente: che senso ha non utilizzarle?”. E soprattutto, per quanto ancora potremmo permetterci questo lusso?

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materiarinnovabile 13. 2016

Rubriche Pillole di innovazione

Ferri da stereo e frullatori per dvd Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.

Elettroevoluzione, www.elettroevoluzione.com

AT Media, www.at-media.it

Inizio dal ferro da stereo, e non si tratta di un errore di scrittura. Si prende un ferro da stiro, lo si porta da Elettroevoluzione (team ingegneristico basato a Roma) e loro lo trasformano in una radio. Ma attenzione: dopo la trasformazione, osservando l’oggetto, ci si trova davanti a un ferro da stiro tradizionale. Non c’è un solo particolare esteriore che risulta cambiato, e questo è un mandato strettissimo degli elettroevoluzionisti che hanno un forte imprinting di cultura del design. Scelgono, infatti, oggetti che hanno segnato nel tempo il mondo del design (e quindi, in realtà, non si va da loro con un elettrodomestico qualsiasi). La grande linea Braun, per esempio, è molto presente nei loro progetti. C’è un tostapane che diventa radio, ma solo quando si schiaccia il pulsante per far salire la fetta di pane appare un piccolo amplificatore. C’è anche una piastra per friggere che diventa un giradischi e un frullatore che legge i dvd. Riflessione teorica: forse un volto della progettualità che si esprime nel riuso dovrebbe tener presente che mantenere un involucro esteriore ha un suo valore. Conosco una comunità numericamente significativa che si chiede: “ma per quale ragione non si può avere un Maggiolone Volkswagen con un bel motore ibrido o del tutto elettrico?”. Una comunità minore si fa la stessa domanda per una Morris 1000, degli anni Sessanta, con carrozzeria, splendida!, tipo auto di Pippo. Esempi infiniti. Poi so che viene fuori quel discorso sull’originale che deve restare integro, ma qui mi fermo. Altro discorso è quello della navigazione con la testa. Una software house di Alessandria, AT Media, ha progettato un algoritmo che agisce sulla webcam di tablet e computer e si può inserire in qualunque sito internet. L’idea, realizzata pienamente, è molto semplice da descrivere: ci si mette davanti al monitor, che mi propone una visita a un museo, e se si muove la testa un poco in avanti ecco che si cammina da una sala a un’altra. Girando la testa a sinistra si vedono gli oggetti esposti a sinistra, così a destra, in alto o in basso per guardare un pavimento romano a mosaico.

Niente mouse, niente tasti. Naturalmente si può applicare a qualunque “perlustrazione” proposta, non solo musei. Dunque, la ricerca verso rivoluzionari interfaccia uomo-macchina è in forte sviluppo. Convergono verso un obiettivo ambizioso: con l’aggiunta di comandi a voce e di movimentazione delle mani, il computer può essere guidato in tutte le sue funzioni. Non si vedono ostacoli di base, dicono gli addetti. Va bene. E il digital divide? Forse i nativi digitali diventeranno una specie in via estinzione? Bisognerà produrre un po’ di strumentazione tradizionale perché possano esprimersi? Perché un dato è certo: l’attuale know-how nello smanettamento è in larghissima maggioranza utile a risolvere le grane e le trappole che emergono da una farraginosità complessiva dell’interfaccia. Se la guida delle auto richiedesse una analoga competenza, il fatturato mondiale del settore sarebbe pari a quello del commercio dei datteri.


IN COLLABORAZIONE CON L A NAZIONALE ITALIANA DI PALLANUOTO

SE GETTI VIA L’OLIO USATO DELLA TUA AUTO INQUINI SEI PISCINE OLIMPICHE. A volte basta poco per inquinare tanto: un cambio d’olio dell’auto gettato in un tombino o in un prato. Un gesto insensato che rischia di inquinare una superfice enorme di 5000 metri quadri. Invece se raccolto correttamente l’olio usato è una preziosa risorsa perché con il riciclo diventa nuovo lubrificante. Così si risparmia sull’importazione del petrolio e anche l’ambiente ci guadagna. Aiutaci a raccoglierlo, non mandare a fondo il nostro futuro: numero verde 800.863.048 - www.coou.it

RACCOGLIAMO L’OLIO USATO. DIFENDIAMO L’AMBIENTE.



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