Materia Rinnovabile #14

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 14 | gennaio-febbraio 2017 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Il futuro nonostante Trump •• Serenella Iovino: trasformare le ferite in racconto •• Henning Wilts: sorpresa, la Germania è poco circolare •• Chi finanzierà il salvataggio della Terra?

Dossier Bioeconomia/Italia: Rinascimento industriale •• L’economia venuta dallo spazio •• La lezione di Penelope

Ora tocca al Sud •• Il potenziale del riuso creativo •• E se tornassimo a soldi e baiocchi?

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•• Morire in versione sostenibile


YEARS ANNIVERSARY

CALL FOR ABSTRACTS

sardinia_2017 16th INTERNATIONAL WASTE MANAGEMENT AND LANDFILL SYMPOSIUM Forte Village / S. Margherita di Pula (CA) / Italy 2-6 October 2017

ORGANIZZATO da: IWWG - INTERNATIONAL WASTE WORKING GROUP

SUPPORTO SCIENTIFICO di: Università di Padova (IT) / Fukuoka University (JP) / Hamburg University of Technology (DE) Technical University of Denmark (DK) / Tongji University (CN) / University of Central Florida (US)

SARDINIA 2017 / 30° ANNIVERSARIO Dopo lo straordinario successo del Sardinia 2015 / Arts Edition, entusiasmante edizione alla quale hanno partecipato 732 delegati provenienti da oltre 70 paesi differenti, siamo lieti di annunciare il 30° Anniversario dei Simposi Sardinia, che dal 1987 rappresentano il forum di riferimento per tutta la comunità scientifica internazionale. Il Sardinia 2017 si preannuncia come l’evento più importante dell’anno nel campo della gestione sostenibile dei rifiuti e dello scarico controllato. In linea con le edizioni precedenti, il Simposio si focalizzerà sulle nuove tecnologie e strategie di gestione dei rifiuti, presentando casi di studio e discutendo sugli aspetti più controversi in una condivisione di esperienze tra paesi differenti. Il Simposio si articolerà in un programma della durata di 5 giorni che prevede 8 sessioni parallele dedicate alla presentazione di contributi orali e workshop, una sessione poster, meeting business to business, forum di discussione, laboratori di progettazione pratica ed un’ampia esposizione commerciale dedicata alle aziende che operano nel settore della gestione dei rifiuti. Prima dell’inizio del Simposio si svolgeranno alcuni corsi di aggiornamento organizzati dall’IWWG.

TEMI DEL SIMPOSIO

Politiche e strategie di gestione dei rifiuti • Necessità di una legislazione aggiornata e più appropriata • Partecipazione pubblica e consenso • Gestione dei rifiuti e strumenti di supporto alle decisioni • Circular Economy • Responsabilità del produttore • Soluzioni per la gestione dei rifiuti nelle grandi città • Trasporto e raccolta dei rifiuti • Minimizzazione dei rifiuti e reciclaggio • Deposito finale per • Trattamento biologico e produzione di energia • Compostaggio • Biocombustibili da rifiuti • Trattamenti termici e tecnologie avanzate di conversione • Discarica controllata • Tecnologie per la sostenibilità della discarica (trattamenti pre e in situ) • Landfill mining • Comportamenti a lungo termine delle discariche: ripensare il progetto • Gestione integrata delle acque reflue e dei rifiuti solidi • Gestione dei rifiuti e cambiamenti climatici • WEEE - Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche • Ingegneria Forense nella gestione dei rifiuti • Nanotecnologie nella gestione dei rifiuti • Gestione e smaltimento della plastica • Gestione dei rifiuti nei paesi in via di sviluppo • Workshop di progettazione per la gestione sostenibile dei rifiuti

INVIO DEGLI ABSTRACT Gli abstract dovranno essere inviati entro l’1 Marzo 2017 seguendo le istruzioni riportate al seguente link: http://www.sardiniasymposium.it/abstract-form

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA EUROWASTE srl / via B. Pellegrino, 23 / 35137 Padova t +39 049 8726986 / info@eurowaste.it / www.eurowaste.it

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Eventi


Editoriale

Il futuro nonostante Trump di Antonio Cianciullo

Siamo molto vicini al 2019, l’anno in cui è proiettata Los Angeles nello straordinario Blade Runner girato da Ridley Scott nel 1982. A distanza di 35 anni da quella grande interpretazione di Harrison Ford non è facile comparare fantasia e realtà. La California è certo più serena di come l’avesse immaginata Philip K. Dick nel tracciare il quadro da cui è stato tratto il film. In compenso la Washington guidata dalla diplomazia delle Trump Tower (chi accetta di costruirle è buono, chi si oppone è un nemico degli Stati Uniti) e dall’assalto alle leggi che proteggono l’ambiente appare più inquietante delle aspettative, popolata da replicanti di un pensiero antiscientifico che sembrava ormai confinato in pellicole scolorite. Come sarà il mondo tra altri 30 anni, nel 2049? Il sequel di Blade Runner è ben tratteggiato nella rubrica di Roberto Giovannini. Ma nella realtà come andranno le cose? Ogni anno che passa le previsioni diventano più incerte perché la velocità e la radicalità del cambiamento crescono; le variabili in gioco diventano più numerose e più complesse; gli squilibri della politica si fanno più violenti e coprono, con il rumore di fondo, squilibri ambientali ancora più pericolosi. I grandi fenomeni innescati o moltiplicati dal 20° secolo (dal boom demografico al cambiamento climatico, passando per le migrazioni che rischiano di assumere un carattere biblico) produrranno conseguenze che si possono solo intravedere. È uno scenario di lungo periodo che può servire come bussola per orientarsi. Ma, visto che il terreno su cui camminiamo è molto accidentato, è bene concentrarsi sui prossimi passi per evitare di cadere in un crepaccio. Uno degli strumenti che l’Unione europea sta mettendo in campo per affrontare due problemi urgenti e di primissimo piano, la crisi economica e la crisi ambientale, è l’economia circolare. Come abbiamo più volte ricordato su questo magazine, la posta in gioco è alta. Secondo la Commissione europea, le misure contenute nel pacchetto sull’economia circolare presentato nel dicembre 2015 produrranno vantaggi consistenti: risparmi annuali pari a 600 miliardi di euro; 580.000 nuovi posti di lavoro con un risparmio annuo di 72 miliardi di euro per le imprese europee grazie

a un uso più efficiente delle risorse e quindi a una riduzione delle importazioni di materie prime; un taglio del 2-4 % delle emissioni serra. Sulle nuove norme si è aperto un dibattito all’europarlamento che ha già portato al rafforzamento di alcuni paletti (per esempio riciclo dei rifiuti urbani al 70% al 2030 invece del 65%; percentuale di rifiuti smaltita in discarica ridotta al 5% invece del 10%). Ma l’Italia si sta attrezzando per questa sfida? In questo numero di Materia Rinnovabile diamo conto della strategia italiana sulla bioeconomia presentata a novembre e del primo master in bioeconomia ed economia circolare, realizzato grazie a una sinergia tra quattro dei principali atenei italiani (Università di Torino, Università di Milano Bicocca, Università di Bologna e Università di Napoli Federico II). Ma, come osserva in un’intervista di Mario Bonaccorso il co-fondatore di GFBiochemicals, Pasquale Granata, “dopo la strategia bisognerà mettere a punto un piano d’azione dettagliato. Credo che siano tre le misure urgenti da prendere: la prima riguarda la creazione di un mercato, così come fatto efficacemente per le bioplastiche con la legge che ha messo al bando i sacchetti non biodegradabili; la seconda un sostegno alla domanda attraverso politiche di appalti pubblici verdi che abbiano alla base un sistema chiaro di standard ed etichettature; la terza la comunicazione e la divulgazione della bioeconomia affinché i consumatori e l’opinione pubblica italiana sappiano che non stiamo parlando di una nicchia, ma di un settore che già oggi crea ricchezza e occupazione, in un quadro di ecosostenibilità”. È una linea di sviluppo chiara. Il problema è che al momento questo percorso è bloccato su molti fronti. A cominciare da quello, essenziale, del recupero delle sostanze di scarto che, all’uscita del sistema produttivo, possono essere considerate materie seconde anziché rifiuti. La Gran Bretagna ha prodotto un flusso continuo di decreti end of waste per la catalogazione di questi materiali. L’Italia ha cominciato con fatica l’estate scorsa e molte Regioni non hanno recepito i provvedimenti mettendo a rischio molti investimenti e molti posti di lavoro. Se non si sblocca l’economia sana è difficile far ripartire il paese nella direzione giusta.


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M R

14|gennaio-febbraio 2017 Sommario

MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE

Antonio Cianciullo

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Il futuro nonostante Trump

a cura di

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Sorpresa: la Germania è poco circolare

www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Antonio Cianciullo Direttore editoriale Marco Moro

Ringraziamenti Alessandra Erme, Silvia Sartori

Silvia Zamboni

Andrea Barolini

Think Tank

Hanno collaborato a questo numero Piero Attoma, Andrea Barolini, Catia Bastioli, Roberto Battiston, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Rudi Bressa, Roberto Di Molfetta, Fabio Fava, Sergio Ferraris, Roberto Giovannini, Pasquale Granata, Serenella Iovino, Irene Ivoi, Carlo Mancosu, Erin Meezan, Federico Pedrocchi, Tonino Perna, Matteo Reale, Edo Ronchi, Giovanni Sannia, Elisabetta Tramonto, Dinh Thao Hoa, Silvia Zamboni, Ezio Veggia, Henning Wilts

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Chi finanzierà il salvataggio della Terra?

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La lezione di Penelope

con Elisabetta Tramonto

a cura di

Caporedattore Maria Pia Terrosi

Intervista a Henning Wilts

Emanuele Bompan

Intervista a Erin Meezan

Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi

a cura di

Design & Art Direction Mauro Panzeri

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Matteo Reale

Impaginazione Michela Lazzaroni

Trasformare le ferite in racconto Intervista a Serenella Iovino

Traduzioni Erminio Cella, Franco Lombini, Meg Anna Mullan, Mario Tadiello

Dossier Italia 24

Rinascimento industriale

Silvia Zamboni

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E se tornassimo a soldi e baiocchi?

Policy

Mario Bonaccorso


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Coordinamento generale Anna Re

Irene Ivoi

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Quando il design incontra l’esistente

Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it

a cura di

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Emanuele Bompan

L’economia venuta dallo spazio Intervista a Roberto Battiston

Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333

Case Studies

Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it

Dinh Thao Hoa

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Il Vietnam apre all’economia circolare

Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi)

Rudi Bressa

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Ora tocca al Sud

Copyright ©Edizioni Ambiente 2017 Tutti i diritti riservati

Pillole di innovazione 58

Roberto Giovannini

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Rubriche

Federico Pedrocchi

Sostenibilità, ultimo atto

Il circolo mediatico Un 2049 eco-dark

In copertina Frutto di palma da olio. Foto di feelphotoz – Pixabay.com CC0 Public Domain



Think Tank

SORPRESA: la Germania è

POCO CIRCOLARE

©Wuppertal Institute for Climate, Environment, Energy

Intervista a Henning Wilts a cura di Silvia Zamboni

Le contraddizioni di un paese che considera riciclato al 100% uno smartphone che finisce in un inceneritore e – nelle sue industrie – usa per l’85% materie prime vergini. Ma che ha una normativa rigorosa e ben applicata in materia dei rifiuti e un programma per l’efficienza energetica.

Henning Wilts dirige il settore di ricerca sull’economia circolare presso il Wuppertal Institut für Klima, Umwelt, Energie (Centro di ricerche tedesco su clima, ambiente, energia). Nel 2016 ha pubblicato lo studio Germany on the road to a circular economy?.

La Germania che non ti aspetteresti: la prima potenza manifatturiera d’Europa, nota nel mondo per la rigorosa politica di gestione dei rifiuti (dal 2005, per esempio, ha vietato il conferimento in discarica di rifiuti non pretrattati), in materia di sviluppo dell’economia circolare è invece tutt’altro che un paese battistrada. Lo sostiene Henning Wilts, responsabile del settore economia circolare del Wuppertal Institut für Klima, Umwelt, Energie, blasonato centro di ricerche tedesco sul clima, l’ambiente, l’energia. “La direzione verso la quale ci stiamo muovendo è probabilmente quella giusta, ma lo facciamo troppo lentamente, troppo orgogliosi della nostra capacità di gestire i rifiuti”, spiega. “Secondo i politici il problema l’abbiamo risolto negli anni ’80 e ’90, per cui non vedono cosa oggi bisognerebbe modificare. In realtà la Germania non dispone di una strategia sistematica per l’economia circolare: abbiamo la legge sui rifiuti, un programma per l’efficienza energetica, uno per il consumo sostenibile, ma sono scoordinati tra loro. E non abbiamo fissato obiettivi precisi da raggiungere, né disponiamo di un’authority di riferimento e di un sistema di monitoraggio.”

Henning Wilts, Germany on the road to a circular economy?, 2016; library.fes.de/pdf-files/ wiso/12622.pdf

Wuppertal Institut, wupperinst.org/en

Scendendo nel dettaglio, quali altri elementi di debolezza vede in Germania? “L’insoddisfacente recupero di materie prime secondarie. Paesi Bassi e Regno Unito sono molto più avanti di noi nell’impiegare nell’industria

materie prime secondarie ottenute dal riciclo dei rifiuti. Dall’incenerimento la Germania ricava enormi quantitativi di energia, ma così facendo brucia materiale che potrebbe essere recuperato e reimpiegato. Tanto che oggi solo il 15% delle materie che utilizziamo nell’industria viene da processi di riciclo, mentre per l’85% si tratta di materie prime. Una proporzione lontanissima dall’economia circolare.” Eppure le statistiche ufficiali attribuiscono al vostro paese altissime percentuali di riciclo. “Perché statisticamente il recupero energetico rientra nelle percentuali di riciclo: uno smartphone che finisce in un inceneritore si considera riciclato al 100%, mentre in realtà non si è recuperato alcun materiale. Un altro problema sono i rifiuti che si producono dalle demolizioni in edilizia: risultano riciclati per oltre il 90%, mentre invece non sono riutilizzati come materiali da costruzione ma sono impiegati per costruire barriere antirumore lungo le autostrade. Solo il 3% del cemento viene recuperato, il che significa che per ogni nuovo edificio si usa il 97% di materie prime.” Pur in questo quadro così critico, quali sono i punti di forza della Germania? “Senza dubbio le infrastrutture del settore industriale dei rifiuti. Negli anni ’90 il nostro paese ha fissato degli standard di sicurezza ambientale così elevati per gli inceneritori che oggi non ci

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materiarinnovabile 14. 2017

Silvia Zamboni, giornalista professionista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.

Se davvero vogliamo uscire dall’economia lineare, il modello di business su cui puntare è quello dell’offerta di un servizio al posto della vendita del bene.

sono problemi per la salute di chi vive nelle loro vicinanze. E la popolazione li ha accettati, si fida, a differenza di quanto – credo – accada in Francia e in Italia. Anch’io mi sentirei più sicuro ad abitare vicino a un inceneritore piuttosto che a un impianto industriale di altro genere. Un ulteriore punto di forza sono i sistemi di raccolta differenziata degli Rsu, compresa la frazione umida, che invece per altri paesi rappresenta ancora un problema. In particolare i tedeschi sono orgogliosi della raccolta differenziata domestica degli imballaggi. Che poi questa abbia sempre senso, è un altro paio di maniche. Anche il monitoraggio è piuttosto rigoroso, per cui il nostro sistema di raccolta non presenta zone d’ombra illegali o pericoli per l’ambiente e la salute.” E in futuro quali sono le prospettive dell’economia circolare in Germania? “Dipenderà molto dall’Europa e dal pacchetto sull’economia circolare attualmente in discussione, rispetto al quale la Germania mantiene un atteggiamento piuttosto prudente ritenendo preferibile non fissare degli obiettivi precisi prima di aver chiarito come misurare le performance, per esempio nella riduzione della produzione dei rifiuti e nel recupero dei materiali. Se l’Europa deciderà di darsi obiettivi ambiziosi, la Germania rifletterà su come muoversi. Resta, tuttavia, la domanda se l’economia circolare sia un progetto economico o ambientale. Come Wuppertal Institut abbiamo condotto uno studio sull’industria delle moquette, da cui risulta che, a causa dei quantitativi di prodotti chimici da impiegare per recuperare le vecchie fibre, il processo di riciclo ha un impatto ambientale maggiore rispetto alla produzione ex novo di moquette con materiale vergine. Per cui sarebbe di primaria importanza fissare delle linee guida europee per l’ecodesign dei prodotti in funzione del recupero ambientalmente sostenibile dei materiali a fine vita. Temo però che ci vorranno almeno dieci anni per arrivarci, troppi…” Cosa pensa del pacchetto della Ue sull’economia circolare? “… Ha una domanda di riserva? Sono stati depositati più di 1.200 commenti da parte degli Stati membri. Nessuno sa cosa ne verrà fuori. Mi preoccupa il fatto che bisognerà arrivare a dei compromessi e che questi prevarranno sull’ambizione degli obiettivi. Paesi come la Bulgaria o la Romania non possono permettersi alte percentuali di recupero dei materiali, per cui la necessità di trovare un punto di equilibrio tra loro e la Germania deprimerà la spinta verso quote significative di riciclo.” In Europa vede paesi nei quali l’economia circolare è più sviluppata? “Il Regno Unito, che in passato non ha investito nella gestione dei rifiuti e si è ampiamente servito delle discariche, oggi si domanda se sia meglio investire miliardi in impianti di incenerimento

o impiegarli direttamente per lo sviluppo dell’economia circolare. E proprio a causa delle loro condizioni di partenza così negative gli inglesi sono molto lanciati. Mentre la Francia è leader nel settore degli apparecchi elettrici e dei mobili: la legge obbliga i produttori a fornire i pezzi di ricambio per un arco di dieci anni dalla vendita del prodotto, un provvedimento che ha dei costi considerevoli. Impensabile in Germania.” Passando a considerazioni più generali sull’economia circolare, lei ha scritto che ci sono ancora domande senza risposta e aspetti teorici da approfondire. “Spesso l’economia circolare viene erroneamente associata alla possibilità di usare a piacere enormi quantità di materie prime e beni materiali, purché ciò avvenga all’interno di questo modello produttivo a ciclo chiuso, in cui si recuperano i materiali. In realtà ogni prelievo di risorse naturali produce danni irreversibili all’ambiente. Inoltre è sbagliata l’idea in sé che si possa riciclare tutto: nei processi di riciclo si hanno inevitabilmente delle perdite qualitative e quantitative di materia. Non solo: per molti materiali non sono ancora disponibili le tecnologie per il trattamento e il recupero, né è scontato che l’industria le adotterebbe. Per questi motivi il primo obiettivo dovrebbe essere ridurre al massimo l’impiego di risorse. L’approccio a un uso efficiente e razionale non basta: la quantità di materie prime che estraiamo complessivamente dalla Terra cresce in maniera esponenziale. Le statistiche dicono che in Germania abbiamo ridotto questo prelievo, ma al prezzo di scaricare l’impatto della produzione dei beni che usiamo qui sui bilanci ambientali di altri paesi. Come il Vietnam, per esempio, dal quale importiamo prodotti elettronici ad alto contenuto di risorse preziose, estratte con pesanti ripercussioni sull’ambiente.” Lei ha anche scritto che la teoria della completa chiusura del cerchio contraddice i principi della termodinamica. “Secondo i fisici all’entropia non si rimedia con il riciclo. Il caos che gli esseri umani creano nel mondo naturale con le loro attività non si cancella, né i sistemi naturali ritornano allo status quo ante con i processi di riciclo. Un altro aspetto controverso che pervade l’economia circolare riguarda poi la sua compatibilità con gli alti standard di sicurezza in vigore in materia di rifiuti. In passato la priorità è stata sviluppare tecnologie e processi che garantissero uno smaltimento dei rifiuti in sicurezza. La domanda oggi è: vogliamo continuare a vivere senza correre alcun rischio, o ci interessa di più riciclare a tutto spiano perché conviene economicamente? È un nuovo equilibrio che va cercato, rispetto al quale il riciclo non è l’unica risposta.” Istituzioni pubbliche, industria, consumatrici/ consumatori: che ruoli hanno per lo sviluppo dell’economia circolare?


“In futuro la prima necessità è che questi vari attori collaborino più strettamente tra loro. Partiamo dal livello ministeriale: c’è chi si occupa di gestione dei rifiuti, chi di legislazione sui beni di consumo, chi di sicurezza dei consumatori, chi di recupero delle materie prime secondarie. Lavorano tutti scollegati tra loro. Lo stesso succede con l’Unione europea: la Direzione ambiente privilegia la combustione dei rifiuti per superare la dipendenza dall’import di carbone e gas dalla Russia e da altri paesi. Parallelamente la Divisione rifiuti sostiene che bisogna dare la precedenza al recupero dei materiali rispetto all’incenerimento. Due punti di vista opposti all’interno del medesimo organismo. E finché la cornice legislativa resterà così contraddittoria, l’industria non comincerà a investire a favore dell’economia circolare. E continuerà a chiedere: fateci prima sapere cosa dobbiamo fare dei nostri rifiuti, se dobbiamo bruciarli o no. Nell’economia lineare non era necessario lavorare in team, ma per passare all’economia circolare tutti i vari comparti devono muoversi in sintonia.” Anche se il contesto normativo è così contraddittorio, cosa dovrebbe/potrebbe fare l’industria? “Se davvero vogliamo uscire dall’economia lineare, il modello di business su cui puntare è quello dell’offerta di un servizio al posto della vendita del bene. Succede già nel mondo dell’industria automobilistica tedesca, dove i maggiori produttori offrono servizi di car sharing, visto che da noi intere classi d’acquisto, come i giovani sotto i trent’anni, non desiderano più acquistare l’auto che ha perso l’aura di status symbol. La condivisione è il modello su cui è auspicabile che investa e si orienti l’industria. Il problema è che gli investimenti a sostegno dell’innovazione ristagnano, in attesa di disposizioni di legge e regolamenti chiari.” È una situazione che riguarda altri paesi oltre la Germania? “Da noi la situazione è estremamente problematica, lo vediamo dalla riduzione del numero di brevetti depositati annualmente. In un certo senso la Germania ha vissuto di rendita grazie all’innovazione e agli investimenti fatti nell’industria dei rifiuti negli anni ’80 e ’90. Sappiamo benissimo come eliminare i rifiuti, mentre in termini di recupero e di economia circolare siamo molto indietro. Al contrario, nel Sudest asiatico l’industria sa qual è la cornice in cui muoversi in una prospettiva rivolta al futuro. E se l’Europa non vuole restare indietro, bisogna che si adegui alle nuove priorità.” Che contributo possono dare i consumatori? “Personalmente sono contrario a scaricare la responsabilità sui consumatori: bisogna considerare il quadro d’insieme. Tuttavia è legittima la critica, per esempio, all’acquisto di capi d’abbigliamento da quattro soldi che dopo un paio di mesi sono da buttare. Lo stesso sta succedendo in Germania con il boom delle stampanti

usa-e-getta d’importazione che costano 35 euro, ossia meno del costo di un toner. Le usano per stampare, per esempio, gli inviti al proprio matrimonio o a un evento e vengono buttate dopo un paio di settimane quando la cartuccia è esaurita. Cambiare i modelli di consumo correnti, privilegiare l’accesso a un servizio come il car sharing anziché acquistare l’auto, condividere i beni di consumo, sono opzioni che fanno anche risparmiare. Ma per abbandonare il trend consumista usa-e-getta della routine quotidiana occorre riflettere sui propri modelli di comportamento: non succede in automatico.”


Chi finanzierà il salvataggio

DELLA TERRA? di Andrea Barolini

Alla Cop22 di Marrakech la questione dei finanziamenti per la lotta ai cambiamenti climatici è stata oggetto di un duro braccio di ferro tra Nord e Sud del mondo. Questo articolo è stato pubblicato su Valori. Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità, n. 145 febbraio 2017; www.valori.it Da più di dieci anni giornalista economico e ambientale, Andrea Barolini collabora con giornali, tv e agenzie in Italia, Francia e Svizzera.

Cop22, cop22.ma/en

Quando è calato il sipario sulla ventiduesima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima, la Cop22 di Marrakech, la sensazione è stata di aver toccato semplicemente una tappa intermedia. Grandi avanzamenti sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici, infatti, non ce ne sono stati. I paesi “sviluppati” hanno confermato nel documento finale approvato in Marocco l’intenzione di stanziare 100 miliardi di dollari all’anno, di qui al 2020. Una promessa che però appare ormai datata: era stata avanzata per la prima volta ben otto anni fa. Ed è stata confermata nell’Accordo di Parigi raggiunto al termine della Cop21 nel 2015. A Marrakech, dopo i passi in avanti compiuti in Francia in termini di dichiarazioni di intenti, ci si attendeva un passaggio all’azione. La Conferenza si era prefissata, in effetti, l’obiettivo di “mettere in pratica” le decisioni raggiunte un anno prima a Parigi. Tuttavia, nonostante l’appello diretto del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon (“I finanziamenti e gli investimenti – ha dichiarato – sono essenziali per la creazione di società resilienti, capaci di minimizzare le emissioni di gas a effetto serra”), non è ancora chiaro in che modo verrà alimentato il Fondo verde per il clima istituito dopo la Cop di Copenaghen nel 2009. I paesi ricchi, per ora, hanno promesso solamente la cifra di 83 milioni di dollari, di cui 50 accordati dalla Germania, che andranno però ad alimentare un altro fondo, quello per l’adattamento che era stato istituito nel quadro del Protocollo di Kyoto. Una goccia in mezzo al mare.

Come reperire i fondi… Per capire come trovare il modo di garantire i 100 miliardi, i governi in Marocco si sono dati due anni di tempo. Said Karrouk, climatologo membro dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), premio Nobel per la Pace nel 2007, ha spiegato al quotidiano economico francese La Tribune che “già quando, nella dichiarazione finale della Cop21 di Parigi, si era confermato il trasferimento astronomico di 100 miliardi di dollari dalle nazioni più ricche del mondo a quelle in via di sviluppo, ci si poteva legittimamente porre alcune domande in merito alla sincerità di tali promesse. Soprattutto tenendo conto dell’attuale contesto economico e finanziario. La teoria secondo la quale potrebbe trattarsi di un’affermazione destinata solo a ‘far pazientare’ l’Africa, a mio avviso non è frutto di paranoia. Spero almeno che non si tratti di un puro e semplice bluff”. Va detto che lo scorso ottobre i paesi ricchi hanno pubblicato (per la prima volta) un documento che mostra in che modo si pensa di onorare gli impegni. Secondo i calcoli dell’Ocse, in questo modo nel 2020 saranno messi a disposizione 67 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici (tra donazioni e prestiti). Per il resto, i governi contano su un effetto-leva che sia capace di trainare gli investimenti privati: ciò porterebbe a ottenere tra 77 e 133 miliardi. Ma qui si entra nel campo delle ipotesi: “La pubblicazione di questo documento, più puntuale rispetto a una semplice promessa, ha costituito un passo in avanti. Ma restiamo prudenti: spesso gli Stati tendono a gonfiare le cifre”, ha commentato Armelle Le Comte, dell’associazione Oxfam. Più concreta è invece la dotazione di una decina di miliardi concessa


Think Tank dalla Cina tramite un altro fondo, il South-South Coordination Fund. … e come usarli

*Le informazioni sono tratte da “Finanza sostenibile e cambiamento climatico”, pubblicato dal Forum per la Finanza sostenibile.

Occorrerà verificare se il resto del mondo sarà altrettanto pronto. Ma ammettiamo, ottimisticamente, che i fondi vengano trovati nel giro dei prossimi mesi: a quel punto occorrerà decidere in che modo utilizzarli. E in che modo stanziarli. Ebbene, anche questo è stato un terreno di forti scontri tra le nazioni del Nord e del Sud del mondo riunite a Marrakech. “Le frizioni non sono più tanto sul quantitativo di denaro impiegato – sottolinea Mauro Albrizio, responsabile dell’ufficio europeo di Legambiente a Bruxelles – ma su tre fronti: i metodi di calcolo, quelli di concessione dei fondi e se destinarli a politiche di mitigazione o di adattamento ai cambiamenti climatici”. In pratica, i conti dell’Ocse sono stati contestati dalle nazioni povere, “perché – prosegue Albrizio – è chiaro che un conto sono le donazioni, un conto i prestiti. E su questi ultimi occorre verificare a che tassi di interesse verranno concessi. È evidente che le nazioni in via di sviluppo non accetteranno denaro se non a tassi bassissimi: se devono indebitarsi a tassi di mercato allora possono rivolgersi alle banche, che bisogno c’è di aspettare l’intervento delle nazioni ricche?” Inoltre, per ora dei fondi pubblici censiti dall’Ocse solamente il 20% è destinato all’adattamento, ovvero ai sistemi che dovranno utilizzare

le nazioni più vulnerabili per, appunto, adattarsi ai cambiamenti climatici: “È chiaro che i privati non saranno interessati a investire in questo senso. Per loro è molto più allettante il cofinanziamento del trasferimento tecnologico, dunque puntare alla quota assegnata alla mitigazione”. I “No” del Sud del mondo Una situazione inaccettabile per i governi dei paesi in via di sviluppo, che hanno proposto di portare ad almeno il 50% i fondi per l’adattamento. La richiesta è stata formalizzata dall’Unione africana, che accetterebbe di avere a disposizione circa 30-40 miliardi di dollari. “In ogni caso – osserva il dirigente di Legambiente – è bene chiarire che questa cifra non potrà assolutamente bastare: servirà unicamente per garantire il primo passo. Basti pensare che alcune stime informali dell’Unfccc, che a Marrakech circolavano tra i tavoli dei negoziati, indicano che nel 2030 serviranno tra 140 e 300 miliardi di dollari all’anno”. Ultimo capitolo dello scontro Nord-Sud è quello legato alle spese per le loss and damages. Ovvero ai risarcimenti per i danni subiti. “Alla Cop22 – conclude Albrizio – è stato definito un programma quinquennale che dovrà indicare le modalità di concessione di tali contributi. I paesi in via di sviluppo hanno accettato il principio secondo il quale saranno indennizzate le catastrofi future e non quelle passate”. A partire, però, dal momento in cui il meccanismo diventerà operativo.*

Se la finanza incontra il climate change

Strumenti (diretti e indiretti) per la lotta ai cambiamenti climatici Il rischio ambientale entra nei fondi pensione di Elisabetta Tramonto

Giornalista professionista, Elisabetta Tramonto è caporedattrice del mensile Valori dal 2007. Ha scritto per diversi periodici specializzandosi sui temi dell’economia solidale, della finanza etica e della tutela dell’ambiente.

Includere i rischi ambientali nelle strategie di investimento. Per i fondi pensione europei è diventato obbligatorio. Il 24 novembre scorso il Parlamento europeo ha, infatti, approvato gli emendamenti alla Direttiva Iorp 2 (Institutions for Occupational Retirement Provision), che aggiorna la normativa su attività e vigilanza dei fondi pensione e degli altri schemi pensionistici europei, introducendo anche l’obbligo per i gestori dei fondi di adottare criteri Esg (cioè ambientali, sociali e di buona governance) nelle scelte di investimento. Gli investitori, specifica la nuova direttiva, dovranno comunicare alle autorità competenti le loro analisi sui rischi comprendendo anche quelli “relativi al cambiamento climatico, all’utilizzo delle risorse, all’ambiente, alla sfera sociale e al deprezzamento degli assets come conseguenza di cambiamenti normativi”. Si tratta dei cosiddetti stranded assets, gli attivi sostanzialmente bloccati perché incapaci

di remunerare gli investimenti. Ne fanno parte le ingenti riserve di gas e petrolio per le quali l’introduzione di norme più stringenti sulle emissioni di gas nell’atmosfera (e quindi sull’impiego delle fonti fossili) costituisce un importante fattore di deprezzamento. “Questo è un grande successo per il sostegno a investimenti in prodotti sostenibili”, ha commentato l’eurodeputato tedesco dei Verdi Sven Giegold, aggiungendo che la legge “apre la strada al divestment dalle fonti fossili dei fondi pensione europei”. Sul fronte dell’impatto ambientale degli investimenti la Francia si è mossa in anticipo: nell’estate del 2015 ha approvato la Loi relative à la transition énergétique pour la croissance verte, che con l’articolo 173 obbliga, a partire dal 2016, fondi pensione, compagnie di assicurazione e tutti i grandi investitori a misurare e a comunicare l’impronta carbonica del proprio portafoglio di investimento, unitamente alla propria strategia di gestione del rischio clima.

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materiarinnovabile 14. 2017 Il boom dei green bonds Le cosiddette “obbligazioni verdi”: uno degli strumenti più innovativi per finanziare attività con impatto positivo sul clima. Sono titoli di debito associati al finanziamento di progetti con ricadute positive in termini ambientali (energie rinnovabili, gestione sostenibile dei rifiuti e delle risorse idriche, tutela della biodiversità, efficienza energetica). È un mercato che ha conosciuto negli ultimi anni un incremento esponenziale, arrivando nel 2015 a oltre 40 miliardi di dollari di emissioni complessive a livello globale, il 272% rispetto al 2013 (dati Climate Bond Initiative, “Year end review 2015” www.climatebonds.net). Le obbligazioni sono emesse in prevalenza (61%) da organizzazioni internazionali come la Banca mondiale o la Banca europea per gli investimenti (Bei); la restante parte (39%) fa riferimento a obbligazioni aziendali. La prima obbligazione verde è stata lanciata dalla Bei nel 2007: si tratta del bond denominato “Climate Awareness”, per finanziare progetti incentrati sulle soluzioni ai cambiamenti climatici. Al momento non esiste uno standard di riferimento vincolante per l’emissione di green bond. Un rapporto pubblicato recentemente dal Wwf sottolinea l’importanza di riservare l’aggettivo “green” solo a quelle obbligazioni per le quali l’emittente possa dimostrare un impatto ambientale positivo e misurabile, certificato da un ente indipendente secondo standard condivisi.

Impact investing anti climate change “L’impact investing è una strategia di finanza sostenibile particolarmente indicata per contrastare i cambiamenti climatici e favorire la transizione verso un’economia a basse emissioni”, si legge nel rapporto Finanza sostenibile e cambiamento climatico, pubblicato dal Forum per la Finanza sostenibile. “Rispetto ad altri strumenti, infatti, gli investimenti impact si caratterizzano per il preciso intento di generare un ritorno sociale ed ambientale misurabile”. Nel 2015, il valore delle masse gestite sulla base della strategia dell’impact investing è stato pari a circa 60 miliardi di dollari, come evidenziato dallo studio annuale di Jp Morgan e del Global Impact Investing Network (Giin). E un’indagine di JP Morgan e Giin, con la Rockefeller Foundation, ha stimato che nel 2020 le masse gestite secondo i criteri della finanza a impatto potranno raggiungere un valore compreso tra i 400 e i 1.000 miliardi di dollari.

Etf e indici low carbon Etf (Exchange-traded fund) che replicano indici low carbon. Cresce anche l’offerta delle gestioni cosiddette “passive” che incorporano il tema del cambiamento climatico. Si tratta di Etf che includono titoli a minor intensità di carbonio rispetto al benchmark di riferimento, riducendo così l’impronta di CO2 complessiva del portafoglio. Gli indici possono essere composti sulla base della strategia delle esclusioni, eliminando i settori più inquinanti dall’universo investibile (tipicamente, il settore dei combustibili fossili), oppure su un approccio best in class, che all’interno di ciascun settore seleziona le aziende in grado di gestire più efficacemente i rischi/ opportunità legati al cambiamento climatico. Un esempio di indici low carbon citati si trova sul sito della Montréal Carbon Pledge: montrealpledge.org/resources122.

Iniziative per finanziare energia pulita e anti climate change Si moltiplicano in tutto il mondo le iniziative per finanziare progetti di sviluppo di energia pulita, o, in generale, per contrastare i cambiamenti climatici. •• L’Africa Renewable Energy Initiative (Arei) è un’iniziativa africana per sfruttare le abbondanti risorse di energia rinnovabile nel continente. Lanciata a COP21 di Parigi nel dicembre 2015, sta ricevendo un forte sostegno internazionale dai partner di sviluppo che si sono impegnati a mobilitare almeno 10 miliardi di dollari cumulativamente per sfruttare il potenziale delle energie rinnovabili in Africa e ampliare l’accesso di energia in tutto il continente. Sostenuta e supportata finanziariamente dai governi di Canada, Francia, Germania e Stati Uniti, l’Arei punta ad aggiungere al mix energetico africano entro il 2020 10 GW e poi entro il 2030 altri 300 GW di energia prodotta da fonti rinnovabili. Il report annuale del Global Impact Investing Network ha individuato alcune iniziative particolarmente rilevanti (sono citate nel rapporto “Finanza sostenibile e cambiamento climatico”, del Forum per la Finanza sostenibile): •• la Breakthrough Energy Coalition creata da Bill Gates, Mark Zuckerberg e altri 20 HNWI che investirà in iniziative di energia e tecnologia pulita in fase iniziale in tutto il mondo; •• il Climate Investor One creato dal Fmo per favorire il finanziamento delle energie rinnovabili nei mercati emergenti; •• il Land Degradation Neutrality Fund della UN Convention to Combat Desertification – fondo che mira a riqualificare 12 milioni di ettari di terra compromessa ogni anno, con l’obiettivo di mitigare il cambiamento climatico e favorire la biodiversità; attraverso il fondo ci saranno opportunità di investimento per oltre un miliardo di dollari.


Think Tank Clima e finanza: le iniziative internazionali 2° Investing Initiative Associazione fondata nel 2012 a Parigi. Si tratta di un gruppo di esperti multi-stakeholder che sviluppa progetti volti ad allineare il settore finanziario all’obiettivo dei 2°C. In particolare, le ricerche e le attività del gruppo mirano a: rendere i processi di investimento coerenti con gli scenari dei 2°C; sviluppare metodi e strumenti di misurazione delle performance climatiche delle istituzioni finanziarie; incoraggiare l’introduzione di incentivi normativi per orientare le risorse verso il finanziamento della transizione energetica. 2degrees-investing.org Green Climate Fund Il fondo è nato in ambito Unfccc (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) con l’obiettivo di applicare l’Accordo di Parigi (Cop21) e accrescere la capacità di azione collettiva in risposta ai cambiamenti climatici. Il fondo ambisce a mobilitare risorse da investire in progetti di sviluppo a basso impatto carbonico e resilienti nei confronti del cambiamento climatico. www.greenclimate.fund Green Infrastructure Investment Coalition Fondata in occasione della Conferenza di Parigi Cop21, la coalizione mira a supportare il finanziamento di una rapida transizione verso un’economia a basso impatto carbonico e resiliente nei confronti dei cambiamenti climatici. I membri fondatori della coalizione sono: Climate Bonds Initiative, Principles for Responsible Investment (Pri), Unep Inquiry e International Cooperative and Mutual Insurance Federation (Icmif). www.giicoalition.org Institutional Investors Group on Climate Change Iigcc è una piattaforma di collaborazione sui temi del cambiamento climatico rivolta agli investitori. La rete è composta attualmente da 120 membri. Tra questi vi sono alcuni dei principali fondi pensione e gestori europei. I suoi membri rappresentano quasi 13.000 miliardi di euro di asset. La missione è quella di fornire agli investitori una piattaforma collaborativa per incoraggiare politiche, pratiche di investimento e comportamenti in grado di affrontare i rischi e le opportunità associati al cambiamento climatico, in un’ottica di lungo periodo. www.iigcc.org Investor Network on Climate Risk Fondato nel 2003, l’Investor Network on Climate Risk (Incr) è una rete di oltre 120 investitori istituzionali che rappresentano più di 14.000 miliardi di dollari di asset. I membri dell’Incr si impegnano ad affrontare i rischi e a cogliere le opportunità derivanti dal cambiamento climatico e da altre sfide relative alla sostenibilità. www.ceres.org/investor-network/incr Montréal Carbon Pledge Sottoscrivendo il Montréal Carbon Pledge, gli investitori si impegnano a misurare, pubblicare e ridurre l’impronta carbonica (carbon footprint) del proprio portafoglio di investimento, su base annuale. L’iniziativa è stata lanciata

il 25 settembre 2014 in occasione dei Pri in Person33 a Montréal ed è promossa dai Principles for Responsible Investment (Pri) e dall’Iniziativa Finanziaria dell’Unep (Unep-Fi). Supervisionato dai Pri, il Montréal Carbon Pledge ha raccolto l’adesione di oltre 120 investitori firmatari, con più di 10.000 miliardi di dollari di asset in gestione. Etica Sgr e il Fondo pensione Cometa sono, al momento, gli unici firmatari italiani. http://montrealpledge.org Natural Capital Declaration La Natural Capital Declaration è promossa da Unep-Fi e dal Global Canopy Programme. Si tratta di una dichiarazione da parte del settore finanziario in vista del Summit della Terra Rio+20, in cui viene esplicitato l’impegno a integrare considerazioni legate al Capitale Naturale nei prodotti e nei servizi finanziari del ventunesimo secolo. Tra i beni ed i servizi ecosistemici derivanti dal Capitale Naturale è citata anche la sicurezza climatica. www.naturalcapitaldeclaration.org Portfolio Decarbonization Coalition La Portfolio Decarbonization Coalition è un’iniziativa promossa da Unep-Fi, Unep, Cdp e Amundi. Si tratta di una rete di investitori istituzionali e di gestori che si sono assunti l’impegno di “decarbonizzare” il proprio portafoglio di investimento. La decarbonizzazione dei portafogli può avvenire disinvestendo, in ogni settore, da imprese, progetti e tecnologie a elevata intensità di carbonio e re-investendo le risorse in imprese, progetti e tecnologie particolarmente efficienti dal punto di vista delle emissioni di carbonio. www.unepfi.org/pdc Regions of Climate Action R20 Regions of Climate Action è un’organizzazione non profit fondata nel 2010 dal governatore Arnold Schwarzenegger e altri leader globali, in cooperazione con le Nazioni Unite. La missione di R20 è quella di aiutare i governi regionali a sviluppare progetti orientati a uno sviluppo economico a basse emissioni e resiliente ai cambiamenti climatici. In particolare, R20 facilita l’avvio di collaborazioni tra Regioni e i settori tecnologico e finanziario. http://regions20.org Unep-Fi Climate Change Advisory Group A partire dal Forum Mondiale di Rio nel ’92, l’iniziativa finanziaria dell’Unep, il programma per la protezione ambientale delle Nazioni Unite, incentiva l’allineamento della comunità finanziaria ai principi dello sviluppo sostenibile e, nel quadro dell’Advisory Group dedicato, al contenimento dei rischi connessi al cambiamento climatico. Unep-Fi include tra i propri membri oltre 200 istituzioni finanziarie (banche, investitori e compagnie assicuratrici). Le sue attività sono mirate al raggiungimento di due obiettivi principali: changing finance (favorire l’integrazione degli aspetti ambientali all’interno dei processi finanziari) e financing change (incoraggiare il finanziamento di progetti a impatto ambientale positivo). www.unepfi.org

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La lezione di PENELOPE a cura di Emanuele Bompan

Intervista a Erin Meezan

La storia di Ray Anderson, padre dell’ecologismo industriale. E di come ha trasformato la sua azienda manifatturiera in un simbolo dell’economia circolare, in grado oggi di produrre pavimentazioni tessili utilizzando per l’80% materiale riciclato e rigenerato.

www.interfaceglobal.com

Rileggendo il mito della tela di Penelope, si può trovare molto di più di un semplice stratagemma per ingannare i Proci, ma un simbolo della reversibilità e circolarità dei processi. Tutto può essere disfatto e rifatto, usando l’astuzia. Probabilmente quando l’imprenditore americano Ray Anderson pensò per la prima volta a un prodotto di filato per pavimentazioni in tessuto che potesse venire disassemblato e ri-assemblato non aveva in mente questo passaggio dell’Odissea, ma certo agì d’astuzia, comprendendo che il miglior modo per limitare gli impatti ambientali dei processi produttivi era quello di creare prodotti reversibili, rigenerabili. In una parola circolari. Per questo nel 1994 Ray Anderson ha trasformato Interface Inc., la compagnia americana da lui fondata nel 1973 in Georgia negli Usa, specializzata nella produzione di pavimentazioni tessili di qualità – la moquette per capirci – in un simbolo dell’economia circolare. E molto prima che il termine trovasse una collocazione nel grande mondo della sostenibilità. Ray Anderson (morto nel 2011, nda) non era un ambientalista. Eppure la sua conversione lo ha portato, inconsapevolmente, a essere un simbolo di un altro modo di fare produzione manifatturiera. A diventare il creatore di un nuovo pensiero, l’ecologismo industriale, così ben descritto nel suo libro Confessions of a Radical Industrialist: Profits, People, Purpose – Doing Business by Respecting the Earth (2009).

Materia Rinnovabile ha voluto raccontare la storia di Interface visitando la fabbrica di LaGrange in Georgia e intervistando Erin Meezan, Chief Sustainability Officer di Interface, per capire come si possa trasformare una normale impresa manifatturiera in leader globale dell’economia circolare, ormai citata in qualsiasi testo sul tema. Durante la visita degli impianti di Interface è difficile non rimanere allibiti di fronte all’eleganza dell’Awarehouse (crasi di awareness, consapevolezza e warehouse, fabbrica), il grande spazio espositivo e produttivo dell’azienda. E soprattutto non esserlo davanti ai risultati ottenuti, tutti certificati da enti terzi. Qualche numero: dal 1996 Interface ha ridotto le emissioni di gas climalteranti del 98,5%; tagliato del 64% il fabbisogno di energia (oggi prodotta per l’85% da fonti rinnovabili); abbassato del 98% il consumo idrico; portato a zero il conferimento in discarica dei rifiuti e ridotto lo scarto medio di produzione di un quinto. Complessivamente un modulo di pavimentazione tessile d’Interface contiene un terzo di CO2 in meno rispetto a quindici anni fa. E ora l’obiettivo è portare emissioni e consumi a zero. Niente male. Già entrando nell’Awarehouse si capisce subito la dedizione alla sostenibilità dell’azienda. Dai pavimenti che producono energia quando calpestati all’ingresso di Energy Floors,


Think Tank agli edifici tutti rigorosamente certificati Leed (Leed è la la certificazione di sostenibilità degli edifici promossa da Green Building Council, nda). Lo showroom e la fabbrica adiacente, così come tutti i 17 impianti di Interface nel mondo, sono costruiti intorno al concetto di recupero della materia. E con l’intenzione di comunicare l’importanza dello sforzo fatto.

Paul Hawken ha pubblicato con Edizioni Ambiente Capitalismo naturale (n.e. 2011) e Moltitudine inarrestabile (2009)

Erin Meezan, lei conosce molto bene la storia di Interface. Come è avvenuta questa conversione da impresa energivora a impresa rigenerativa? “Era il 1994, l’azienda andava a gonfie vele. Successe che durante una gara di appalto per un progetto immobiliare in California, uno dei primi edifici super efficienti, a zero emissioni, Interface non riuscì ad aggiudicarsela: mancavano tutti i requisisti di sostenibilità richiesti. Quando la voce arrivò ai piani alti, Ray Anderson iniziò a domandarsi perché avessimo perso questo lavoro e cosa si poteva fare. Dunque iniziò a organizzarsi: bisognava diventare più sostenibili. Fissò una riunione aziendale per presentare questa nuova vision d’impresa. Ma via via che la data della riunione si avvicinava Ray iniziava a essere preso dal panico. Cosa fare? Quali soluzioni adottare? La folgorazione arrivò quando Ray trovò sulla sua scrivania una copia del libro di Paul Hawken, The Ecology of Commerce, dove si descrivono la crisi della Terra, il declino della biosfera e il ruolo che giocano le grandi corporation. Quando arrivò al capitolo ‘The Death of Birth’ dove si parla di come sia proprio il mondo degli affari, che è parte del problema, la chiave per fermare il declino ambientale, per Ray, che all’epoca aveva 60 anni, Laureata in Legislazione ambientale alla Vermont Law School, Erin Meezan è Chief Sustainability Officer di Interface e vicepresidente per l’area Sostenibilità. Esperta nelle tematiche relative al business sostenibile, è anche consulente nei consigli di amministrazione e comitati decisionali di numerose Ong.

fu un’epifania. Talmente scioccante che per molti anni userà proprio questa parola per raccontare la sua conversione. Alla riunione aziendale tutti attendevano una soluzione classica, come ‘ridurre i rifiuti’ o ‘aumentare l’efficienza energetica nella produzione’. Invece lasciò tutti di stucco annunciando: ‘Interface deve raggiungere l’obiettivo zero negli impatti ambientali e lavorare per rigenerare l’ambiente’. Per fare questo si stabilì un framework di lavoro radicale. Per prima cosa abbiamo cercato sostegno esterno. Il primo a essere coinvolto fu lo stesso Paul Hawken, in seguito venne contattato il gruppo di costruttori dell’edificio in California che aveva rifiutato la proposta di gara e poi David Brower, uno dei fondatori del Sierra Club (una delle più grandi associazioni ambientaliste americane, nda). Con questo eco dream-team Ray impostò il quadro di lavoro: ridurre al minimo i rifiuti, impiegare al 100% energie da fonti rinnovabili, chiudere tutti i cicli tecnologici e della materia, e garantire che tutti i materiali rimangano utilizzati nel sistema produttivo. Il quadro è fondato sull’assunto ‘Come la natura gestirebbe un’impresa?’.” Dunque la visione circolare è stata presente fin dall’inizio. “Sì, da subito è stata il cuore della strategia. Si è lavorato sulla capacità di impiegare materiali riciclati, invece che vergini, eliminando il concetto di rifiuto. Una visione entusiasmante, sia da una prospettiva economica, sia ambientale. Una nuova identità che avrebbe definito in maniera univoca la natura di Interface. Il modello circolare era infatti facilmente traducibile anche in fabbrica, mostrando agli operai quanto valeva un chilo di filato scartato e quante tonnellate di scarti di produzione generati ogni giorno potevano diventare nuova risorsa. Una volta capito questo gli impiegati potevano agire di conseguenza, non sprecando e contribuendo a una strategia che migliorava i ricavi. Inoltre avendo a disposizione una cifra limitata per la sostenibilità, anziché investire subito in impianti solari – che nel 1996 avevano un pessimo payback sull’investimento visti i costi di allora della tecnologia – scegliere di lavorare sul recupero dello scarto favoriva il risparmio di capitale, che poi sarebbe stato utilizzato per installare pannelli fotovoltaici su larga scala e adottare altre misure di sostenibilità.” Come si riusciva a recuperare la materia per realizzare nuove pavimentazioni tessili? “Inizialmente per riciclare le pavimentazioni tessili modulari ci siamo concentrati sulla tecnologia per separare il supporto (la parte in lattice di gomma, juta o sintetica) dai filati e quindi poterli inviare ai fornitori per riciclarli. Nasceva così ReEntry, il modello circolare di supply chain di Interface. Il primo passaggio era costituito dalla tecnologia che tritava il supporto (backing in inglese, nda) che poi veniva sciolto insieme ad altro materiale attraverso il sistema CoolBlue™ producendo il nuovo. Ma all’inizio non avevamo dati di mercato,

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materiarinnovabile 14. 2017 Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008. Autore con Ilaria Brambilla del libro Che cos’è l’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016).

Net-Works, net-works.com

Non serve concentrare tutto in un luogo centralizzato, quanto vedere in ogni luogo quali risorse si possono utilizzare, adattandosi a sistemi differenti.

non sapevamo quanto far pagare il prodotto e quali sarebbero stati i margini. Quello di cui eravamo certi era che non si sarebbe dovuto pagare un extra per il riciclo. Siamo andati avanti senza sapere come avrebbe reagito il mercato fidandoci dell’assunto ‘dedicati alla missione’.” Siete leader di mercato, direi che il mercato ha reagito benissimo. Con ReEntry 2.0 oggi avete moduli prodotti all’80% con materiale riciclato e rigenerato, inclusi i filati. “Questo risultato lo abbiamo raggiunto in meno di dieci anni. Quando abbiamo iniziato, non avevamo nessuna scelta di filato riciclato dai fornitori. Allora abbiamo convocato Aquafil dall’Italia e Universal in Usa, spiegando loro la nostra nuova vision, al fine di trovare sistemi per recuperare il filato. E Aquafil ha individuato una soluzione: usare le vecchie reti da pesca. L’idea geniale è stata di lanciare con Aquafil e la Zoological Society of London il programma Net-Works, per lavorare con le comunità locali di pescatori, che risentono degli impatti delle reti da pesca, che spesso vengono buttate in mare o perse sui fondali diventando trappole per pesci e delfini. Poi ci siamo concentrati sulla Danajon Bank, nelle Filippine (una delle sei barriere coralline doppie al mondo e uno dei principali ecosistemi marini nell’intero Oceano Pacifico, nda), dove la maggior parte delle persone trae sostentamento dal mare. Grazie ad Aquafil, che processa le reti in Slovenia trasformandole in Econyl, abbiamo creato una filiera – valida anche economicamente – pagando le comunità locali per raccogliere le reti dall’oceano, lavorarle e inviarle ai nostri fornitori. Un modello di business efficace come dimostra il fatto che oggi abbiamo una seconda location in Africa, in Camerun. E in futuro continueremo a focalizzare i nostri sforzi per aumentare i benefici sociali della nostra catena di produzione, non limitandoci solo al riciclo e alla rigenerazione ambientale.” Circolare, quindi, significa anche sociale? “Per avere una vera economia circolare non basta che l’azienda riutilizzi i suoi prodotti o quelli dei competitor. Deve avere una strategia per

utilizzare qualsiasi materia che non sia sfruttata del tutto, creando occupazione e andando a curare situazioni di disagio ambientale. Come nel caso delle reti di pesca, possiamo creare modelli, community-based, di piccola scala in tutto il mondo, facendo crescere costantemente l’approvvigionamento di materia.” Interface è un modello. Cosa dite a chi vi chiede consiglio? “Bisogna mantenere il sistema quanto più chiuso possibile e al di là dei materiali impiegati occorre concentrare lo sforzo di realizzare circolarità su quelli che più vengono impiegati, cercando di capire se si ha la capacità di trasformare la materia. Ma soprattutto occorre mettere bene a fuoco le supply chain dynamics, scoprendo in quali punti si può agire e come coinvolgere i fornitori. Ed essere d’esempio. Noi sapevamo come riciclare il backing, il supporto dei pavimenti: eravamo legittimati agli occhi dei fornitori, conoscevamo quali potevano essere i costi e i problemi legati alla supply chain. E quindi sapevamo consigliarli nel modo migliore.” C’è un elemento che raramente si considera nei modelli di economia circolare: gli uomini. Creare un ciclo di produzione a ciclo ristretto ha creato occupazione? “Nei primi anni dell’amministrazione Obama c’era molto interesse sui green jobs: ricordo numerose conversazioni con il governo federale interessato a capire quanti posti di lavoro poteva generare una soluzione come quella adottata da Interface. Con il programma ReEntry abbiamo creato molto lavoro. Non solo, ne abbiamo cambiato la percezione: gli impiegati si sentono più motivati a lavorare in un’impresa che vuole aiutare il pianeta. Alcuni anni fa abbiamo testato attraverso una app la misura di coinvolgimento dello staff nel processo produttivo. Ebbene è risultato che i lavoratori più soddisfatti e positivamente coinvolti erano quelli che lavoravano nella linea di riciclo (recycled backing line), cioè quelli che più di tutti contribuivano alla missione della compagnia. Senza poi considerare il lato umano


Think Tank del progetto Net-works, che ha creato lavoro in aree dove mancava. Nelle Filippine Net-works significa poter mandare i figli a scuola, aver accesso a cure mediche, conservare le barriere coralline. Ecco un consiglio che mi sento di dare: ‘Abbiate un percorso di sviluppo chiaro, dove influenzare in maniera positiva e diretta la vita delle persone’.” Essere radicalmente circolari ha costituito un vantaggio sui vostri competitor? “Indubbiamente. Noi siamo da sempre i produttori di pavimentazioni tessili a uso commerciale sostenibili. Quando è arrivato il sistema di certificazione Leed noi eravamo l’unico prodotto conforme e questo ci ha avvantaggiato. Solo dopo, tanti hanno seguito il nostro modello.”

Ogni ostacolo può diventare un nuovo successo.

Per essere un’impresa circolare che tipo di scala e struttura si deve adottare? “Abbiamo 17 imprese manifatturiere nel mondo che operano in maniera decentralizzata. Uno dei nostri competitor invia tutto il materiale da riciclare in un unica location, negli Usa, per il ri-processamento. Se ciò consente un controllo elevato sulla qualità, è un sistema che ha una grande inefficienza dovuta alla logistica. Noi crediamo che il sistema debba adattarsi a ogni singolo luogo (site-specific), deve essere flessibile, originale. La scala è la parte più interessante della nostra riflessione intorno al concetto di economia circolare. Non serve concentrare tutto in un luogo centralizzato, quanto vedere in ogni luogo quali risorse si possono utilizzare, adattandosi a sistemi differenti. L’India non sono gli Usa, la Cina non è l’Irlanda del Nord (tutti siti di produzione Interface, nda). Si tratta di creare linee di produzione leggere, fluide e mobili. Questa è la nostra sfida. Ed è stato il programma Net-Works che ci ha mostrato come lavorare con piccole comunità e affrontare le problematiche a questa scala.”

Ora puntate all’obiettivo impatto zero, con la vostra Zero Mission®. “Mancano tre anni, ci stiamo avvicinando molto e continuiamo a chiederci: qual è il prossimo passo da fare? Le prossime sfide sono concentrate su come questa impresa possa servire come forza positiva per fermare il cambiamento climatico e per allentare povertà e diseguaglianza. Non abbiamo fatto ancora abbastanza nel sociale. Certo abbiamo trasmesso i valori dell’economia circolare a oltre 5.000 nostri impiegati in modo che potessero essere applicati anche fuori da Interface. Durante la registrazione di un documentario su Interface, un addetto al nostro impianto di produzione australiano ha detto: ‘Ho parlato [di economia circolare] ai miei genitori, la loro fattoria potrebbe essere organizzata come un ciclo chiuso senza rifiuti. E sono stati subito entusiasti’. Un segno che c’è interesse. Lo stesso in Irlanda del Nord, dove le imprese sono spinte a non produrre rifiuti da conferire in discarica. Il nostro responsabile locale per la sostenibilità fa in modo che si ricicli tutto. Quando non riesce ad accordarsi con i fornitori trova comunque una soluzione. Ora abbiamo avviato un programma per ‘ambasciatori della sostenibilità’, e faremo in modo che ogni impiegato, ogni operaio possa parteciparvi, in modo che ottengano nuove competenze, nuove conoscenze professionali.” Da anni state cercando di far funzionare un modello di prodotto-come-servizio (product-as-a-service). Cosa serve per impostare un sistema di vendita così diverso da quella classica basata sul passaggio di proprietà? “Due cose: aumentare il volume (di prodotto contrattualizzato, nda) ed educare i consumatori a questo modello. E quindi serve trovare un accordo contrattuale che ci permetta di detenere la proprietà sulle pavimentazioni tessili e poterle ritirare a fine vita. Non necessariamente strutturato come un lease, può essere un buy-back o un accordo contrattuale di ritiro obbligato a fine vita. A sostegno potrebbe essere utile una legge federale che vieti alle pavimentazioni di finire in discarica: in Usa sono tra i primi cinque prodotti, per volume, che finiscono in discarica, insieme ai pannolini. La California è stata una dei primi paesi a fare una legge per creare un’infrastruttura di raccolta. E ha avuto un grande successo. Questo ci fa pensare: invece che inviare dalla California alla Georgia il materiale da recuperare, possiamo fare una infrastruttura leggera laggiù che invia direttamente il filato rigenerato e il backing ai fornitori? Ogni ostacolo può diventare un nuovo successo. Siamo fiduciosi di raggiungere l’obiettivo di Zero Mission e di poter lavorare su nuovi prodotti sempre più sostenibili – come TacTile, un sistema di assemblaggio tipo puzzle, che non richiede più colla, con impatti positivi sulla salute e sui consumi di materiali – e su nuovi modelli di business. L’epifania di Ray non è finita con la sua morte. L’azienda continua a portare avanti il suo sogno.”

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Trasformare le ferite

IN RACCONTO Intervista a Serenella Iovino


Think Tank Serenella Iovino insegna al Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Culture Moderne all’Università di Torino. È considerata una dei maggiori filosofi dell’ambiente italiani e collabora con le principali riviste e istituzioni internazionali nel campo dell’ecocritica. Per Edizioni Ambiente ha pubblicato Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza (n.e. 2015), il suo ultimo libro è Ecocriticism and Italy. Ecology, Resistance, and Liberation (Bloomsbury, 2016). a cura di Matteo Reale

Quando un territorio è sconvolto da calamità naturali occorre attivare un processo rigenerativo, di ricostruzione sociale, culturale e ambientale. Ne è esempio il Cretto di Gibellina, monumento che simboleggia le ferite inferte dal sisma. E la capacità di convertirle in segni. L’Italia è una terra fragile, sconvolta sempre più spesso da calamità sismiche che ne modificano il profilo, colpendo uomini e distruggendo borghi, insediamenti, testimonianze artistiche. Soprattutto oggi, dopo il terremoto che si è abbattuto su regioni così dense di storia del centro Italia, causando danni devastanti, anche per effetto di un mancato adeguamento degli edifici pubblici e privati alle norme antisismiche più severe. I temi sono innanzitutto quello della prevenzione e della ricostruzione sociale, culturale, ambientale degli insediamenti dopo la catastrofe. Le zone colpite non sono diventate solo cumulo di rifiuti, ma sono anche state distrutte nei legami tra le persone, negli affetti, nella socialità, nei rapporti con il territorio stesso. L’arte si è rivelata uno strumento potente per ridare vita ai paesi prostrati, coinvolgere le persone, far rivivere con spirito nuovo gli ambienti devastati. Un esempio è la ricostruzione di Gibellina. La città siciliana, colpita da un terribile sisma nel 1968, è diventata un cantiere generativo di idee, bellezza e condivisione, capace di dare una nuova identità al luogo annientato e attivare la partecipazione dei cittadini, attraverso una monumentale opera di land art di Alberto Burri, un sistema di arte diffusa con opere di Schifano, Melotti, Pomodoro, nuovi edifici di Gregotti, Purini e Quaroni, il festival teatrale delle Orestiadi. Proprio questo festival, durante la direzione artistica di Emilio Isgrò, ambientò le rappresentazioni teatrali utilizzando come quinte le rovine della città vecchia distrutta dal terremoto (che qualche anno dopo saranno coperte come un sudario proprio dal Grande Cretto di Burri). Gli abitanti della città, tornando sui luoghi della loro vecchia vita ormai in frantumi, assistettero a quegli spettacoli, e questa narrazione diede loro la forza di ricominciare. Questo processo rigenerativo è stato analizzato

dalla filosofa Serenella Iovino, nel suo recente Ecocriticism and Italy. Ecology, Resistance and Liberation (Bloomsbury). Il libro ripercorre la storia di alcuni territori italiani (Napoli, Venezia, la Sicilia, la Campania e l’Abruzzo del terremoto, il Piemonte) attraverso i corpi e gli oggetti naturali e artificiali che li compongono, e che fanno emergere una lettura originale dell’ambiente e della cultura del paese. La copertina del suo volume è dedicata all’opera che Alberto Burri installò nella città di Gibellina (in Sicilia), completamente rasa al suolo dal sisma del 1968. Si tratta di un gigantesco Cretto (la terra spaccata) di cemento bianco. Perché quella foto è così simbolica? “Il Cretto di Burri è il più grande monumento che sia stato dedicato a un sisma. La sua estensione copre interamente l’antica città di Gibellina vecchia, completamente distrutta dal terremoto che si abbatté sulla Valle del Belice, in quel freddissimo gennaio del 1968. La storia del Cretto è esemplare per molti aspetti. La sua creazione, circondata da non poche polemiche, è il frutto della volontà di un sindaco, Ludovico Corrao, che non volle rassegnarsi alla scomparsa del suo paese. E così, nel silenzio della collina abbandonata, ricoperta da una colata di cemento bianco che ne segue il tracciato urbano, il Cretto cattura l’ultimo grido di Gibellina vecchia, e ci racconta di un luogo che cerca di continuare a esistere come paesaggio, nonostante la distruzione. Nel suo minimalismo – paradossale e necessario, viste le dimensioni dell’opera – il Cretto è il simbolo della ferita aperta dal sisma nel corpo di quei luoghi. Ma è anche il simbolo della voglia di convertire le ferite in segni, trasformandole così in racconti, necessari per andare avanti. Certo, non è semplice raccontare queste storie, specialmente

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Foto: Panma Bolec

quando ci sono ferite ancora aperte davanti ai nostri occhi, come nei terremoti del 2016. E tuttavia se non si passa dal dolore al racconto, qualsiasi via per la ricostruzione, dei territori così come dell’immaginario dei luoghi, è preclusa.”

Foto: Giorgio Redaelli

Se non si passa dal dolore al racconto, qualsiasi via per la ricostruzione, dei territori così come dell’immaginario dei luoghi, è preclusa.

Quali furono le conseguenze urbanistiche e sociali della catastrofe? “Furono apocalittiche. L’apocalisse, in questo caso, è quella di cui parlava Ernesto De Martino nel suo libro La fine del mondo: ossia, la perdita dell’’orizzonte di operabilità mondana’ di persone che vedono i propri luoghi scomparire. E con essi il loro passato, i loro riferimenti materiali, emotivi, narrativi. Molte città del Belice furono cancellate, e nella ricostruzione alcune furono spostate di molti chilometri rispetto ai luoghi originali, creando una frattura cognitiva e affettiva negli abitanti. Come in tutti i sismi, inoltre, la distruzione del terremoto fu spesso amplificata da opere di ricostruzione non adeguate, il più delle volte accompagnate da speculazioni. Nel caso del Belice, un grave errore fu la mancanza di un legame tra urbanistica e sviluppo economico. Alla ricostruzione dei centri abitati, infatti, si privilegiò la costruzione di infrastrutture, per esempio grandi autostrade, sovradimensionate per quei territori, ma sicuramente più redditizie per chi voleva arricchirsi. Nonostante ciò,

in quest’apocalisse ci sono stati anche forti fermenti sociali. Mi riferisco alla potenza aggregativa di Danilo Dolci e di Lorenzo Barbera, già attivi negli anni prima del sisma per la rivendicazione del diritto dei contadini contro lo strapotere del latifondo e della grande proprietà terriera, oltreché della mafia. C’è stato un momento in cui la presenza delle loro organizzazioni, il Centro Studi per la Piena Occupazione di Dolci e il Centro di Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione di Barbera, ha creato una grande spinta di solidarietà. Lo racconta molto bene Carola Susani nel libro autobiografico L’infanzia è un terremoto, in cui è narrata la storia di una famiglia che, dal nord, si trasferisce nella baraccopoli di Partanna per sostenere il lavoro di Dolci. Nonostante tutte le contraddizioni della ricostruzione, quelle esperienze di solidarietà sono state importanti per la sopravvivenza sociale e storica di quei luoghi. Se lo sviluppo è stato lasciato ai margini dallo stato centrale, queste esperienze rivivono oggi nello sforzo della società locale di farsi carico di uno sviluppo più partecipativo.” Grazie a una mobilitazione senza precedenti di artisti e intellettuali (da Sciascia, a Beuys, a Cage), Gibellina si è trasformata negli anni in una città museo di arte moderna e in un laboratorio di opere d’arte e architettura,


diffuso su tutto il suo territorio. Perché lo definisce un percorso di ricostruzione, insieme di memoria e di progetto? “Un terremoto è sempre un momento di profonda rottura. Viene cancellato l’orizzonte di senso di una vita, e con esso si perdono abitudini, luoghi, paesaggi. Il caso di Gibellina è eloquente: Gibellina Nuova, infatti, è sorta a diversi chilometri di distanza dall’antica città, con cui, a parte il nome, non condivide più quasi nulla. Ricorda un po’ la Maurilia de Le Città Invisibili di Italo Calvino. Qui, come in quel racconto, sembra di essere di fronte a città diverse che ‘si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro’. Gibellina Nuova però è un caso a sé stante, perché ha provato a rinascere nel segno dell’arte, e l’unica arte possibile era quella contemporanea. La sfida di Corrao sta nella convinzione che l’unico modo per far ripartire il racconto di Gibellina fosse dotarla di un altro linguaggio. Un’impresa difficile, senza dubbio; e infatti, per rendersi conto dell’ambivalenza di questa operazione, basta leggere le parole di Vincenzo Consolo, che descrive Gibellina Nuova come ‘la fiera del vuoto’, ‘la città metafisica’. E tuttavia il pensiero di Corrao e degli artisti che lo hanno seguito era che vivere in una città d’arte potesse essere fonte di energia identitaria, specialmente per i giovani di Gibellina. E anche il Cretto, negli anni, è diventato parte concreta di quest’identità evolutiva della città. Non è sempre semplice adattarsi ai cambi di linguaggio che passano per il paesaggio, specialmente se è un paesaggio domestico come quello di una città di provincia. La sfida ancora aperta, ed è una sfida per lo Stato italiano, è non trasformare Gibellina Nuova in un luogo di archeologia del presente, abbandonandola al proprio destino. Le città d’arte hanno bisogno di uno Stato che si accorga di loro prima che si disintegrino. Ci vogliono fondi e vera

attenzione politica per queste realtà così singolari e significative. Il rischio che corre Gibellina è quello di disfarsi prima di essere diventata parte integrante del tessuto dell’Italia contemporanea, e in questo caso la causa non sarebbe un altro terremoto, ma semplicemente l’indifferenza.” Con quali strumenti la rinascita di un territorio colpito da un cataclisma naturale può trasformarsi oggi in un esperimento di riorganizzazione della vita sociale e culturale di una comunità? “I recenti terremoti in Italia centrale hanno sottoposto gli abitanti di quei luoghi a prove severissime. Aldilà delle vittime umane, una perdita altrettanto irrecuperabile è quella del patrimonio, che segna una continuità nel tempo delle voci che si susseguono sui territori. Le storie dei sismi passati insegnano che ci sono più modi per vivere le apocalissi. C’è quello del Belice, che ha ricostruito molti siti altrove e diversamente. C’è quello del Friuli, che ha privilegiato il metodo ‘dov’era, com’era’. E poi ci sono gli scempi dell’Irpinia, e le scandalose rovine dell’Aquila, ancora lì dopo quasi otto anni. Non è facile rinascere, per una comunità e per un territorio. Ma perché questo sia possibile, è necessario essere disposti a trasformare le ferite in racconto. Ciò può significare un cambiamento, spesso doloroso, del linguaggio con cui si descrive la propria realtà. Occorre salvare tutto ciò che è possibile salvare, ma anche sapere progettare il mutamento, se questo è una scelta evolutiva e una strategia di sopravvivenza.”

Occorre salvare tutto ciò che è possibile salvare, ma anche sapere progettare il mutamento, se questo è una scelta evolutiva e una strategia di sopravvivenza.


ITALIA La bioeconomia italiana è già al terzo posto in Europa per occupazione e giro d’affari, e il Bel Paese ha le carte in regola per consolidare la sua leadership. A patto di saper mettere a sistema competenze, know-how, infrastrutture e valorizzare biodiversità e risorse. Il ruolo della nuova strategia nazionale.

Pittore dell’Italia centrale, La città ideale, 1490, particolari. Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale di Urbino, Sala degli angeli – ©WikiCommons, Public Domain

Dossier


Policy

RINASCIMENTO industriale Se già oggi la bioeconomia italiana ha un ruolo di primo piano nell’area euro-mediterranea, l’obiettivo è arrivare nel 2030 a un giro d’affari di 300 miliardi di euro e dare lavoro a 2 milioni di persone. Una storia di successo iniziata molti anni fa e proseguita grazie a una ricerca di eccellenza, alla presenza di aziende leader nel settore, a impianti innovativi e filiere integrate nel territorio. Il quadro delle opportunità economiche, sociali e ambientali offerto dalla strategia nazionale. di Mario Bonaccorso

Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

Alcune delle imprese leader a livello globale con impianti produttivi unici al mondo, una ricerca che resta a livelli eccellenti pur tra mille affanni (la spesa in ricerca e sviluppo si ferma appena al disopra dell’1,3% del Pil), la capacità di costruire filiere di valore integrate nel territorio. Sono questi gli elementi che caratterizzano più di tutti la bioeconomia in Italia e che fanno del nostro paese un punto di riferimento riconosciuto. Lo scorso 22 novembre, infine, a dare una cornice stabile e coerente al settore è arrivata anche la strategia nazionale (“La Bioeconomia in Italia: un’opportunità unica per connettere ambiente, economia e società”). Per un paese che ha chiuso il 2016 con una crescita del Pil che ha appena sfiorato l’1%, e dove il tasso di occupazione è fermo al 57,3%, lo sviluppo della nuova economia basata sull’impiego delle risorse biologiche rappresenta una grande occasione per un nuovo Rinascimento industriale. La strategia nazionale

“La Bioeconomia in Italia: un’opportunità unica per connettere ambiente, economia e società”, tinyurl.com/gt9tty6

Il Bel Paese punta a un ruolo di primo piano nello scenario euro-mediterraneo, con un obiettivo molto sfidante: passare dagli attuali 250 miliardi di euro di giro d’affari di questo metasettore e dagli 1,7 milioni di occupati, così come stimati da un’analisi della Direzione studi di Intesa Sanpaolo, a 300 miliardi e oltre 2 milioni di occupati entro il 2030. La strategia è il frutto di un lavoro di squadra,

che ha coinvolto il ministero per lo Sviluppo economico, il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il ministero della Tutela del territorio e del mare, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’Agenzia per la coesione territoriale, i Cluster tecnologici nazionali per la Chimica verde (Spring) e per l’Agrifood (Clan). “La strategia mira a offrire una visione condivisa delle opportunità economiche, sociali e ambientali e delle sfide connesse all’attuazione di una bioeconomia italiana radicata nel territorio. Inoltre rappresenta un’opportunità importante per l’Italia di rafforzare il suo ruolo nel promuovere la crescita sostenibile in Europa e nel bacino del Mediterraneo.” E ancora: “la bioeconomia potrebbe notevolmente contribuire alla rigenerazione, allo sviluppo economico sostenibile e alla stabilità politica dell’area e, quindi, alla riduzione dei fenomeni di migrazione (per esempio con la realizzazione di progetti di investimento locale ad alto impatto infrastrutturale e sociale, come espresso nel documento ‘Migration Compact’ proposto dal governo italiano)”. Vengono poi definiti alcuni strumenti attuativi: politiche di sostegno dal lato della domanda quali la standardizzazione, l’etichettatura e gli appalti pubblici. “L’approccio del ciclo di vita e l’ecoprogettazione dovrebbero guidare la transizione, al fine di trovare il giusto equilibrio tra i prodotti a base fossile e quelli a base biologica, in particolare nei settori in cui le preoccupazioni ambientali sono più alte, facilitando il ricorso

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a soluzioni a basso impatto ambientale già disponibili.” Non solo: la strategia vuole promuovere la giusta comunicazione e l’informazione ai consumatori “per accrescere il livello di conoscenza dei prodotti a base biologica, mettendo in evidenza i loro impatti positivi in termini sociali e ambientali (posti di lavoro verdi, accettazione sociale, ridotte emissioni di gas serra, più basso tasso di estrazione di risorse non rinnovabili, benefici per la terra e gli ecosistemi e per la conservazione della biodiversità), al fine di aumentare la domanda privata”. Così come la necessità di creare un mercato per i prodotti della bioeconomia, favorendo l’incontro tra domanda e offerta di biomassa, tecnologia e servizi. Novamont e l’intuizione di integrare chimica e agricoltura

L’intuizione di integrare chimica e agricoltura, costituendo il primo nucleo della chimica verde italiana, è da attribuire a Raul Gardini, all’epoca alla guida del Gruppo Ferruzzi.

Se la strategia è arrivata solo alla fine del 2016, la bioeconomia italiana ha però una storia molto più lunga. Risale al 1989 quando all’interno della Scuola di Scienza dei materiali di Montedison, la principale impresa chimica nazionale, si sviluppa Fertec, un centro di ricerca strategico finalizzato a integrare chimica e agricoltura. L’intuizione di integrare chimica e agricoltura, costituendo il primo nucleo della chimica verde italiana, è da attribuire a Raul Gardini, all’epoca alla guida del Gruppo Ferruzzi che dal 1987 era diventato il socio di maggioranza di Montedison e la cui attività principale era stata – fino a quel momento – proprio nel settore agroalimentare, in particolare nel commercio di materie prime agricole. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quegli anni ma se l’Italia può vantare oggi una posizione di primo piano nel campo della bioeconomia europea, questo si deve comunque a quei primi passi della chimica verde mossi all’interno del Gruppo Montedison, dove cominciava a farsi conoscere anche Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, che dal centro ricerche Fertec ha costruito gradualmente quella che è diventata una società leader mondiale nello sviluppo e nella produzione di bioplastiche e biochemical, attraverso l’integrazione di chimica, ambiente e agricoltura. Con 600 persone la società, che ha il proprio quartier generale a Novara, ha chiuso il 2015 con un fatturato di 170 milioni di euro e investimenti costanti in attività di ricerca e sviluppo (6,4% sul fatturato 2015, 20% delle persone dedicate), detenendo un portafoglio di circa mille brevetti. Non si deve però alla sola Novamont la posizione di leadership che l’Italia è riuscita a costruire in questo avvio di Terzo millennio. Mossi Ghisolfi, Eni-Versalis e GFBiochemicals sono oggi tra i principali protagonisti della bioeconomia globale, con impianti primi al mondo per la produzione di nuovi prodotti chimici

biobased. Non si può dimenticare, Guido Ghisolfi, vicepresidente del Gruppo Mossi Ghisolfi e amministratore delegato della Biochemtex, prematuramente scomparso nel 2015. È a lui che si deve l’ingresso convinto in questo settore di quello che è il primo produttore italiano di Pet (il polietilene tereftalato, impiegato comunemente per le bottiglie di plastica dell’acqua minerale), e il terzo al mondo, nel campo della chimica da fonti rinnovabili. Era un visionario Guido Ghisolfi, convinto che il green potesse essere uno dei settori trainanti dell’economia, uno dei campi su cui investire per consentire all’Italia di tornare a crescere. La prima bioraffineria al mondo per il bioetanolo di seconda generazione “L’America è a Crescentino”, aveva dichiarato con orgoglio il 9 ottobre 2013 all’inaugurazione della bioraffineria di Crescentino per bioetanolo di seconda generazione, la prima al mondo di questo tipo. Di proprietà di Beta Renewables – joint-venture tra Biochemtex, società di ingegneria del gruppo Mossi Ghisolfi, il fondo americano TPG (Texas Pacific Group) e il leader mondiale delle biotecnologie, la danese Novozymes – l’impianto di Crescentino è frutto di un investimento da 150 milioni di euro, che ha puntato sulla chimica verde e ha portato l’Italia a conquistare una posizione di avanguardia tecnologica a livello mondiale, in un settore industriale strategico. Lo stabilimento è totalmente autosufficiente per quanto riguarda i consumi energetici (13 MWh di energia elettrica generati utilizzando la lignina) e non produce reflui derivanti dalla produzione industriale, assicurando un riciclo dell’acqua pari al 100%. L’aspetto “rivoluzionario” della bioraffineria risiede nella piattaforma tecnologica impiegata per ottenere il bioetanolo. L’innovativa tecnologia Proesa (PROduzione di Etanolo da biomasSA) combinata con gli enzimi Cellic prodotti da Novozymes, utilizza gli zuccheri presenti nelle biomasse lignocellulosiche per ottenere alcol, carburanti e altri prodotti chimici, con minori emissioni e a costi competitivi rispetto alle fonti fossili. Inoltre, Proesa, che nel 2012 si è aggiudicata il premio Achema come biotecnologia più innovativa, produce biocarburanti che assicurano emissioni di gas serra ridotte quasi del 90% rispetto all’uso di combustibili di origine fossile. E non solo biocarburanti, perché Biochemtex vanta partnership per la produzione di biochemical con Amyris, Codexis, Genomatica e Gevo. Il modello Matrìca in Sardegna L’Italia è anche il paese del primo impianto al mondo per la produzione di acido azelaico e acido pelargonico utilizzando materie prime da colture oleaginose e scarti vegetali. Si tratta


LA MAPPA DELLA BIOECONOMIA IN ITALIA

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PIEMONTE Centro R&S per bioplastiche e prodotti biochimici da Mpr (NO) Centro R&S per la chimica da rinnovabili (NO) Centro R&S di prodotti biochimici e biocarburanti da rinnovabili (Rivalta Scrivia – AL) Impianto pilota per alcoli grassi (Rivalta Scrivia – AL) Impianto pilota per biomonomeri (NO) Impianto pilota per glicole verde (Rivalta Scrivia – AL) Impianto industriale per bioetanolo lignocellulosico (Crescentino – VC) Impianto leader per acido succinico (Cassano Spinola – AL) LOMBARDIA Centro R&S per la chimica verde, ingegneria di processo e biolubrificanti (MN) Centro R&S per biolubrificanti (San Donato Milanese – MI) Impianto pilota per butadiene da biorisorse (MN)

VENETO Impianto leader di butandiolo da Mpr (Adria – RO) EMILIA ROMAGNA Centro R&S di bioelastomeri (RA) UMBRIA Centro R&S, impianti dimostrativi e pilota per colture oleaginose e biolubrificanti da colture del territorio (TR) Impianto industriale per la produzione di bioplastiche da amido e poliesteri derivati da oli vegetali (TR) LAZIO Impianto industriale di poliesteri biodegradabili (Patrica – FR) CAMPANIA Centro R&S per le biotecnologie (Piana di Monte Verna – CE)

Impianto industriale per la produzione di acido levulinico (CE) PUGLIA Centro R&S, impianto pilota e dimostrativo per la produzione di prodotti biochimici aromatici da lignina (Modugno – BA) Impianto leader per la produzione di combustibile per aviazione (Modugno- BA) SARDEGNA 1 impianto leader per acido azelaico e acido pelargonico (Porto Torres – SS) 1 impianto leader per base principale per biolubrificanti e bioadditivi per gomma Centro R&S LOCALITÀ DA DEFINIRE Colture sperimentali e centro leader per l’estrazione di gomma naturale e altri prodotti pregiati (resine ecc.)

Fonte: “La Bioeconomia in Italia: un’opportunità unica per connettere ambiente, economia e società”, novembre 2016.


In Campania […] è attivo il primo impianto al mondo per la produzione di acido levulinico da biomassa.

della bioraffineria di Matrìca – una joint-venture paritaria costituita da Versalis, la divisione chimica di Eni, e Novamont – che è il frutto della riconversione dello stabilimento petrolchimico di Porto Torres, in Sardegna, in un impianto per lo sviluppo di una gamma innovativa di prodotti (bioplastiche, biolubrificanti, fitosanitari, additivi per l’industria della gomma e della plastica, prodotti per la cura della casa e della persona) con una filiera agricola integrata. In Sardegna, infatti, Matrìca ha siglato un accordo di filiera con Coldiretti per l’impiego del cardo, aridocoltura a basso input adatta al clima mediterraneo che viene coltivata su terreni abbandonati e utilizzabile in tutte le sue componenti. Infatti, dalla spremitura del seme si ottengono olio, la materia prima per alimentare la bioraffineria, una farina proteica che può sostituire la soia attualmente importata per alimentare gli animali e numerose molecole dall’elevatissimo potere antiossidante. Gli scarti vegetali derivanti dalla trasformazione consentono inoltre di far fronte al fabbisogno energetico dell’intero processo industriale e, in prospettiva, sono utilizzabili come materia prima per nuove iniziative in fase di sperimentazione.

Mater Biotech in Veneto per il biobutandiolo Il modello di bioraffineria integrata nel territorio è replicato da Novamont, attraverso la propria controllata Mater Biotech, anche a Bottrighe di Adria in Veneto, dove lo scorso 30 settembre è stato inaugurato il primo impianto industriale al mondo per la produzione di butandiolo da biomassa. Con un investimento di oltre 100 milioni di euro, la bioraffineria di Mater Biotech, nata anch’essa dalla riconversione di un sito industriale abbandonato, dal 2017 produrrà a regime 30.000 tonnellate all’anno di butandiolo a basso impatto ambientale, con un risparmio di oltre il 50% di emissioni di CO2. Il butandiolo (1,4 Bdo) è un intermedio chimico ottenuto da fonti fossili (il principale produttore al mondo è la tedesca Basf) molto usato sia come solvente sia per produrre plastiche, fibre elastiche e poliuretani. Vale un mercato di 1,5 milioni di tonnellate per circa 3,5 miliardi di euro all’anno, che - si stima - nel 2020 raggiungerà 2,7 milioni di tonnellate con un valore di oltre 6,5 miliardi di euro. Novamont, partendo da una tecnologia sviluppata da Genomatica, società californiana leader nella bioingegneria, ha messo a punto una piattaforma biotecnologica per ottenere biobutandiolo partendo da zuccheri attraverso l’azione di batteri di tipo escherichia–coli opportunamente ingegnerizzati. “Mater-Biotech – secondo Catia Bastioli – è un tassello di un sistema di impianti primi al mondo e interconnessi al quale dobbiamo guardare come un formidabile acceleratore, come un punto di moltiplicazione di opportunità della filiera delle bioplastiche e dei chemical, per chi produce materie prime, per chi fa prodotti finiti, per nuove idee imprenditoriali, per la creazione di posti di lavoro, per chi si preoccupa di progettare un futuro di maggiore sostenibilità ambientale e sociale”. Il progetto Green Refinery in Sicilia e l’acido levulinico in Campania Dal Nord al Sud: in Sicilia la bioeconomia è legata alla riconversione alla chimica verde della raffineria Eni di Gela, che prevede un investimento di 2,2 miliardi di euro nel quadriennio 2014-2017 sull’area industriale. A riconversione ultimata, la raffineria green di Gela si occuperà del trattamento dell’olio di palma raffinato per la produzione di energia e utilizzerà anche prodotti alimentari di scarto, grassi animali e oli di frittura esausti. È invece in Campania, in provincia di Caserta, il primo impianto al mondo che produce acido levulinico da biomassa. Di proprietà della GFBiochemicals, l’impianto punta a raggiungere nel 2017 una produzione di 10.000 tonnellate, 50.000 entro il 2019. Ma soprattutto l’azienda ritiene di riuscire in pochi anni a mettere sul mercato acido biolevulinico a un prezzo inferiore rispetto all’omologo prodotto dal petrolio e con le stesse prestazioni.


Policy

Bio-on, www.bio-on.it

Pmi e start-up

Una ricerca di eccellenza

Ma la bioeconomia italiana non è solo grandi imprese multinazionali. Negli anni si sono costituite numerose piccole imprese, molto spesso spin-off universitari, che sono riuscite a ritagliarsi ruoli da protagoniste su scala globale. Una di queste è Bio-on, società con sede a Bologna che con oltre 50 brevetti registrati negli ultimi nove anni è oggi fra i leader nelle tecnologie per la chimica ecosostenibile e nello sviluppo industriale della produzione di PHAs (poli-idrossialcanoati), bioplastiche che possono sostituire numerosi polimeri tradizionali, ottenuti con processi petrolchimici utilizzando idrocarburi.

Dietro i successi delle imprese italiane si trova la ricerca dei laboratori e delle nostre università. Uno dei centri di eccellenza è rappresentato dall’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Il Centro ricerche Trisaia, in Basilicata, rappresenta il fiore all’occhiello della ricerca pubblica italiana nella chimica verde, riconosciuto a livello internazionale, soprattutto per l’utilizzo delle biomasse come fonte energetica nel campo della produzione di elettricità e calore in impianti di piccola taglia (filiere agro-energetiche locali) e in quello dei biocarburanti di seconda generazione. Qui sono stati costruiti diversi impianti pilota che vengono utilizzati nell’ambito di progetti di ricerca o di supporto all’industria del settore, come Mossi Ghisolfi. E a Rotondella sta testando la propria tecnologia anche la società canadese Comet Biorefining. Le attività di ricerca e sviluppo tecnologico relative alla produzione di energia e biocombustibili da colture di microalghe e altri microrganismi fotosintetici sono condotte, invece, nel laboratorio tecnologie delle microalghe del Centro Ricerche Casaccia, vicino a Roma.

Le bioplastiche PHAs sviluppate da Bio-on sono ricavate da fonti vegetali rinnovabili (per esempio i residui della produzione dello zucchero di barbabietola o canna) senza alcuna competizione con le filiere alimentari; sono completamente ecosostenibili e biodegradabili. Nata come technology provider, la società bolognese ha da poco annunciato che inizierà a produrre direttamente biopolimeri speciali in un nuovo impianto da 1.000 tonnellate all’anno, che verrà completato nel corso del 2017 con un investimento di 15 milioni di euro. L’obiettivo è produrre entro il 2020 un fatturato di 140 milioni di euro con una generazione di cassa di oltre 60 milioni.

Intervista

a cura di M. B.

Il primo master in bioeconomia ed economia circolare Giovanni Sannia, direttore master BioCirce

BioCirce, masterbiocirce.com

Lo scorso 23 gennaio è iniziata la prima edizione del master universitario Bioeconomy in the Circular Economy. Una doppia novità perché non solo questo master è il primo in Europa dedicato ad approfondire i temi della bioeconomia e dell’economia circolare, ma anche perché per la prima volta quattro dei principali atenei italiani si sono messi insieme: Università di Torino, Università di Milano Bicocca, Università di Bologna e Università di Napoli Federico II. A dare supporto sul lato industriale sono tre degli attori più importanti del settore – Novamont, GFBiochemicals e il Parco scientifico di Lodi – insieme al gruppo bancario Intesa Sanpaolo, unico global partner finanziario della Fondazione Ellen McArthur. “Materia Rinnovabile” ha intervistato Giovanni Sannia, docente di Biologia molecolare all’Università Federico II e direttore del master. Cosa ha portato quattro università italiane a organizzare il primo master europeo in bioeconomia ed economia circolare?

“Lo sviluppo di un’economia che cresca rispettando l’ambiente e riducendo la dipendenza da risorse come i combustibili fossili appare obiettivo prioritario delle politiche europee e mondiali su cui concentrare risorse e investimenti nella ricerca e sviluppo e nella formazione. Le quattro università che hanno collaborato alla progettazione del master rappresentano siti di eccellenza della ricerca nel settore delle biotecnologie industriali in Italia. E sono anche le sedi dove si formano le figure professionali dei biotecnologi industriali, che costituiscono la futura spina dorsale per lo sviluppo del comparto industriale delle biotecnologie.” Quali figure professionali puntate a formare con il master? “BioCirce offre un percorso altamente avanzato per la formazione nei settori dell’economia che si basano su un uso responsabile e sostenibile

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materiarinnovabile 14. 2017 di risorse biologiche e di processi biotecnologici. Il programma creerà figure professionali in grado di interagire su tutti gli aspetti della produzione e del marketing di prodotti e processi biobased, con particolare attenzione a quei processi e prodotti dal maggiore potenziale innovativo.” Qual è il ruolo di Novamont, GFBiochemicals, il Parco Scientifico di Lodi e il gruppo bancario Intesa Sanpaolo? “Il ruolo dei partner non accademici non è un ‘ruolo di vetrina’ ma è quello – fondamentale – di indirizzare la formazione verso l’identificazione e la creazione di figure professionali che possano soddisfare al meglio le esigenze del mondo industriale. L’idea fondante è stata di istituire un percorso formativo formulato on demand in base a queste esigenze. Finora la collaborazione dei partner non accademici si è sviluppata attraverso l’individuazione di un proprio rappresentante nell’organo di coordinamento del master, la messa a disposizione di docenti scelti tra gli esperti dei settori di interesse per arricchire l’offerta didattica, la possibilità data agli allievi di svolgere stage.”

Quali sono secondo lei i punti di forza e di debolezza della ricerca italiana nella bioeconomia? “Sicuramente il maggior punto di forza è la capacità di tutti gli attori di ‘fare squadra’ superando le tendenze all’autoreferenzialità e apprezzando il valore aggiunto della collaborazione. Credo che il miglior esempio di ciò sia stata la costituzione del Cluster Spring chimica verde e il modo con cui, in solo un paio di anni, è riuscito a diventare una realtà con una sempre maggiore valenza strategica nel settore biobased nel nostro paese e un attore fondamentale per la crescita della bioeconomia.” Che giudizio dà sulla strategia italiana sulla bioeconomia? “Sebbene arrivata un po’ in ritardo, la strategia rappresenta un elemento fondamentale di indirizzo e programmazione a livello nazionale, che – inoltre – ci consente di allineare le progettualità e le priorità nazionali a quelle europee. Uno strumento grazie al quale l’Italia si propone come un interlocutore forte e coeso nel contesto europeo.”

Intervista

a cura di M. B.

La strategia italiana: puntare su innovazione e interconnessione Fabio Fava, coordinatore scientifico della Strategia italiana sulla bioeconomia

Fabio Fava è docente e ricercatore di Biotecnologie industriali e ambientali alla Scuola di Ingegneria dell’Università di Bologna. È vicepresidente della sezione Environmental Biotechnology della European Federation of Biotechnology e membro del Working Party on Bio-, Nano- and Converging Tech dell’Ocse e dell’Expert Group on Biobased products presso la Commissione europea. È anche il coordinatore scientifico della strategia italiana sulla bioeconomia, presentata lo scorso novembre. “Materia Rinnovabile” l’ha intervistato per entrare nel merito di questa nuova strategia. Quali sono i pilastri fondamentali della strategia italiana sulla bioeconomia? “Essenzialmente due: il primo è costituito da ricerca e innovazione per aumentare la produttività ma anche la qualità dei prodotti e la sostenibilità di ogni settore che compone la bioeconomia. Il secondo è l’interconnessione dei settori, in particolare fra quelli della filiera agro-food e quelli della valorizzazione chimica ed energetica delle biomasse lignocellulosiche e residuali. In Italia ci sono ben tre milioni di ettari di terra non più coltivati, vaste aree agricole che oggi possono essere rigenerate per produrre biomassa autoctona e/o industriale per alimentare

le nostre bioraffinerie. Ma non solo: ogni anno nel nostro paese si producono 15 milioni di tonnellate di sottoprodotti e rifiuti dell’industria alimentare: un problema enorme per l’industria che li genera, un feedstock molto interessante per le nostre bioraffinerie. Altre opportunità rilevanti possono venire da una maggiore integrazione fra le bioraffinerie, e quindi la produzione di biobased chemical, biomateriali e bioenergia, e il settore forestale che oggi vanta una ricca disponibilità di biomassa legnosa garantita da oltre 13 milioni di ettari di bosco, in media molto poco utilizzato. Ma anche dalla valorizzazione chimica ed energetica delle biomasse non alimentari (algali, posidonia, ma anche microorganismi) generate dai nostri mari. La bioeconomia ci offre un’opportunità imperdibile per valorizzare la biodiversità di cui disponiamo, la biomassa nelle diverse declinazioni, così come per dare valore ai residui e ai rifiuti organici. In questo senso la strategia va vista come il punto di partenza per un intervento politico più diretto, con investimenti, un maggiore coordinamento tra livello centrale e regionale, la creazione di un mercato anche attraverso la giusta formazione e l’informazione all’opinione pubblica. Sarebbero utili anche incentivi,


per mitigare i costi dei prodotti biologici che sono più alti dei prodotti tradizionali, in un quadro di migliore allineamento europeo.” La palla passa quindi al governo Gentiloni. “Certamente. La prima cosa che penso accadrà è che la strategia verrà adottata dai Ministeri e dalle Regioni che hanno collaborato attivamente alla sua messa a punto. È un passaggio molto importante affinché le varie istituzioni possano concorrere a sostenere e implementare le priorità individuate integrando le loro azioni, risorse e infrastrutture, riducendo la frammentazione e le duplicazioni. Per questo c’è assoluto bisogno di una cabina di regia nazionale che garantisca tutto ciò, monitori l’implementazione della strategia nonché la sua promozione a livello europeo e internazionale.” In che modo queste strategie devono interconnettersi tra loro e con la strategia nazionale? “È bene che le strategie regionali siano incluse in quella nazionale. Le strategie delle Regioni devono essere più specifiche e messe a sistema tra loro, per evitare un’eccessiva frammentazione e la giusta valorizzazione della loro complementarietà. Le faccio un esempio: la Regione Toscana ha 160.000 ettari di terra non più coltivata, ma non ha bioraffinerie. L’Umbria ha la bioraffineria più vecchia esistente in Italia, ma non ha la biomassa necessaria. Sono due regioni confinanti: è chiaro che una strategia intelligente della Toscana debba prevedere una sinergia con l’Umbria e viceversa.” Come vede la bioeconomia italiana nel quadro europeo. E, soprattutto, in quello del Mediterraneo? “La bioeconomia italiana è al terzo posto in Europa come occupazione e giro d’affari, e l’Italia è anche il terzo paese come vincitore di progetti di R&I nel settore della bioeconomia nell’ambito di Horizon2020 e della BBI JU. L’Italia, quindi, è già un paese leader. Questa leadership può solo aumentare se sapremo mettere a sistema le nostre competenze, know-how e infrastrutture, e valorizzare la nostra biodiversità e le nostre risorse. Ci sono premesse molto interessanti per mantenere la nostra posizione di forza, ma anche per crescere. In questo senso la strategia nazionale giocherà un ruolo importante. Anche per consolidare il ruolo di leadership dell’Italia nel Mediterraneo dove guidiamo due iniziative di rilievo: la BlueMed initiative diretta a promuovere la valorizzazione integrata e sostenibile delle risorse del mare Mediterraneo, e Prima per sostenere l’agroindustria nei paesi del mediterraneo europeo e nord africano. La bioeconomia rappresenta un’opportunità reale per portare rigenerazione ambientale, cibo e lavoro, dunque equità e coesione sociale, in tutto il Mediterraneo.” Davvero, come sostiene la strategia, sviluppare la bioeconomia in quest’area può contribuire a risolvere il problema migratorio? “Portare più cibo, più lavoro, valore alle aree rurali

abbandonate o degradate come alle ricche risorse forestali e marine dell’area significa migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali e dunque la coesione sociale. E quindi risolvere alcuni dei motivi che portano i popoli a emigrare. Non è ovviamente sufficiente, ma è un primo imprescindibile passo: in questo la sostenibilità ambientale cammina di pari passo con quella sociale.” Per l’opinione pubblica italiana oggi il concetto di bioeconomia è ancora sconosciuto. Ma senza il supporto del pubblico è difficile trovare il sostegno per politiche di decarbonizzazione. Cosa bisogna fare per comunicare con efficacia cos’è la bioeconomia e i suoi vantaggi? “Credo che non solo la bioeconomia sia poco conosciuta dal grande pubblico, ma ci sia ignoranza anche a livello scientifico e politico. C’è bisogno di professionisti della comunicazione in grado di utilizzare un lessico condiviso, partendo dalle scuole, facendo capire che non parliamo di una nicchia. Ma occorre anche coinvolgere il mondo industriale e quello della scienza e lavorare a livello di fiere, di iniziative aperte al pubblico dove spiegare le cose. Coinvolgendo la stampa tradizionale e i nuovi canali social. C’è davvero molto da fare.”


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materiarinnovabile 14. 2017 Intervista

a cura di M. B.

Il futuro della chimica è biobased Pasquale Granata, co-fondatore di GFBiochemicals

Nato a Caserta, laureato alla Università Bocconi di Milano, Pasquale Granata è il fondatore, insieme a Mathieu Flamini, della GFBiochemicals. La G iniziale del nome della società sta proprio per Granata, mentre la F sta per Flamini: ma le due lettere insieme sono anche l’acronimo di “green future”. I due giovani imprenditori, partendo dallo stabilimento di Caserta, il primo al mondo a produrre acido levulinico da biomassa, sono fortemente impegnati a realizzare questo “futuro verde”.

GFBiochemicals, www.gfbiochemicals. com/company

Negli ultimi anni GFBiochemicals si è affermata come una delle imprese più dinamiche nel panorama della chimica da biomassa: prima l’avvio dell’impianto commerciale a Caserta e poi l’acquisizione di Segetis negli Usa. Quali sono i vostri piani di sviluppo? “In GFBiochemicals crediamo che il futuro della chimica sia biobased e che l’acido levulinico sia la prossima grande piattaforma chimica. Tutto ciò sarà spinto dalla necessità di affrontare i cambiamenti climatici e ridurre le emissioni di gas serra e la nostra dipendenza dalle materie prime di origine fossile. Le riserve petrolifere sono limitate, la questione è capire quando saremo costretti ad affrancarci dal petrolio. Piuttosto che aspettare noi preferiamo essere pionieri della bioeconomia emergente portando soluzioni biobased come l’acido levulinico e i suoi derivati per il mercato. Nel 2017 puntiamo a raggiungere nel nostro impianto di Caserta una produzione di 10.000 tonnellate. E vogliamo replicare l’impianto di Caserta in altre parti del mondo, attraverso partnership strategiche.”

In Italia la bioeconomia si è sviluppata in assenza di una strategia nazionale, arrivata lo scorso novembre. Che giudizio ne dà? “Assolutamente positivo. È fondamentale avere una strategia nazionale, perché c’è bisogno di un quadro stabile e coerente che favorisca la ricerca e l’innovazione. Inoltre proprio grazie alla strategia l’Italia potrà contare di più in Europa. Il nostro paese ha le carte in regola per essere leader a livello europeo. È fondamentale, però, che le eccellenze che oggi vanta siano inserite in una visione del governo a medio-lungo periodo.” Quali crede debbano essere i prossimi passi del governo per favorire lo sviluppo della bioeconomia? “Bisognerà mettere a punto un piano d’azione dettagliato. Credo che siano tre le misure urgenti da prendere: la prima riguarda la creazione di un mercato; la seconda un sostegno alla domanda attraverso politiche di appalti pubblici verdi che abbiano alla base un sistema chiaro di standard ed etichettature; la terza la comunicazione e la divulgazione della bioeconomia affinché i consumatori e l’opinione pubblica sappiano che non stiamo parlando di una nicchia, ma di un settore che già oggi crea ricchezza e occupazione.” Siete anche tra i soci fondatori del primo master europeo in bioeconomia ed economia circolare. Quanto è importante la relazione tra industria e università per favorire l’innovazione nella chimica verde? “È fondamentale. Crediamo molto in questo master, perché pensiamo che sia essenziale formare manager con conoscenze multidisciplinari, in grado di gestire la complessità in contesti multinazionali. L’industria che innova ha alla base l’attività di ricerca e sviluppo. In questo quadro i rapporti con il mondo accademico vanno rafforzati, partendo da una maggiore efficienza degli uffici per il trasferimento tecnologico delle università. L’Italia è un paese con il 40% di disoccupazione giovanile e molti nostri laureati trovano impieghi in linea con le loro aspettative solo all’estero. Noi siamo un’impresa italiana, che vuole mantenere forti radici con il proprio territorio. E questo significa anche collaborare in modo più stretto con le nostre università, come abbiamo fatto con il master BioCirce.”


Policy Intervista

a cura di M. B.

“Non ci sono solo bioraffinerie e bioindustria” Ezio Veggia, vicepresidente di Confagricoltura

Una focalizzazione eccessiva sulla bioindustria e le bioraffinerie. È questa la critica principale che muove alla strategia italiana sulla bioeconomia Confagricoltura, l’associazione che rappresenta oltre il 45% del valore della produzione lorda vendibile agroforestale italiana (47 miliardi di euro complessivi) e del suo valore aggiunto (27 miliardi di euro) e che copre circa il 38,5% (5 milioni di ettari) della superficie agricola utilizzata in Italia. A esprimere la sua posizione in questa intervista con “Materia Rinnovabile” è il vicepresidente di Confagricoltura Ezio Veggia.

Confagricoltura, www.confagricoltura.it/ita

Qual è il parere di Confagricoltura sulla strategia sulla bioeconomia? “Come organizzazione di rappresentanza delle imprese del settore agricolo sottolineiamo che il documento, pur essendo un buon punto di partenza, dovrebbe essere migliorato per rappresentare pienamente la complessità e le opportunità della bioeconomia italiana.” Qual è la principale critica? “Messi tutti insieme i settori agricolo, forestale, della pesca e agroalimentare rappresentano più del 60% del valore della bioeconomia italiana. Però, a nostro avviso, dal documento emerge una strategia eccessivamente focalizzata sulla bioindustria-bioraffineria. Per organizzare al meglio la filiera crediamo sia indispensabile promuovere l’utilizzo di residui agricoli derivanti dalle prime attività di raccolta e di sottoprodotti per altre attività economiche. In questo modo si rendono le imprese agricole più competitive, si consolida e si incrementa l’occupazione nelle zone rurali.” In Italia si parla anche molto di terreni marginali. Sono un’opzione praticabile? “Non esistono terreni marginali, ma terreni sui quali non possono essere soddisfatte tutte le condizioni necessarie per uno sviluppo sostenibile. In particolare – soprattutto in vaste aree collinari e montane specie al Sud del paese – non viene soddisfatto il principio di sostenibilità economica. Di conseguenza questi terreni vengono progressivamente abbandonati con grave danno dal punto di vista ambientale e del dissesto idrogeologico. Oggi, con le opportunità offerte dalla bioeconomia, si può – anzi si deve – invertire questa tendenza. Occorre che la politica agricola, nazionale ed europea, faccia un passo avanti e oltre al sostegno e al potenziamento degli strumenti esistenti quali Pac e Psr, utilizzi questi stessi strumenti come leve per favorire una profonda trasformazione verso un modello di agricoltura che punti a intensificare la produzione

in modo sostenibile. Per questo le proposte di modifica al documento di consultazione avanzate da Confagricoltura puntano a evidenziare un ruolo più ampio – coinvolgendo i terreni marginali – dell’agroforestale nella bioeconomia. Con particolare riferimento ai settori delle bioenergie (biocarburanti, biocombustibili, energia elettrica e termica), della nutraceutica, della biocosmetica e della produzione di ammendanti organici.” Cosa occorre ancora per realizzare tutto il potenziale della bioeconomia italiana? “Auspichiamo che dal documento possa emergere l’importante ruolo svolto dalle imprese agricole sull’intera filiera che, non limitandosi alla produzione di biomasse, è sempre più orientata alla successiva trasformazione in nuovi prodotti (alimenti, concimi, energia, bioprodotti, per esempio). Un modello di produzione agricola che risponde ai principi della bioeconomia e dell’economia circolare cui tende l’Unione europea, avendo le imprese agricole la capacità di produrre per il settore alimentare per poi valorizzare i propri residui anche all’interno del medesimo ciclo, come evidenziano le filiere energetiche del biogas-biometano.” In che modo le bioraffinerie integrate nel territorio, tipiche del modello italiano, possono essere leve di sviluppo rurale? “Un esempio molto interessante lo possiamo individuare proprio nelle filiere energetiche del biogas-biometano all’interno delle quali gli impianti di digestione anaerobica possono essere considerati delle vere e proprie bioraffinerie. Le aziende agricole, singolarmente o più spesso in forma associata, utilizzando il nuovo modello di ‘contratto di rete’, continuano a produrre materie prime di grande eccellenza destinate all’alimentazione. Ma – sempre più intensamente – impiegano sottoprodotti aziendali, letami, polline e raccolti risultanti da rotazioni colturali per produrre oggi energia elettrica, biocarburanti, fertilizzanti. E domani bioplastiche e bioprodotti per le più svariate applicazioni. Tutto questo si può fare diffusamente sul territorio creando nuovi posti di lavoro, salvaguardando la presenza dell’uomo anche in aree marginali, rendendo le aziende agricole del tutto indipendenti dai combustibili fossili per quanto riguarda il consumo di energia elettrica, carburanti e fertilizzanti. Per questo crediamo che la bioeconomia sia l’economia del futuro. Non solo perché circolare, ma perché consente di mettere insieme l’innovazione tecnologica con i territori, le imprese agricole e alimentari e la stessa cittadinanza attiva nelle operazioni di recupero e riciclaggio.”

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materiarinnovabile 14. 2017 Intervista

a cura di M. B.

Un salto di paradigma Catia Bastioli, amministratore delegato Novamont

Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont e presidente del cluster della Chimica verde Spring, è considerata come il vero e proprio faro della bioeconomia italiana. “Materia Rinnovabile” ha raccolto le sue valutazioni sulla strategia italiana presentata dal governo. “L’Italia – secondo l’ad della società di Novara – può candidarsi a svolgere un ruolo importante per tutta l’area mediterranea”. Finalmente anche l’Italia si è dotata di una strategia nazionale sulla bioeconomia. Che giudizio ne dà? “Certamente molto positivo. Innanzitutto perché questa strategia è frutto di un lavoro multidisciplinare che ha coinvolto tutti i soggetti istituzionali più rilevanti nel settore, combinando il piano nazionale con quello, importantissimo, dei territori regionali. E chiamando a esprimersi anche i Cluster tecnologici nazionali della Chimica verde e AgriFood, che riuniscono le numerose realtà pubbliche e private concretamente impegnate nella creazione di una solida bioeconomia nel nostro paese. Questa strategia, oltre a offrire una visione condivisa delle opportunità e delle sfide connesse all’attuazione di un modello italiano di bioeconomia – originale perché legato alle peculiarità del nostro territorio e del nostro tessuto produttivo – rappresenta un’occasione fondamentale per trovare forme di sviluppo sostenibili e inclusive, capaci di salvaguardare il capitale naturale e al contempo di creare nuovo lavoro in Italia e replicabili anche in altri paesi del Mediterraneo.” Quali le misure che il governo dovrebbe introdurre a brevissimo termine per favorire un pieno sviluppo della nostra bioeconomia? “In molti casi basterebbe partire dai problemi ambientali e sociali che ci affliggono; definire standard sfidanti, misurabili, raggiungibili, progressivi e rispettati; spingere sul territorio tecnologie e soluzioni a basso impatto prime al mondo e pronte per essere applicate, premiando le sinergie tra diversi settori e le filiere integrate. In Italia già esistono filiere innovative della bioeconomia che con il giusto supporto potrebbero diventare un formidabile acceleratore e catalizzatore di opportunità in diversi settori: non un costo di decarbonizzazione imposto dal dopo Parigi, ma un investimento vincente per una profonda rigenerazione territoriale. Penso, per esempio, agli enormi passi avanti fatti nel trattamento e valorizzazione del rifiuto organico per massimizzarne la raccolta e la sua trasformazione in prodotti per migliorare la qualità dei suoli e per ottenere biometano, chemicals e molto altro: in tale settore sarebbe possibile oggi varare misure

che portino l’Italia a zero rifiuto organico a discarica. Oppure alla minimizzazione dell’uso dei prodotti ad alto impatto, a partire dal settore degli appalti pubblici, garantendo l’applicazione dei Criteri ambientali minimi esistenti e definendone rapidamente degli altri. A titolo di esempio: limitare i prodotti usa e getta a favore dei riutilizzabili e, dove questo non è possibile, supportare l’uso delle bioplastiche biodegradabili e compostabili in quelle applicazioni dove le plastiche tradizionali sono inquinanti del rifiuto organico, migliorando così anche le opportunità di riciclo dei rifiuti diversi da quello organico. O ancora misure che massimizzino le ricadute sui territori a partire da quanto già fatto in settori della bioeconomia, come le filiere integrate delle bioplastiche e chemicals, con le nuove infrastrutture di bioeconomia in siti industriali dismessi, ognuna basata su tecnologie totalmente innovative, in diverse regioni italiane (Piemonte, Umbria, Lazio, Campania, Veneto, Sardegna), con lo sviluppo di macchine e impianti connessi alle filiere a monte e a valle, con la valorizzazione di aree rurali marginali e degradate attraverso colture a basso impatto, collegate anche alla produzione di proteine per l’alimentazione animale. Occorre riconoscere e valorizzare tutto questo, ma bisogna agire subito, perché i costi più elevati rischiano di essere proprio quelli del ‘non fare’. Tanto più perché l’Italia è avanti in questo settore e altri paesi stanno accelerando nella stessa direzione.” Allo stato attuale quali sono i punti di forza e quelli di debolezza della bioeconomia in Italia? “Il principale punto di forza risiede non solo nel possedere le tecnologie e il know-how, ma anche nell’aver creato un modello condiviso, basato sulla rigenerazione dei territori, dal punto di vista economico, sociale e ambientale. La bioeconomia italiana punta non sulla quantità di biomassa indifferenziata, ma sulla valorizzazione della qualità e della diversità, in una logica di economia circolare e di efficienza dell’uso delle risorse. E anche sullo sviluppo di prodotti che non siano semplicemente sostitutivi di quelli già esistenti, ma contribuiscano a risolvere i reali problemi della collettività. Anche dal punto di vista normativo si sono fatti molti passi avanti in diversi settori. Tuttavia manca una strategia complessiva che metta al centro dell’agenda politica il tema della valorizzazione del capitale naturale, adottando standard chiari ed elevati, supportando le innovazioni in chiave di riqualificazione dei territori e di filiere integrate. Andare in questa direzione in modo convinto potrebbe accrescere la competitività della nostra industria e delle nostre filiere e aiutarci a uscire dalla crisi strutturale in cui ci troviamo, facendo da driver anche agli altri paesi. Basti vedere il caso studio dei sacchi usa-e-getta


Policy e la connessione con il rifiuto organico: l’Italia ha fatto da apripista in Europa permettendo una crescita virtuosa del settore della chimica verde e del rifiuto organico. Ora esiste una direttiva europea e la Francia non solo ha seguito l’esempio dell’Italia, ma ha rilanciato con standard ancora più elevati e con effetti positivi per l’ambiente, per l’economia e per i posti di lavoro. Su temi come la legalità, il rispetto degli standard di qualità, la valutazione delle esternalità e dei costi sociali c’è ancora molto lavoro da fare.”

Novamont, www.novamont.it

La bioeconomia ha il vantaggio di avere delle ricadute molto concrete e visibili sulla qualità della vita delle persone.

L’Italia, nonostante l’assenza di una strategia nazionale, è sempre stato un paese leader a livello europeo. La strategia fa preciso riferimento alle grandi potenzialità che la bioeconomia ha per l’intera area del Mediterraneo in termini di sviluppo economico, creazione di occupazione, tutela della biodiversità e risoluzione del problema migratorio. Su quest’ultimo punto qual è il suo pensiero? Quale crede possa davvero essere il ruolo dell’Italia? “Come dicevo, sono convinta che l’Italia possa candidarsi a svolgere un ruolo importante per l’area Mediterranea, quindi non posso che concordare con quanto riportato dalla strategia su questo tema. Qui il nostro paese potrebbe mettere la propria esperienza e le proprie buone pratiche al servizio di progetti di collaborazione ad alto impatto infrastrutturale e sociale nel settore agroalimentare, della rigenerazione del territorio, del contrasto allo stress idrico e alla desertificazione. Come è noto, i disagi che affliggono i suoli e il settore agricolo di questi paesi con una forte tradizione rurale hanno delle ripercussioni importanti in termini sia economici sia sociali, che a loro volta sono alla base dell’instabilità dell’area e dei fenomeni migratori interni ed esterni. Ecco allora che la bioeconomia può assumere un significato ben più ampio dell’utilizzo di fonti rinnovabili e contribuire allo sviluppo economico sostenibile dell’area e persino alla sua stabilità politica.” Novamont è un’impresa fortemente radicata nel territorio italiano: sede in Piemonte, stabilimenti in Veneto, Sardegna, Umbria e Lazio, un centro di ricerca in Campania. Come ritiene si possano meglio integrare le diverse strategie regionali tra loro e con la strategia nazionale?

“La dimensione locale è fondamentale per la bioeconomia del nostro paese, dove ciascuna regione presenta caratteristiche specifiche in termini di paesaggio agricolo e naturale, di biodiversità, di tessuto industriale e di tradizione culturale. I territori, con le loro peculiarità, sono la nostra grande risorsa da valorizzare. Prima ancora che la strategia nazionale venisse lanciata ufficialmente i Cluster nazionali avevano già mosso alcuni passi importanti per favorire il dialogo e il confronto con le diverse regioni, in un’ottica di armonizzazione e integrazione di strategie e di strumenti per applicarle. Tra le regioni italiane più attive nel settore della bioeconomia e il Cluster nazionale della Chimica verde è da tempo operativo un tavolo di lavoro che si propone di definire posizioni condivise e coordinate e possibili linee di intervento in materia di innovazione tecnologica, politiche e strategie di sviluppo, attività di formazione e incentivo all’occupazione locale nel settore dei green jobs, e molto altro. Credo che questa sia la strada da seguire.” Un altro tema fondamentale affrontato nella strategia è quello relativo all’informazione e divulgazione della bioeconomia, su cui anche la Commissione europea sta puntando con forza. Cosa bisogna fare per avere l’opinione pubblica “a bordo”? “Quando parliamo di bioeconomia dobbiamo pensare a un vero e proprio salto di paradigma. Dobbiamo creare le basi di una nuova cultura della costruzione sostenibile attraverso la ricerca della collaborazione tra i vari interlocutori intorno a progetti di territorio che fungono da veri e propri laboratori. La comunicazione dovrebbe parlare dei casi concreti che stanno nascendo e già presenti nel nostro paese, mostrando il potenziale di moltiplicazione e interconnessione dei vari progetti, avendo come obiettivo l’accelerazione delle opportunità di ricaduta sui territori. Creare le condizioni per lo sviluppo di nuove attività e di nuovi modelli in questo momento di grandi tumulti a livello nazionale e internazionale è un’operazione di grande complessità. Il settore della bioeconomia sta crescendo bene ma è ancora molto giovane e fragile: per massimizzare le possibilità di successo in tempi brevi occorre che diventi un terreno comune di costruzione e di incontro, fuori dagli scontri elettorali e mediatici tra le parti in quanto opportunità che il paese deve cercare di cogliere con determinazione da subito. La bioeconomia ha, infatti, il vantaggio di avere delle ricadute molto concrete sulla qualità della vita delle persone. Pensiamo per esempio all’impatto sull’industria e sull’occupazione, non soltanto attraverso la riconversione di siti non più competitivi, ma anche in termini di indotto e di rivitalizzazione dei comparti a valle. Pensiamo a quanto potrebbe accadere sul fronte dell’agricoltura, con la messa a coltura di aree marginali abbandonate e la creazione di nuove opportunità di reddito nelle aree più in difficoltà del paese. O ancora a come sono cambiate le abitudini di consumo e a come è migliorata la qualità e la quantità del rifiuto organico tolto dalla discarica e raccolto nelle nostre città grazie anche all’utilizzo sostenibile e innovativo delle bioplastiche, dando origine a una serie di materie prime preziose al posto di scarti costosi, maleodoranti e pericolosi per la salute.”

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materiarinnovabile 14. 2017

E se tornassimo a SOLDI e BAIOCCHI?

Wir, Ithaca Hour, Campino Real: sono oltre 5.000 le monete alternative che circolano oggi nel mondo. Risorse preziose per le economie locali che permettono di ancorare al territorio la ricchezza prodotta e contrastare la crisi economica. Il caso emblematico del Sardex: dal 2010 140 milioni i crediti oggetto di transazione e 300.000 le operazioni effettuate. di Silvia Zamboni

Nel mondo – dal Brasile al Giappone, dagli Usa all’Europa – circolano oltre cinquemila monete alternative. Nate per contrastare la crisi economica, complementari alle monete ufficiali, sono la risposta locale, autogestita, ai colli di bottiglia della finanza convenzionale, pubblica e privata. Con il vantaggio di legare al territorio la ricchezza prodotta localmente. Un altro modo, si potrebbe dire, di fare economia circolare: si chiude il cerchio della catena del valore che resta ancorata al luogo di produzione. Il caso più conosciuto negli Usa è l’Ithaca Hour, lanciata nel 1991 nella omonima cittadina colpita da una pesante depressione economica dopo la chiusura di una fabbrica. I commercianti, promotori dell’iniziativa, cominciarono a pagare i fornitori con questa banconota pari a 10 dollari (che era il costo orario medio della manodopera). Alla fine degli anni ’90 l’Ithaka Hour era già diffusa presso centinaia di aziende e di consumatori. In Brasile, di fronte alla fortissima svalutazione del real, ai primi anni ’90 il sindaco di Campina do Monte Alegre decise di emettere il Campino Real che poteva essere speso solo all’interno del territorio comunale e – in effetti – contribuì a rilanciare l’economia locale. Mentre nell’Argentina travolta dal crac delle banche e dalla svalutazione del pesos, nel 2002 circolavano oltre 200 monete complementari che hanno aiutato più di cinque milioni di cittadini a sopravvivere alla crisi.

Sardex www.sardex.net

Ma è il Wir (in tedesco significa noi), il circuito nato nel 1934 in Svizzera a opera di 16 soci in risposta alla crisi del ’29, a rappresentare l’esperienza di moneta locale più longeva. Il Wir non è né acquistabile né convertibile in franchi svizzeri, non viene neppure stampato. È piuttosto un’unità di misura che regola i crediti che vengono concessi alle aziende, e gli acquisti e le vendite di beni e servizi tra le oltre 45.000 Pmi che aderiscono al circuito. Nel 2015 il valore delle transazioni

ha superato il miliardo e mezzo di franchi svizzeri. Volker Strohm, responsabile comunicazione di Wir ci spiega le ragioni del successo: “Siamo un player di livello nazionale. E il principio su cui si fonda questa esperienza, ossia che il denaro e la ricchezza prodotta localmente devono restare nel territorio soprattutto a beneficio delle Pmi, è ancora attuale. Tanto più oggi quando sono maggiori i flussi di denaro verso l’estero e la crisi finanziaria ha sottratto risorse per gli investimenti”. Dal 2000 Wir-moneta complementare è diventato anche una banca cooperativa a tutti gli effetti che opera con i franchi svizzeri, “una decisione scaturita per soddisfare l’esigenza di alcune aziende socie di usufruire di prestiti in franchi per investimenti da effettuare sul mercato convenzionale”, precisa Strohm. Un passo che ha quindi permesso di unificare sotto lo stesso “tetto” i due canali finanziari: quello in Wir e quello in franchi. “In prospettiva, per quanto riguarda il ruolo delle monete complementari – conclude Strohm – direi che si sta andando in due direzioni: da un lato c’è il bitcoin (moneta elettronica internazionale, ndr), una realtà in espansione che a mio parere presenta però dei rischi; dall’altro abbiamo le monete complementari legate allo sviluppo del tessuto produttivo locale. Entrambi ci dicono che è in corso un processo di ripensamento del denaro classico”. In questo contesto così in fermento, è una iniziativa italiana a tenere banco sulle pagine di quotidiani come il Financial Times e a essere studiata alla blasonata London School of Economics e guardata con interesse persino dall’Onu: è il Sardex. All’interno di questo circuito di credito commerciale Made in Sardegna da sei anni si vendono e si comprano beni e servizi di ogni genere pagando con crediti in Sardex (per convenzione un Sardex vale un euro). “Prima di comprare qualsiasi cosa penso a come posso spendere i miei crediti dentro il circuito”, racconta sul blog di Sardex.net Manuela Statzu, libera professionista nel settore dell’edilizia con una propensione per la bioedilizia.


Policy La grande famiglia Sardex

©WikiCommons/Foto di Enlil Ninlil2

Liberex, www.circuitoliberex.net

E così, dall’affitto di casa, all’arredamento, alla spesa in un negozio specializzato in alimenti biologici, all’abbigliamento, alla lingerie, al centro estetico, al cibo per i gatti, alle vacanze, alle ceste natalizie per i clienti, ai convegni e pranzi aziendali compra tutto all’interno del circuito e paga con i crediti che incassa vendendo i propri servizi ad altri soci del network. “A parte la benzina, ormai l’euro non lo utilizzo quasi più”, conclude. All’origine del Sardex ci sono l’idea di banca popolare di Pierre-Joseph Proudhon, l’esperienza del Wir, ma soprattutto la Proposal for an International Clearing Union formulata a Bretton Woods, senza successo, da John Maynard Keynes. Ce lo racconta Carlo Mancosu, uno dei cinque giovani e intraprendenti fondatori di questa innovativa esperienza di economia alternativa, che a giugno 2016 contava già oltre 3.500 iscritti tra liberi professionisti, ditte individuali, Pmi e grandi aziende (per esempio Tiscali) e associazioni del terzo settore. Dal 2010, anno di avvio, i crediti

Sono 11 i network regionali partecipati da Sardex: in Piemonte c’è Piemex, in Lombardia Circuitolinx, in Veneto Venetex, in Emilia-Romagna Liberex, in Umbria Umbrex, nelle Marche Merchex, in Abruzzo Abrex, nel Lazio Tibex, in Molise Samex, in Campania Felix. Tra dipendenti e collaboratori ci lavorano circa 200 persone. Complessivamente, Sardex compreso, su base nazionale si contano oltre 7.000 aziende/liberi professionisti iscritti; 10.000 i conti aperti, anche di dipendenti delle imprese. Si stima che nel 2016 il network dei circuiti di credito commerciale svilupperà operazioni di compravendita tra imprese locali per un valore di oltre 100 milioni di euro, di cui 70 in Sardex. Particolarmente significativa la crescita di Liberex: partito nel 2015 a ottobre di quest’anno contava già circa 180 aziende e più di 200 dipendenti iscritti, mentre il transato ha superato il milione e mezzo di euro/Liberex. La convenienza a stare nel circuito? Analoga, ovviamente, al Sardex: “All’inizio hai un fido in Liberex a zero interessi, acquisisci fatturato tramite la comunità e spendi senza euro, che magari dovresti prendere a prestito da una banca pagando gli interessi”, snocciola Paolo Piras, responsabile comunicazione. Chi compone la comunità di Liberex? “Aziende grandi e piccole, come Achanto e il tutto-bio Natura sì, avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, dentisti”. Perfino un ristorante, dove le tagliatelle con salsiccia le puoi pagare in Liberex.

in Sardex oggetto di transazione sono stati pari a 140 milioni (+1.059% nel 2015 rispetto al 2012), per 300.000 operazioni effettuate. Un boom che si è esteso a macchia d’olio nel nostro paese con la nascita di undici circuiti regionali agganciati al Sardex (vedi box). “Keynes ha evidenziato che trattando in maniera simmetrica debitore e creditore si crea una spinta convergente, equilibratrice, verso lo zero”, spiega Mancosu. “Abbiamo applicato questo concetto all’interno del circuito innanzi tutto eliminando gli interessi attivi e passivi. E con il Sardex abbiamo dato vita a un circuito di mutuo credito come antidoto al credit crunch, particolarmente pesante per le Pmi.” In pratica, il sistema consente di acquistare in Sardex (eventualmente sulla base di un fido iniziale a zero interessi) ciò di cui si ha bisogno, offrendo in cambio sul circuito i propri beni e servizi. In tal modo la rete si configura come un mercato aggiuntivo a quello tradizionale, un’opportunità

Con il sistema Sardex tutto è tracciato, tutto fatturato: dal punto di vista della legalità e della fiscalità questa moneta complementare è al di sopra di ogni sospetto di evasione e di contraffazione.

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materiarinnovabile 14. 2017 in più di ampliare il proprio portafoglio clienti. E grazie ai legami fiduciari instaurati, la comunità si percepisce come tale e àncora al territorio la ricchezza economica prodotta in loco che diventa anche ricchezza sociale. “Con il sistema Sardex tutto è tracciato, tutto fatturato: dal punto di vista della legalità e della fiscalità questa moneta complementare è al di sopra di ogni sospetto di evasione e di contraffazione”, puntualizza Mancosu. Il fatto che il valore dei crediti si “monetizzi” nel momento in cui si usano per acquistare merci e servizi spinge chi li detiene a spenderli il prima possibile: lo conferma la velocità di circolazione del Sardex che è 12,34 contro 1,5 dell’euro. Più che una moneta in senso stretto, il Sardex funge da unità di conto per misurare le transazioni all’interno del circuito di credito commerciale. Non a caso, al pari del Wir, non si stampa, non è acquistabile con una somma corrispondente di euro, né è convertibile (il che lo protegge dalla speculazione); a differenza di monete locali complementari come il Bristol Pound, adottato nell’omonima città britannica, o il Brixton Pound, che sulle banconote porta impresso il volto del trasgressivo David Bowie e circola nel quartiere di Londra. Intorno a queste monete inglesi, che si acquistano in luoghi deputati in cambio di sterline, si è sviluppata una rete di esercizi commerciali dove i consumatori fanno i loro acquisti. In questo modo il controvalore corrispondente ai volumi di acquisti effettuati resta sul territorio. Tornando al Sardex, per entrare nel circuito occorre superare un’attenta selezione finalizzata ad accettare i soggetti che abbiano spazi di mercato nella rete, sia per l’acquisto di beni e servizi utili, sia per la vendita dei propri prodotti. Quindi il circuito cresce sulla base delle necessità interne di sviluppo e i soggetti sono ammessi

a farne parte in rapporto al prevedibile flusso di domanda e offerta da cui possano trarre beneficio nel far parte della comunità. In altre parole, si vuole evitare di riprodurre le storture del mercato convenzionale con un surplus della medesima offerta che farebbe esplodere la concorrenza interna. Oggi un migliaio di aziende sono in stand-by in attesa di stringere il patto con Sardex. E i costi di gestione – solo in Sardegna la struttura dà lavoro a 80 persone – come vengono coperti? “Ai soci è richiesta una quota di iscrizione una tantum, più il pagamento di un canone annuale proporzionale alla loro ‘stazza’ economica: si va dai 100 euro di iscrizione più altrettanti di abbonamento annuale, ai 1.000 euro d’ingresso più 2.500 annui per le aziende più robuste”, risponde Mancosu. Allo studio ci sono l’estensione della rete ai singoli consumatori finali con l’area B2C e anche l’ipotesi di quotarsi in Borsa. Con un occhio all’estero, aggiunge Mancosu: “Abbiamo ricevuto richieste da tutto il mondo, dal Sud America al Nord America, dall’Africa all’Europa, ed è probabile che l’avventura fuori dall’Italia cominci proprio dal Vecchio Continente, di cui si conoscono le normative in vigore”. Quanto poi ai circuiti locali, “devono sviluppare i mercati regionali di riferimento nella logica di evitare di far girare da un capo all’altro del paese, per esempio, bottiglie di acqua minerale”. In effetti non c’è bisogno di elaborati studi sulla carbon footprint del circuito per concludere che funziona anche in termini di sostenibilità ambientale, in quanto il trasporto delle merci si mantiene entro i confini regionali diminuendo così i chilometri percorsi eventualmente su gomma. Chi l’avrebbe detto che, dopo il fallimento a Bretton Woods, Keynes sarebbe ripartito dalla Sardegna.

Intervista

a cura di S. Z.

“Dobbiamo riappropriarci della sovranità monetaria” Tonino Perna, docente di Sociologia economica all’Università di Messina

Professore ordinario di Sociologia economica all’Università di Messina, Tonino Perna è autore del volume “Monete locali e moneta globale. La rivoluzione monetaria del XXI secolo” (Altreconomia, 2014), in cui sviscera il mutamento, nei secoli, del significato e delle forme di denaro. Fino alla diffusione, ai giorni nostri, delle monete complementari e al declino del dollaro come moneta globale regolatrice degli scambi sui mercati internazionali. Lo abbiamo intervistato.

Lei scrive che insieme ai Gas (Gruppi di acquisto solidali) e ai mercati a km0, le monete complementari locali fanno parte di un processo di de-globalizzazione dal basso della finanza e che rappresentano uno dei fenomeni più interessanti del nostro tempo legato alla richiesta di un’“altraeconomia” ecologica, solidale e capace di rimettere al centro bisogni e diritti delle persone. “I cittadini, i consumatori e gli amministratori locali


Policy che promuovono le monete locali hanno bisogno di riappropriarsi di una parte di quella sovranità monetaria che è sfuggita loro di mano. La situazione debitoria dei Comuni – ormai estesa al mondo intero – ha portato e porta a una riduzione dei servizi e all’aumento delle imposte locali. Prendiamo, per esempio, il Comune di Roma che ha un debito di circa 12 miliardi di euro che va a sommarsi a tutti gli altri problemi: dal verde, alla raccolta dei rifiuti, alla sterminata manutenzione di tutto patrimonio pubblico. Bene, se potesse disporre di una quota di denaro locale complementare per tenere in vita l’economia del territorio e fare fronte a tutte queste esigenze, sarebbe un buona cosa. Del resto non c’è niente da inventare: prima dell’avvento della Zecca, i comuni italiani potevano battere moneta locale per i loro traffici economici sul territorio, mentre per il resto delle attività economiche c’era la moneta nazionale.” Tra le tipologie di monete complementari ci sono i Local Exchange Trading System. Sono associabili alle banche del tempo? “Sì, sono più o meno la stessa cosa: si tratta di scambiare servizi, prestazioni o beni, come capi di abbigliamento usati, che non si utilizzano più. Un ritorno, in forma moderna, all’idea del baratto con il vantaggio di creare una rete solidale. Le tecnologie digitali ne hanno permesso il rilancio. Ma non è un’opzione risolutiva, in quanto coinvolge solo i ceti medi e gli scambi sono limitati.”

Quando il denaro è un fine in sé diventa uno strumento di potere.

Come valuta i circuiti di credito commerciale locali, come il Wir e il Sardex? “I vantaggi sono evidenti: per prima cosa offrono la possibilità di accedere al credito. Per esempio in Sardex, vista l’impossibilità per alcune aziende di ottenere prestiti dalle banche, non è previsto il pagamento di interessi, né di costi di intermediazione bancaria. E, infine, creano un clima di fiducia, che è il collante fondamentale alla base del funzionamento di questi circuiti: si stabilisce una rete fiduciaria tra imprenditori e tra consumatori e imprenditori, nella quale il denaro diventa un intermediario, uno strumento che serve per gli scambi, che non è accumulabile e deve essere speso all’interno della comunità. Al contrario, quando il denaro è un fine in sé diventa uno strumento di potere, come si è visto.” Come considera le monete locali che circolano nelle tasche dei consumatori, come il Bristol Pound? “Sono esperienze importanti. Anche in Calabria ci sono sei comuni che stampano moneta complementare: la più famosa è il Riace, introdotta nel comune omonimo di 1.700 abitanti dal sindaco Domenico Lucano (inserito dalla rivista Fortune, unico italiano, tra i 50 leader più influenti al mondo, nda). Di fronte allo sbarco di oltre 400 profughi e alla necessità di coprire nell’immediato i loro costi di vitto, alloggio e assistenza dal momento che i contributi pubblici arrivano con grande ritardo, il sindaco si è inventato il Riace da distribuire agli immigrati, che così possono spenderlo per le loro necessità nei negozi del paese. Una soluzione da cui hanno tratto beneficio

sia il commercio e l’artigianato locali, sia il processo di integrazione dei profughi nell’economia e nel tessuto sociale locale. Peccato che la Banca d’Italia, avendo perso con la nascita dell’euro la sua funzione storica – e qui sta il paradosso – invece di occuparsi a dovere del controllo degli istituti bancari intenda impedire che si stampi questa moneta. Che altro non è, come insegnano i classici dell’economia mondiale, che una promessa di pagamento, una sorta di voucher, che non sostituisce in toto l’euro, di cui l’immigrato avrà comunque bisogno per comprare, per esempio, una scheda telefonica.” Condivide i giudizi negativi che circolano sul bitcoin? “Il bitcoin è ‘chiacchierato’ perché in alcuni casi è stato coinvolto in traffici di droga. Essendo una moneta virtuale internazionale non ha però nulla a che fare con le monete complementari locali. Per impiegarlo occorre far parte della società che lo gestisce. Ha avuto un grande successo iniziale, ma il suo valore subisce forti oscillazioni e a mio parere ha molto a che fare con la speculazione.” Lei scrive che il dollaro, soprattutto sotto la spinta dei Brics, perderà la sua funzione di moneta globale di riferimento per gli scambi internazionali. E nel futuro delle monete complementari locali cosa vede? “Se non cambiano le politiche di austerity, se non si allenta la stretta sui bilanci comunali che hanno subìto pesantemente la crisi in atto, a prevalere sarà la necessità piuttosto che il desiderio di tentare strade diverse: se in Inghilterra lo fanno città abbastanza ricche, come Bristol, vuol dire che anche lì i comuni stanno soffrendo la crisi fiscale. Per questo credo che ci sarà un’ulteriore espansione delle monete locali, che potrebbe avvenire, come già accade in alcune città brasiliane, per esempio agganciandole alla tutela dell’ambiente locale. Resteranno comunque complementari: il loro ruolo è di riequilibrare il mercato, favorire la distribuzione del reddito, la tutela dell’ambiente, il rapporto tra città-campagna e tra zone interne e zone costiere, non di sostituire in toto le monete ufficiali. In questo senso sono parte di un percorso in cui le persone si riappropriano dello strumento-denaro. È difficile prevedere quanto questo fenomeno possa diffondersi nel mondo. Resta la realtà tangibile delle sperimentazioni in corso, e che alcune hanno alle spalle decenni di attività, come nel caso del Wir. Penso in particolare che abbiano un futuro le esperienze che vedranno impegnati in prima linea gli amministratori locali: tra i casi più recenti quello della sindaca di Barcellona Ada Colau che ha lanciato il progetto di moneta locale denominata Virtula. E in Italia è incredibile il numero di sindaci che in questi anni mi hanno telefonato perché vogliono tentare questa strada. Anche se poi, al momento di partire, si spaventano: perché rispetto al denaro vige una sorta di tabù, un rifiuto a interessarsi anche degli aspetti più facili della finanza. E verso le banche si manifesta una sudditanza psicologica, specie quando si intende chiedere un prestito. Dimenticando che, invece, le banche vivono in quanto prestano soldi.”

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Quando

IL DESIGN incontra

Studio Pepe Heykoop, Brickchair 1

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L’ESISTENTE di Irene Ivoi

Oggi il confronto dei creativi con la materia usata si gioca su temi molto diversi rispetto a quanto avveniva con i primi ready-made di Duchamp. E per valorizzare gli oggetti del riuso è fondamentale saper raccontare con efficacia il percorso vissuto dagli scarti. Irene Ivoi si occupa di ricerca, attuazione e comunicazione di politiche di prodotto e strategie di prevenzione impatti ambientali per consorzi di filiera, enti pubblici e imprese. Laureata in industrial design, crede in un ruolo del designer più attento a (eco) processi e servizi.

Ormai da qualche anno sempre più spesso sui media si sente parlare di economia rigenerativa: un’economia che nasce dalla collaborazione fra settori diversi operanti sullo stesso territorio. Simbiotica: si basa sulla possibilità che gli scarti di un’impresa o di un settore (oltre ai materiali per esempio anche energia, acqua) diventino sottoprodotti e possano essere utilizzati da un’altra azienda. Una frontiera apparentemente nuova per innescare un circolo virtuoso di materia. Il concetto di simbiosi industriale, in realtà, arriva da lontano. Dopo aver fatto scuola con Svolte epocali di Gunter Paul (Baldini&Castoldi, 1997) successivamente è stato citato dall’Unione europea

come strumento da sviluppare da parte degli Stati membri nelle proprie strategie di trasformazione verso un’economia sostenibile (Com 571/2011 “Roadmap to a Resource Efficient Europe”). E pochi anni dopo la stessa Unione europea ci ricordava (Com 440/2014 “Piano d’azione verde per le Pmi”) che il 44% delle grandi imprese europee vende i propri materiali di scarto a un’altra impresa, mentre lo stesso viene fatto solo dal 24% delle Pmi. Ma già negli anni ’70 era iniziato uno dei primi esempi concreti di simbiosi industriale. In Danimarca, a Kalundborg – cittadina di 20.000 abitanti a 100 km da Copenaghen – negli anni si è realizzata una complessa rete di scambi


che ha coinvolto risorse come l’acqua, l’energia e un gran numero di residui industriali diventati materie prime seconde per altri processi. Nata come iniziativa privata, oggi la rete coinvolge l’intera area urbana. E spesso viene citata come caso emblematico proprio perché non è nata da una programmazione urbanistica e industriale, ma si è sviluppata in modo fisiologico, grazie ad accordi bilaterali volontari ed economicamente redditizi che sono riusciti a ridurre i costi di produzione garantendo l’accesso a risorse secondarie meno costose e allo smaltimento remunerativo degli scarti di processo.

of Wood

Pepe Heykoop si è laureato nel 2008 alla Design Academy di Eindhoven. Nel suo lavoro di designer/ autoproduttore spesso Heykoop mette al centro la materia dismessa e recuperata da cui nascono oggetti autenticamente sorprendenti. www.pepeheykoop.nl

L’incontro con la materia usata Per valorizzare e dare espressione agli output dei processi simbiotici le industrie si rivolgono ai creativi. Il loro incontro con la materia usata, gli scarti, a volte ha una motivazione individuale e sono prodotti nuovi oggetti

che scardinano quasi integralmente le funzioni originarie. Se negli anni Venti questo era definito ready-made dai dadaisti – anche se il primo a fare qualcosa del genere fu Marcel Duchamp nel 1913 – le motivazioni oggi sono completamente differenti. Le imprese attive in tali pratiche virtuose hanno, infatti, ben chiaro che se queste non sono efficacemente comunicate, rischiano di veder perduto gran parte del loro valore. Quindi creativi e designer sono chiamati, non solo a dare forma a nuovi output, ma anche raccontare – in modo attraente e accattivante – questi percorsi vissuti dalla materia. Quando l’incontro si consuma intimamente tra la materia dismessa, spesso non seriale e quindi episodica, e il pensiero creativo, si rischia di riaccendere una antica polemica su “cosa è o no” il design. Vico Magistretti, designer e architetto italiano (1920-2006) direbbe lapidario che “se un oggetto non viene prodotto in almeno qualche migliaio di pezzi non è design”. Ma gli anni ’60, ’70 e ’80 sono ormai lontanissimi. Nel frattempo sono cambiate tante cose e i designer hanno iniziato ad autoprodursi i propri progetti (trasformandoli in prodotti) e diventando così loro stessi micro-imprese senza intermediazione. Così come il riuso di spazi, architetture, materia, abbigliamento, componentistica è diventato un must: una polverizzazione del fare dove apparentemente c’è posto per tutti.

Pepe Heykoop. Foto di Annemarijne Bax

In Italia qualche anno fa, l’Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) grazie al lavoro del Rise, un laboratorio di valorizzazione delle risorse nei sistemi produttivi e territoriali, ha costituito Symbiosis. Si tratta di una piattaforma di simbiosi industriale al servizio di imprese e operatori presenti sul territorio che ha l’obiettivo di far incontrare domanda e offerta, attivare trasferimenti di risorse, intese su materiali, sottoprodotti energetici, acqua, servizi, competenze. Symbiosis, inoltre, collabora con alcune regioni (Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Sicilia) e con il ministero per lo Sviluppo economico. Resta però il fatto che, aldilà del loro valore, tali esperienze vanno modellizzate e divulgate il più possibile: solo così potranno essere replicate. Bricks e Bits

Studio Pepe Heykoop, Bits Of Wood 3. Foto di Annemarijne Bax

Naturalmente ci sono anche altre città dove il settore pubblico ha promosso interessanti iniziative. Basti pensare ad Amsterdam, Birmingham e Stoccolma, dove le municipalità hanno messo a punto un sistema di mappatura dei flussi dei materiali utilizzati al fine di individuare le loro possibilità di recupero, riutilizzo e integrazione. O a progetti come Retrace coordinato dal Dipartimento di Architettura e design del Politecnico di Torino che punta a una progettazione, intelligente, sostenibile e inclusiva in grado di prevedere, per ogni singola parte del ciclo di vita dei prodotti, il contenimento degli scarti e – nel caso si realizzino – la loro valorizzazione.

“A Systemic Approach for REgions TRAnsitioning towards a Circular Economy”, www.interregeurope.eu/ retrace

Symbiosis, www.simbiosiindustriale. it/Simbiosi-Industriale


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Studio Pepe Heykoop, Chandelier. Foto di Annemarijne Bax

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Il riuso non ha padri, nessun consorzio nascerà per sussidiarlo e sostenerlo, pertanto l’autogestione regna sovrana e sono già nate diverse reti in grado di connettere più ri-creatori e accrescere l’effetto del loro puntiforme ingegno.

Attenzione però: il riuso, può anche essere un affaire serio. Innanzitutto perché grazie alla sua diffusione, il riuso si sta definendo come categoria estetica, un po’ come accaduto per il fenomeno dell’etnico alla fine degli anni ’90. Poi perché è socialmente inclusivo e riesce a dare senso a una manualità spesso dimenticata. Coinvolge inoltre stakeholder pubblici e privati con disinvoltura, facendo dialogare attori che nel fare artigiano con scarti, conditi di creatività, trovano un alfabeto per comprendersi. Infine, riporta il designer ai temi della stratificazione di componenti differenti a cui ridare

un’identità, dell’uso e combinazione di gamme cromatiche, di materiali talvolta incapaci di invecchiare con decoro e che rinascono in forme inconsuete. Scomporre per ricomporre obbliga a esercitare virtù impensate: ciò che prima riempiva può diventare superficie, ciò che prima veniva tagliato ora viene ricomposto. La memoria di quello che era si perde per ritrovarsi, ciò che nasceva non riparabile lo diventa, e così via. La materia dismessa diventa così il compagno di un viaggio che all’inizio può sembrare senza meta e che invece si svela nel fare. Al momento questo è un universo di esperienze polverizzate, confinato in una nicchia di mercato che produce poco pur con prezzi finali interessanti. Bisogna entrare davvero nel mercato; occorre capacità di commercializzare e valorizzare al meglio gli sforzi. Servono professionalità in grado di potenziare queste esperienze, stimolando la domanda e agendo così su conoscenza e diffusione. Chi compra deve sapere che quest’opzione esiste e deve poterla rintracciare, riconoscere apprezzare e rintracciare: per questo conoscenza e accesso sono due nodi nevralgici. Il riuso non ha padri, nessun consorzio nascerà per sussidiarlo e sostenerlo, pertanto l’autogestione regna sovrana e sono già nate diverse reti in grado di connettere più ri-creatori e accrescere l’effetto del loro puntiforme ingegno.

Reti e Community

G. Campagnoli, Riusiamo l’Italia – Da spazi vuoti a start-up culturali e sociali, Il Sole 24 Ore, 2014

Appcycle Appcycle è un progetto basato su una community che utilizza la rete per puntare a una economia circolare, applicata al recupero della materia inutilizzata. Sul portale possono interagire donatori e ricreatori: i primi, ovvero chi gestisce o produce rifiuti, ovvero la materia inutilizzata, mettono a disposizione degli altri il materiale che a sua volta sarà tracciato per avere informazioni su destinazione, trasformazione, CO2 risparmiata e per ottenere il diritto di prelazione sull’acquisto di ciò che verrà realizzato dai ricreatori. Questi ultimi sono progettisti e artigiani che, con logiche upcycling, potranno scegliere con quali “scarti” dar vita a nuovi output, anche caricando tutorial sulle fasi di rielaborazione. Infine c’è uno spazio shop dove è possibile vendere tali oggetti. Nel 2016 Appcycle ha partecipato a “Icchè ci vah ci vole”, festival sperimentale per la creazione di immaginari condivisi ha presentato la piattaforma a Source – Self made Design, un progetto che ha l’obiettivo di connettere l’universo dei creativi legati al mondo del design con le aziende e le piccole e medie imprese nel campo della produzione e distribuzione. Da febbraio 2017

entra nell’incubatore CoopUp all’interno del progetto OPP! la rete dei giovani imprenditori cooperativi di Confcooperative. www.appcycle.it Riusare le città Il riuso delle città è un tema di estrema attualità. Molto se ne è parlato al 1° festival di economia civile di Legambiente (Campi Bisenzio – Firenze 17/19 novembre 2016) con Enrico Fontana, co-autore e curatore del Quaderno di Legacoop “Rigenerare le città”. I due soggetti hanno avviato da tempo una collaborazione, grazie anche a un protocollo di intesa, per promuovere progetti d’impresa finalizzati allo sviluppo di una rete di cooperative di comunità, impegnate nella tutela dei beni pubblici e comuni, recuperando architetture abbandonate e valorizzando le comunità locali. Da segnalare www.riusiamolitalia.it e www.universitadelriuso.it: due piattaforme ideate da Gianni Campagnoli ricche di spunti originali, dati utili e idee su come ripensare il futuro degli spazi dimenticati. E poi www.kcity.it: una delle 12 organizzazioni


Policy fondatrici della rete internazionale Urban Renaissance, che collega studi professionali innovativi attivi in sei paesi, mettendo insieme competenze che spaziano dal paesaggio, al planning, all’economia per promuovere interventi integrati di rigenerazione urbana. Infine l’operazione Salento Solidale dell’associazione Coppula Tisa che ha trasformato una casa cantoniera, Celacanto, a Marina Serre di Tricase in Puglia in un centro di aggregazione per le onlus locali, realizzando tutti gli arredi impiegando solo le travi dismesse in legno dei tabacchifici abbandonati della zona. celacanto.coppulatisa.it Ri.Accademia È un progetto di ricerca sul riuso e l’economia circolare nato nel 2013 a Torino dall’incontro tra Cristian Campagnaro e Claudia De Giorgi, docenti del Dipartimento di architettura e design del Politecnico di Torino, Antonio Castagna (formatore e consulente su questi temi), le cooperativa sociali Triciclo e Liberi Tutti, l’Associazione Mana-Manà e l’artista Walter Visentin. Una prima attività di ricerca-azione ha indagato possibili percorsi di riuso e valorizzazione del truciolare nobilitato proveniente dalla filiera del mobile dismesso. È disponibile in grandi quantità, privo di valore commerciale post uso, si propone come un materiale di bassa qualità espressiva, rapida obsolescenza semantica pur conservando buone proprietà meccaniche. Il percorso di ricerca è sviluppato su tre livelli di sperimentazione: •• upcycling: approfondire come i semilavorati di recupero si prestano a nuove soluzioni di prodotto riconoscibili dai consumatori e con un valore economico; •• filiere collaborative: mettere al centro le relazioni e il co-design per superare i vincoli

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più semantici ed espressivi che oggi limitano i processi di riuso; •• nuovi impieghi dei trucioli di legno: sperimentare processi tecnologici appropriati per disassemblare il materiale e recuperare la materia per la realizzazione di nuovi prodotti. Rreuse Nata nel 2001 Reuse and Recycling European Union Social Enterprises, è una piattaforma europea che promuove lo sviluppo di imprese sociali che operano nella raccolta, riutilizzo e avvio a riciclaggio di materiali. Riunisce oltre 20 reti nazionali e regionali presenti in più di dieci paesi Ue. Un recente rapporto Reuse in the UK and Ireland dell’Osservatorio britannico Chartered Institution of Wastes Management (Ciwm) rileva che il riutilizzo sta emergendo e cresce significativamente, nonostante le carenze di strategia dell’attuale governo, ma il progresso del settore si potrebbe accelerare affrontando questioni come consegna, comunicazione strategica e impegno strategico dei vertici aziendali. www.rreuse.org Etsy Restando in tema di creatività puntiforme, la piattaforma Etsy, non a caso certificata B Corp (una B Corp è un’azienda che volontariamente rispetta i più alti standard di scopo, responsabilità e trasparenza, ndr) svolge un ruolo di promozione e vendita di prodotti artigianali realizzati da privati, in piccole o piccolissime serie o pezzi unici, anche se non necessariamente derivanti da riuso. Curioso anche il caso di Ikea Hackers: è una giovane blogger che propone soluzioni innovative per dare ai prodotti Ikea un nuovo aspetto o funzione.

Report Ciwm, Reuse in the UK and Ireland, tinyurl.com/ht5jktx

jules.ikeahackers.net www.ikeahackers.net

WRP (Wood Reinforced Paper), truciolare (50%) ricomposto con carta di riciclo (50%)

Samuele Baruzzi, 2016

Da sinistra a destra: WRC (Wood Reinforced Concrete): truciolare (50%) ricomposto con cemento (50%)

Samuele Baruzzi, 2016

A destra: Samuele Baruzzi, 2016, Una materia prima di terza generazione. Sperimentazione sui processi per il reimpiego del truciolare nobilitato, tesi del Corso design e comunicazione, relatore C. Campagnaro


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L’economia venuta

DALLO SPAZIO Intervista a Roberto Battiston

Il nostro pianeta è un sistema chiuso, con risorse limitate. Per questo molte innovazioni usate nell’ambito della ricerca spaziale sono considerate fondamentali per il recupero e la circolarità della materia. Un filone di ricerca che ha già cominciato a produrre risultati. L’esperienza del Ket-Lab, il “Key Enabling Technologies Laboratory” per la commercializzazione di tecnologie nate dalla ricerca aerospaziale. a cura di Emanuele Bompan

Cosa succede quando si lavora in un ambiente dove non esistono approvvigionamenti di materia, l’unica risorsa sono gli scarti, manca ossigeno, le condizioni esterne sono estreme e l’unica energia è quella delle stelle? Semplice, si usa la risorsa che l’uomo ha sempre dimostrato di possedere quasi illimitatamente. L’ingegno. E se questo ambiente è lo spazio, allora la sfida Docente di fisica sperimentale all’Università di Trento, Roberto Battiston ha presieduto la Commissione II dell’Istituto nazionale di fisica nucleare per la fisica astroparticellare ed è stato membro del Trento Institute for Fundamental Physics and Applications. È l’attuale presidente dell’Agenzia spaziale italiana.

è una di quelle epocali. La pellicola Sopravvissuto – The Martian, regia di Ridley Scott, racconta la grande sfida con cui gli ingegneri dell’industria spaziale si devono confrontare ogni giorno quando pianificano viaggi nello spazio, stazioni orbitanti, centri di ricerca nelle profondità del cosmo. O quando, addirittura, iniziano a ideare future colonie su Marte, dove un giorno umani potrebbero abitare per continuare la conquista dello spazio, esplorandolo alla ricerca di nuova materia o addirittura per offrire vacanze “dell’altro mondo”. Certo è che la space economy non è solo un settore economico fatto di vettori, Rov (Remotely Operated Vehicle, veicoli a comando remoto, ndr) e nuovi satelliti. È anche una grande opportunità per ideare tecnologie del futuro che possano sostenere un pianeta malato, che ha a disposizione sempre meno materie prime e ha sempre più la necessità di sfruttare fonti energetiche rinnovabili e di promuovere l’efficienza. Materia Rinnovabile inaugura una serie di articoli per capire in che direzione questi investimenti stanno andando e quali tecnologie cutting-edge potranno magari un giorno entrare nelle nostre case o far parte delle filiere produttive globali. Partendo dall’Italia, che in Europa è uno dei player del settore space economy su cui il governo ha ritenuto investire, grazie a un finanziamento di 350 milioni di euro richiesti al Cipe sul fondo sviluppo e coesione per un piano di sviluppo italiano. Un settore “di eccellenza per il sistema produttivo italiano”, secondo le parole del ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda. È veramente così? Ne abbiamo parlato con il presidente dell’Agenzia spaziale italiana, Roberto Battiston,

Temple sul cratere Shackleton (Luna) – ©Jorge Mañes Rubio. Spatial design & visualisation in collaborazione con DITISHOE ditishoe.com

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una delle menti più visionarie del panorama, che guarda a Marte e oltre. Per molti space economy è un concetto “alieno”, se si concede il gioco di parole. “La space economy va considerata da due punti di vista: uno implica il passaggio dal considerare l’attività nello spazio soprattutto per la componente esplorativa tecnologica, legata all’aumento della conoscenza e della capacità d’indagine dell’uomo, a una visione in cui lo spazio è un ambito di attività economica che produce ricchezza. Oggi il settore spaziale ha un fatturato globale di circa 300 miliardi di euro all’anno, di cui il 70-85% è legato alle telecomunicazioni. Questa è già economia di mercato. Ma la novità di questi ultimi anni riguarda la crescente quantità di dati che lo spazio riesce a fornirci riguardanti la Terra, che si aggiungono allo scambio di dati sulla telecomunicazione. In altri termini, si sta producendo una quantità di dati di origine spaziale, che si sta connettendo con la new economy delle dot.com sempre più legata ai servizi e alla gestione delle reti.” C’è una componente tecnologica che richiama la green economy. Tante innovazioni

adoperate nello spazio sono considerate la chiave per un futuro dove il recupero e la circolarità della materia sono fondamentali. È così? “Ci sono due aspetti importanti. Osservando la Terra dallo spazio, una delle prime cose che balza agli occhi è rappresentata proprio dai processi meteorologici e – soprattutto – climatici. L’osservazione spaziale ci aiuta a comprendere meglio quello che il nostro pianeta sta vivendo, la sua evoluzione climatica, consentendoci di verificare gli effetti dei processi, delle attività di contenimento e di miglioramento dell’impatto ambientale messi in atto dai vari paesi. È un particolare capitolo della space economy e dell’utilizzo del dato spaziale. Poi c’è un secondo aspetto. Nello spazio le risorse a disposizione sono limitatissime: abbiamo l’energia solare, ma non abbiamo altri materiali oltre a quelli che ci portiamo. La sfida, quindi, è trasformare l’energia in cibo, in propulsione per spostarci rapidamente da un posto all’altro, in capacità di comunicare e quant’altro. Pensiamo a quello che avviene nella stazione spaziale internazionale, dove abbiamo uomini che vivono continuativamente ormai da 15 anni: la sfida è ottimizzare le risorse, sfruttare

La Terra è un sistema chiuso, molto simile a quello della stazione spaziale. Naturalmente i numeri sono diversi: 7 miliardi di persone vivono sul nostro pianeta, solo 9 persone sulla stazione spaziale.


Policy

Cometa 67P/C-G – ©ESA/Rosetta/OSIRIS/NavCam – CC BY-SA IGO 3.0

i materiali disponibili e l’energia che arriva dal Sole. Teniamo presente che anche sulla Terra le materie prime che abbiamo sono quelle che il nostro pianeta già possiede, non le possiamo aggiungere.” Dunque, anche la Terra è un sistema limitato come se fosse una navicella spaziale, solo molto più grande. “Sì, assolutamente. L’energia è solo quella del Sole, perché anche l’energia di gas e petrolio di fatto è un’energia solare accumulata nel corso di milioni di anni. La Terra è un sistema chiuso, molto simile a quello della stazione spaziale. Naturalmente i numeri sono diversi: 7 miliardi di persone vivono sul nostro pianeta, solo 9 persone sulla stazione spaziale. Nello spazio il principio del sistema chiuso è ancora più evidente: l’acqua viene recuperata dalle urine e dal sudore praticamente al 95%, in un continuo ciclo di utilizzo. Oggi gettiamo in atmosfera i rifiuti biologici per farli bruciare, ma se avessimo una fattoria nella stazione spaziale – abbiamo già provato a coltivare l’insalata e i fiori e ci stiamo attrezzando per i pomodori – potremmo riutilizzarli in un circuito che potrebbe sfruttare e reimpiegare quasi la totalità della materia portata nello spazio, usando l’energia solare come elemento di trasformazione. Quindi è un sistema fantastico per mettere alla prova nel modo più avanzato il riutilizzo estremo delle risorse primarie.” L’Italia come si posiziona nella space economy? Siamo leader o follower? “Nel settore spaziale siamo una potenza internazionale: il sesto paese a livello globale per volume di attività spaziali, il terzo in Europa,

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dopo Francia e Germania. E abbiamo una tradizione di 50 anni che si estende su tutta la filiera. Dai lanciatori, ricordiamo i lanci del San Marco a Malindi col generale Broglio negli anni ’60, fino ai contributi importantissimi forniti alla stazione spaziale internazionale, le cui infrastrutture abitabili sono state prodotte a Torino. Ricordiamo la costellazione Radar Cosmo-Skymed che è unica nel mondo e che permette di monitorare la Terra 24 ore su 24, giorno e notte perché essendo radar vede attraverso le nuvole e funziona anche al buio. Abbiamo una realtà di competenze straordinarie che cerchiamo, grazie al lavoro dell’Agenzia spaziale italiana, di mantenere e far crescere. Oggi l’industria spaziale nazionale dà lavoro a 6.500 addetti e ha un fatturato di 1,7 miliardi. Ora la sfida è quella di aggredire mercati esterni: molte di queste tecnologie, infatti, sono sul mercato.” Quanto potenziale di crescita prevedete si possa avere? “In linea di principio non c’è un limite vero perché dipende dalla competitività che riusciamo a mantenere nel sistema. Dalla space economy spesso nascono prodotti unici oppure competizioni tra un paio di aziende. Per esempio il Vega, un lanciatore (un razzo, ndr) a principale produzione italiana che attualmente viene impiegato da due a tre volte all’anno dall’Esa. Noi crediamo che si potrebbe utilizzare in un mercato due-tre volte superiore, se fosse opportunamente inserito negli accordi internazionali o venduto anche ad altri paesi non europei. Il potenziale di crescita è almeno del 100%: dipende da quanto il sistema Italia, il governo che investe in industrie, pianifichi questo modello di sviluppo.”

Mondo

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300

VdP nazionale/ VdP globale (%)

% VdP da mercato istituzionale

100

% VdP da mercato privato: upstream

20 60 Italia

Francia

Regno Unito

Germania

1,6

6

15

6,6

20

0,6

20 40 40

2,1

70 10 20 20 40 40

% VdP da mercato privato: downstream

5,3

2,3

H36W-1 a Kourou – ©ESA

Valore della produzione 2013 (VdP, Mld euro)

Siti di atterraggio della cometa 67P/C-G – ©ESA/Rosetta/OSIRIS

Quanto vale il settore spaziale


materiarinnovabile 14. 2017 Più o meno quanti brevetti nati nel mondo della space economy sono poi diventati prodotti di distribuzione industriale? “Troppo pochi. L’Italia non ha un’abitudine a produrre brevetti, né a livello dell’università, né a livello industriale. Non è nel nostro Dna: a livello di università e centri di ricerca i numeri sono assolutamente trascurabili, poche unità. A livello industriale siamo messi un po’ meglio, ma non abbiamo la strategia sistematica di brevettazione che hanno molto spesso i paesi del nord, per non parlare degli Usa. Detto questo, il modo con cui lo spazio evolve non prevede quasi mai di andare a comprare i brevetti di altre imprese. Piuttosto si fanno accordi in cui si dividono le attività, si creano joint venture, favorendo lo sviluppo di collaborazioni. Va ricordato che tutto ciò è facilitato da un forte contributo di finanziamenti pubblici, sia a livello nazionale sia internazionale, sia in Italia sia negli Stati Uniti e in Russia.” Nuove joint venture raccontano l’aumento di partnership private: pensiamo al progetto Lavazza nello spazio, agli investimenti di Virgin Galactic. Che ruolo giocheranno?

“Pensiamo a cosa accade in America dove i privati della new economy basata sul web e sui servizi stanno facendo in prima persona attività spaziale per potenziare il proprio business basato su temi non spaziali. Con l’emergere di questi partenariati produrre brevetti diventerà una strategia sempre più importante.” L’Italia eccelle nella green economy, con un grande know-how e un forte interesse verso l’economia circolare. Potrebbero le tecnologie spaziali fare la differenza nel campo delle energie rinnovabili, nel recupero di materia, riciclo, riuso e nello studio di nuovi materiali? Servirebbe un tavolo di lavoro pubblico-privato tra il mondo dell’industria spaziale e il mondo dell’industria green? “Secondo me sì. Come Agenzia spaziale italiana stiamo cercando di potenziare il processo di trasferimento tecnologico, sia ricerca pura sia prototipazione industriale, ad altri settori commerciali. Negli ultimi mesi abbiamo messo in piedi a Roma, assieme al Consorzio Hypatia, il Ket-Lab, ‘Key Enabling Technologies Laboratory’. Stiamo già cominciando a fare dei prodotti tesi

Key Enabling Technologies Laboratory, ketlab.it

Decollo di Ariane 5, volo VA233 – ©ESA–Stephane Corvaja, 2016

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Nebulosa Testa di Cavallo vista dall’osservatorio Herschel – ©ESA/Herschel/PACS, SPIRE/ N. Schneider, Ph. André, V. Könyves per il “Gould Belt survey” Key Programme Swarm Upper Composite – ©ESA–S. Corvaja, 2013

Team dinamico di volo – ©ESA/J. Mai Tracking station dell’ESA a Malargüe (Buenos Aires) – ©ESA/U. Kugel

Come Agenzia spaziale italiana stiamo cercando di potenziare il processo di trasferimento tecnologico, sia ricerca pura sia prototipazione industriale, ad altri settori commerciali.

alla commercializzazione di tecnologie nate dalla ricerca aerospaziale. Ecco alcuni esempi. Le celle solari ad altissima efficienza: i pannelli solari che dobbiamo realizzare possono arrivare al 60% del rendimento, mentre quelli che oggi usiamo sui nostri tetti arrivano al 15-18%. Attualmente costano molto ma, come sempre accade, una volta che la tecnologia sarà sviluppata si può pensare a processi di produzione in grande scala che abbassano i costi.” Riguardo all’acqua quali invenzioni sono in progress? “Nella stazione spaziale – come dicevo – l’acqua viene recuperata al 95% dal sudore e dalle urine. Ma quando si è su un pianeta, anche fosse solo la Luna, dobbiamo avere – letteralmente – la capacità di estrarre l’acqua dai sassi. L’acqua, infatti, spesso è legata chimicamente in quantità molto piccole a tutta una serie di molecole presenti sulla superficie dei pianeti: per poterla utilizzare occorre sviluppare delle tecniche alle quali stando sulla Terra non si pensa nemmeno, proprio perché l’acqua è abbondante.” Dalla navicella spaziale a casa? “Assolutamente sì. Tutti i filtri possibili e immaginabili: per ricavare acqua potabile da quella

sporca, per produrre ossigeno da un’atmosfera piena di CO2. Tutto ciò è materia di ricerca e sviluppo, anche in Italia.” Quali sono i cluster di produzione della space economy? “Torino, Milano dove c’è Ohb che è una azienda importante, il gruppo Leonardo, la EX nella zona milanese, il cluster toscano a Campi Bisenzio, il polo centrale del Lazio, quello abruzzese a L’Aquila, il Cira, il comparto aerospaziale campano. Sono soprattutto reti d’imprese.” Qual è la tecnologia più curiosa – e italianissima – che avete testato? “Direi la macchinetta del caffè progettata da Lavazza in grado di fare l’espresso in assenza di gravità: più una curiosità di tipo mediatico ma che ha dato molta visibilità al settore spaziale. È stata una prima volta: abbiamo usato in modo intelligente il brand dello spazio, della Stazione spaziale internazionale e le competenze nazionali per sostenere un processo che poi alla fine darà un beneficio diretto di carattere economico. Ma la space economy è appena iniziata, sarà un grande viaggio attraverso il cosmo, anche per salvare il nostro pianeta.”


IL VIETNAM APRE di Dinh Thao Hoa

all’economia circolare

Questo articolo è stato pubblicato su SwitchasiaMAG, inverno 2016/17; tinyurl.com/jf722ll

Tra i 10 paesi al mondo con più alto inquinamento atmosferico, Hanoi guarda all’economia circolare per coniugare crescita e tutela ambientale, competitività e benefici sociali. Anche se oggi l’80% delle aziende del paese non ha idea di che cosa si tratti.

Dinh Thao Hoa è una ricercatrice e analista commerciale presso il Centre for Creativity and Sustainability Study and Consultancy di Hanoi.

Durante il 20° secolo il concetto di produzione a ciclo chiuso era molto popolare in Vietnam, specialmente nel settore agricolo. A quell’epoca, il modello di coltivazione Vườn (orto)–Ao (stagno)–Chuồng (gabbia) utilizzava gli scarti di un’attività come materiale per un’altra. Per esempio i rifiuti organici della coltivazione di verdure, quelle appassite o danneggiate, erano usati come mangimi per i pesci allevati nello stagno o per il pollame e il bestiame che viveva rinchiuso (gabbia). Oggi, con tutti i profondi cambiamenti economici, sociali e culturali, il Vietnam si è sviluppato passando da un’economia agricola a basso reddito all’essere uno dei più attivi fornitori di servizi di lavorazione del mondo. Questo ha fatto salire considerevolmente il livello del reddito nazionale e lo standard di vita della popolazione. Tuttavia, la scomparsa di modelli di produzione rispettosi dell’ambiente (come il V-A-C) è uno degli aspetti negativi di questo tipo di sviluppo economico. In sostituzione di quei modelli, l’uso di sostanze chimiche (fertilizzanti

1. Secondo l’Environmental Performance Panel Index (Epi) del 2012 pubblicato durante il Forum economico mondiale di quest’anno a Davos, in Svizzera. 2. tinyurl.com/z9quxco 3. Fonte dei dati sulle malattie polmonari dottor Dao Bich Van, Decano del dipartimento di riabilitazione polmonare al Vietnam Lung Hospital, 2013.

e pesticidi) e l’impiego di macchine agricole automatizzate hanno non solo spezzato il ciclo naturale dei materiali, ma anche generato più rifiuti, anche tossici, che spesso vengono dispersi nell’ambiente. I rifiuti prodotti dalle attività industriali e dall’urbanizzazione rappresentano uno dei più gravi problemi del Vietnam, uno dei 10 paesi al mondo con il più alto inquinamento atmosferico dal 2012.1 Il 6 ottobre del 2016, Hanoi – la capitale del paese – è stata classificata come seconda peggior città al mondo per inquinamento atmosferico urbano.2 Di conseguenza, il numero dei malati di cancro, di malattie respiratorie acute e croniche e di allergie nelle grandi città del Vietnam è in aumento. Il Central Lung Hospital (Ospedale centrale per le malattie polmonari, ndr) ha affermato che, secondo uno studio del 2013, il 95% dei pazienti soffrono di malattie polmonari ostruttive croniche perché vivono in ambienti inquinati.3 Un altro studio – sempre del 2013 – del ministero della Salute vietnamita ha registrato che, su 100.000


Case Studies 4. tinyurl.com/zdkq8cm 5. Agenzia europea dell’ambiente, Circular Economy to have considerable benefits but challenges remain, 2016. 6. www.uncrd.or.jp/ content/documents/ Country%20Analysis%20 Paper_Vietnam.pdf 7. tinyurl.com/hdu6tff

©Khuutuong/www.goodfreephotos.com

Progetto SWITCH-Asia “Sustainable Product Innovation in Vietnam, Combodia and Laos”, www.switch-asia.eu/ projects/spin-vcl

persone, 4.100 (cioè il 4,1%) soffrono di malattie polmonari; 3.800 contraggono infiammazioni della gola e delle tonsille; 3.100 soffrono di bronchite. E il risvolto più allarmante è che le persone in età lavorativa sono quelle più spesso invalidate dall’inquinamento atmosferico.4 Questi dati scioccanti sono il risultato dell’estremo inquinamento del paese, che sta costringendo il Vietnam a trasformare la sua produzione utilizzando metodi più puliti, più sicuri e più sostenibili, per proteggere il proprio ambiente e la salute della popolazione. In questo contesto, l’economia circolare potrebbe rappresentare una buona soluzione. In un’economia circolare, i rifiuti provenienti dalle fabbriche diventano materiali preziosi per altri processi e – invece di essere buttati via – i prodotti in disuso potrebbero essere riparati, riutilizzati o aggiornati. Le strategie dell’economia circolare potrebbero anche portare a ingenti risparmi sui costi, facendo aumentare la competitività dell’industria e assicurando benefici netti in termini di occupazione.5 Un modello, dunque, che potrebbe rappresentare una soluzione fondamentale affinché il Vietnam continui a soddisfare le crescenti richieste di energia e risorse del mercato interno, facendo diminuire la pressione esercitata da rifiuti, inquinamento e cambiamenti climatici. Nel giugno del 2016 il Centre for Creativity and Sustainability Study and Consultancy (Ccs; Centro per gli studi e le consulenze sulla creatività

e sulla sostenibilità, ndr), uno spin-off del progetto SWITCH-Asia finanziato dall’Ue “Sustainable Product Innovation”, ha condotto una ricerca su 152 piccole e medie imprese vietnamite operanti in diversi settori: il 78,8% delle aziende interpellate ha affermato di non avere la minima idea di cosa significasse “economia circolare”. Solo il 13,3% delle aziende coinvolte aveva qualche conoscenza in merito, legata alla produzione e al consumo sostenibili e più puliti, alla progettazione cradle to cradle e all’efficienza nell’uso delle risorse. Tuttavia, in generale, l’applicazione pratica da parte delle piccole e medie imprese vietnamite di questi concetti è ancora molto limitata: secondo un altro studio condotto dalla Vietnam Environment Administration, nel 2014 solo lo 0,1% (circa 200 su 200.000) delle aziende del paese stava impiegando tecnologie per una produzione più pulita nelle proprie fabbriche.6 L’economia circolare in Vietnam Nonostante siano poche le aziende che conoscano il significato di circular economy, in Vietnam sono già presenti alcuni modelli di business circolare che dimostrano non solo di poter migliorare il valore economico e la competitività delle aziende, ma anche di arrecare benefici alla società e all’ambiente. Secondo il rapporto Circular Advantage,7 del National Zero Waste Council Circular Economy Working Group (Gruppo di lavoro del Consiglio

Figura 1 | I cinque modelli di business dell’economia circolare Forniture circolari: forniscono energia rinnovabile, materiali a base biologica o completamente riciclabili per rimpiazzare quelli a ciclo di vita singolo Recupero delle risorse: estrae utili risorse/energia dai prodotti o sottoprodotti smaltiti

Altri cicli

Forniture circolari

Sottoprodotti

C di ritorno Rifiuti come risorsa

B

PRODUZIONE

Estensione della vita del prodotto: estende il ciclo di vita funzionale di prodotti e componenti mediante riparazione, aggiornamento e rivendita Piattaforme di condivisione: permettono un maggiore tasso di utilizzo dei prodotti rendendo possibili uso/accesso/proprietà condivisi Prodotti come servizio*: offrono accesso al prodotto mantenendo la proprietà per internalizzare i benefici della produttività circolare delle risorse

LOGISTICA

VENDITA E MARKETING

Rivendita PROGETTAZIONE DEL PRODOTTO

ACQUISIZIONE DEI MATERIALI

*Può essere applicato ai flussi del prodotto in qualsiasi punto della catena di valore

Fonte: Accenture, Circular Advantage: Modelli di business e tecnologie innovativi per creare valore in un mondo senza limiti alla crescita, 2014. Rifacimento grafico a cura di Elmar Sander e Katharina Olma.

Ri-produzione

C

A

A

Riparazione/ aggiornamento

B

UTILIZZO DEL PRODOTTO

Riciclo/riuso

Condivisione SMALTIMENTO DI FINE VITA

LOGISTICA INVERSA SCARICO DEI RIFIUTI (eliminazione)

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52

materiarinnovabile 14. 2017 nazionale dell’economia circolare per l’eliminazione dei rifiuti, ndr), oggi esistono cinque tipi di modelli di business circolare (figura 1). E tra questi, diversi sono già stati impiegati in piccole e medie imprese vietnamite per accrescere il loro valore economico e la loro competitività. A seguire, due casi studio di aziende che hanno applicato modelli di business dell’economia circolare in Vietnam. Recupero di risorse: il caso della Green Street JSC Fondata all’inizio del 2016, Green Street JSC (Green Street Trade and Service Joint Stock Company) è una pmi con sede ad Hanoi e con due principali attività: •• commercio: esportazione di prodotti sostenibili e innovativi fatti con bambù vietnamita verso Australia, Nuova Zelanda e Unione europea; •• servizi: consulenze su modelli di lavorazione per il recupero di risorse e fornitura di servizi di commercializzazione per le pmi che lavorano il bambù in Vietnam. Il Vietnam possiede circa 1,4 milioni di ettari di terreno coltivato a bambù, che producono da 12 a 20 tonnellate di bambù all’anno per ettaro.8 I metodi tradizionali per il trattamento del bambù utilizzati in Vietnam richiedono molto tempo, sono costosi, hanno un impatto negativo sull’ambiente (producono CH4, CO2 e SOx a causa dell’impiego di zolfo, gasolio e candeggina per il processo di trattamento) e sono anche dannosi per la salute. Avendo compreso quali problemi ambientali sono

causati dall’attuale industria della lavorazione del bambù, nell’aprile del 2016 Green Street JSC ha offerto la propria consulenza a Viet Linh, azienda attiva nella lavorazione del bambù, situata nella provincia di Thanh Hoa, per l’impiego di un sistema di lavorazione del bambù a zero rifiuti. Il sistema, fornito dalla Green Street JSC alla Viet Linh, ha modificato le proprietà fisico-chimiche del bambù vietnamita migliorandone la qualità. Dopo il trattamento, i materiali derivati dal bambù hanno un aspetto migliore e vantano una qualità e una resistenza al deterioramento pari a quella dei legni duri, come il teak. In più, il sistema permette di recuperare quasi tutti i sottoprodotti del trattamento, come fibre, trucioli e altri elementi organici quali la lignina, che vengono poi utilizzati come fonte energetica finendo negli impianti per la produzione di gas dalle biomasse nel successivo ciclo di trattamento (figura 2). Questo contribuisce a ridurre la spesa dell’azienda per l’energia, elimina rifiuti destinati alle discariche e migliora la salubrità e la sicurezza sul posto di lavoro. Inoltre è stato consigliato anche l’uso di colle non dannose per l’ambiente, che rendono i prodotti di bambù più sicuri per le persone e si decompongono dopo l’uso.

Info dichungtaxi.com/en dichung.vn

8. Report 2014 Vietnam Academy of Forest Science.

Green Street Jsc fornisce anche consulenza ai fornitori di bambù grezzo su come applicare nelle loro piantagioni un modello di coltivazione a ciclo chiuso, secondo il quale i coltivatori ripiantano il bambù e proteggono la biodiversità del sottobosco (per esempio allevando bufali o capre e seminando Consolida maggiore), e – sfruttando i sottoprodotti del bambù – producono biofertilizzanti sfruttando i sottoprodotti della pianta.

VECCHIA TECNOLOGIA

Figura 2 | Confronto tra le due tecnologie utilizzate nell’azienda Viet Linh

Calce

Acqua

Legno/Carbone/ Gasolio

Materiale grezzo pre-lavorazione (bambù)

Frammenti di bambù, cime e radici

Rifiuti

Processo di riscaldamento

Liquami, calore ed emissioni

Rifiuti

Finalizzazione del prodotto

Frammenti di bambù, cime e radici, rifiuti chimici

Rifiuti

NUOVA TECNOLOGIA INNOVATIVA

Biocarbone

Bambù intero Circolazione dell’acqua

Boiler

Combustibile da biomassa (frammenti di bambù, betel ecc.) e lignina*

Fornisce calore col vapore

Bollitura e carbonizzazione

Acqua post-bollitura

Calore in eccesso dalla ciminiera 40°-50°

Essiccatura

Calore in eccesso dal boiler

Frammenti di bambù

Taglio

Recupero acqua

Pressatura Prodotto

*Riutilizzata come combustibile

Recupero lignina Raccolta lignina*

Fonte: Green Street Jsc. Rifacimento grafico a cura di Elmar Sander e Katharina Olma.


Foto di Falco/Pixabay – CC0 Public Domain

Case Studies

Il sistema permette di recuperare quasi tutti i sottoprodotti del trattamento, come fibre, trucioli e altri elementi organici quali la lignina, che vengono poi utilizzati come fonte energetica.

Fornendo servizi aggiuntivi ai soggetti situati all’inizio della catena di valore dei prodotti del bambù, il settore servizi della Green Street Jsc assicura fonti di bambù locale sostenibile e di alta qualità, permettendo nel contempo alle imprese coinvolte nella catena di valore del bambù di incrementare i profitti tagliando i costi di produzione tra il 10 e il 20% e migliorando produttività e qualità del prodotto. Il settore commerciale della Green Street Jsc, poi, utilizza queste fonti per realizzare i suoi creativi pavimenti di bambù a design intelligente, mobili e decorazioni che esporta poi in Australia, Nuova Zelanda e Ue. Entro il 2018 l’innovativo modello di business basato sul recupero delle risorse della Green Street JSC fornirà servizi a 470 tra aziende della lavorazione del bambù e proprietari di oltre 70.000 ettari di piantagioni di bambù, con un introito annuo di 450.000 euro, e che raddoppierà i guadagni ogni tre anni. Il reddito annuale previsto per le attività commerciali dal 2018 è di 3,1 milioni di euro. Piattaforme di condivisione: il caso Dichung La Dichung è un’impresa sociale che fornisce ai clienti una piattaforma web finalizzata a soddisfare le loro necessità di trasporto: mette in contatto le persone che hanno bisogno di un passaggio in auto con quelle che vogliono mettere a disposizione i posti liberi dei loro veicoli. L’obiettivo è creare in Vietnam una cultura del ride-sharing, nella quale l’azienda funge da intermediario,

facendo incontrare gli utenti (passeggeri e guidatori) e facilitando il superamento delle barriere alla condivisione di veicoli. Dichung lavora anche con aziende di trasporti per fornire servizi di ride-sharing (taxi-sharing, gruppi di viaggio su pulmini) attraverso una piattaforma che è B2B (business to business) e B2C (business to customer), aiutandole a trovare ulteriori clienti – o merci – per riempire i posti vuoti sui loro veicoli. Fondata nel 2010, Dichung ha già 20 clienti commerciali in Vietnam che utilizzano la piattaforma online (il 70% dei quali sono compagnie di taxi aeroportuali, mentre il restante 30% è composto da compagnie di trasporto merci su camion), fornendo una media di 500 passaggi condivisi da città ad aeroporti e viceversa al giorno, con un guadagno medio di 147.100 euro all’anno. Ci sono anche state 233.770 corrispondenze tra proprietari di veicoli e passeggeri. Dichung ha anche diffuso la sua applicazione per cellulari, acquisendo più di 200.000 utenti nelle città di Hanoi e Ho Chi Minh, con un guadagno annuo di 90.000 euro tra pubblicità e tasse di iscrizione. Per sviluppare il database degli utenti, Dichung.vn ha avviato una campagna di marketing rivolta a studenti, funzionari, viaggiatori e turisti ed ha anche organizzato un team di volontari che offrono ride-sharing gratuitamente per le persone disabili. Infatti, a differenza di Grab e Uber che pagano i guidatori e li incentivano a usare le loro app, l’obiettivo di Dichung.vn e Dichungtaxi.com è riempire sedili di auto private e taxi che altrimenti rimarrebbero vuoti. Questo significa che Dichung aiuta i guidatori a risparmiare sulle spese per il carburante, riducendo contemporaneamente i costi dei trasporti per gli utenti dei passaggi e diminuendo gli ingorghi stradali. Dall’altra parte, Dichung pratica un modello di business innovativo a costi operativi molto bassi, dato che fornisce un servizio di condivisione senza possedere motocicli o automobili. Conclusioni I due casi studio riportati mostrano che – nonostante l’implementazione di un’economia circolare in Vietnam non sia ancora scontata – c’è comunque un grandissimo potenziale. Per trarre vantaggio dall’esempio dato da queste compagnie pionieristiche e sfruttare i vantaggi dell’economia circolare, le aziende vietnamite dovrebbero prendere in considerazione l’intera catena di valore per individuare le opportunità di rinnovamento dei loro modelli di business. Saranno necessari anche lo sviluppo di adeguate competenze, un aumento della produttività e – specialmente – una valorizzazione dei lavoratori e degli azionisti all’interno della catena di valore (a monte e a valle), affinché le aziende possano avere successo a più lungo termine, adottando un approccio basato sull’economia circolare. Infine, è essenziale un forte impegno – anche questo a lungo termine – così da assicurare lo sviluppo di idonei modelli di business e convincere gli investitori a finanziare nuove idee nel settore.

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di Rudi Bressa

Ora tocca AL SUD

Se al Nord e al Centro Italia la raccolta differenziata di carta e cartone rimane sostanzialmente invariata, è al Sud che ci sono le maggiori potenzialità di sviluppo e incremento. Comieco vara un piano straordinario, mentre Napoli e Palermo danno il buon esempio. Rudi Bressa, giornalista freelance e naturalista, scrive di ambiente, scienza, energie rinnovabili ed economia circolare per varie testate nazionali.

Dossier “La raccolta differenziata dei rifiuti urbani nel Mezzogiorno: i ritardi e le proposte per superarli e per raggiungere i nuovi target europei”, tinyurl.com/zzzbwk2

La raccolta differenziata dei rifiuti urbani in Italia è in aumento. Una crescita costante e notevole se si considerano gli ultimi dieci anni, ovvero il periodo 2005-2014. Inoltre, secondo i dati Ispra aggiornati al 2016, si è passati da un 24% a un ottimo 47,5% della produzione nazionale, con un’ulteriore crescita di 2 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Anche a fronte di una riduzione dello 0,4% nella produzione di rifiuti urbani: nel 2015 sono stati 29,5 milioni di tonnellate i Rsu prodotti, con un calo complessivo, rispetto al 2011, di quasi 1,9 milioni di tonnellate (dati Ispra, Rapporto Rifiuti Urbani 2016). A fare da locomotiva alla raccolta differenziata rimane il Nord, con 8 milioni di tonnellate, dato che rappresenta il 58,6%, mentre al Centro sono quasi 2,9 milioni le tonnellate raccolte (43,8%). Se da un lato questi numeri fanno ben sperare per il raggiungimento della quota del 50% entro il 2020, come richiesto dalla Direttiva europea 2008/98/CE, dall’altro si deve registrare un forte ritardo da parte delle regioni del Mezzogiorno: a oggi infatti solo il 33,6% dei rifiuti, dato seppur in aumento, viene raccolto e differenziato, pari a circa 3,1 milioni di tonnellate. “Per raggiungere l’obiettivo di riciclo dei rifiuti

urbani del 60% entro il 2025 (65% entro il 2030) le performance di riciclo dovranno migliorare in tutte le regioni del Mezzogiorno”, scrive la Fondazione per lo sviluppo sostenibile nel dossier “La raccolta differenziata dei rifiuti urbani nel Mezzogiorno: i ritardi e le proposte per superarli e per raggiungere i nuovi target europei”, presentato a novembre 2016 durante gli Stati Generali del Sud. “Nelle cinque regioni in ritardo dovranno essere fatti sforzi eccezionali perché sono molto lontane dai risultati richiesti e perché il trend dell’ultimo decennio, se non fosse radicalmente cambiato nei prossimi 10 anni, porterebbe a una rotta che resterebbe molto lontana da quegli obiettivi”. Molise, Calabria, Basilicata, Puglia e Sicilia sono le facce della stessa medaglia, non solo nel raggiungimento di una quota soddisfacente di raccolta differenziata, ma anche per la realizzazione di un sistema capillare e funzionale di raccolta e trattamento, che porterebbe alla crescita di investimenti e occupazione. Carta e cartone in cima alla raccolta differenziata Se andiamo a sfogliare i dati, si nota come la frazione dei rifiuti urbani maggiormente raccolta


Case Studies

21° Rapporto Raccolta, Riciclo e Recupero di carta e cartone 2015, luglio 2016, tinyurl.com/zhadbtl

Info www.comieco.org

e trattata – dopo l’organico – è quella composta da carta e il cartone. “In gran parte del Nord e del Centro Italia abbiamo una situazione di maturità della raccolta differenziata di carta e cartone che, storicamente insieme al vetro, è una delle prime attivate in Italia. Per questo motivo, a parte la Liguria, i margini di crescita non sono molto ampi”, spiega Roberto Di Molfetta, responsabile area riciclo e recupero di Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica). “Dai rapporti degli ultimi anni emerge che abbiamo molte città, in particolare al Nord, che per carta e cartone sono arrivate quasi al limite dell’intercettabilità. Di contro ci sono diversi comuni, più frequentemente al Sud e al Centro dove il livello di raccolta è ancora basso. Da qui viene il Piano per l’Italia del Sud, avviato da Comieco: proprio per andare a recuperare quei quantitativi di carta e cartone che finiscono ancora nell’indifferenziato.” Se si guardano gli ultimi dati raccolti dal Consorzio nel 21° Rapporto annuale sulla raccolta di carta e cartone, è proprio il Sud Italia a far registrare i risultati migliori: +4% nel 2015, pari a 26.000 tonnellate, rispetto all’anno precedente con 31,5 kg pro capite raccolti. L’area Sud rappresenta il 21% del totale della raccolta differenziata di carta e cartone in Italia, mentre nel 1998, all’avvio del sistema consortile, si attestava sul 5%. Aumento confermato anche nel 2016: +20.700 tonnellate nel primo semestre (ovvero un 9% in più rispetto all’anno precedente), con la raccolta “famiglie” che risulta essere la componente trainante con 140.000 tonnellate (+10,1%). “La grande sfida è sviluppare una vera raccolta ‘famiglie’ al Sud”, sottolinea Di Molfetta. “I volumi che mancano sono quelli provenienti dalla raccolta presso i nuclei familiari. Ciò è dovuto a una forte lacuna nella raccolta: in molti casi mancano le attrezzature, non si raccoglie regolarmente,

Focus Sud. La raccolta cresce, ma l’intercettazione potenziale è doppia di quella attuale Rd carta 2014 (t)

Incidenza Rd carta su Ru tot

Abruzzo

67.990

11,30%

Molise

6.565

5,30%

Campania

198.572

7,80%

Puglia

137.250

7,30%

Basilicata

17.087

8,20%

Calabria

47.074

5,70%

Sicilia

76.357

3,20%

Sardegna

73.196

9.90%

SUD

624.091

6,70%

CENTRO

759.280

11,40%

NORD

1.728.002

12,50%

ITALIA

3.111.373

10,40%

Fonte: Comieco.

Nello scenario di raccolta differenziata totale al 50% il potenziale di crescita della Rd carta si valuta in almeno 650.000 tonnellate (quasi il doppio delle 624.091 raccolte nel 2014).

con pratiche di conferimento che non seguono i canali ufficiali”. Un deficit organizzativo che porta spesso a una raccolta fatta male, spesso multimateriale. “La qualità del materiale raccolto è fondamentale, perché questo è il primo passo di un processo che finisce con l’alimentazione di una cartiera per fare nuova carta. Ma più il materiale presenta frazioni estranee, più deve essere lavorato e pulito. E quindi tutto il processo viene a costare molto di più, senza contare l’ulteriore produzione di rifiuti indifferenziati”, continua Di Molfetta. Un miglioramento costante, con ulteriori margini Secondo il Consorzio il potenziale di crescita della raccolta differenziata di carta e cartone è valutabile in almeno 650.000 tonnellate annue. Se valutiamo queste cifre in termini economici, come ritorni e minori oneri di smaltimento, il valore si aggira intorno ai 100 milioni di euro l’anno. Quantità individuabili per circa tre quarti dalla raccolta presso le famiglie e oltre il 60% in Campania e Sicilia. Non solo. Come sottolinea la Fondazione per lo sviluppo sostenibile “per la filiera della carta e del cartone, rispetto al 2014, le ulteriori 800.000 tonnellate da riciclare al 2025 porterebbe a un incremento di circa 1.400 lavoratori a cui si aggiungono – nel 2030 – altri 400 lavoratori necessari per il riciclo delle 190.000 tonnellate aggiuntive per raggiungere l’obiettivo fissato per il 2030. Complessivamente, entro il 2030, l’incremento di occupazione al Sud, determinato dal raggiungimento degli obbiettivi, sarebbe di circa 1.800 occupati nel settore della carta e del cartone”. Fattore determinante per la crescita sarà la razionalizzazione dei servizi che risultano ancora dispersi in una miriade di contratti e di affidamenti di piccola taglia e durata. Il Piano per l’Italia del Sud, gli strumenti Per raggiungere questi risultati, il Piano per l’Italia del Sud ha messo sul piatto risorse fino a 7 milioni di euro tradotte come anticipazione dei corrispettivi di raccolta. Potranno essere impiegate per realizzare interventi mirati di consulenza e supporto nella valutazione dei progetti e l’individuazione degli obiettivi di raccolta; nel supporto economico per l’acquisto di attrezzature e mezzi fino al 50% del costo in relazione a obiettivi di raccolta definiti a priori e nelle attività di comunicazione specifica. Fino a oggi sono stati attivati – o sono in corso – almeno 16 progetti che coinvolgono oltre 1,7 milioni di abitanti, con anticipazioni di circa 5 milioni e obiettivi di arrivare a 60.000 tonnellate di nuova raccolta. Non solo, ma grazie all’accordo tra Comieco e Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) nel 2016 è stato rinnovato il bando nazionale per i comuni con deficit di raccolta, stanziando tre milioni di euro in 98 comuni (il 93% al Sud), pensati per tutte quelle amministrazioni che presentavano risultati di raccolta inferiori a 30 kg/abitante e con una popolazione fino a 100.000 unità. Dal 2014 Comieco

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materiarinnovabile 14. 2017 ha contribuito a potenziare la raccolta differenziata di carta e cartone in circa 200 comuni impegnando risorse per 4,5 milioni di euro per l’acquisto di 760.000 sacchetti e scatole, 220.000 mastelli, 33.000 carrellati, 3.700 cassonetti, 25.000 contenitori salva carta, 800 roller per i negozi. Restano comunque delle difficoltà, legate principalmente alla progettazione della raccolta. “Una volta individuato il progetto il passo forse più complicato è trovare un’azienda che lo metta in pratica. Questo (problema, ndr) aumenta laddove dove non ci sono servizi organizzati a livello comunale o sovra comunale”, spiega Di Molfetta. “Spesso purtroppo i tempi di attivazione di una gara sono molto lunghi. In Sicilia siamo in grado di supportare comuni come Siracusa, Ragusa, ma stiamo aspettando che si concluda l’iter di individuazione del gestore del servizio di raccolta di rifiuti.” I casi che funzionano Ma c’è ovviamente anche un Sud che funziona, grazie appunto a progetti puntuali e interventi

strutturali. Come quello avviato a Napoli, che ha coinvolto un bacino di 200.000 abitanti, con due nuovi automezzi messi a disposizione e 7.500 nuovi contenitori per la raccolta. Un investimento di 1,35 milioni di euro con l’obiettivo di incrementare la raccolta nella città di 4.500 tonnellate. O anche come l’iniziativa “La via del cartone” avviata a Palermo lo scorso dicembre. Insieme a Rap (Risorse Ambiente Palermo) il Consorzio ha coinvolto 610 utenze commerciali, negozi di abbigliamento, librerie, ferramenta e altri, in 24 strade dove ancora non esisteva una raccolta puntuale. “Abbiamo definito un servizio giornaliero di raccolta a chiusura della giornata, nel quale Rap passa a ritirare esclusivamente il cartone, prima dell’indifferenziato”, racconta Di Molfetta. Le utenze coinvolte dal progetto sperimentale hanno risposto positivamente all’iniziativa che ha portato un incremento medio giornaliero da 800 a 1.300 kg. Secondo i dati Conai, nel 2015 il riciclo degli imballaggi di carta e cartone ha permesso la generazione di materia prima seconda pari a 329 milioni di risme di carta in formato A4. Segno che economia circolare significa innanzitutto risparmio, di risorse ed energia.

Intervista

a cura di R. B.

“Mancano una visione politica e una capacità operativa” Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile

Lo scorso ottobre la Fondazione per lo sviluppo sostenibile ha presentato il dossier “La raccolta differenziata dei rifiuti urbani nel Mezzogiorno: i ritardi e le proposte per superarli e per raggiungere i nuovi target europei”, che esamina gli attuali ritardi e fornisce alcune soluzioni per superare l’impasse nella gestione dei rifiuti nelle regioni del Sud.

www.fondazionesviluppo sostenibile.org

Dai numeri presentati nel rapporto emerge un ritardo significativo delle regioni del Mezzogiorno nella raccolta differenziata. Cosa manca ancora? “La normativa è la stessa a livello nazionale. Ci sono almeno tre regioni del Mezzogiorno che stanno facendo bene, come la Sardegna che ha superato il 50%, Campania e Abruzzo che si stanno avvicinando a queste cifre. Quindi parlerei di una situazione non omogenea per tutto il Sud. Non restano che i ritardi delle amministrazioni regionali e comunali, sia di visione politica sia di capacità operativa e gestionale del settore dei rifiuti. Una filiera, quella amministrativa, che non funziona.” Nel vostro rapporto presentate almeno dieci proposte per recuperare i ritardi registrati. Di cosa si tratta?

“Abbiamo avanzato queste proposte al ministero dell’Ambiente per attuare un accordo coinvolgendo il Conai e le regioni del Mezzogiorno e sviluppare un’attività di supporto centrale. Ovvero verificare l’impiantistica e i piani di gestione già esistenti, migliorare la qualità delle raccolte già in atto e condurre una campagna formativa e informativa in queste regioni. Poi credo siano fondamentali dei progetti pilota, mirati e puntuali, capaci di essere da esempio per le altre città.” L’economia circolare se ben attuata porta tutta una serie di benefici, non solo occupazionali. “Certo. E questo vale in particolare per la frazione umida. La filiera a essa legata – che è la più sottovalutata in queste cinque regioni – richiede però un’impiantistica adeguata per alimentare settori industriali come la produzione di biometano e della chimica verde. L’economia circolare è un settore già sviluppato nel nostro paese, che potremmo estendere anche nelle regioni del Mezzogiorno, creando occasioni di occupazione, investimento e sviluppo sano.”


Case Studies Intervista

a cura di R. B.

“Potenziata la raccolta di carta e cartone in oltre 120 Comuni” Piero Attoma, presidente di Comieco

Con uno stanziamento di 7 milioni di euro, il Piano per l’Italia del Sud varato da Comieco punta a incentivare la raccolta nelle regioni del Mezzogiorno, con l’acquisto di nuove attrezzature ma anche con la riorganizzazione del servizio. Mentre al Nord e al Centro la percentuale è sostanzialmente invariata, è il Sud ad avere le maggiori potenzialità di aumento. È così? “Esattamente. Nel 2016 al Sud si è registrata una crescita quasi del 10% (il doppio rispetto al 2015) nella raccolta di carta e cartone. Ma c’è ancora tanto da fare: se si differenziassero correttamente tutta la carta e il cartone intercettabili, potremmo arrivare a recuperare oltre 6.000 tonnellate di materiali che ancora finiscono nell’indifferenziata.” Che cos’è il Piano per l’Italia del Sud, patrocinato dal ministero dell’Ambiente?

“È un progetto di Comieco, sviluppato d’intesa con Conai e il ministero dell’Ambiente, attivato per incentivare la raccolta differenziata di carta e cartone nel Mezzogiorno attraverso l’acquisto di nuove attrezzature e campagne di comunicazione e sensibilizzazione dei cittadini. Comieco ha stanziato 7 milioni di euro a sostegno di otto regioni del Sud: Abruzzo, Basilicata, Puglia, Campania, Calabria, Molise, Sicilia, Sardegna. Gli accordi firmati in diverse città capoluogo hanno portato per esempio, nei quartieri di Palermo, 200 nuovi cassonetti con la previsione di raccogliere in 18 mesi 2.100 tonnellate in più di carta e cartone e un ulteriore posizionamento, nel 2016, di 70 cassonetti. A Messina sono state stanziate risorse per estendere la raccolta porta a porta in due quartieri e potenziare il servizio nel circuito commerciale sull’intero territorio comunale: questo intervento si aggiunge al rafforzamento della raccolta negli uffici della pubblica amministrazione e nelle scuole. D’intesa con Conai, nell’ambito della riorganizzazione del servizio di raccolta, Comieco ha stanziato 79.000 euro per le attrezzature dedicate alla raccolta della frazione cellulosica a Catania e 100.000 euro per l’acquisto delle attrezzature necessarie al potenziamento del servizio di raccolta a Catanzaro. A Napoli, invece, è stato siglato un accordo integrativo tra Comune e Asia (Azienda Speciale per l’Igiene Ambientale, ndr) per lo sviluppo della raccolta differenziata di carta e cartone con un finanziamento pari a 1,4 milioni di euro e l’obiettivo di raccogliere 9.000 tonnellate in più entro il 2017. Nella città di Bari, infine, 14 Cartonmezzi sono scesi in campo per le vie comunali per sensibilizzare i cittadini a effettuare una corretta raccolta differenziata di carta e cartone.” Quali i maggiori problemi che Comieco si trova ad affrontare in queste Regioni? “Il ritardo non è dovuto a problemi di una singola filiera, ma a difficoltà nell’organizzazione e nella gestione della raccolta differenziata in quanto tale. Bisogna individuare le strategie più efficaci per risollevare le sorti di alcune realtà nel Meridione necessarie per produrre un cambio di passo. La raccolta di carta e cartone può rappresentare un importante fattore di traino di questo sviluppo perché attorno a essa si sta consolidando quel patto civico tra gli enti locali e i settori industriali di impiego. Gli uni chiamati ad attuare efficaci politiche territoriali sotto il profilo dei servizi di raccolta; gli altri, operanti attraverso le rispettive filiere del recupero e del riciclo, tenuti a garantire il ritiro di quanto raccolto e l’impiego delle materie seconde nei propri cicli produttivi.”

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materiarinnovabile 14. 2017

Rubriche Pillole di innovazione

Sostenibilità, ultimo atto Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.

Una comunità sensibile ai problemi della sostenibilità deve essere capace di impegnarsi in prima persona. Parliamo allora di come ci si può seppellire. Dopo, ovviamente. Non in generale e arbitrariamente, voglio dire. Quando giunge il momento di abbandonare il pianeta, insomma, definizione tuttavia errata per quello che si racconta in questa pagina. Ci sono diverse tecniche. Una si basa sul congelamento della salma in azoto liquido, con una attrezzatura che realizza questo passaggio con una erogazione della sostanza attraverso ugelli che spruzzano sul corpo disteso su una piattaforma metallica. Il risultato è una struttura che di fatto è un “ghiacciato” abbastanza fragile. A questo punto il piano metallico si mette in movimento, con rapidi scossoni. Il corpo si “granitizza”, diciamo così. Poi sul materiale granulato si interviene con un processo che elimina ogni traccia di umidità, una specie di liofilizzazione. Ciò che rimane viene compattato, ottenendo una piastrella di circa cinque centimetri di spessore, piastrella che si può interrare a una profondità di venticinque centimetri circa. Dopo sei mesi la piastrella subisce un normale processo di decomposizione dal quale, però, si liberano sostanze molto nutrienti per il mondo vegetale. Ecco quindi che in quel preciso punto del terreno si potrà impiantare un alberello che, per la propria crescita, usufruirà di un acceleratore particolarmente valido. Quindi i cimiteri potrebbero trasformarsi in parchi, con alberi che portano una piccola targhetta di riconoscimento per i parenti. Ma anche, perché no?, parchi cittadini potrebbero essere popolati da ex cittadini. C’è poi l’idrolisi alcalina. Si fa così: ci vuole una macchina – già esistono negli Stati Uniti – nella quale il corpo viene immerso in una miscela di acqua e idrossido di potassio, portata a 160° e in una condizione di forte pressione. Questo evita il passaggio attraverso lo stato di bollitura (è la pressione che lo bypassa) e il risultato è una completa scomposizione del corpo in tutte le sue componenti chimiche, come peptidi, aminoacidi, zuccheri e sali vari. Siamo sempre lì, quindi: ingredienti molto utili per nutrire i vegetali. Wikipedia ci informa che in Colorado, Florida, Georgia, Idaho,

Illinois, Kansas, Maine, Maryland, Minnesota, Missouri, Oregon, Vermont e Wyoming la tecnologia è operativa. In altri stati sono emerse proteste da parte di comunità religiose e non. Ma in genere dubbi ci sono un po’ ovunque. Questo probabilmente è dipeso da un’incauta modalità di promozione dei venditori dei macchinari, i quali hanno dichiarato che il “prodotto” finale del processo è un liquido che può essere usato per irrigare le piante di un giardino (non so se hanno anche suggerito l’uso di un sottovaso), e che tutta l’operazione è anche molto valida perché la produzione di CO2 è nettamente inferiore a quella emessa dalla normale cremazione. Ma – è qui l’errore – se si vuole il liquido si può anche liberare nei dispositivi di scarico della casa. È una immagine brutta. Questi gli scenari più interessanti per la sostenibilità finale. Se restiamo negli Stati Uniti, c’è un coté di pubblico che sta creando un problema a queste nuove tecniche. Stanno infatti aumentando le richieste, da parte di motociclisti, di essere sepolti con la loro moto. Ma l’Harley Davidson, anche dissolta, fa male alle piante.


Rubriche

Il circolo mediatico

Un 2049 eco-dark Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.

P. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci 2015

Di pochi, pochissimi film si può dire che abbiano segnato e condizionato l’immaginario collettivo di intere generazioni. Probabilmente non tutti noi condivideremmo la stessa lista, ma sono pronto a giurare che tanti non potranno non inserire nell’elenco Blade Runner. Era il 1982, ormai ben trentacinque anni fa; e nonostante lo scorrere del tempo il mondo partorito dalla fantasia di Ridley Scott a partire dalla geniale immaginazione di Philip K. Dick è ancora più che mai vivo e reale nella mente di milioni di persone. Quella che si vedeva sul grande schermo, quella in cui agiva Rick Deckard, un indimenticabile Harrison Ford, la Los Angeles del novembre 2019 (pensate, mancano solo due anni), era “vera”, credibile, reale, possibile. Per la prima volta forse l’arte cinematografica riusciva a proporre una versione plausibile, e non edulcorata, non anestetizzata, non buonista, non ripulita da meravigliose tecnologie, del nostro futuro. Una versione certamente distopica, cupa, preoccupante, angosciosa. Tra qualche mese, i tanti appassionati già lo sanno, uscirà il sequel del primo film, Blade Runner 2049. Il regista è il talentuoso francocanadese Denis Villeneuve; Ridley Scott è produttore. Harrison Ford torna a indossare i panni di Deckard, mentre il ruolo del protagonista – un nuovo cacciatore di replicanti, chiamato “K” – è affidato a Ryan Gosling. Per adesso della storia, della trama e dell’ambientazione si sa poco, pochissimo. Ma dai trailer si capisce che trent’anni dopo lo stato di salute del pianeta è ulteriormente peggiorato. Al posto della Los Angeles sovraffollata e caotica ritroviamo una città diventata in gran parte disabitata e in rovina. Per chi ha letto il romanzo originale, è una situazione di degrado e disfacimento più simile a quella raccontata da Philip K. Dick, dove le conseguenze della World War Terminus condotta a suon di bombe atomiche hanno ridotto enormemente la popolazione umana, e reso un bene di valore inestimabile simbolo di ricchezza estrema un cavallo o una mucca. Però in Blade Runner 2049 troveremo qualcosa di più moderno e terribilmente contemporaneo, e preoccupante. Lo ha detto il regista Denis Villeneuve: il film si svolge in un mondo in cui “il clima è impazzito, in cui l’oceano, la pioggia, la neve, tutto è diventato velenoso”.

Non sappiamo molto di più. Vedremo a tempo debito se il sequel saprà mantenere le promesse. Se sceglierà la via della graduale morte della natura, come per esempio in Interstellar, oppure se ci presenterà uno scenario alternativo. Non sarà comunque facile per il sequel riprodurre una monolitica e integrata ma credibile visione distopica del mondo, come riuscì a fare il film del 1982. Una angosciante atmosfera di paranoia, dove si capisce che il potere delle corporation non ha limiti, in cui la polizia è onnipresente e con poteri totali sulla vita dei cittadini e delle loro copie androidi, un mondo dove uomini e animali possono essere controllati da impianti biomedici e mentali, in grado persino di costruire ricordi artificiali. Quel mondo del 2019, disse Ridley Scott, era ispirato a certi quadri notturni di Edward Hopper, ai fumetti del disegnatore francese Moebius, al paesaggio industriale dell’Inghilterra settentrionale, alle fantasiose e immaginifiche architetture del futurista italiano Antonio Sant’Elia. Nell’universo cinematico di Blade Runner protagonisti e comprimari agiscono all’interno di una catastrofe ambientale; non si capisce se solo incombente o se già avvenuta. Con continue e anomale piogge, forse acide, senza sole; con una vita naturale e animale probabilmente del tutto annientata, e ridotta a gadget nella sua versione clonata e ingegnerizzata; misteriose fiammate a simboleggiare fonti di energia certo non “pulite”. Un mondo in cui si sta talmente male, da dover scappare a ogni costo emigrando nelle colonie “extra-mondo”. Colonie nello spazio che comunque devono essere talmente terribili e orrende da obbligare i loro padroni a scatenare una continua e martellante propaganda tra le masse oppresse in questa terra denaturalizzata. Una vita dove regna la paura e la disperazione, l’apatia e l’alienazione. Quello che si può ben definire un futuro senza un futuro. E quel che più fa spavento a noi, cittadini del 2017, è che questo incubo assomiglia troppo da vicino alla nostra realtà. Per saltare dalla vita che viviamo, a questa vita solo immaginata da un pugno di grandi artisti, non serve un improvviso e drastico cambiamento. Quello di Blade Runner è piuttosto il futuro che ci aspetta se continuiamo sulla nostra strada.

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