Materia Rinnovabile #15

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RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 15 | marzo-aprile 2017 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Stefano Boeri: la verticale della bellezza •• Roberto Coizet: allargare la mappa •• Sostenibilità, il potere dell’arte

Dossier bioeconomia/Spagna: ambizione sostenibile •• Enel, ecco la formula dell’innovazione •• Biobased, neoclassici ed ex novo: i neomateriali •• Francia: quando l’unione fa la forza

Watergrabbing: i conflitti lungo il Mekong •• La resilienza dell’acqua •• Packaging versus Spreco

#Bastabufale. Anche sul clima •• Parlare di scienza a Trump: mission impossible?


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Economia Circolare: Politiche e Pratiche 3 - 5 Luglio 2017 | Venezia

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Editoriale

Città circolari di Antonio Cianciullo

La circolarità è una delle caratteristiche della natura. L’economia lineare (il passaggio miniera-merci-discarica in un ciclo sempre più veloce) in realtà non blocca la circolarità: la devia. Se affidiamo a sepolture precarie e clandestine milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi creiamo una circolarità dei veleni: offriamo le falde idriche come vene pronte all’iniezione letale. Se invece progettiamo le merci per il recupero degli elementi che le compongono e costruiamo una catena di utilizzo degli scarti, torniamo a una forma di circolarità naturale, alla logica della vita che condanna la stupidità all’estinzione: invece di sostanze dannose produciamo posti di lavoro legali, fatturato, materia per alimentare un nuovo circuito produttivo. La scelta che abbiamo di fronte dunque non è tra due modelli industriali. È tra un sistema autolesionista che già fatica a schivare i contraccolpi prodotti dall’accumulo degli scompensi ambientali e un sistema che riesce a mantenere l’equilibrio e può guardare ai tempi lunghi. Le città costituiscono un banco di prova per questa scelta. Anche se forse non dovremmo parlare di “città”. Il dizionario enciclopedico della Treccani per definire questo concetto suggerisce: “centro abitato di notevole estensione, con edifici disposti più o meno regolarmente, in modo da formare vie di comoda transitabilità, fornito di servizi pubblici e di quanto altro sia necessario per offrire condizioni favorevoli alla vita sociale”. Non è quello che è accaduto in molte città italiane a partire dal dopoguerra. Non sono state le case ad adattarsi all’espansione programmata dei servizi pubblici, ma i servizi pubblici a inseguire le case, che a loro volta inseguivano le mappe indichiarabili degli interessi fondiari. L’espansione caotica del tessuto urbano ha così privato le campagne della loro natura senza concedere ai territori ingombrati dal cemento a bassa densità lo status di urbe. Come nel caso delle discariche pirata, questo modello dissipatore ha sparso veleni. Veleni fisici, che si misurano con la violazione dei parametri di legge sulla qualità dell’aria. E veleni sociali, che sono cominciati a emergere più visibilmente quando la crisi e l’immigrazione hanno fatto saltare gli equilibri precari delle periferie. Di fronte a questa situazione di pericolosa illegalità, l’economia circolare appare come una cura non solo possibile ma necessaria. In 40 anni in Italia il terreno agricolo ha subito una drastica dieta dimagrante: ha perso 5 milioni di ettari,

un’area equivalente alla somma di Lombardia, Emilia Romagna e Liguria. E, di questa enorme superficie, ben un milione e mezzo di ettari sono stati sepolti da villette, capannoni, strade, svincoli, tralicci, discariche. Il 7% del territorio nazionale è impermeabilizzato, una percentuale decisamente superiore alla media europea. Come rimediare? Per porre un argine ai danni occorre non solo ridurre il consumo di suolo, ma invertire la rotta recuperando a una destinazione verde il terreno asfaltato e cementificato. In altre parole far entrare la natura in città riqualificando parti critiche del contesto urbano. Ma per farlo, per guadagnare superficie, occorre sviluppare l’edificato verso l’alto guadagnando spazio per gli alberi e per la qualità della costruzione. È il modello che, in un’intervista di Marco Moro pubblicata in questo numero di Materia Rinnovabile, difende Stefano Boeri: “Gli edifici diventano habitat non solo per gli uomini ma anche per piante e animali. E allo stesso tempo, oltre ai vantaggi in termini di salute e qualità della vita, intervengono in modo diretto sul bilancio dell’economia urbana. Gli alberi in un contesto urbano contribuiscono a diminuire le temperature all’interno degli edifici dai 2° ai 5°C, consentendo una riduzione del 30% nella climatizzazione degli ambienti e garantendo in questo modo un notevole risparmio energetico. Inoltre il verde trattiene l’acqua, riducendo il rischio di inondazioni e allagamenti, con i benefici economici che questo comporta. Un insieme di azioni e fattori che rendono i progetti come il Bosco Verticale strumenti per recupero e ottimizzazione delle risorse, idriche ed energetiche”. Gli edifici smart (cioè non stupidi dal punto di vista biologico evolutivo) costituiscono una condizione necessaria ma non sufficiente per la definizione di una città che faccia il salto dalla circolarità dei veleni alla circolarità virtuosa. Rappresentano l’hardware del nuovo modello. Il software è dato dalle interconnessioni energetiche virtuose di cui parla Ernesto Ciorra (responsabile della divisione sostenibilità e innovazione di Enel), dalla water resilience del gruppo Cap descritta da Emanuele Bompan, dalla filiera del recupero dei materiali provenienti dal circuito demolizione e costruzione raccontata da Roberto Coizet. Sommando queste esperienze si ottiene un modello concreto e conveniente anche dal punto di vista economico. Si tratta di creare il quadro normativo che permetta a queste realtà di vincere la durissima battaglia per la conquista dei mercati del ventunesimo secolo. È una delle battaglie su cui la politica dovrebbe misurarsi.


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M R

15|marzo-aprile 2017 Sommario

MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE

Antonio Cianciullo

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Città circolari

Marco Moro

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Non dimenticare la bellezza Intervista a Stefano Boeri

Carola Marzullo

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Il potere dell’arte Intervista ad Anne-Marie Melster

Sergio Ferraris

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L’innovazione ha la sua formula Intervista a Ernesto Ciorra

Roberto Coizet

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Occorre allargare la mappa

Emanuele Bompan

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Mekong, il fiume conteso

Diego Tavazzi

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Neoclassico o ex novo? Intervista ad Anna Pellizzari ed Emilio Genovesi

Mario Bonaccorso

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www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014

Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Stefano Boeri, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Ernesto Ciorra, Roberto Coizet, Thomas Cristofoletti, Isabel Garcia Carneros, Adrian Deboutiére, Emilio Genovesi, Laurent Georgeault, Roberto Giovannini, Marco Gisotti, Jose Manuel Gonzalez, Sergio Ferraris, Anne-Marie Melster, Carola Marzullo, Letizia Palmisano, Anna Pellizzari, Federico Pedrocchi, Riccardo Pravettoni, Diego Tavazzi, Javier Velasco Alvarez

Think Tank

Direttore responsabile Antonio Cianciullo

Ringraziamenti Camilla Pusateri (Stefano Boeri Architetti) Caporedattore Maria Pia Terrosi Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi

Impaginazione Michela Lazzaroni Traduzioni Erminio Cella, Laura Coppo, Franco Lombini, Meg Anna Mullan, Mario Tadiello Errata corrige Segnaliamo un errore nell’articolo di Irene Ivoi “Quando il design incontra l’esistente” uscito sul numero 14/2017 di Materia Rinnovabile: il laboratorio è RISE – Valorizzazione delle risorse nei sistemi produttivi e territoriali di Enea. Segnaliamo un errore nella versione inglese dell’articolo di Mario Bonaccorso “The Liquid Continent” uscito sul numero 13/2016 di Renewable Matter: il nome corretto di Braudel è Fernand.

Policy

Design & Art Direction Mauro Panzeri

Dossier Spagna Ambizione sostenibile


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Coordinamento generale Anna Re

Adrian Deboutière e Laurent Georgeault

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Quando l’unione fa la forza

a cura dell’Institut de l’économie circulaire, Parigi

M. G. e L. P.

Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it

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Focus packaging vs spreco alimentare Carta e cartone diventano smart

Focus packaging vs spreco alimentare Come è cambiata questa lattina

Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi)

M. G. e L. P.

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Focus packaging vs spreco alimentare Acciaio, una cassaforte della natura

Emanuele Bompan

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Water Resilience

Roberto Giovannini

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Il circolo mediatico Una bussola contro la disinformazione

Rubriche

Case Studies

Marco Gisotti e Letizia Palmisano

Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale

Federico Pedrocchi

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Pillole di innovazione La scienza in trincea

Copyright ©Edizioni Ambiente 2017 Tutti i diritti riservati

In copertina Maurice Mbikayi (Repubblica Democratica del Congo, 1974), Techno Addict, 2015. L’artista si concentra sull’e-waste, le discariche di rifiuti elettronici che avvelenano l’Africa, e ne attinge materiale per le sue opere. Dalla mostra “We Call It Africa”. Artisti dell’Africa Subsahariana. Courtesy Officine dell’Immagine, Milano


materiarinnovabile 15. 2017

Non dimenticare

LA BELLEZZA Intervista a Stefano Boeri di Marco Moro

È nelle città che oggi si concentrano i temi chiave dell’economia circolare; negli scenari urbani il rapporto tra ambiente e attività umane va coniugato con nuove formule. Senza trascurare il valore aggiunto della bellezza. Per sua natura la città si propone come motore di accelerazione di formule integrate di economia circolare. La stretta vicinanza tra i cittadini, le attività produttive, le reti commerciali, i fornitori di servizi, gli enti di formazione e le istituzioni, crea una piattaforma ideale per attivare rapidamente forme efficaci di collaborazione e di modelli di business che chiudono il cerchio. La città agisce come hub per la circolazione di materiali e servizi, offre competenze diversificate e contemporaneamente clientela attenta a nuove sperimentazioni. Se guardata come strumento per attrarre e rimettere in circolazione i “nutrienti” (siano essi tecnologici, biologici o culturali), la città racchiude – nell’accezione più concentrata – le parole chiave dell’economia circolare: materia, servizio, rete, formazione, integrazione. È quindi in particolare agli scenari urbani che bisogna rivolgere lo sguardo se si vogliono individuare le soluzioni più innovative con cui questo ruolo può prendere concretamente forma. Realizzando il celebratissimo Bosco Verticale, Stefano Boeri ha proposto una visione della città in cui il rapporto tra attività umane e ambiente viene coniugato secondo formule nuove, riuscendo in una sintesi di obiettivi fin qui considerati inconciliabili, come per esempio l’elevata densità abitativa, la garanzia di un rapporto equilibrato tra superfici verdi e costruite e la conservazione della biodiversità anche in ambito urbano. Dal successo dell’edificio realizzato a Milano – vincitore dell’International Highrise Award 2014 e premiato come “grattacielo più bello e innovativo del mondo” – si è sviluppata non solo una vasta serie di architetture alberate proposte anche

da altri progettisti in diverse parti del mondo, ma lo stesso Boeri ha elaborato progetti a scala urbana, che esaltano il potenziale del vertical foresting sul piano del miglioramento della qualità ambientale e abitativa e del contenimento dei consumi di suolo ed energia. Materia Rinnovabile ha raggiunto l’architetto milanese nel suo studio per un confronto sul ruolo della città e della cultura progettuale nella transizione verso modelli di relazione tra ambiente e società orientati alla sostenibilità. Come pensa che debba cambiare la cultura di chi progetta, pianifica e amministra le città per fare di questi organismi davvero degli hub di una nuova economia? Anzi per trasformarli in qualcosa di molto di più, dei luoghi in cui il rapporto tra attività umane, risorse e società si rifonda su nuove basi? “Oggi dobbiamo fare i conti con risorse che non sono più infinite; che si sono esaurite o sono sempre meno disponibili, come la terra, le materie prime, le risorse di investimento pubblico. Per questo sono fondamentali le risorse sociali e intellettuali che sono male utilizzate o addirittura disprezzate, come le culture cosmopolite che oggi abitano le nostre ‘città mondo’ o le centinaia di giovani imprese creative che sostengono, senza essere riconosciute, l’economia delle nostre città. Ma non basta: oggi dobbiamo anche imparare a sfruttare al meglio sinergie e connessioni tra risorse diverse e apparentemente lontane. Unire entro un ciclo unico – come quello della nutrizione, o del sapere, o della rigenerazione urbana – filiere produttive, processi ed energie che nascono da mondi diversi e coprono fasi diverse del percorso di produzione e consumo delle merci e dei servizi.

Pagina a destra: Bosco Verticale si propone come un modello per la realizzazione di edifici residenziali sostenibili che alla funzione abitativa integrano quella di riforestazione metropolitana, contribuendo alla rigenerazione dell’ambiente e della biodiversità senza espandere ulteriormente la città sul territorio. “Una casa per gli alberi abitata dagli uomini”, così la definisce lo stesso progettista. Il primo Bosco Verticale, realizzato a Milano, è composto da due torri residenziali di 110 e 76 metri di altezza: ospita 900 alberi (alti 3, 6 o 9 metri), oltre 20.000 piante e una vasta gamma di arbusti e piante floreali distribuiti in base alla posizione della facciata rispetto al sole. Se disposta su un piano orizzontale la stessa quantità di alberi occuperebbe una superficie di 7.000 metri quadrati.

©Stefano Boeri Architetti

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materiarinnovabile 15. 2017 Senza mai sottovalutare l’effetto moltiplicatore che la bellezza, la coerenza estetica, l’eleganza dello stile, hanno sul valore economico e commerciale di un prodotto. La bellezza non è una condizione stabile, non si costruisce a tavolino; ma sappiamo che in Italia – nella storia del design, della moda, del cinema, dell’arte – è stata quasi sempre il frutto di una combinazione di semplicità e inventiva. Non ci sono garanzie per raggiungere la bellezza, ma tra le sue condizioni preliminari, c’è certamente quella di saper ‘fare di più con meno’. La bellezza è un valore aggiunto che quando si posa su un oggetto ne accelera, quasi per contagio, la comunicazione; è una risorsa straordinaria che premia spesso chi sa disciplinare il proprio talento creativo e usarlo per offrire nuova vita a risorse limitate. Per esempio a un pezzo di marmo, a un lampione e a un tubo di acciaio.”

Foto di Iwan Baan

L’infrastrutturazione digitale è stata descritta come una nuova determinante nella trasformazione della città, dopo quelle rappresentate dalla realizzazione delle reti energetiche e dai trasporti. Che rapporto vede tra questa fase di trasformazione digital based e l’instaurarsi di nuove forme di uso dello spazio? “Penso al tema dell’energia. La sfida oggi è compensare la crisi del modello centralizzato tradizionale, con la graduale crescita di un ciclo dell’energia che nasca dalla diffusione nei territori di migliaia di ‘reti intelligenti’ di produzione e distribuzione di energia pulita. Usando le tecnologie dell’informazione digitale per favorire lo scambio di informazioni e la condivisione dell’energia prodotta. Non basta più costruire edifici-collettori di energia solare ed eolica. Servono edifici che, a partire dalle nostre infrastrutture sociali diffuse – le scuole, i teatri, i musei – fungano anche da accumulatori e distributori di energia. Edifici che funzionino

come micro-centrali elettriche, grazie per esempio alle innovazioni nell’uso dell’idrogeno come accumulatore e di altri dispositivi che permettono di conservare l’energia prodotta localmente. Ed è proprio da qui, dalla trasformazione della natura dei terminali ultimi di consumo che nasce l’idea di un nuovo ciclo dell’energia che, come ha proposto Jeremy Rifkin, porti gradualmente a realizzare degli edifici che assorbono e conservano più energia di quanto serva per il loro sostentamento. E che siano, quindi, in grado di offrirne e venderne di continuo al loro intorno: ai vicini, ai condomini, al quartiere.” Quale è a suo avviso il soggetto, o i soggetti, che in questo scenario hanno la maggiore potenzialità per agire come driver della trasformazione? La società civile, ossia le persone, i cittadini? Le istituzioni? Le imprese? “‘Fare di più con meno’ significa che lo sviluppo economico non è solo una variabile dei meccanismi finanziari e delle relazioni internazionali tra le banche centrali. Rilanciare l’Italia significa progettare un nuovo rapporto tra la società, lo Stato e i suoi territori. Capire che il valore aggiunto che l’Italia può offrire nasce proprio da un’antica attitudine a vivere ogni processo economico come un progetto di territorio, a considerare il rischio di impresa una variabile delle relazioni sociali, a trasmettere ai prodotti artigianali e industriali le caratteristiche distintive delle donne, degli uomini e dei luoghi da cui nascono.” Dal Bosco Verticale alla Città Foresta: che ruolo possono avere questi progetti nel dare corpo a una “bioeconomia urbana”? Si tratta di progetti mossi da un intento dimostrativo o si propongono come elementi di una strategia che fa capo a una nuova visione di città?

Stefano Boeri è professore Ordinario di Urbanistica presso il Politecnico di Milano e ha insegnato come guest professor in diversi atenei internazionali, tra i quali la Harvard Graduate School of Design di Cambridge, l’Istituto Strelka di Mosca, il Berlage Institute di Rotterdam e l’École Polytechnique Fédérale di Losanna. È stato progettista e membro del comitato scientifico dello Skolkovo Innovation Center, polo di alta tecnologia nei pressi di Mosca. Oggi dirige il Future City Lab della Tongji University di Shanghai, un programma di ricerca post-dottorato dove si anticipa la mutazione delle metropoli planetarie. È stato assessore alla Cultura del Comune di Milano dal 2011 al 2013. Dal 2015 fa parte del comitato scientifico della Galleria degli Uffizi di Firenze. Boeri ha diretto riviste internazionali quali Domus (2004-2007) e Abitare (2007-2011) e ha pubblicato articoli su numerose testate. È autore di diversi libri tra cui: Biomilano. Glossario di idee per una metropoli della

Gli alberi in un contesto urbano contribuiscono a diminuire le temperature all’interno degli edifici dai 2° ai 5°C, consentendo una riduzione del 30% nella climatizzazione degli ambienti e garantendo in questo modo un notevole risparmio energetico.

Pagina a destra: Il Bosco Verticale di Nanchino, i cui lavori dovrebbero concludersi ne 2018, è il terzo prototipo – dopo Milano e Losanna – di un progetto sulla demineralizzazione e forestazione urbana che Stefano Boeri Architetti sta portando avanti in tutto il mondo e, in particolare, in altre città della Cina, tra cui Shijiazhuang, Liuzhou, Guizhou, Shanghai e Chongqing. L’interesse in Cina verso i progetti di Vertical Forest e Forest City è confermato dalla pubblicazione, ad aprile, del libro A Forest City, a cura di Stefano Boeri Architetti Cina e pubblicato dalla Tongji University Press.

biodiversità (Corraini, 2011), Fare di più con meno (il Saggiatore, 2012), A vertical forest. Instructions booklet for the prototype of a forest city (Corraini, 2015) e La città scritta (Quodlibet Edizioni,2016). Nel 2015, Boeri è stato chiamato alla conferenza internazionale sul clima COP21 a Parigi, dove ha esposto il progetto di Città Foresta. Attualmente lo studio è impegnato in progetti internazionali come il Masterplan per Tirana 2030; la realizzazione della Tour des Cedres a Chavannes (Losanna); il Piano generale della Repubblica di San Marino e progetti pubblici e residenziali in Cina, che riprendono l’idea del prototipo milanese del Bosco Verticale. Di recente, lo studio Stefano Boeri Architetti è stato chiamato a realizzare il progetto della nuova mensa scolastica di Amatrice, costruita con i fondi raccolti dalla campagna nazionale promossa in seguito al sisma che ha colpito l’Italia centrale nell’agosto del 2016.


©Stefano Boeri Architetti ©Stefano Boeri Architetti

E in questa visione la natura, il verde, entra come elemento di qualità ambientale e dell’habitat o anche come parte vitale dell’economia urbana? “La sfida alla base del Bosco Verticale e dei progetti di Città Foresta che stiamo portando avanti in Cina è proprio quella di aprire nuove possibilità in termini di integrazione tra natura e architettura, dando vita a una visione della città completamente nuova. Gli edifici diventano habitat non solo per gli uomini, ma anche per piante e animali. E allo stesso tempo, oltre ai vantaggi in termini di salute e qualità della vita, intervengono in modo diretto sul bilancio dell’economia urbana. Gli alberi in un contesto urbano contribuiscono a diminuire le temperature all’interno degli edifici dai 2° ai 5°C, consentendo una riduzione del 30% nella climatizzazione degli ambienti e garantendo in questo modo un notevole risparmio energetico. Inoltre il verde trattiene l’acqua, riducendo il rischio di inondazioni e allagamenti, con i benefici economici che questo comporta. Un insieme di azioni e fattori che rendono i progetti come il Bosco Verticale strumenti per recupero e ottimizzazione delle risorse, idriche ed energetiche.” Economia circolare, altra sfida per il mondo della progettazione. Il costruire è attività a elevato consumo di risorse e con livelli


materiarinnovabile 15. 2017

A destra: Taranto Calling è uno dei tre progetti vincitori del concorso di idee OpenTaranto che ha come obiettivo la riqualificazione del centro storico di Taranto – la Città Vecchia – un’isola tra due mari, oggi in stato di abbandono, nonostante le sue straordinarie potenzialità. La proposta progettuale prevede una serie di interventi fisici e immateriali volti a migliorare la qualità della vita configurando un sistema di welfare urbano e un sistema di infrastrutture sociali per rafforzare la comunità urbana e fornendo servizi per i residenti permanenti e temporanei. Lo spazio pubblico diviene l’asse portante della trasformazi­one, definendo una maggiore permeabilità e accessibilità, fuori e dentro l’isola, e costruendo un rapporto di continuità con il mare, troppo spesso negato.

di “circolarità” ridicolmente bassi, in molte realtà (Italia compresa). Quali sono a suo avviso le principali strade che la cultura progettuale e le politiche urbane possono intraprendere per raggiungere risultati efficaci in questo ambito? “Il tema dell’economia circolare richiede un’inversione di rotta nell’attuale politica economica del nostro paese. Una delle prime sfide che le politiche urbane devono affrontare, da qui ai prossimi anni, è quella legata al legno, materiale ecologico per eccellenza e risorsa insostituibile per il nostro territorio, considerando che in Italia la quantità di foreste spontanee continua

©Stefano Boeri Architetti

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ad aumentare per l’abbandono dei campi e dei villaggi appenninici. Per cambiare direzione verso una netta riduzione del consumo di risorse nell’edilizia, serve un progetto nazionale: un sistema di distretti del legno distribuiti su tutto il territorio e una filiera che copra l’intero ciclo di vita e utilizzo del legno, dal taglio fino al riciclo e al reinserimento nel ciclo produttivo. Come nel secolo scorso il carbone e l’acciaio hanno regolato un intero modello di produzione, ora è il momento di investire sui boschi e le foreste per arrivare a immaginare un paesaggio in cui la forestazione, anche urbana, diventi un modello economico, oltre che un tema ambientale e sociale.”


©Stefano Boeri Architetti

©Stefano Boeri Architetti

A destra: La nuova mensa per Amatrice è un progetto sviluppato grazie alla campagna di raccolta fondi “Un Aiuto Subito, Terremoto Centro Italia”, promossa da Il Corriere della Sera, TgLa7, Tim e Starteed. Il progetto “Amate Amatrice” rappresenta una sfida per i tempi brevi di realizzazione richiesti e per il budget quasi interamente limitato al costo dei materiali. Grazie alla versatilità degli edifici, in caso di necessità la loro destinazione d’uso potrà essere rapidamente modificata, una volta che la città sarà ricostruita e necessiterà di ulteriori servizi. Il primo edificio a essere realizzato è la mensa scolastica; in seguito sarà costruito il polo della ristorazione intorno alla corte aperta. La struttura sarà un luogo a disposizione della comunità e un punto di riferimento per i centri circostanti. In termini occupazionali darà lavoro a circa 130 persone.

A sinistra: Tirana 030 rappresenta la “visione” per il futuro di Tirana da qui al 2030. Tirana è una città con altezze medie non elevate, ma una densità tra le maggiori d’Europa, come se fosse stata compressa sacrificando tutti gli spazi aperti. La strategia punta a far leva sul vuoto per generare spazio pubblico, e sulla natura e sull’agricoltura per assorbire le diversità e le complessità interne ai nuovi confini urbani. Tra gli interventi proposti vi sono: un sistema boschivo continuo intorno alla metropoli; nuovi corridoi ecologici lungo i fiumi; un anello verde di circonvallazione realizzato intorno alla grande Tirana come spazio pubblico lineare e di mobilità di raccordo; il rilancio dei centri minori come network diffuso di poli turistici, agricoli e produttivi in comunicazione tra loro e con l’area urbana.


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ARTPORT_COOL STORIES IV: Katja Loher: yellow present, 2014

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Il potere

DELL’ARTE Intervista ad Anne-Marie Melster

Grazie al suo forte potere comunicativo il gesto artistico può generare sensibilità verso un agire sostenibile. Aumentando la consapevolezza sulla tutela dell’ambiente e spingendo le persone a modificare i propri comportamenti. di Carola Marzullo

ARTPORT_making waves è un collettivo curatoriale che grazie all’arte provoca e stimola l’agire sostenibile. Una piattaforma internazionale che unisce realtà lontane con un approccio interdisciplinare il cui scopo è diffondere consapevolezza e riflettere con mezzi creativi su soluzioni quotidiane e globali per la tutela dell’ambiente. Ce ne parla una delle fondatrici, Anne-Marie Melster. Co-fondatrice ed executive director di ARTPORT_making waves, Anne-Marie Melster è curatrice, autrice e consulente. Si occupa d’arte, educazione, ambiente e natura.

Com’è nata l’idea di ARTPORT_making waves? “Io e Corinne Erni ci siamo conosciute a New York nel 2004 e un anno dopo abbiamo deciso di creare assieme un collettivo curatoriale incentrato su arte e cambiamenti climatici. Se all’inizio l’idea di ARTPORT_making waves ha suscitato una certa ilarità, oggi i temi trattati sono alla base di un movimento che siamo fiere di aver stimolato. Il nostro scopo era introdurre un approccio ambientale nel mondo dell’arte contemporanea, combinando progetti in grado di sensibilizzare il pubblico verso un agire più sostenibile. Con la nostra iniziativa volevamo contribuire a un cambiamento sociale: la formula del collettivo curatoriale permetteva di coinvolgere curatori associati da altri paesi.” Perché parlare di cambiamenti climatici attraverso l’arte? Qual è il rapporto tra sensibilizzazione e linguaggio artistico? “L’arte ha sempre avuto il potere di comunicare contenuti sociali importanti. Per esempio per i giovani il nesso tra cambiamenti climatici e cibo è lampante quando vedono un video artistico sugli incendi di foreste per fare spazio ai pascoli di bestiame o alle monocolture per alimentare le popolazioni. Il modo più efficace per coinvolgere le persone a cambiare le proprie abitudini è di lavorare direttamente con il pubblico. Le persone si sentono più vicine all’arte che ai quotidiani o alla verità scientifica nuda e cruda. L’arte contemporanea ha il potere di mostrare i fatti, rivelare la conoscenza scientifica e le esperienze locali, ma – attraverso le immagini – è anche in grado di provocare reazioni. La realtà acquista maggior interesse e diventa più comprensibile se spiegata attraverso video artistici che agiscono sui sensi


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ARTPORT_COOL STORIES IV: Katja Loher: purple future, 2014

ARTPORT_COOL STORIES IV: Katja Loher: green present, 2014

Think Tank

Quando arriviamo in una nuova area geografica non proponiamo progetti preconfezionati. Preferiamo lavorare con partner locali, lasciandoli liberi di scegliere le tematiche più importanti da affrontare.

e aprono la mente dello spettatore. Inoltre può essere un elemento unificante che riunisce intorno allo stesso tavolo professionisti di diverse discipline per discutere delle possibili soluzioni. ARTPORT_making waves lavora su più fronti [produzione artistica, creazione di eventi e fruizione per il pubblico, ndc] anche attraverso il servizio di consulenza che forniamo per coinvolgere imprese e istituzioni interessate a trovare il modo di realizzare mostre e pubblicazioni più sostenibili.” Mi interessa in particolare il vostro sguardo internazionale: quali sono i paesi più

ARTPORT_making waves: Barthélémy Toguo: Bandjoun Station workshop presso Grand Palais/COP21, Parigi. Foto di Maxime Riché, 2015

“Ciò che non si compra o non si usa, non sarà prodotto, non sarà sprecato. Meno è meglio. Questo è ciò che vogliamo ispirare.”

sensibili e ricettivi alle questioni ecologiche in ambito artistico? “Il Messico e l’India sono paesi estremamente sensibili, dove le persone non hanno un tenore di vita occidentale e tutti i giorni devono fare i conti con gli effetti dei cambiamenti climatici. Studenti, alunni, artisti, curatori, cineasti: in questi paesi sono tanti a essere coinvolti... Abbiamo no profits in Germania, Francia, Spagna e Svizzera. Negli Stati Uniti collaboriamo con la New York Foundation for the Arts. Lavoriamo a livello internazionale: scegliamo il paese dove vogliamo avviare un nuovo progetto o attraverso i nostri collaboratori o grazie a eventi interessanti come conferenze, dove possiamo rivolgerci a un pubblico specifico. Quando arriviamo in una nuova area geografica non proponiamo progetti preconfezionati. Preferiamo lavorare con partner locali, lasciandoli liberi di scegliere le tematiche più importanti da affrontare. In questo modo abbiamo lavorato con centinaia di bambini a Cancun, in Quintana Roo, nell’ambito della COP15, e poi a Miami, sul problema dell’innalzamento del livello dei mari, con i contributi e le soluzioni individuate dai bambini attraverso la creazione di opere d’arte realizzate con materiali locali. I bambini hanno proposto idee su come loro e i loro genitori avrebbero potuto cambiare il proprio comportamento e diventare più rispettosi nei confronti della natura.” Qual è il ruolo della Sustainable Art nel panorama dell’arte contemporanea? “Molti artisti si stanno concentrando sull’arte impegnata socialmente e sui cambiamenti climatici. Espongono in musei importanti, sono presenti in gallerie influenti e le loro opere vengono acquistate da grandi collezionisti a livello mondiale. Con questo movimento,


ARTPORT_(Re-) Cycles of Paradise, COP15, Copenaghen panoramica dell’installazione Hall 55_3, 2009

l’arte si trasforma da mero bene di lusso in importante veicolo per la società. L’arte contemporanea ha sempre rappresentato temi in voga. Siamo contenti che qualcosa di cui ci occupiamo da oltre dieci anni – prendersi cura del pianeta – sia diventato una vera corrente in campo artistico. Ha avuto inizio qualche anno fa, ma è stato in particolare grazie alla COP21, la Conferenza delle Nazioni Unite di Parigi sui cambiamenti climatici, che ha acquisito grande slancio. Spero che questo movimento continui, che le persone non saltino a bordo del treno della moda di tendenza dei ‘cambiamenti climatici’, ma che tutti assumano seriamente le proprie responsabilità anche quando i prezzi di mercato diminuiranno e altri temi diventeranno più allettanti.”

(Re-) Cycles of Paradise è una vostra mostra sul rapporto tra arte, cambiamento climatico

ARTPORT_COOL STORIES IV: Magdalena Correa: PARALLELS 11 e Magdalena Correa_PARALLELS 7, 2014

Nel 2016 ARTPORT_making waves ha presentato COOL STORIES for When the Planet get Hot IV al Socrates Sculpture Park di New York. Mi parli di questa collaborazione e della singolare scelta espositiva di accogliere il pubblico all’interno di container… “Socrates Sculpture Park è un’istituzione newyorkese che condivide i nostri stessi obiettivi: rendere l’arte accessibile a un pubblico più ampio e usare spazi pubblici per coinvolgere i visitatori in una discussione su temi socialmente impegnati. Li conosciamo da alcuni anni e abbiamo proposto una proiezione pubblica nel loro parco di una selezione di COOL STORIES I-IV (una raccolta di cortometraggi di artisti internazionali incentrata sul tema dei cambiamenti climatici a cura di ARTPORT_making waves e Socrates). Il miglior modo per proiettare video all’aperto è usare

un enorme schermo Led, o uno gonfiabile (entrambi producono emissioni di CO2), oppure farlo in un container. Abbiamo scelto di utilizzare container di recupero che offrono riparo dal sole e dalla pioggia, possono essere posizionati ovunque, creano un’atmosfera intima e permettono allo spettatore di immergersi completamente nei video. Una combinazione perfetta.”

I nostri obiettivi: rendere l’arte accessibile a un pubblico più ampio e usare spazi pubblici per coinvolgere i visitatori in una discussione su temi socialmente impegnati.

Ricercatrice in arte contemporanea Carola Marzullo porta avanti i suoi studi tra Parigi e Milano. Laureata nel 2015 all’Università Sorbona in storia dell’arte, ha collaborato con diverse istituzioni del campo tra cui il Centre Pompidou.

ARTPORT_making waves, artport-project.org


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Un approccio poetico agli aspetti del riciclo, della penuria idrica e di come usare i materiali naturali e di scarto.

ARTPORT_COOL STORIES IV: Lia Chaia: Eating Landscapes 1, 2014

A Materia Rinnovabile siamo molto interessati alla questione del riciclo: può farmi il nome di uno dei vostri artisti legato a questo tema? “In questo contesto, il riciclo e il riuso sono paradigmi importanti. Potrei citarle diversi artisti: Nnenna Okore, Betsabeé Romero, Perla Krauze, George Steinmann (lavora con minerali presenti nelle acque alpine e li trasforma in quadri), Charley Case, Meschac Gaba, Ander Azpiri e alcuni artisti indiani. Lavorano molto con materiali di recupero trasformandoli in opere d’arte, installazioni, sculture. Ma adottano anche approcci scientifici, per esempio portando avanti ricerche, con conferenze e tavole rotonde.”

ARTPORT_(Re-) Cycles of Paradise, panoramica della sala, LACE, Los Angeles, 2012. Foto di Joshua White

e gender; l’opera di Nnenna Okore Mother. Nature incarna con sensibilità la questione: può parlarmene? “Mother.Nature di Nnenna Okore, appositamente creata per questa mostra, è un’installazione di cinquanta contenitori realizzati in carta e cera le cui forme richiamano pance in gravidanza. L’opera mostra come le qualità materne di una donna possano estendersi al ripristino e alla conservazione delle risorse naturali. L’installazione non solo rappresenta il contributo e l’attitudine africana all’interno della mostra e una risposta concreta e materica alle opere tecnologiche esposte, ma costituisce anche un approccio poetico agli aspetti del riciclo, della penuria idrica e dell’uso dei materiali naturali e di scarto nei paesi africani per far fronte agli effetti dei cambiamenti climatici. L’opera rispecchia la nozione di ‘adattamento’ nel discorso sui cambiamenti climatici.”

ARTPORT_(Re-) Cycles of Paradise: Nnenna Okore: Mother.Nature. CCEMX, Città del Messico/COP16. 2010-2011. Foto di CCEMX

Think Tank

ARTPORT_COOL STORIES IV: Ivan Puig: Tierra y Libertad 3, 2014

ARTPORT_(Re-) Cycles of Paradise: vista della sala con le opere di Romero, Anita Glesta, Ander Azpiri, 2010-2011. Foto di CCEMX

Quali sono i prossimi progetti di ARTPORT_making waves? “Stiamo preparando un corposo progetto sul cibo e la produzione alimentare in India che verrà presentato anche in Germania. Stiamo anche mettendo a punto la nuova edizione del concorso di Video Art COOL STORIES V AFRICA! dedicato agli artisti africani e un progetto interdisciplinare per Valencia (Spagna) che nel 2017 sarà la Capitale mondiale del cibo. E ce ne sono molti altri non ancora ufficiali.”


L’INNOVAZIONE ha la sua formula Intervista a Ernesto Ciorra

Il racconto del cambiamento di Enel, top five nella classifica 2015 Change the World di Fortune, parte da un’inversione di rotta a 180 gradi rispetto a ciò che era l’utility anche solo pochi anni fa. Ora è un’azienda che considera l’innovazione il presupposto della sostenibilità, la chiave essenziale per affrontare le sfide poste dalla generazione energetica diffusa, dalla mobilità elettrica, dall’Internet of things e dalle smart cities. Con il coraggio – a volte – di fare i conti con il proprio passato. di Sergio Ferraris

Le utilities devono cambiare pelle. E lo devono fare seguendo una direzione diversa rispetto a quella precedente, imposta principalmente dalle questioni ambientali. Clima in testa, ma non solo. Rinnovabili, efficienza energetica domestica e industriale, economia circolare, gestione delle risorse, sono questioni urgenti e sul tappeto che le utilities a tutti i livelli devono affrontare. Ed è ciò che sta facendo Enel, il gestore energetico, partecipato dallo stato italiano che ha distribuito elettricità in esclusiva dal 1963 al 1999, puntando, oggi, più sui servizi che sulla fornitura di energia. Si tratta di un cambiamento radicale per una grande azienda energetica ex monopolista, ex nuclearista – e sulla via di essere ex fossile – che gli impone di pensare alle questioni ambientali non solo in termini di elettroni prodotti e di CO2, ma con un approccio più sistemico. La produzione, ma anche e soprattutto la gestione energetica del futuro, richiedono, infatti, d’affrontare al meglio le trasformazioni indotte dall’economia circolare, dalla generazione energetica diffusa, dall’Internet of things e dalle smart cities, con un approccio molto più complessivo rispetto al passato. E l’amministratore delegato di Enel Francesco Starace deve essersene convinto, visto che ha unificato la divisione sostenibilità dell’azienda con l’innovazione e ne ha dato la guida a Ernesto Ciorra che è considerato uno dei protagonisti dell’innovazione a livello internazionale ed è esperto di telecomunicazioni e finanza. Si tratta di un caso d’ibridazione non casuale. In Enel, infatti, si stanno ribaltando sia le logiche d’azione esterne, sia quelle interne per rendere permeabile l’azienda alle sollecitazioni innovative, di carattere sociale, di mercato e ambientale. Ernesto Ciorra ha

raccontato a Materia Rinnovabile le dinamiche e le metodologie che si stanno applicando nell’impresa. Enel si è aperta in questi ultimi anni all’esterno, in una maniera inusuale per un’utility. Come mai? “Oggi il nostro obiettivo è quello di accedere alla ‘ricchezza’ dell’innovazione coinvolgendo soggetti interni ed esterni, per consentire all’azienda di avvalersi dei migliori talenti offerti dal mercato internazionale. Stipuliamo partnership industriali con chi lavora presso grandi aziende, mentre diamo la possibilità di collaborare a chi è impegnato in piccole start-up. Usiamo anche InnoCentive, piattaforma online che raccoglie le soluzioni offerte dagli innovatori indipendenti ai problemi irrisolti e che, una volta implementate, le finanzia. L’obiettivo di tutto ciò è quello di collocare Enel tra le prime cinque aziende al mondo in materia d’innovazione.” E cosa è successo? “La prima cosa che abbiamo fatto è stata la chiusura – in un anno – di ventidue centrali non più competitive ed efficienti. Ma non solo. Si è innovato anche e soprattutto all’interno. Un esempio. L’amministratore delegato Francesco Starace ha inviato tutto il top management, lui compreso, a studiare dodici ore al giorno l’innovazione all’Università di Harvard. Ha voluto trasformare l’azienda partendo dal management. E ha avuto ragione. Se non si parte dall’alto, al di sotto le cose non accadono.” I risultati? “Si sono visti subito. Nel 2015, nella classifica


Policy redatta da Fortune (Change the World), siamo stati considerati la quinta azienda che sta cambiando l’umanità: una classifica basata su due parametri relativi all’innovazione e due alla sostenibilità. Siamo subito dopo Vodafone, Google, Toshiba e Wall Mart. Nel 2016, poi, Bloomberg ha messo Enel tra le cinquanta aziende da monitorare. Due riconoscimenti a conferma che abbiamo intrapreso la strada giusta. Ma abbiamo ancora molto da fare.”

Quando una cosa è utile a tutti, alla fine si consolida e per un’impresa diventa un’opportunità.

Bene le classifiche, ma andiamo oltre. Che cosa dovete ancora fare? “Dobbiamo affrontare due o tre grossi problemi e cercare di risolverli. Uno di questi è l’accesso all’energia. Le persone nel mondo che non hanno accesso all’energia sono 1,2 miliardi e un altro miliardo ha un accesso precario. Per superare questo problema puntiamo su soluzioni rinnovabili e a basso costo che consentono di portare ovunque l’energia. Stiamo lavorando con grandi player come Google X – il centro ricerche di Google –, con Tesla, con Toshiba e altre. Si tratta di partner con i quali vogliamo fare innovazione nel concreto, indipendentemente da dove si trovino. Un altro tema è la mobilità elettrica. Con Nissan, lavoriamo per rendere l’autovettura elettrica una ‘batteria che cammina’. Così, in Danimarca, l’auto elettrica una volta attaccata alla colonnina, è in grado di stabilizzare la rete. Senza emettere CO2 e senza che siano necessarie nuove batterie statiche, ma utilizzando quelle dell’auto. In questo siamo i primi al mondo e nel 2017 svilupperemo questo sistema anche in Germania e nel Regno Unito, ricevendo grande attenzione da parte dei decisori locali che ci stanno spingendo a implementare la tecnologia delle ‘batterie diffuse’. Si tratta di una nicchia di 20.000 auto nel Regno Unito e in Danimarca, ma quando avremo finito, con un milione di autovetture elettriche, tutti i bilanciamenti si potrebbero fare senza coinvolgere le centrali

Ernesto Ciorra è stato nominato direttore Funzione Innovazione e Sostenibilità del Gruppo Enel nel settembre del 2014. Inizia il proprio percorso professionale nella società di consulenza Busacca & Associati, con il ruolo di associato,

supportando aziende leader nelle telecomunicazioni italiane ed estere in numerosi progetti innovativi. Nel 2003 fonda Ars et Inventio, società di consulenza specializzata sui temi dell’innovazione e della creatività, che ha diretto fino ad assumere la sua attuale carica. Ha supportato aziende leader, in Italia e all’estero, nell’ideazione e lancio di innovazioni che si sono affermate a livello mondiale. Ha insegnato Innovation Management in Università e Business School italiane e spagnole. È stato coordinatore scientifico del Master in Innovation Management della Business School del Sole24Ore, membro dell’advisory board del Master in Innovazione strategica di Ca’ Foscari Venezia e direttore del Programma avanzato di gestione dell’innovazione dell’Istituto de Empresa di Madrid. È autore di tre raccolte di liriche e di un testo rappresentato in diversi teatri italiani.

elettriche. Il tutto con maggiore rapidità ed efficienza nei tempi di risposta e con il vantaggio che le batterie sono più flessibili, performanti e permettono d’utilizzare una maggior quota di rinnovabili nella rete. È un aspetto innovativo della sharing economy che unisce generazione diffusa e smart cities, in un connubio inedito. L’utente possiede la batteria, la condivide con il gestore della rete ed è pagato per questo servizio. Il nostro obiettivo è quello di offrire agli automobilisti energia elettrica a costo zero in cambio dell’utilizzo della batteria. E i servizi di rete avranno un valore che sarà superiore a quello dell’energia elettrica fornita per la ricarica, cosa che consentirà a noi di mantenere dei buoni margini.” Qual è la situazione italiana sul fronte dei “servizi” energetici? “In Italia abbiamo una buona rete, un’ottima esperienza nella gestione d’impianti diffusi e possiamo contare sul fatto che la totalità dei contatori sono elettronici. I contatori che stiamo installando in Italia sono di terza generazione: siamo i primi al mondo a utilizzarli. Si tratta di dispositivi che possono essere letti ed effettuano qualsiasi controllo sull’elettricità in tempo reale. Con vantaggi anche in termini di sicurezza: il nuovo contatore potrà operare con un sensore del gas e sospendere l’erogazione d’elettricità in caso di fuga di gas. E sempre a proposito di contatori, siamo entrati nella Green Button Alliance statunitense, un’iniziativa tesa a facilitare l’accesso ai propri dati di consumo da parte degli utenti finali, anche attraverso l’unificazione degli standard voluta da Barak Obama.” E i vantaggi quali sono? “Semplice. In questa maniera l’App sviluppata negli Stati Uniti per visualizzare i dati di consumo, si può utilizzare in tutti quei paesi che hanno adottato quello standard. Se invece i dati sono resi disponibili in maniera diversa non ci sarà qualcuno che svilupperà simili App perché il mercato è limitato. È un classico caso nel quale la non interoperatività frena l’innovazione.” Tutte queste attività non ledono alla fine il fatturato? Non portano a vendere meno energia? “Per prima cosa bisogna considerare il fatto che le cose se non le facciamo noi, le fa qualcun altro. Dobbiamo presentarci in maniera innovativa rispetto ai clienti, creando valore e soluzioni nuove. Pensiamo alla mobilità elettrica. Un’auto consuma il 70% rispetto a una casa: se ci fossero dieci milioni di auto elettriche in Italia, ci sarebbero sette milioni di clienti/equivalenti in più nel mercato energetico. Noi dobbiamo evitare gli sprechi e contemporaneamente aumentare le opportunità di distribuzione d’energia elettrica. Spingiamo sulla mobilità elettrica perché riteniamo sia una soluzione al problema dell’inquinamento. E sia una soluzione utile. E quando una cosa è utile a tutti, alla fine si consolida e per un’impresa diventa un’opportunità.” Non è troppo distante, in termini di cultura d’impresa, la mobilità da ciò che avete sempre fatto? “Abbiamo studiato e siamo arrivati a essere la prima società d’energia al mondo che ha lanciato un’offerta integrata di auto elettrica a costo mensile,

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materiarinnovabile 15. 2017 il wall box per la ricarica e la sua installazione e la fornitura d’energia con l’App che cerca le colonnine di ricarica abilitate. Quest’offerta è disponibile per gli utenti con la Nissan Leaf, ma durante la sperimentazione interna, con i dipendenti, abbiamo usato anche Mercedes Classe B e Bmw I3. Prima di offrire all’esterno queste soluzioni le proviamo con i nostri dipendenti. Stiamo semplificando il processo d’acquisto in attesa che cresca la rete distributiva dell’elettricità e che siano varati degli incentivi. Nel frattempo lavoriamo dove possiamo portare dei risultati: ossia l’offerta.”

Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.

Ancora incentivi. A cosa servono? “Gli incentivi servono a sviluppare il mercato e di conseguenza ad attrarre gli investimenti. Se in Italia non si svilupperà la mobilità sostenibile, in un primo momento anche grazie agli incentivi, non ci dovremo poi lamentare del fatto che le auto elettriche siano prodotte all’estero. Ma gli incentivi possono anche non essere monetari. Per esempio un incentivo all’auto elettrica può essere vincolare i Comuni, con una norma nazionale, ad assegnare un posto auto – e la relativa colonnina di ricarica – a chi acquista un’auto elettrica e non dispone di un garage dove ricaricarla. Un provvedimento, anzi una facilitazione, a costo zero che potrebbe essere offerta ai primi acquirenti delle vetture elettriche.” In concreto, come siete arrivati ad occuparvi della mobilità sostenibile? “In primo luogo abbiamo creato un’offerta semplice, innovativa e sostenibile per i nostri dipendenti. La Funzione Innovazione e Sostenibilità ha raccolto da loro i feedback del processo esistente e abbiamo riscontrato che era troppo complesso. Sostanzialmente abbiamo verificato la customer experience dei ‘customer dipendenti’ che fungevano da clienti. Poiché queste esperienze non erano esattamente il massimo, le abbiamo semplificate grazie ai loro consigli, fino a confezionare l’offerta a un’area interna che si occupa solo di new business.” Ci fa capire meglio? “Mi spiego. In azienda abbiamo un’area che vende l’energia e un’altra che vende solo i new business, tra i quali la mobilità elettrica. Abbiamo attivato un team dedicato con persone che si occupano solo ed esclusivamente di mobilità elettrica. Si tratta di un’unità che studia a 360° tutti i problemi della mobilità: al momento sta lavorando sullo sharing degli scooter, biciclette e autovetture. Ricordo a tale proposito che noi siamo partner di Car2Go, il car sharing elettrico più grande d’Europa che solo a Madrid ha 500 auto elettriche: questo per dire che non è la prima volta che affrontiamo queste problematiche. Più in generale ci siamo resi conto che non possiamo gestire cose nuove con la stessa organizzazione di prima. Siamo entrati nel settore del bilanciamento di rete (si tratta del servizio svolto in tempo reale per mantenere la rete elettrica in equilibrio tra immissioni e prelievi, per risolvere congestioni e garantire opportuni margini di riserva secondaria di potenza, ndr) con le autovetture elettriche, in Danimarca e nel Regno Unito spendendo circa 100.000 euro a paese, mentre prima per farlo si dovevano possedere delle centrali con investimenti ben maggiori. Siamo i primi a cannibalizzare attraverso l’innovazione, il passato

del settore e parte di noi stessi, per aprire altri possibili business. Ora siamo attivi in settori che non erano storicamente i nostri.” Tutte queste innovazioni cosa hanno significato a livello aziendale? “La struttura interna di Enel è profondamente cambiata. È stata creata la Divisione Sostenibilità che successivamente si è fusa con quella Innovazione. Ciò ha mutato in maniera profonda l’assetto dell’azienda, che è tecnologica, pertanto tutta l’innovazione legata alla tecnologia è ora guidata dalla sostenibilità. Si tratta di una logica pervasiva e l’innovation sostenibilty manager che sarei io, è presente anche nei principali comitati di decisione. Siedo al comitato investimenti dell’Enel e se un investimento non è sostenibile e innovativo credo non abbia senso farlo. Innovazione e sostenibilità non possono stare fuori dalla governance aziendale.” E per quanto riguarda l’innovazione all’esterno delle dinamiche aziendali? “Siamo in grado di lavorare con start-up che fatturano zero euro e hanno zero dipendenti. È una caratteristica che possediamo solo noi in Italia, un’innovazione profonda delle dinamiche aziendali. E abbiamo eseguito modifiche interne per lavorare con figure esterne competenti. Ma non solo.” Ossia? “Per esempio ora qualsiasi dipendente Enel nel mondo può proporre nuovi business e se ha l’ok del suo country manager ottiene i finanziamenti per farsi la propria start-up. Abbiamo investito 16.000 giornate e coinvolto 860 persone, oltre alle risorse economiche necessarie per lo sviluppo delle proposte ideate dai colleghi. Si tratta di una rivoluzione culturale perché un dipendente che non ha alcun potere gerarchico può diventare, se approvato, capo della propria start-up sbaragliando tutta la gerarchia. Oltre a ciò abbiamo lanciato iniziative come ‘My Best Failure’ in cui le persone condividono gli errori commessi quando hanno provato a fare qualcosa di nuovo.” Premiare i fallimenti? Cosa c’è di positivo in un fallimento? “Quando si fa qualcosa di nuovo, c’è sempre qualcosa che si sbaglia. Noi vogliamo aumentare il numero degli errori per elevare quello dei successi e contemporaneamente azzerare gli errori ripetuti. Invitiamo le persone a condividere i propri errori con ‘My Best Failure’ e premiamo chi viene eletto dalla comunità come il più bravo, perché per noi gli errori condivisi sono molto utili. Chi vince viene premiato e mandato a lavorare un periodo in un altro paese e presso un’area aziendale di suo gradimento ed eventualmente anche in una start-up che lavora con noi.” Come selezionate l’innovazione? “Abbiamo diviso l’innovazione in due macroaree: quella che riguarda i processi e le tecnologie produttive interne e quella che riguarda il cliente. La prima è gestita dalla business line e la selezione viene fatta direttamente da chi gestisce le tecnologie e i processi. Così, se arrivano nuove metodologie e pratiche, come per esempio quelle circa la facilità della pulizia dei pannelli solari, chi gestisce l’aspetto


Policy un cellulare piccolo, a forma di conchiglia, al contrario dei cellulari d’oggi senza tastiera. Il Nokia 7710 era molto, ma molto simile agli attuali iPhone o Samsung Galaxy, e parliamo di quattordici anni fa. Un’idea intelligente, con un’implementazione altrettanto intelligente che non ha avuto sufficiente appeal in quel momento. Questo è il motivo per cui è essenziale guardare ai clienti. Nel caso delle tecnologie interne i nostri i clienti sono i colleghi che le gestiscono, mentre per l’esterno si fa rifermento ai clienti finali.”

dall’interno decide se usare o meno le nuove metodologie. In questa maniera abbiamo integrato totalmente l’innovazione in tutte le aree di business. Chi fa la pulizia dei pannelli solari ha il suo referente per l’innovazione, che è quello della divisione rinnovabili, il quale propone le nuove soluzioni, ma alla fine è lui che decide. La seconda macroarea tende a mantenere una prossimità con il cliente. Non si può selezionare una cosa che riguarda il cliente se non lo si ha vicino. Per questo, come dicevo, sulla mobilità sostenibile abbiamo fatto, prima, dei test sui clienti ‘interni’ ossia sui nostri dipendenti. E quando abbiamo lanciato le nuove soluzioni per la smart home che offrono un servizio di monitoraggio energetico della casa, dove è integrato un sistema contro i furti, lo abbiamo testato su 500 colleghi che ci hanno mandato un feedback su benefici e criticità.” Quando si fa qualcosa di nuovo, c’è sempre qualcosa che si sbaglia. Noi vogliamo aumentare il numero degli errori per elevare quello dei successi e contemporaneamente azzerare gli errori ripetuti.

A proposito di processi innovativi, c’è altro? “Sì, in Enel applichiamo la ‘formula dell’innovazione’ che ho creato e brevettato assieme al collega Ivan Ortenzi.” Di cosa si tratta? “La ‘formula dell’innovazione’ afferma che l’innovazione è uguale alla moltiplicazione dei valori di tre aspetti: la creatività (ovvero avere una buona idea e assegnarle un valore da 1 a 10), l’esecuzione (ossia come si implementa la propria idea e darle un valore da 1 a 10) e l’appeal (cioè il valore riconosciuto da un cliente a quell’idea con quella implementazione e assegnarle un valore da 1 a 10). Si tratta quasi di un gioco che obbliga a pensare a come generare le idee, per garantirne l’implementazione e per misurare l’appeal da parte del cliente. Faccio un esempio. Nel 2004, ho collaborato con Nokia nell’ideazione di un cellulare touchscreen con navigatore incluso. Si trattava del Nokia 7710. L’idea aveva un valore pari a 10, così come l’implementazione e l’appeal del navigatore, mentre l’appeal del touchscreen allora valeva 0, perché all’epoca nessuno lo desiderava. Quindi applicando la ‘formula dell’innovazione’: 10 per 10 per 0 il risultato era 0.” Era un’innovazione arrivata troppo presto? “Esattamente. All’epoca tutti desideravano

Oggi si fa un gran parlare di “Internet of things”. È un universo immenso. Seguendo il suo ragionamento ci possono essere una lavatrice con appeal 10 e un frigorifero con appeal 0. Cosa significa per voi, che siete un distributore d’energia, entrare in questa logica? “Non avremo Internet of things, ma Internet of everything, ossia la rete sarà in ogni cosa, perfino nelle medicine che assumeremo. Saranno medicinali intelligenti, connessi a un sistema di monitoraggio che interverrà facendo rilasciar loro il principio attivo al momento in cui occorre. Oggi stiamo facendo l’Internet of things nelle nostre centrali e nei nostri impianti. Anche i nostri colleghi devono essere connessi e se, per esempio, hanno un infortunio il sistema se ne deve accorgere, lanciando un allarme, segnalando la posizione e facendo arrivare nel minor tempo possibile i soccorsi.” Come vede i prossimi cinque/dieci anni sul fronte dell’innovazione? “Sempre più divertenti e interconnessi, specialmente in termini di settori. Siamo attivi nella banda larga, nelle smart home e nella sicurezza delle abitazioni, siamo attivi nella vendita di automobili e nel bilanciamento di rete. Facciamo cose che solo due anni fa, al mio ingresso in Enel, non si facevano. Sono sei o sette nuovi business. Vendiamo assicurazioni unitamente alla fornitura energetica dell’abitazione e venderemo assicurazioni per le autovetture. Poi ci sono i dati sulla mobilità. Per esempio, sarà possibile ottimizzare i percorsi per i consumi e i tempi, scegliendo quelli che evitano i semafori. Credo che ci sarà sempre più spazio per fare cose positive e sempre maggiore competizione tra i diversi settori.” In un contesto sempre più connesso che tipo di competizione sarà? “Sarà una competizione che può diventare cooperazione. Stiamo collaborando con Google per le nuove tecnologie di generazione energetica. Google possiede i dati di tutti i clienti in cerca di una nuova abitazione e quindi di un nuovo fornitore d’energia e può dare informazioni sull’abitazione, comparare tra loro i fornitori, proporre l’acquisto del fotovoltaico con l’accumulo, offrire un algoritmo d’ottimizzazione rispetto ai consumi specifici dell’utente per dimensionare al meglio il sistema energetico e non dipendere dai fornitori d’energia. Ecco. Google può diventare un nostro competitor, come potrebbe esserlo Amazon che potrebbe gestire l’energia prodotta dall’utente vendendola a un altro, saltando Enel. Ma con questi soggetti potremmo collaborare e non competere. I modelli di business stanno diventando sempre più frastagliati e interconnessi tra loro.”

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materiarinnovabile 15. 2017

Occorre allargare

LA MAPPA di Roberto Coizet

Oggi sono neopensatori e guru a proporre la visione del futuro, mentre la politica sembra aver perso ogni capacità di progetto, spesso delegata a manager e imprese. In questo contesto l’editoria deve modificare il proprio tiro integrando nuovi strumenti. L’esempio del Centro Materia Rinnovabile che realizza progetti e strategie ambientali per imprese – o intere filiere industriali – e fornisce supporto nella valorizzazione dei flussi di rifiuti.

Roberto Coizet è presidente di Edizioni Ambiente e di Centro Materia Rinnovabile.

In una rivista che riserva una intera sezione alle policy, diventa doveroso, dopo più di due anni di vita, dedicare un piccolo approfondimento alle politiche culturali che vengono portate avanti dal gruppo di operatori che realizza, insieme a molte altre iniziative, la rivista stessa. Doveroso perché non si tratta di fare una sorta di autopresentazione, ma piuttosto di esporre in modo esplicito la nostra visione di quali siano le formule per parlare efficacemente di sostenibilità mentre si avvicinano gli Anni Venti del terzo millennio. Ci sono alcune domande cruciali. Per esempio: l’editoria, su carta o digitale, può essere

lo strumento in grado di guidare la transizione verso i nuovi scenari – economici, sociali, di stile di vita – che si stanno rapidamente affacciando a livello globale? Precisiamo: che l’editoria possa e debba accompagnare questi processi fornendo gli attrezzi culturali necessari, è fuori discussione. Ma questi attrezzi – i libri, le riviste, le pubblicazioni online – possono svolgere una funzione di ampiezza paragonabile a quella che aveva l’editoria, diciamo, 40 o 50 anni fa? Se guardiamo le cose in questa chiave la risposta è no. I libri e i periodici stanno perdendo la capacità di pervadere che avevano sino a pochi anni fa e non hanno più quel ruolo quasi esclusivo che permetteva loro di reggere il timone delle principali svolte culturali. Il mutamento delle


Policy opinioni, dei comportamenti sociali e di quelli economici, si appoggia a elementi diversi – spesso meno meditati ma con grande forza di penetrazione – che si miscelano ai consumi, alle tendenze e alle mode, alle scelte sul denaro e sul lavoro, e alla capacità di persuasione che sanno esprimere i nuovi guru del nostro tempo.

I nuovi soggetti che “agiscono” la cultura nel modo più incisivo sono sempre più spesso le imprese.

E qui si pone il secondo interrogativo: chi sono i veri guru che mostrano la capacità di aggregare i comportamenti e far evolvere le idee? Certamente i grandi intellettuali sono ancora in prima fila, presenti anche se talvolta compressi in format tv che ne appiattiscono la capacità di narrazione. Tuttavia non sono da soli. Devono venire a patti con altri soggetti, spesso più improvvisati dal punto di vista della struttura del pensiero, ma capaci di lanciare nuove visioni di straordinaria rapidità ed efficacia. E creare relazioni inedite tra aree sociali, tra comportamenti diffusi, tra simboli e valori, stravolgendo le coordinate dello scenario culturale. Mark Zuckerberg, facendo leva su tecnologie emergenti, ha creato Facebook prima che fosse chiaro – anche a lui stesso – quali orientamenti culturali questo social network avrebbe favorito. E così il pensiero analitico di tradizione classica, disciplinare e “verticale”, si trova a fare i conti con il neopensiero di successo, antidisciplinare e “orizzontale”. Sono conti difficili perché spesso c’è un problema di tempo, e mentre il pensiero analitico è ancora alla formulazione del “discorso”, gli altri – i neopensieri – sono già diventati comportamento di massa. Quindi, quali che siano i guru, gli effetti delle loro riflessioni o delle loro invenzioni si diffondono in modalità di cui spesso la parola scritta non riesce più a essere strumento prioritario, ma diventa solo testimone.

Qui si innesta l’aspetto contemporaneamente più creativo e più disruptive di questi ultimi tre decenni: i nuovi soggetti che “agiscono” la cultura nel modo più incisivo sono sempre più spesso le imprese. Grandi imprese e imprese piccole, multinazionali o a filiera corta, di tradizione storica o start-up, imprese di capitale o imprese sociali, e poi strutture più flessibili che sfuggono agli standard e intercettano il terzo settore, il volontariato, fino agli scambi di attività in assenza di scambi monetari. Insomma, un panorama variegatissimo di soggetti appartenenti al mondo del lavoro, che hanno preso, più o meno consapevolmente, l’iniziativa di pilotare i nuovi “attrattori” sociali e culturali. È una conversione di ruoli spiazzante. E le prime a essere spiazzate sono le industrie stesse che, in due o tre decenni, hanno preso atto di essere praticamente da sole nella prima linea. Guardandosi intorno, non c’era più nessuno. E non si sarebbero mai aspettati loro – gli industriali, gli imprenditori, i manager – di doversi investire di una funzione vicaria rispetto a una politica debole e a un patto sociale senza orizzonti. Avrebbero potuto anche semplicemente occuparsi ciascuno dei fatti propri, facendo fronte a un’economia sempre più disordinata e fluttuante, senza lanciarsi in sfide ancora più impegnative. Ma, di fatto, non c’è alternativa. Ogni impresa a suo modo deve fare i conti con un contesto complesso nel quale il successo sarà determinato non soltanto dalla possibilità di vendere un prodotto o un servizio, ma soprattutto dalla capacità di interpretare tendenze che rispecchino i nuovi bisogni dei cittadini/consumatori. In altre parole, l’offerta nel mercato deve “incorporare” un modello culturale, e chi sceglie il modello giusto ha un vantaggio competitivo.

Un terzo interrogativo riguarda gli interpreti del cambiamento. Come si dispongono i diversi protagonisti nello scenario culturale? Chi produce gli effetti più significativi e traccia nuovi orizzonti, e chi, invece, perde ogni credibilità nel disegnare il futuro? La politica ha perso la capacità di progetto. In senso sociale, economico, culturale, valoriale. Nei paesi industrializzati c’è vivace discussione su cosa abbia determinato questo fenomeno, ma consenso unanime sul fatto che ciò sia avvenuto. Questa caduta ha trascinato, a cascata, la credibilità delle istituzioni pubbliche. Dalle istituzioni di governo, nazionale e locale, fino alle università e al sistema scolastico, il quale non cessa, ovviamente, di essere il principale punto di riferimento formativo, ma suscita crescenti incertezze e apprensioni, come se fosse abbandonato a una lenta deriva che lo porta sempre più lontano da quella che tutti intuiscono come una “nuova realtà”. Quindi, politica e istituzioni sono sempre più deboli nel “fare cultura”. E chi la fa allora?

Il panorama è vario e questi nuovi protagonisti della cultura si avventurano nella mischia con attitudini diverse. Ci sono imprese che “annusano” il problema senza coglierne l’essenza e scelgono la linea del travestimento: si vestono, con qualche goffaggine, di valori sopra le righe e adottano, per esempio, il greenwashing come esca per attirare il pubblico più sensibile. Al polo opposto, ci sono aziende di rottura, intrinsecamente disruptive, che sono “già lì” dove è avvenuta la trasformazione degli stili di vita, perché ci sono nate (per esempio il già citato Facebook) e ne traggono vantaggio di posizione. Questi soggetti non negano e non affermano il nuovo ruolo delle imprese: semplicemente lo conquistano con una modalità che assomiglia di più al successo politico che non all’espansione di una azienda (e infatti Zuckerberg potrebbe convertirsi senza sforzo alla carriera politica, contando peraltro su un patrimonio personale che vale 20 volte quello dell’attuale presidente Usa). Ma ci sono poi, in numero crescente, aziende

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materiarinnovabile 15. 2017 ben coscienti del cambiamento di scenario e responsabilmente investite della mission di integrare impresa e cultura. Sono esperienze cresciute nella transizione, senza soggezioni nei confronti della complessità, abituate a integrare gli aspetti economici con quelli ambientali e sociali. Consapevoli delle difficoltà e non estranee a discutere di valori di riferimento anche in consiglio di amministrazione. Il loro nuovo ruolo è da anni teorizzato, con prospettive diverse da autori importanti, come Lester Brown, Amory Lovins, Gunter Pauli o Pavan Sukhdev (peraltro tutti pubblicati in Italia da questa casa editrice) che hanno intuito la portata e la responsabilità crescente della produzione e del lavoro nel nostro futuro. Con queste imprese non solo è possibile, ma è necessario lavorare per costruire prospettive culturali che possano poggiare su realtà concrete. Detto ciò è evidente che di fronte a questo scenario l’editoria deve raddrizzare il tiro. Gli autori prestigiosi ci sono, ma da soli non bastano. Il pubblico a cui rivolgersi è vasto e deve estendersi, con attenzione specifica, al mondo delle imprese e ai giovani che saranno interpreti dei new jobs. Al testo scritto si aggiungono altre formule e strumenti. Centro Materia Rinnovabile, www.centromateria rinnovabile.it

Short Report, Materia Rinnovata, giugno 2016; www.materiarinnovabile. it/pubblicazioni

Marco Moro, “L’economia circolare si mostra”, Materia Rinnovabile 13; www.materiarinnovabile. it/art/282/Leconomia_ circolare_si_mostra

Il gruppo da cui nasce la rivista che state leggendo si appoggia oggi su tre società integrate: una casa editrice (Edizioni Ambiente), una società che supporta e orienta le imprese sulla compliance ambientale, anche con attività di formazione (Eda Pro) e una società che realizza progetti e strategie ambientali per singole imprese o intere filiere industriali (Centro Materia Rinnovabile). Crediamo che nel campo della sostenibilità ambientale e dell’economia circolare, non sia più possibile svolgere un ruolo culturale di qualche efficacia senza integrare questa varietà di strumenti, con un intervento culturale che, per l’appunto, si bilancia tra uno strumento e l’altro. La mappa si allarga, sia la mappa delle tecniche da impiegare sia, soprattutto, la mappa degli interlocutori a cui rivolgersi perché la riflessione sia verificata e abbia qualche effetto reale. Caso per caso, il punto di partenza di ogni iniziativa va cercato lì dove si concentra il suo momento più vivo e problematico, per poi trasferire il tema ad altri ambiti. Da una ricerca a un libro, da una buona pratica a una rivista, un corso di formazione, a un convegno, una mostra, una campagna volontaria o a un progetto riguardante un’intera filiera industriale. Nel nostro caso, per parlare delle possibilità legate alla valorizzazione dei flussi di materia, abbiamo dato vita a questa rivista, pubblicato libri sui neomateriali, curato e realizzato la Mostra ExNovoMaterials in Ecomondo 2016 (ne abbiamo parlato nel numero 13 di Materia Rinnovabile). Non solo: abbiamo accompagnato alcune

esperienze industriali esemplari, ne abbiamo visto le declinazioni normative con la nostra Rivista Rifiuti, ci siamo affiancati ad associazioni volontarie e fondazioni, abbiamo discusso la funzione dei cosiddetti sistemi collettivi (espressione della responsabilità estesa del produttore) per rendere più efficace la valorizzazione di alcuni flussi di rifiuti, abbiamo promosso convegni, partnership internazionali, organizzato corsi e master, allestito data base online, studiato modelli di ottimizzazione industriale. L’abbiamo fatto nel nostro settore, ma pensiamo che chiunque si ponga il medesimo obiettivo sia tenuto a farlo nel proprio ambito. Non è un’opzione, è una necessità. All’interno delle esperienze in corso ce n’è poi una che rappresenta bene l’intreccio di temi, rapporti e iniziative che si integrano in una strategia culturale “a mappa allargata”. Ne accenniamo perché interseca vari temi di cui si è occupata questa rivista: valorizzazione dei rifiuti, economie di filiera, sistemi collettivi. E perché da un certo punto di vista costituisce un modello dell’approccio che abbiamo cercato di esporre. Il Centro Materia Rinnovabile, insieme a Edizioni Ambiente, ha avviato nell’ottobre del 2016 una ricerca sul tema “Edilizia e infrastrutture: verso l’Economia circolare”. L’obiettivo è quello di favorire, all’interno di queste filiere, i rapporti tra domanda e offerta di materiali recuperati. La questione su cui si punta l’attenzione è quella dei rifiuti da costruzione e demolizione (C&D), un flusso di materiali che ha dimensioni imponenti e che a tutt’oggi, salvo rare eccezioni, è valorizzato solo per quote molto modeste. In Europa il flusso dei rifiuti C&D supera gli 800 milioni di tonnellate ogni anno. In Italia le cifre ufficiali parlano di circa 50 milioni di tonnellate ma – essendo molti i fattori che compromettono la tracciabilità di questi dati – si può ragionevolmente ritenere che il totale effettivo sia di gran lunga superiore. Questa rivista nel giugno 2016 ha pubblicato un dossier dal titolo “Materia Rinnovata” – liberamente scaricabile – al quale si rimanda per una serie di dati e riflessioni sui comparti dell’edilizia e dei rifiuti organici, in Europa e in Italia. Ma, al di là dei numeri, l’opportunità di questa ricerca deriva da numerosi fattori. Innanzitutto il forte orientamento, promosso dalla Commissione europea, verso l’economia circolare, vale a dire verso pratiche che favoriscono – soprattutto in settori come l’edilizia, a grande consumo di materie prime – l’impiego di “materiali rinnovati” (recuperati, riciclati, reimpiegati o reinventati) anziché il prelievo di risorse primarie. Questo orientamento si innesta su una grave crisi economica e occupazionale del settore. Edilizia e infrastrutture hanno dunque la necessità


Policy

Obiettivo è trovare soluzioni condivise, attraverso una consultazione che si estende a incontri e convegni nei quali vengono presentate le diverse fasi di elaborazione, per arrivare a proporre ai decisori politici e istituzionali un “pacchetto” di soluzioni.

di riformulare i propri driver di sviluppo, all’interno dei quali una nuova economia dei materiali può divenire un elemento determinante. Per quel che riguarda l’Italia, a questi fattori si aggiunge una nuova regolamentazione degli appalti pubblici che – dopo l’emanazione del Dlgs 50/2016, dello scorso aprile – prevede, per tutte le costruzioni sottoposte a queste procedure, il rispetto di alcuni “Criteri ambientali minimi” (Cam), tra i quali un impiego consistente di materiali recuperati. In sostanza, introdurre nel settore nuovi elementi di economia circolare, facendo leva sul recupero e la valorizzazione dei rifiuti C&D, può essere, contemporaneamente, un adeguamento ai nuovi vincoli di compliance e uno spunto per vitalizzare le imprese della filiera. C’è però un problema nodale: i rifiuti C&D appartengono a una filiera “povera”, dove il valore unitario dei materiali recuperati è relativamente basso. A differenza di quanto avviene per altri materiali più “fortunati” – come i metalli, la carta o alcuni tipi di plastiche – il costo di valorizzazione di questi rifiuti è molto vicino al prezzo di mercato delle materie prime vergini corrispondenti. In altre parole, il costo di raccolta, selezione, tracciabilità, trattamento, qualificazione e certificazione delle prestazioni di un rifiuto inerte può essere superiore al prezzo di un materiale analogo proveniente da cava, mettendo così fuori mercato tutti i processi di recupero e riciclo. Come si risolve il problema? Dal punto di vista del metodo la soluzione è la medesima adottata per altre filiere di rifiuti: si tratta di bilanciare vincoli normativi (che limitano il prelievo indiscriminato di materiali vergini) con economie di scala (che favoriscono, attraverso il coordinamento delle imprese, la creazione di grandi flussi di materiali e l’allestimento delle infrastrutture necessarie). Insomma, le questioni economiche e tecniche si possono risolvere. Ma il punto centrale è che le imprese della filiera – dai costruttori ai gestori di rifiuti, dai produttori

di materiali da costruzione ai riciclatori – riescano a trovare le formule per “fare sistema”, cioè per collaborare sulle soluzioni tecniche e per coordinarsi sulle razionalizzazioni economiche. Questa possibilità di “organizzare” il settore è evidentemente la sfida più difficile, perché richiede, da un lato, che le imprese vedano un effettivo vantaggio nel cooperare e, dall’altro, che le istituzioni competenti propongano soluzioni organizzative e semplificazioni normative convincenti. Un percorso possibile, ma decisamente impegnativo, che miscela aspetti tecnici, culturali, economici, normativi. Data l’ampiezza del tema, per sviluppare il progetto il Centro Materia Rinnovabile ha innanzitutto avviato un’attività di consultazione e confronto con le principali associazioni di categoria nel settore e con i più importanti referenti istituzionali. Obiettivo è trovare soluzioni condivise, attraverso una consultazione che si estende a incontri e convegni nei quali vengono presentate le diverse fasi di elaborazione, per arrivare a proporre ai decisori politici e istituzionali un “pacchetto” di soluzioni, vale a dire gli strumenti normativi, tecnici ed economici che potrebbero accelerare e favorire un uso ecoefficiente dei materiali all’interno della filiera. La ricerca esprime quindi la sua parte di elaborazione e progetto, ma la condivide con le associazioni di categoria, per validarne aspetti tecnici ed economici, e filtra le soluzioni nel confronto con le istituzioni competenti e i controllori, per avere certezza sulle formule della compliance e dell’end of waste. Un piccolo esempio di politica culturale che miscela strumenti e interlocutori diversi, secondo la formula accennata in apertura, cercando di raggiungere la flessibilità e la capacità di retroazione che sono richieste per raggiungere l’efficacia. Il progetto continua sino a giugno 2017 e renderemo conto dei suoi sviluppi anche con successivi contributi su questa rivista.

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materiarinnovabile 15. 2017

Il Mekong intrappolato dalle dighe idroelettriche

Dongzhong t Guoduo Lin Chang Kagong

Ru Mei Guxue Gushui Wunonglong Lidi Huangdeng Xi'er He Dams

Dahuaqiao Miaowei Gongguoqiao

XunCun Xiaowan Laoyinyan Nanhe 2 Dachaoshan Nanhe 1

Manwan Dam

CINA

Luozhahe 1 Dam Luozhahe 2 Dam

CINA BIRMANIA

Nuozhadu

BIRMANIA

CAMBOGIA

VIETNAM

Jinfeng

Hanoi Nam Ou Dams Nam Khan Nam Ngum 5 Nam Chian 1 Nam San 3A

Nam Beng Pak Beng Xayaburi Nam Pha Gnai Dam Nam Lik 1-2 Pak Lay Santhong-Pakchom

Yangoon

Nam Ngiep Dams

Sanakham Chulabhorn

Nam Ngum

Theun-Hinboun Nam Theun 2

Nam Leuk Dam

LAOS

Houay Por

Ubol Ratana

A Luoi

Ban Kum Xeset

THAILANDIA Lam Ta Khong

Centrali idroelettriche

Latsua Pak Mun Siridhorn

Esistenti In costruzione Proposte Potenza installata Megawatts 5.850

2.000 1.000 500 100

LAOS

THAILANDIA

Jinghong Ganlanba

Luangprabang Nam Tha 1

Naypyidaw

VIETNAM

Xepian-X.

Don Sahong

Bangkok

Stung Treng Battambang 1

CAMBOGIA Phnom Penh

Nam Kong

Houay Lamphan Houayho Xe Kaman 3 Nam Bi 2 Dams Xekaman-Sanxay Plei Krong Sesan 3 Sesan 3A Yali Falls

Lower Sesan 2 Sambor

Sesan 4 Sre Pok 3 Dray Hinh 2 Buon Kop Buon Tua Srah

Reportage fotografico a cura di: ©Thomas Cristofoletti Mappa a cura di: Riccardo Pravettoni Fonte mappa: WLE 2017. Dataset on the Dams of the Irrawaddy, Mekong, Red and Salween River Basins. Vientiane, Lao PDR: CGIAR Research Program on Water, Land and Ecosystems – Greater Mekong. wle-mekong. cgiar.org/maps


MEKONG,

il fiume conteso di Emanuele Bompan

Mega-dighe, sbarramenti e siccità. Dalla Cina al Vietnam un’escalation di tragedie ambientali e sociali, mentre iniziano a ribollire tensioni politiche tra gli stati coinvolti. Rivers International: il blocco dei sedimenti e dei pesci a causa dei ventotto sbarramenti previsti sul Mekong potrebbe mettere a rischio la sicurezza alimentare del Sudest asiatico. I più colpiti? Le comunità indigene rivierasche che verranno trasferite in massa.

Watergrabbing è un progetto condiviso tra diverse piattaforme media, supportato da EJC European Journalism Center (ejc.net), IDR Grant (journalismgrants. org) e CapHolding (www.gruppocap.it)

Di tutti gli elementi sulla Terra, l’acqua è la più preziosa e la più circolare, inesauribile fonte di vita e sostentamento. Dall’agricoltura all’industria, dall’igiene all’estrazione mineraria, dal saziare la sete al divertimento, l’acqua è il cuore della nostra vita. Ma cosa succede quando la gestione delle risorse idriche diventa partigiana, non sostenibile, invece di essere condivisa viene accaparrata dal più forte, sia uno stato, un’impresa o un settore dell’economia? In questo caso si verifica un fenomeno di water grabbing. Con l’espressione water grabbing, o “accaparramento dell’acqua”, ci si riferisce a situazioni in cui attori potenti sono in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali la cui sussistenza si basa proprio su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi che vengono depredati: da bene comune liberamente accessibile l’acqua si trasforma in bene privato per cui bisogna negoziare ed essere disposti a pagare. L’antitesi dell’economia circolare. Per questo Materia Rinnovabile, in collaborazione con un gruppo di testate e con il sostegno del Centro europeo per il giornalismo ha realizzato una serie di reportage per raccontare le catastrofi che possono accadere quando l’acqua, come materia, cessa di essere un diritto.

International Rivers, www.internationalrivers.org

“Morirò annegata, sommersa dal fiume che ci ha dato la vita.” Je Srey Neang ha il suo destino scritto negli occhi. Trentadue primavere passate nel villaggio di Kbla Romes, lungo il Sesan, uno dei principali tributari del grande Mekong. Tre figli, il maschio partito con il marito dopo il divorzio. Lui ha accettato sei mila dollari per andarsene da qualche parte in città, per una vita di miseria, in cerca di lavoro in fabbrica. Il suo villaggio sarà sepolto dal bacino della diga cambogiana Lower Sesan II, sita a poche miglia dall’affluenza con il Mekong e costruita dai cinesi per fornire elettricità alla capitale Phnom Penh; un progetto voluto dalle élite dei due paesi, senza tenere conto degli impatti locali, con 5.000 persone forzate ad andarsene e 40.000 che seguiranno, quando il pesce inizierà a scarseggiare a causa dello sbarramento del corso fluviale. “Io ho deciso di resistere. Non mi compreranno. Non mi piegheranno con le armi. E non mi muoverò

Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008. Autore con Ilaria Brambilla del libro Che cos’è l’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016).

finché sono viva.” La sua determinazione, mentre continua con violenza a zappare l’orto, è sottolineata dagli occhi duri, senza lacrime. Una sua vicina mostra delle foto, fatte con un cellulare, di uomini in nero che ogni settimana vengono per fare pressione affinché Je Srey se ne vada. “Questa è la natura che ci è stata data, è il nostro sostentamento. Non sono contraria alla diga, ma non deve distruggere la nostra vita per alimentare il televisore di qualcuno che vive a mille chilometri da qua. Quando l’acqua inizierà a salire rimarrò serena nella mia casa.” Una storia comune quella di Je Srey. Nel bacino del Mekong, uno dei più contesi al mondo, da anni crescono le tensioni tra i paesi del Sudest asiatico per l’impiego delle acque per l’irrigazione e come fonte di energia idroelettrica. “Oltre 60 milioni di persone traggono sostegno da questo bacino”, spiega Tek Vannara, direttore esecutivo del Forum organizzazioni non governative cambogiano. “Governi e imprese private hanno deciso di costruire dighe ovunque che impatteranno su pesca, turismo, agricoltura. Le dighe saranno fonte d’instabilità e una persecuzione, in particolare, per i più poveri. Tantissimi villaggi, specie comunità indigene, perderanno i propri territori, abbandonando i propri costumi e tradizioni. La sicurezza alimentare per milioni di persone è a rischio.” In questi ultimi cinque anni il Sudest asiatico continentale si è tuffato in una corsa agli sbarramenti idroelettrici nel disperato tentativo di soddisfare la crescente domanda di elettricità, specie da parte delle economie più sviluppate, Thailandia, Vietnam e Cina. Il Dragone ha costruito sette impianti idroelettrici di grandi dimensioni nell’alto Mekong (conosciuto in cinese come Lancang) e, sebbene i piani dettagliati rimangano segreti, altri ventuno sono in programmazione. Nella parte meridionale del bacino, che interessa Myanmar, Laos, Cambogia, Thailandia e Vietnam, sono programmate undici dighe, la gran parte in Laos, uno dei paesi più poveri d’Asia, che aspira a diventare – con il sostegno d’investitori cinesi e thailandesi – la pila idroelettrica d’Asia, con un potenziale di produzione di 26 gigawatt, più della Francia. Già oggi, secondo l’Associazione internazionale dell’energia idroelettrica International Hydropower Association l’elettricità costituisce circa


Mekong River Commission (Mrc), www.mrcmekong.org

Da bene comune liberamente accessibile l’acqua si trasforma in bene privato per cui bisogna negoziare ed essere disposti a pagare.


il 30% dell’export laotiano, con l’obiettivo di esportare oltre sette gigawatt alla Thailandia entro il 2020, cinque verso il Vietnam e persino 0,2 gigawatt da vendere alla nemica Cambogia. Tre impianti sono in fase di completamento: la diga Don Sahong, la Xayaburi, e dall’estate 2017 potrebbero iniziare i lavori di pianificazione del colosso di Pak Beng, nel cuore dell’alto Mekong laotiano, nei luoghi dove Francis Ford Coppola ha collocato la base di Kurtz nel suo Apocalypse Now, e che oggi è una rinomata destinazione turistica. Pak Beng sarà un gigante da 912 MW che potrebbe produrre da solo 4.775 GWh l’anno di energia. “Al momento niente scavi ma spesso ci sono ingegneri e geometri a prendere misure e rilevamenti”, spiega Vilang Mak, una guida del gruppo Shampoo Tours, specializzato in crociere sul Mekong. La barca di tek, rifinita con gusto, è occupata da una decina di turisti francesi, che scattano foto della fitta giungla addensata intorno ai villaggi di etnia Khmu, che costellano il fiume nel tracciato da Luang Prabang a Huay Xai. “La diga porterà allo stop del turismo in queste zone, le crociere sul Mekong diventeranno un ricordo”, continua Vilang. Secondo Pianporn Deetes di International Rivers, una delle organizzazioni di riferimento internazionale per la tutela dei fiumi, intervistata negli uffici di Bangkok, “circa 25 villaggi indigeni in Laos e due in Thailandia saranno spazzati via con la costruzione della diga Pak Beng, e oltre 6.700 persone dovranno essere trasferite forzatamente”. Per i paesi rivieraschi il boom delle dighe è fonte di grattacapi. Da un lato thailandesi, cambogiani e vietnamiti potranno garantirsi maggiore sicurezza energetica. Ma dall’altro i piani laotiani, sostenuti economicamente dalla Cina sono fonte di preoccupazione dal punto di vista della sicurezza alimentare e geopolitica. Se oggi i paesi possono cooperare in casi di emergenza (come dimostrato dall’apertura delle riserve sul Mekong da parte della Cina, durante la siccità del marzo 2016), in futuro il controllo dei flussi d’acqua e dei sedimenti potrebbe diventare strumento di ricatto politico e fonte di tensione. Secondo Ho Uy Liem, vicepresidente della Vietnam Union of Science and Technology Association, “le dighe danneggeranno in particolare il Delta del Mekong, in Vietnam, dove si produce circa la metà del riso, oltre il 70% del pesce e la quasi totalità della frutta del paese. Una minaccia alimentare incombe sulla regione”, sottolinea Liem, ricordando come dall’export alimentare vietnamita dipendano Filippine e Indonesia. Per cercare di regolare le tensioni diplomatiche gli stati rivieraschi hanno creato vent’anni or sono una commissione, la Mekong River Commission (Mrc), con lo scopo di dare indicazioni sulla gestione transfrontaliera del fiume. “Va chiarito subito che noi

siamo una commissione tecnica, e non politica, non possiamo prendere decisioni”, mette le mani avanti il presidente della Mrc, Pham Tuan Phan, mentre scruta l’orizzonte dalla finestra dell’ufficio nella capitale Vientiane. In lontananza si scorge il mercato lungo l’argine del Mekong e sull’altra sponda la confinante Thailandia. “Noi riguardo alle dighe abbiamo fornito importanti indicazioni su come rendere più sostenibile la realizzazione, controllando la qualità dell’acqua e proponendo piani di sviluppo congiunti”, spiega in un incontro nella sede di Vientiane. “Noi facilitiamo i processi di consultazione, incontriamo tutte le parti, inclusa la Cina che è un osservatore, ma non prendiamo decisioni politiche. Questo spetta alla diplomazia.” Che a collaborare, nei fatti, sembra poco interessata. Il Laos, governato dall’impenetrabile e autoritario Bounnhang Vorachith, presidente del Partito rivoluzionario del popolo Lao, ha fatto delle dighe la sua politica di sviluppo, a costo di eliminare l’opposizione interna e gli eventuali ambientalisti, contrapposti all’edificazione. “Il Laos non è aperto ad alcuna discussione sul tema delle dighe. Chi parla spesso sparisce”, spiega un attivista che preferisce l’anonimato per tutelare il suo lavoro e la sua incolumità (numerosi, infatti, sono stati gli omicidi di ambientalisti, incluso l’assassinio del leader ecologista Chut Wutty nel 2012). In Cambogia, Hun Sen, primo ministro dal 1993 e capo del Partito popolare cambogiano, sostiene apertamente le critiche contro le dighe in Laos, ma reprime ogni commento sui progetti sul suolo patrio. La Thailandia è spaccata tra Bangkok, che necessita di energia pulita a basso costo per lo sviluppo dell’economia, e le comunità rivierasche, che hanno fatto causa alla compagnia elettrica nazionale thailandese, Egat (Energy Generating Authority of Thailand) per il sostegno alla diga Xayaburi temendo i forti impatti sulla pesca. Per il Vietnam la corsa all’idroelettrico asiatico è una sconfitta su ogni fronte. Poca elettricità per l’import, ridotte quantità di acqua dolce per l’approvvigionamento idrico, crollo della pescosità del fiume e il rischio che la diminuzione del regime nel Delta del Mekong possa favorire infiltrazioni saline e fenomeni di subsidenza, rendendo poco fertili le pianure alluvionali, paniere del paese. Xayaburi, una diga sostenibile? Milleduecento chilometri più a nord lungo il Mekong, tra strade montane inerpicate e tornanti a gomito – non esiste nemmeno un chilometro di autostrada in Laos – si arriva nella zona della diga Xayaburi, non lontana dall’incantevole perla del Mekong, Luang Prabang. Gli innumerevoli controlli rendono subito chiaro il livello di sicurezza intorno al progetto. “Niente giornalisti, niente visite”, affermano le guardie


intimando di allontanarsi. Inversione di marcia, ritorno. Nel villaggio di Xayaburi nessuno vuole rispondere a domande. Del destino degli abitanti di Houay Souy, uno dei primi sgomberati dai costruttori e dal governo nessuno sa nulla. Gli sviluppatori del progetto da 3,8 miliardi di dollari – il gruppo d’ingegneria thailandese CH-Karnchang sostenuto da un gruppo di banche di Bangkok – contattati più volte, non hanno mai risposto alla richiesta per visitare il sito e rispondere ad alcune domande sulla sostenibilità della diga. Il colosso da 820 metri di larghezza e 33 di altezza può essere visto solo da lontano. Con una capacità di produzione massima di 1.285 megawatt, è uno dei progetti che più di tutti preoccupa agricoltori, politici, ambientalisti e geologi, dato che sbarrerà completamente il Mekong in uno dei punti dove si raccoglie più acqua. Circa il 95% dell’elettricità prodotta (7.500 GWh annui) sarà acquistata dalla utility thailandese Egat, principale acquirente anche dalla centrale idroelettrica Don Sahong e Pak Beng. “Uno dei principali impatti è la riduzione del carico di sedimenti, ricchi di nutrienti, che avrà ripercussioni su pesca e agricoltura delle comunità rivierasche e sui territori meridionali del Mekong” spiega Tek Vannara, del Forum Ong, durante una lunga intervista nel suo studio di Phnom Penh. A confermare la posizione delle organizzazioni non governative, Chris Barlow, un esperto di pesca dell’Australian Centre for

International Agricultural Research (Aciar). “Quando queste dighe saranno complete l’impatto sulla pesca sarà immediato, in particolare sulla quantità di pesci disponibili”, precisa Barlow. Posizioni che non condivide il presidente della Mekong River Commission, Pham Tuan Phan. “Gli ambientalisti hanno un approccio radicale e hanno deciso di non partecipare al processo. Xayaburi è un progetto avanzatissimo, che ha recepito le nostre richieste di mitigare gli impatti. Ci sono passaggi per i pesci, con tanto di ‘scale’ per permettere loro di risalire la corrente, che possono ospitare anche quelli più grandi come il pangasio gigante, lungo anche tre metri; ci sono gli scarichi per i sedimenti e le turbine sono state modificate per permettere il passaggio delle specie acquatiche”. CH-Karnchang si è avvalso del consulente finlandese Pöyry per la consulenza di realizzazione della diga al fine di implementare correttamente le richieste avanzate dalla Mekong River Commission (Mrc). In uno statement rilasciato da Knut Sierotzki, direttore sezione idroelettrico per l’Asia di Pöyry “l’impianto e le operazioni sono conformi agli standard internazionali, quelli richiesti dalla Mrc e alle leggi di Laos e Thailandia. Il Laos ha una delle legislazioni più all’avanguardia sugli impatti ambientali e sociali del Sudest asiatico!”. Tuttavia lo stretto riserbo sul progetto, la mancanza di accessibilità e lo scetticismo degli ambientalisti

Uno dei principali impatti è la riduzione del carico di sedimenti, ricchi di nutrienti, che avrà ripercussioni su pesca e agricoltura delle comunità rivierasche e sui territori meridionali del Mekong.



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materiarinnovabile 15. 2017 sembrano contraddire le promesse. “Il progetto sarà disastroso e per scoprirlo basterà attendere l’inizio delle operazioni. Il Mekong sarà di fatto tagliato in due”, commenta tranchant Pianporn Deetes. Don Sahong, il cimitero dei delfini Per 40.000 kip laotiani (4 euro) Suk Lang porta i turisti in mezzo al Mekong per avvistare il famoso delfino dell’Irrawaddy, un mammifero di cui rimangono circa una cinquantina di esemplari in tutto il mondo. La sua barca leva le ancore dal villaggio cambogiano di Preah Rumkel, nella provincia di Stung Treng. Poco meno di un chilometro e la barca s’arresta, appena prima di entrare in territorio laotiano. I militari osservano distrattamente in lontananza. Un’increspatura d’acqua e appare il dorso luccicante di un maschio. Poi un altro mostra la testa smussata, dal colore grigio chiaro. E infine un terzo. “Sono tutti quelli rimasti, trovano rifugio in questa pozza dove sanno che nessuno li tocca.” Suk, 62 anni, secco e magro nell’uniforme troppo abbondante, è stato incaricato dal consiglio provinciale di sorvegliare gli animali, per evitare che i turisti li disturbino o che vengano cacciati dai bracconieri. Il suo nemico ora però è la diga Don Sahong, iniziata nel 2015 dalla compagnia malese MegaFirst e prossima alla conclusione. “Sentite i rumori? È a meno di un chilometro da qua”, dice puntando il dito verso il cielo plumbeo settentrionale.

I delfini rischiano di scomparire per sempre. E così i tanti ecoturisti che vengono in pellegrinaggio a vederli nella cornice pittoresca di Kratie, dove il Mekong spuma e biancheggia tra le rapide. “Turismo significa sopravvivenza per 600 famiglie”, commenta Suk sistemandosi la casacca militare, per sottolineare l’autorevolezza della sua opinione. Ogni tanto le associazioni ambientaliste vengono qua a protestare. Striscioni, slogan, canti, dolcetti al miele da distribuire ai turisti. Ma dall’altra parte tutto tace. Il Laos ignora ogni richiesta di modificare il permesso. La compagnia costruttrice anche in questo caso non permette di avvicinarsi. Per vedere cosa sta avvenendo dobbiamo lanciare un drone dal confine, evitando i militari, per ottenere in esclusiva alcune immagini. “Se per il delfino dell’Irrawaddy non ci sono speranze – entro breve andrà estinto – per gli abitanti il vero problema sono i pesci che costituiscono la risorsa primaria di sopravvivenza nelle numerose comunità”, spiega Suk. Un pericolo sottolineato più volte dagli ambientalisti. Come Chhith Sam Ath, direttore Wwf Cambogia che richiama i numerosi report scientifici e analisi d’impatto che “mostrano chiaramente che la diga farà danni incalcolabili sulla migrazione dei pesci, andando a colpire la sicurezza alimentare di tantissimi pescatori a sud della diga”. Un report della Mekong River Commission pubblicato nel 2015 ha stabilito che la realizzazione di tutte e undici le dighe previste Il buddismo insegna che chi costruisce male, nella prossima vita nascerà male. Chi toglie l’acqua ai pesci, nella prossima vita sarà un pesce senz’acqua.


Policy

UN Watercourses Convention, www.unwatercourses convention.org

potrebbe spazzare via metà dei pesci presenti nel fiume, in particolare quelli di grandi dimensioni che potrebbero estinguersi. Centinaia di migliaia di abitanti del fiume perderebbero la pesca, sia come fonte di sostentamento alimentare sia di occupazione. I danni sullo sviluppo e la sicurezza sociale nel paese sarebbero incalcolabili. Mekong 2100 Il livello del Mekong è al minimo storico, il più basso dall’inizio delle misurazioni cento anni or sono. La stagione secca 2017 si annuncia ancora più severa di quella dell’anno precedente. Eppure questo reportage, costato oltre un mese di lavoro sul campo, non ha trovato nessuna evidenza che le dighe verranno né fermate ne modificate, come dimostra l’annuncio recente di iniziare a breve i lavori della diga Pak Beng in Laos. Sebbene il governo di Bounnhang Vorachith ha dimostrato di voler includere alcuni elementi di sostenibilità delle dighe laotiane, a oggi manca uno studio complessivo sull’impatto di tutte e 11 le dighe valutato insieme alle quasi 28 nel settore cinese del Mekong, mentre tutte le Ong intervistate condannano le modifiche fatte alle dighe in costruzione come “insufficienti e non basate su solida ricerca” oltre che “una condanna per molte popolazioni indigene rivierasche”. A questo vanno aggiunti alcuni fattori esogeni, come gli impatti del cambiamento climatico che, causando lo scioglimento dei ghiacciai del plateau tibetano e facendo crescere l’intensità del regime pluviale – sostiene l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – aumenteranno le fasi di inondazione nella stagione umida e diminuirà la disponibilità d’acqua nella stagione secca, acuendo le tensioni legate alla richiesta di prelievo idrico. Un ulteriore fattore è l’isolazionismo di molti governi della regione dalla comunità internazionale. Secondo Rémy Kinna, analista di Transboundary Water Law Global Consulting “a oggi il Vietnam è l’unico stato

ad aver ratificato la Convenzione sui corpi fluviali delle Nazioni Unite, un meccanismo giuridico globale per facilitare la gestione dei fiumi e dei laghi transfrontalieri in maniera equa e sostenibile. L’assenza di un quadro comune ha reso gli stati poco propensi a negoziare politicamente, lasciando in mano alla Mekong River Commission le questioni tecniche e analitiche, ma senza alcun potere decisionale comune. La sorte della regione rimane incerta. “Le future crisi idriche minacciano di rallentare il settore chiave per alleviare la povertà: l’agricoltura”, spiega Brahma Chellaney, analista geopolitico e autore del libro Water: Asia’s new Battleground. “L’acqua è sempre di più un fattore determinante per comprendere se gli stati vanno verso uno sviluppo cooperativo o verso una competizione deleteria”. Per Chellaney l’influenza maggiore la possiede la Cina giacché controlla il plateau tibetano, principale risorsa dei fiumi d’Asia, Brahmaputra e Gange, e che sostiene lo sviluppo idroelettrico del Laos . “Se questo nuovo regime del Mekong porterà a emergenze idriche – come si è intravisto negli anni passati – ciò intensificherà le tensioni tra stati, rallentando lo sviluppo, mettendo a repentaglio la sicurezza alimentare e innescando migrazioni di massa dalle aree più colpite. La pace asiatica è a rischio, dunque è imperativo investire in cooperazione istituzionale sull’acqua rafforzando il lavoro sulle risorse idriche transfrontaliere”. Intanto Je Sre siede nel suo villaggio, zappando la terra in attesa che l’acqua inizi a salire. I vicini fumano sulla scala, mentre un padre versa acqua in testa alla figlia, con fare cerimoniale. Fa capolino il monaco buddista che cura la pagoda locale. Pol Kong, si presenta. Guarda in lontananza il fiume e scuote la testa. “I costruttori della diga hanno già realizzato un nuovo tempio per ingraziarsi il Buddha. Ma il buddismo insegna che chi costruisce male, nella prossima vita nascerà male. Chi toglie l’acqua ai pesci, nella prossima vita sarà un pesce senz’acqua.”

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NEOCLASSICO o EX NOVO? Intervista ad Anna Pellizzari ed Emilio Genovesi

di Diego Tavazzi

Material ConneXion Italia, it.materialconnexion.com

Ellen MacArthur Foundation, Growth within: a circular economy vision for a competitive Europe, 2015; tinyurl.com/gnrrnz9

L’uso della materia nei processi produttivi lineari è destinato a modificarsi. E i neomateriali sono alla base del nuovo modello circolare. Biobased, neoclassici ed ex novo: sono questi i neomateriali che rappresentano i nuovi scenari della materia. Di origine vegetale o biologica, ricavati dalle miniere urbane oppure recuperati dagli scarti sono i protagonisti del paradigma dell’economia circolare. Materia Rinnovabile ha chiesto ad Anna Pellizzari, che assieme a Emilio Genovesi ha curato il volume Neomateriali nell’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2017), di illustrarne le specificità. Quali sono i macrofattori che stanno modificando il quadro delle materie a disposizione delle industrie (demografia, limitatezza delle risorse, pressioni sugli ecosistemi)? “Il modello industriale attuale, che si basa di fatto ancora su un percorso lineare produco-consumodismetto, parte dal presupposto che le risorse siano infinite. Ovviamente non è così: la pressione data dal un lato dal boom demografico, dall’altro dall’espansione industriale dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina, ndr) e di tutti gli altri in via di sviluppo, ha determinato una contrazione nella disponibilità di materie prime, con forti tensioni sui mercati internazionali. A ciò si aggiunge la richiesta di materiali scarsi per loro natura – come alcuni metalli e terre rare – ma necessari per esempio alla fabbricazione dell’hardware nell’elettronica. Specularmente, le modalità di distribuzione e la riduzione della durata di utilizzo dei beni (un cellulare, in media, viene dismesso dopo meno di due anni; per non parlare di prodotti più complessi come elettrodomestici, automobili, arredamento) generano quantità inimmaginabili di rifiuti. Oggi in Europa ben 6 tonnellate di materie prime, delle 16 complessive consumate individualmente all’anno da ogni cittadino

dell’Unione, diventano scarti. Risulta evidente che i due fenomeni devono incrociarsi, sviluppando logiche di domanda e offerta per cui gli scarti possano diventare risorse.” Quali sono i “padri fondatori” dell’economia circolare? Antecedenti storici, libri, teorici… “È difficile stabilire una paternità in merito al concetto di ‘economia circolare’ per il fatto che si è sviluppato nel tempo grazie al contributo di molti. Al momento la definizione di circular economy più completa è quella della Ellen MacArthur Foundation, che ha proposto il famoso schema che illustra – dividendo i cicli di produzione in naturali (‘biologici’) e artificiali (‘tecnici’) – le modalità virtuose secondo cui il modello lineare produco-consumo-dismetto può essere ‘curvato’ facendo sì che da tutte e tre le fasi si possa ritornare all’origine. Questo attraverso politiche attive di riciclo, riuso, riparazione, ma anche grazie all’allungamento della durata della vita dei prodotti, all’efficientamento dei processi, alla riduzione degli sprechi e alla progettazione intelligente. Il concetto in sé non è nuovo: l’idea di un circuito circolare dei materiali venne presentata già nel 1966 da Kenneth E. Boulding nel suo articolo ‘The Economics of the Coming Spaceship Earth’. Anche se, a ben guardare, tracce di economia circolare si trovano anche nell’antichità, dove il riuso dei beni a fine vita e la gestione controllata delle risorse erano prassi abbastanza consolidate. Oggi uno dei pensatori più originali è senz’altro Gunter Pauli, che ha teorizzato la blue economy (la blue economy punta alla creazione di un modello economico globale sostenibile ispirato alla biomimesi e al funzionamento della natura, dove non esistono rifiuti, ndr).”


Policy il legno di 100 piante per costruire cassetti e metterne a dimora altrettante. Ricondurre questi singoli elementi entro una policy unitaria che punti a un impatto zero è l’obiettivo dell’economia circolare.”

Nata come graphic designer, Anna Pellizzari ha poi esteso le sue competenze professionali al progetto dei materiali e delle finiture nel settore sportivo e automotive. Ha collaborato con il Centro Ricerche di Domus Academy e dal 2012 è executive director di Material ConneXion Italia. Esperto nei temi del design e della strategia d’impresa, Emilio Genovesi è stato direttore generale di Domus Academy. Project leader del Biodiversity Park, padiglione tematico all’ExpoMilano 2015, dal 2007 è CEO di Material ConneXion Italia.

Il capitolo introduttivo del vostro libro si intitola “Dalla linea al cerchio”, una formula che ben sintetizza la trasformazione in atto. Di cosa si tratta e cosa implica per chi progetta, costruisce o produce, smaltisce e recupera? “Il superamento dello schema lineare punta a reimmettere nel ciclo produttivo la massima quantità possibile (tendenzialmente tutto) di risorse – laddove per ‘risorsa’ non si intende solo la materia fisica che compone il prodotto, ma anche gli elementi collaterali che entrano nel processo di trasformazione, come aria, acqua o l’energia impiegata nella produzione sia se generata da fonte fossile o rinnovabile. In pratica il superamento dello schema lineare non si limita a dismettere e riciclare il prodotto finito, ma si estende a varie ‘policy di rientro’, che possono essere indirizzate ai diversi livelli della catena produttiva: dall’autoriparazione fino allo smaltimento e al ritorno all’origine nella catena che porta a una nuova produzione. L’idea di economia circolare va oltre il ciclo del singolo prodotto, proponendo sinergie tra diverse imprese finalizzate al riutilizzo di ciò che per un’industria è scarto e che per altre può essere risorsa. Oppure immaginando modelli di consumo diversi, come il noleggio, in cui la gestione, e quindi in ultima analisi la responsabilità, del manufatto rimane in capo all’azienda, la quale riesce a centralizzare tutti gli aspetti da curare (riparazione, aggiornamento, sostituzione pezzi, fino al ritiro e smaltimento finale) in maniera più competente e quindi più efficiente. Lo studio di McKinsey commissionato dalla Ellen MacArthur Foundation individua cinque strategie principali: •• filiera circolare; •• recupero e riciclo; •• estensione della vita di un prodotto; •• sviluppo di piattaforme di condivisione; •• passaggio da prodotti a servizi. Far riparare la lavatrice (e quindi, come azienda produttrice, renderla più facilmente riparabile), per esempio, è un’azione che rientra nell’economia circolare. Lo è anche, per un’azienda, utilizzare

C’è la distinzione tra materiali biobased, materiali neoclassici ed ex novo materials. Di cosa si tratta? “Biobased sono quei materiali di origine vegetale o comunque biologica, costituiti parzialmente o totalmente, da componenti organiche che, come tali, vanno considerate rinnovabili in quanto riproducibili secondo le modalità e i ritmi della vita biologica. Tra questi materiali, i più innovativi sono i biopolimeri che sostituiscono, con prestazioni sempre più interessanti, i tradizionali materiali plastici da fonte fossile, nonché quei materiali ‘coltivati’ a partire da batteri o miceli, in cui ai vantaggi della componente organica si aggiunge la sensibile riduzione dell’energia impiegata in trasformazione. La seconda famiglia di materiali circolari proviene, invece, dalle cosiddette ‘miniere urbane’ o ‘miniere industriali’. Sono quelli che fino a poco tempo fa chiamavamo ‘rifiuti’ e che oggi si candidano a diventare nuove materie prime. Si tratta di materiali già da tempo sottratti alla discarica attraverso filiere industriali consolidate e quindi definiti ‘neoclassici’: carta, vetro, alluminio, acciaio, legno e – più recentemente – le materie plastiche e la gomma, ma anche i rifiuti elettronici. A questi si aggiunge una terza famiglia, appena affacciatasi nel panorama delle materie prime, che punta al riutilizzo dei materiali fino a ieri considerati irrecuperabili, per motivi economici o di processo, e destinati inesorabilmente all’incenerimento, alla discarica o allo stoccaggio. Materie come gli scarti della lavorazione industriale degli alimenti, ma anche le terre di spazzamento delle strade, polveri da inceneritore, reflui gassosi, fino a rifiuti urbani di difficile recupero come i pannolini o il mix plastico. Sono gli ex novo, ovvero materiali dati per ‘finiti’ e che invece, grazie allo sviluppo di nuovi processi e filiere, rientrano nel ciclo produttivo, spesso ripartendo da zero, ovvero utilizzati come nuova materia prima vergine.” Quale, tra gli svariati materiali/filiere raccontati nel libro, è il più interessante? E perché? “Sicuramente la famiglia più affascinante è quella degli ex novo perché è quella dove risiedono le sfide maggiori in termini di creatività e sviluppo di tecnologia. Gli ex novo, di fatto, prevedono una progettazione a 360°: individuazione degli scarti più interessanti (ovvero quelli di cui esiste una fornitura costante che consenta lo sviluppo di una filiera stabile); la creazione del modello di business, della filiera insomma comprensiva di logistica; lo sviluppo della tecnologia in grado di trasformare lo scarto. C’è poi l’idea di valorizzare materie che, di primo acchito, parrebbero senza speranza: polveri da inceneritore, terre di spazzamento delle strade, reflui e fanghi.

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RICICLO IN SITO (rilavorazione, rigranulazione ecc.)

RICICLO PRE-CONSUMO (post-produzione)

PARTENZA

scarti, sfridi, ritagli ecc. Il prodotto rientra nel suo stesso ciclo produttivo

Il prodotto rientra nel suo stesso ciclo produttivo

RICICLO POST-CONSUMO Il prodotto rientra in un ciclo produttivo diverso da solo o in combinazione con altri

Elementi a valore zero, o addirittura sottozero (ovvero che prevedono costi di smaltimento) che risalgono la catena del valore diventando piastrelle, materie plastiche, tessuti.” Tra i settori su cui molti scommettono, e che sono elementi costitutivi della Quarta rivoluzione industriale, ci sono – tra gli altri – la robotica e le biotecnologie avanzate. Quali sinergie si possono individuare tra i nuovi materiali e questi settori in forte accelerazione? “In generale, si può dire che questi neomateriali si inseriscono nello stesso paradigma industriale, che è appunto quello dell’economia circolare. Le sinergie sono diverse: la robotica e l’industria 4.0 hanno una serie di implicazioni concrete che coinvolgono anche la sfera dei materiali. In particolare su tematiche quali la riduzione degli scarti, attraverso processi produttivi innovativi, come per esempio la manifattura additiva, e la gestione di lotti piccoli pur rimanendo in ambito seriale, cosa che consente di ridurre le rimanenze. O la possibilità di ‘taggare’ le diverse componenti di un prodotto in modo da programmarne la sostituzione e quindi allungarne la vita. In questi ambiti i materiali intervengono fornendo soluzioni abilitanti, dalle materie adatte a essere trasformate con processi additivi, a sensori, tag, circuiti stampati e molto altro. Anche le biotecnologie avanzate fanno grande uso di materiali biocompatibili i quali, in linea generale, si dividono in due macrocategorie: materie che potremmo definire ‘inerti’, ovvero


Policy MATERIALI DA COLTURA Materiali biobased in grado di sostituire efficacemente i corrispondenti a base fossile non rinnovabile

Materiali biobased dalle filiere classiche del riciclo

Materiali da scarti organici dell’industria alimentare oppure post consumo

ICI

SS

EX

LA OC

NE

NO VO

BIOBASED

Materiali dalle filiere classiche del riciclo

Materiali derivati da rifiuti urbani, industriali ed edili esclusi dalle filiere classiche del riciclo

Materiali da rifiuto che si candidano a costruire filiere consolidate

MATERIALI DA RIFIUTO

che non interagiscono negativamente con l’organismo con cui vengono a contatto perché non rilasciano sostanze nocive, né vengono ‘attaccati’ come corpi estranei. Si tratta di quei materiali classicamente impiegati nel settore medicale, come per esempio il titanio. A questi si aggiunge una nuova generazione di biomateriali, che invece sono simulazioni di tessuti organici, i quali vengono creati con tecniche di ingegneria tissutale.” Sarebbe la quadratura del cerchio, la scoperta della pietra filosofale: a che punto sono gli studi per associare nuovi materiali e progetti per assorbire la CO2 dall’aria? “Il problema principale risiede nel basso livello energetico della CO2, una molecola a bassa reattività, che richiede enormi quantità di energia per interagire e trasformarsi in un altro composto, il che impatta negativamente sulla carbon footprint complessiva dell’intera operazione. Mentre l’uso diretto della CO2 è ancora in fase sperimentale, e il suo vantaggio calcolato attraverso Lca non è così ovvio, il suo impiego indiretto è già in uno stadio più avanzato, come base per la formazione di polimeri intermedi nella catena di produzione dei poliuretani. Per esempio, la si può convertire in metanolo e successivamente in formaldeide e in poliossimetilene diolo, un building block per la formazione dei polioli (composti chimici molto importanti nella scienza dell’alimentazione e nella chimica dei polimeri, ndr). Il metanolo a base di CO2, già disponibile in commercio, è al centro di molti progetti che stanno dando risultati incoraggianti.”

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SPAGNA

In un paese dove la disoccupazione è al 18,4% la bioeconomia rappresenta una grande opportunità per conciliare crescita, creazione di posti di lavoro qualificati e sostenibilità ambientale. Lo ha capito bene il governo di Madrid che ha messo a segno una specifica strategia per poterne sviluppare l’intero potenziale. Riconoscendo il ruolo essenziale di una corretta comunicazione con tutti gli attori sociali ed economici.

Skyline: Vector Open Stock – C.C. 3.0

Dossier


Policy

Ambizione

SOSTENIBILE Considerata centrale per consolidare la crescita economica, la bioeconomia spagnola può contare su un forte settore agroalimentare e forestale che assicura grande disponibilità di materia prima essenziale per produrre bioenergie e nuovi biomateriali. E su un’industria biotech altamente competitiva e leader nel mondo che vede insieme joint-venture e piccole e medie imprese. di Mario Bonaccorso

Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.

The Spanish Bioeconomy – 2030 Horizon, tinyurl.com/hwq5ebe

Una necessità e un’opportunità. È ciò che rappresenta la bioeconomia per il governo spagnolo, che nel marzo 2016 – primo tra i grandi paesi del Mediterraneo – ha presentato la propria strategia nazionale (The Spanish Bioeconomy – 2030 Horizon). Una necessità per muovere il paese in direzione di una società meno dipendente dalle risorse non rinnovabili di origine fossile, “il cui consumo sta accelerando il processo di cambiamento climatico che mette a rischio il futuro del pianeta”. Un’opportunità per trainare “un processo di consolidamento della crescita economica”, dove le nuove tecnologie sono considerate come strumenti di competitività per le imprese spagnole. “L’obiettivo principale – ha scritto nella premessa della strategia Isabel García Tejerina, ministro dell’Agricoltura, dell’Alimentazione e dell’Ambiente – è costruire una bioeconomia come parte essenziale dell’attività economica del paese, con l’innovazione che genera know-how, chiedendo una stretta collaborazione tra pubblico e privato e una maggiore interazione tra il sistema scientifico e tecnologico spagnolo e quello internazionale”. Il ruolo dell’agroalimentare A fare la parte del leone nella strategia spagnola sulla bioeconomia sono i settori agricolo, alimentare e forestale, che sono considerati i primi beneficiari di uno sviluppo economico basato sull’impiego delle risorse biologiche. Da una parte, sono fornitori di materie prime che non devono competere con l’alimentazione, dall’altra sono destinatari di gran parte dell’innovazione biotecnologica sviluppata. A fotografare la loro importanza nel sistema produttivo del paese iberico sono i dati forniti

dal ministero dell’Agricoltura, secondo cui il settore agricolo rappresentava nel 2013 il 2,5% del Pil nazionale e generava un valore aggiunto lordo di 21,707 miliardi di euro, dando lavoro a 740.000 persone. L’industria alimentare rappresentava il 2,7% del Pil e generava un valore aggiunto di 28,448 miliardi di euro, occupando 480.000 addetti in oltre 28.000 imprese. E, in totale, il settore agroalimentare costituiva oltre il 17% dell’export nazionale. Ancora: la silvicoltura valeva 762 milioni di euro, il settore della pesca e dell’acquacoltura oltre un miliardo di euro, l’industria della carta 3,3 miliardi, l’industria del legno e del sughero circa 1,9 miliardi. La sfida lanciata dalla strategia spagnola è di mantenere la sostenibilità della produzione primaria dal punto di vista economico, sociale e ambientale. Tutto questo, secondo Madrid, sarà possibile migliorando l’efficienza produttiva, i processi organizzativi e logistici grazie alle tecnologie e all’innovazione. Gli scarti prodotti dall’agricoltura e dall’industria alimentare dovranno divenire materia prima per la produzione di nuovi biomateriali e bioenergie. Secondo l’Associazione delle imprese dell’energia rinnovabile, nel periodo 2007-2014 il Pil medio annuo generato dal settore delle bioenergie (inclusa la biomassa per la generazione di elettricità) e dei biocombustibili per il trasporto è stato di 3,562 miliardi di euro. Nello stesso periodo sono stati creati una media annua di 47.880 posti di lavoro diretti e indiretti. Il caso Abengoa Bioenergy Certo una linea d’ombra sul settore l’ha tracciata il caso della Abengoa Bioenergy, che è stata a un passo dalla bancarotta e sta dismettendo tutti

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©Manuel Estrada, copertine per Alianza editorial

Succinity GmbH, www.succinity.com

gli impianti sparsi per il mondo, riuscendo a evitare il capitolo 11 della legge fallimentare negli Stati Uniti solo a patto di una ristrutturazione pesante del debito. Alla fine dello scorso anno la sussidiaria Abengoa Bioenergy Biomass of Kansas è stata costretta a vendere il proprio impianto a base di cellulosa di Hugoton alla Synata Bio per 48,5 milioni di dollari. La vendita ha incluso lo stabilimento per la produzione di etanolo cellulosico con una capacità di 25 milioni di galloni all’anno, l’impianto di cogenerazione elettrica e 400 acri di terreno. Mentre è stata esclusa la proprietà intellettuale contenuta nel processo e gli accordi di licenza con la Abengoa Bioenergy New Technologies. Nel 2011, il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti aveva concesso un credito garantito di 134 milioni di dollari per la costruzione dell’impianto. Nell’agosto 2016 è stata la Green Plains Inc. a mettere le mani, sborsando 237 milioni di dollari in contanti, su tre impianti di etanolo della Abengoa Bioenergy negli Stati Uniti: a Madison, in Illinois; a Mount Vernon, in Indiana e a York, in Nebraska, per una capacità produttiva totale di 236 milioni di galloni all’anno. Ma non è tutto: la stessa Green Plains ha acquisito anche gli impianti di Ravenna (Nebraska) e Colwich (Kansas), mentre l’impianto di Portales (Nuovo Messico) è passato al Natural Chem Group.

Manuel Estrada, con il suo studio a Madrid, è tra i primi interpreti di quella ola del design spagnolo che, dopo la fine del franchismo, è divenuta una marca unica in Europa per estensione e qualità. Questa rivoluzione dell’immagine ha coinvolto nel tempo istituzioni, imprese, prodotti e cultura in un processo fortemente iconico, costante e riconoscibile. Di Manuel Estrada presentiamo, in forma di schegge, alcuni lavori dove la componente “natura” è contemporaneamente comunicazione e felice battuta di spirito.

Sul fronte europeo, invece, l’impianto per la produzione di biodiesel di Abengoa Bioenergía San Roque S.A. a Cadice, nel sud della Spagna, è stato ceduto per otto milioni di euro alla Cepsa (Compañía Española de Petróleos S.A.U.), a cui peraltro era destinato già il 100% del biodiesel prodotto utilizzando soia, colza e olio di palma. Lo scorso giugno la belga Alcogroup ha rilevato l’impianto Europoort, a Rotterdam (nei Paesi Bassi). E sono in vendita gli stabilimenti di La Coruña, Salamanca e Cartagena. In Francia sarebbero in fase avanzata le trattative per la cessione dell’impianto di bioetanolo di Lacq (Pirenei atlantici, Aquitania). I candidati all’acquisto della bioraffineria che impiega 70 addetti e produce 250 milioni di litri ogni anno sono Oceol, un raggruppamento delle principali cooperative e aziende agricole della regione, e un fondo d’investimento europeo. La biochimica made in Spain Nel campo della chimica verde, la principale bioraffineria spagnola è quella di Succinity GmbH, la joint-venture creata nell’agosto 2013 tra Corbion Purac, la società olandese che è leader mondiale per la produzione di acido lattico e dei suoi derivati, e il gigante chimico tedesco Basf. Il suo impianto, che si trova presso il sito di Corbion Purac a Montmeló, in Catalogna, produce su scala commerciale acido succinico biobased per il mercato globale, con una capacità annua di 10.000 tonnellate. “Abbiamo realizzato un’analisi del ciclo di vita – fa sapere la società che ha il proprio quartier generale a Düsseldorf, in Germania – che dimostra come l’impronta di carbonio dell’acido succinico biobased ‘Succinity’ sia oltre il 60% inferiore a quella dell’acido succinico a base fossile”. Nel 2004 il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti ha inserito l’acido succinico nella lista dei dodici migliori intermedi chimici ottenibili da biomassa. Non manca, quindi, la concorrenza sul fronte degli attori industriali: da BioAmber in Canada (Sarnia), con il supporto di Mitsui e Lanxess, a Reverdia, joint-venture tra Dsm e Roquette, in Italia (Cassano Spinola). Le sue applicazioni sono numerose: come materia prima per bioplastiche, rivestimenti, adesivi, sigillanti e prodotti per la cura personale. Inoltre, l’acido bio-succinico è impiegato anche per gli alimenti e gli aromi come acidificante e conservante a base di materie prime di origine vegetale. Il processo industriale di “Succinity” si basa su materie prime rinnovabili, le quali, grazie al microrganismo proprietario Basfia succiniciproducens, vengono impiegate in modo flessibile, in un processo a ciclo chiuso efficiente che non genera particolari flussi di rifiuti. Le biotecnologie industriali Accanto alla joint-venture tra Basf e Corbion Purac, sono nate in Spagna una serie di piccole e medie


Policy imprese che hanno posto al centro della loro attività lo sviluppo di una nuova chimica innovativa basata sull’impiego delle biotecnologie e la trasformazione degli scarti agroalimentari. Uno dei casi più significativi è quello di Neol Bio. La società andalusa guidata da Javier Velasco, che ha il proprio quartier generale a Granada, ha sviluppato un microrganismo in grado di trasformare gli scarti agricoli in nuovi bioprodotti (bioplastiche e biolubrificanti soprattutto). “Nella sola Almerìa – dicono dalla Neol Bio – l’agricoltura produce due milioni di tonnellate di scarti, per un valore di 30 milioni di euro all’anno, che possono essere riutilizzati grazie alle biotecnologie”. Lo scorso novembre, la società biotecnologica andalusa ha siglato un accordo di collaborazione con il Laboratorio nazionale per l’energia rinnovabile, che fa capo al Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, al fine di produrre alcoli grassi da zuccheri lignocellulosici. L’obiettivo: sviluppare biocarburanti liquidi per il trasporto a costi competitivi. Nel 2015, Neol Bio si è inoltre aggiudicata due gare per la realizzazione di una bioraffineria a Puertollano (progetto ClaMber), nella regione di CastillaLa Mancha, che produrrà da differenti residui agricoli biocarburanti ad alto valore aggiunto. L’investimento totale ammonta a 20 milioni di euro,

Le microalghe Le microalghe sono il primo anello nella catena alimentare acquatica. Senza la loro presenza non ci sarebbe la vita. Oltre a fornirci ossigeno attraverso la fotosintesi oggi possono anche aiutarci ad affrontare molte delle sfide legate al cambiamento climatico e all’aumento della popolazione mondiale. Data la loro composizione ricca di proteine, carboidrati e lipidi, le microalghe sono la fonte di molti prodotti benefici in una vasta gamma di settori, quali l’alimentazione umana, i mangimi, l’agricoltura, l’acquacoltura e la cosmetica. Non solo: la comunità scientifica internazionale concorda sul fatto che, nel breve futuro, le microalghe saranno competitive per generare energia pulita e biocarburanti di seconda generazione, contribuendo così a uno sviluppo sostenibile in termini ambientali ed economici. Questo perché: •• sono una risorsa naturale inesauribile molto produttiva; •• consentono una raccolta giornaliera; •• non hanno bisogno di terre fertili e non sono in competizione con l’alimentazione umana; •• crescono in acque marine, dolci, salmastre e nelle acque reflue; •• consentono un maggiore abbattimento di CO2 (fino a 2 chilogrammi per ogni chilogrammo di biomassa prodotta).

Uno dei primi utilizzi dei biocarburanti di seconda generazione prodotti da Repsol si è avuto nel volo Madrid-Barcellona operato da un Airbus A320 di Iberia nel 2011.

quattro/quinti dei quali messi a disposizione dal Fondo europeo di sviluppo regionale. Secondo Asebio, l’Associazione spagnola della bioindustria, la Spagna è tra i paesi leader mondiali nel campo della biotecnologia industriale. L’Istituto nazionale di statistica (Ine) ha censito 2.831 imprese biotech con circa 173.000 addetti, di cui 9.135 impegnati in attività di ricerca e sviluppo. Tra queste c’è la Alkol Biotech, una società di ingegneria genetica focalizzata sullo sviluppo di nuove varietà vegetali adattate alle esigenze dei mercati della bioindustria. “La nostra ricerca è rivolta a nuove colture come materia prima per la produzione di biocarburanti, bioplastiche e altri bioprodotti”, afferma Al Costa, amministratore delegato dell’impresa spagnola. “Puntiamo a migliorare le colture per consentire la produzione sostenibile di qualsiasi prodotto a base biologica.” La nuova varietà di canna da zucchero è la EUnergyCane, un ibrido che viene fatto crescere nei campi di Motril, in Andalusia, e garantisce una più forte resistenza ai virus e ai parassiti, più elevati rendimenti a livello di zucchero e fibra, maggiore resistenza agli agenti chimici. La società guidata da Costa punta a creare una varietà di canna da zucchero in grado di crescere anche nei climi più freddi e secchi. I biocarburanti Repsol Anche il colosso spagnolo del petrolio e del gas naturale Repsol, una delle dieci maggiori società petrolifere al mondo, ha messo i biocarburanti al centro del proprio piano di sviluppo di energia sostenibile. Nel 2010 – ultimo dato disponibile fornito dalla società quotata alla borsa di Madrid – sono state 1,2 milioni le tonnellate di biodiesel commercializzate e 273.000 le tonnellate di bioetanolo. “Selezioniamo – dicono alla Repsol – i biocarburanti più adatti al mercato e li aggiungiamo alla benzina e al diesel nelle più alte proporzioni consentite dalla legislazione di ciascun paese”. Per dare impulso al nuovo business delle energie rinnovabili, nel 2010 è stato prima creato il ramo d’azienda Nuove energie, che ha permesso alla società spagnola di lanciare i biocarburanti di seconda generazione. In seguito, la newco Kuosol, una joint-venture paritaria con il gruppo messicano Kuo su cui sono stati investiti un totale di 80 milioni di dollari, per lo sviluppo di bioenergie dalla coltivazione della Jatropha curcas, una pianta oleaginosa con un alto contenuto di olio e non commestibile coltivata su 10.000 ettari di terreno nello Yucatan. I nuovi biocarburanti avanzati, sviluppati nel Technology Center di Repsol, sono testati industrialmente nelle raffinerie spagnole di Puertollano e Cartagena. Il processo consente anche di sviluppare un co-prodotto, il biopropano, che è un gas con caratteristiche identiche al propano, ma al 100% rinnovabile. Uno dei primi utilizzi dei biocarburanti di seconda generazione prodotti da Repsol si è avuto nel volo

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Allo studio di Repsol si trova anche l’impiego di alghe come materia prima per la produzione di biocarburanti. Un progetto che ha portato a una partecipazione del 20% in Alga Energy, un’impresa leader nel campo della ricerca sulle microalghe, che vanta come proprio azionista anche Iberdrola, la maggiore società produttrice di elettricità e gas naturale in Spagna, e che lo scorso novembre è stata selezionata dalla Commissione europea tra le sei pmi del continente con il più alto potenziale di crescita. Alga Energy gestisce un impianto produttivo di biocarburante da microalghe, con una capacità di un milione di litri all’anno, ad Arcos de la Frontera, vicino a Cadice. Lo stabilimento, che fa parte del programma CO2Algaefix co-finanziato dalla Commissione europea, copre un’area di 10.000 metri quadrati e punta a una produzione annua di 100 tonnellate di biomassa secca. Un secondo impianto della società, che coinvolge anche l’agenzia spagnola per il trasporto aereo (Aena) e la compagnia aerea Iberia, sorge vicino all’aeroporto Barajas di Madrid. Anche qui vengono prodotti biocarburanti mediante l’utilizzo di particolari microalghe con grandi capacità fotosintetiche e ricche di acidi grassi (caratteristiche che consentirebbero un impiego ridotto di acqua e di terreno per la produzione dei vegetali), che sono sperimentati sui voli della compagnia aerea spagnola. Oltre alla produzione di biocarburanti, nel sito si provano, allo scopo di migliorarle, tutte le tecnologie finora utilizzate per catturare la CO2 prodotta dagli aeroporti.

Va, infine, favorita “la creazione di un mercato della bioeconomia, attraverso un supporto alla domanda di bioprodotti, che passa soprattutto – secondo quanto previsto dal piano d’azione – da una politica di appalti pubblici verdi, con i relativi sistemi di etichettatura e standardizzazione”. Garante del coordinamento di tutte le azioni necessarie a implementare la strategia nazionale è un Gruppo di monitoraggio creato dal Consiglio per la politica scientifica, tecnologica e dell’innovazione interministeriale, che raggruppa rappresentanti dei ministeri coinvolti, dei settori produttivi, della comunità scientifica e della società civile. La bioeconomia è davvero un’opportunità che la Spagna non vuole perdere.

Alga Energy, www.algaenergy.es/en

©Manuel Estrada, etichette per vini spagnoli

Madrid-Barcellona operato da un Airbus A320 di Iberia nel 2011, dove è stato impiegato un prodotto miscelato con carburante Jet A1 convenzionale e un biocarburante derivato dalla camelina, che avrebbe consentito una riduzione del 20% delle emissioni di gas serra.

Il ruolo della società Per un paese dove il tasso di disoccupazione si è assestato al 18,4% alla fine del 2016 (dati Eurostat), la bioeconomia rappresenta una grande opportunità per conciliare crescita economica, creazione di posti di lavoro qualificati e sostenibilità ambientale. Per realizzarne completamente tutto il potenziale, il governo spagnolo vuole ottenere il pieno sostegno dell’opinione pubblica. Per questo motivo la strategia assegna un ruolo fondamentale alla corretta informazione e alla formazione. “La società – si legge – deve identificare e comprendere il valore aggiunto generato dallo sviluppo di questa strategia per la nostra economia, con un impegno chiaro a impiegare le nostre aree agricole utili per fornire cibo per il consumo umano e animale, accompagnato dallo sviluppo di altre catene di valore basate sull’uso di tecnologie per trasformare la materia organica in bioprodotti e bioenergie, assicurando che tutta la biomassa generata sia sfruttata pienamente”.

©Manuel Estrada, copertina per Alianza editorial

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Policy Intervista

di M. B.

Fatta la strategia, ora bisogna fare un mercato per la bioeconomia Jose Manuel Gonzalez, Centro per lo sviluppo tecnologico industriale (Cdti) del ministero spagnolo per l’Economia, l’Industria e la Competitività

La strategia spagnola sulla bioeconomia ha la propria cabina di regia nel ministero per l’Economia, l’Industria e la Competitività, in particolare nella Segreteria di Stato per la Ricerca, lo Sviluppo e l’Innovazione. Una delle persone che siede in questa cabina di regia è Jose Manuel Gonzalez, del Centro per lo sviluppo tecnologico industriale, che è anche il rappresentante spagnolo per la bioeconomia in Horizon 2020 e nella Biobased Industries Joint Undertaking. “Materia Rinnovabile” lo ha intervistato.

Cdti – Centro para el Desarrollo Tecnológico Industrial, www.cdti.es

Quale elemento caratterizza maggiormente la bioeconomia spagnola? “Sicuramente il ruolo strategico che gioca il settore agroalimentare, che rappresenta più del 5,3% del Pil, il 7% degli occupati, più di 900.000 aziende agricole, 30.000 imprese e quasi il 20% delle esportazioni nel nostro paese. Ma non solo: il settore è caratterizzato da un alto tasso d’innovazione, che si basa su un’ottima ricerca di base e applicata. Questo è testimoniato anche dagli ottimi risultati conseguiti dai progetti spagnoli che applicano ai bandi europei.” L’agroalimentare è la spina dorsale. Che ruolo gioca invece la chimica biobased? “Anche il settore chimico in Spagna è fortemente connesso all’agroalimentare. Una delle imprese principali è Fertiberia, che è leader spagnolo nel campo dei fertilizzanti e uno dei principali a livello europeo. Ma ci sono molte altre imprese che meritano la nostra attenzione. Il suo ruolo nella bioeconomia si articola su piani diversi: contribuisce ad accrescere l’efficienza della produzione agricola e sviluppa nuovi innovativi biofertilizzanti riducendo in questo modo l’impiego delle materie prime fossili. In Spagna, l’intera industria chimica è fortemente impegnata nella ricerca di vie alternative al petrolio, che possano portare sul mercato prodotti biobased sostenibili da tutti i punti di vista. In questo quadro si colloca anche la scelta operata dalla Commissione europea dell’Andalusia come una delle sei model demostrations regions per guidare il cammino verso una produzione chimica sostenibile in Europa (le altre sono Groningen-Drenthe, Paesi Bassi, Kosice, Slovacchia, Scozia, Irlanda Sud-orientale e Vallonia, Belgio, ndr).” Anche la Repsol è impegnata nello sviluppo di biocarburanti... “Sì, certamente. In Spagna c’è una significativa produzione di biodiesel da parte di Repsol e un’avanzata attività di ricerca nel campo dei biocarburanti con l’utilizzo delle alghe (macro e micro). Può diventare molto competitiva in questo campo.

Mi sembra però, anche a livello europeo, che ultimamente ci sia stato un po’ di rallentamento, dovuto senz’altro anche al basso prezzo del petrolio che non favorisce la ricerca di alternative.” Anche la situazione difficile di Abengoa Bioenergy non facilita. Cosa ne pensa? “Penso che il fallimento di Abengoa Bioenergy sia davvero un peccato. La società aveva una consolidata leadership a livello internazionale, fondata su tecnologie d’avanguardia. Queste ultime, in ogni caso, restano. La loro esperienza nel processare differenti tipi di biomassa è impressionante. Credo che un nuovo impulso potrebbe essere dato al settore dall’impiego dei rifiuti solidi urbani come materia prima.” La strategia spagnola fa esplicito riferimento alla necessità di introdurre misure di supporto dal lato della domanda. È allo studio l’introduzione di un sistema di appalti pubblici verdi? “La necessità di favorire l’arrivo al mercato dei prodotti biobased è alla base del confronto che si è aperto nell’ambito del gruppo di lavoro attivato dal ministero dell’Economia, dell’Industria e della Competitività. È fondamentale far comprendere alla società cosa è esattamente la bioeconomia, per creare maggiore consapevolezza. Così come coinvolgere il settore privato, la comunità universitaria e della ricerca, perché per sviluppare questo meta-settore sono necessari anche nuovi profili di laureati, nuovi percorsi formativi, in linea con le esigenze del settore privato. Alcune università molto note hanno già creato un piano di studi focalizzato sulla bioeconomia. E a breve potrebbero anche avviare un master in bioeconomia. Sono temi questi che sono stati al centro della prima riunione del Consiglio direttivo della bioeconomia che si è tenuta il 28 febbraio a Madrid, dove è stato discusso il piano d’azione per il 2017 insieme alla costituzione dell’Osservatorio sulla bioeconomia. Al fine di accelerare l’ingresso nel mercato dei bioprodotti, saranno considerati alcuni strumenti come gli appalti pubblici verdi, accompagnati da un sistema di standardizzazione e di etichettatura.” Chi farà parte dell’Osservatorio? “Tutti gli stakeholder della bioeconomia: le imprese, il mondo della ricerca, il ministero dell’Economia, dell’Industria e della Competitività (la Segreteria di Stato per la Ricerca, lo Sviluppo e l’Innovazione), il ministero dell’Agricoltura, dell’Alimentazione e dell’Ambiente, il ministero per l’Energia, il Turismo e l’Agenda digitale e anche le Regioni. Queste ultime hanno una parte essenziale nell’implementazione

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materiarinnovabile 15. 2017 della strategia nazionale sulla bioeconomia. Come ministero abbiamo chiesto alle 17 Regioni autonome di elaborare strategie specifiche sulla bioeconomia. Andalusia, Estremadura, Castilla-La Mancha e Valencia lo stanno già facendo. Mentre 16 hanno inserito il settore agroalimentare nelle loro strategie di specializzazione intelligente. È un ottimo punto di partenza. Anche i rappresentanti delle differenti associazioni saranno inclusi (consumatori, agricoltori, ambientalisti e settore finanziario).” Che spazio ha il Mediterraneo nella bioeconomia spagnola? “In uno scenario di scarsità d’acqua, vi è la necessità di sviluppare l’economia circolare e di rafforzare il ruolo che le risorse biologiche devono giocare in essa. Per la regione mediterranea è essenziale assicurare la produzione e lo sfruttamento sostenibile delle risorse biologiche all’interno delle varie catene del valore

che compongono la bioeconomia; l’agricoltura e la produzione alimentare, compresa la produzione di bestiame, la silvicoltura e l’economia blu, i bioprodotti e la bioenergia. La sostenibilità deve essere considerata nel suo insieme (persone, redditività e il pianeta). A causa del quadro limitato delle acque in questa regione, la valorizzazione di rifiuti provenienti da fonti diverse deve contribuire a sistemi di produzione più efficienti e sostenibili e a generare nuovi posti di lavoro, alla crescita e alla competitività dei settori della bioeconomia. La bioeconomia spagnola si concentra principalmente sull’agroalimentare ma anche sulla pesca, l’acquacoltura e la ricerca marina. La ricerca nel campo delle alghe e in generale sulla biomassa marina ha un ruolo strategico per il presente e il futuro della bioeconomia nel nostro paese. Ma anche in tutta l’area mediterranea, per ripristinare la giusta centralità del Sud Europa.”

Intervista

di M. B.

La via spagnola al biotech Isabel Garcia Carneros, direttrice operativa Asebio

Asebio è l’associazione spagnola delle imprese biotech. Rappresenta società attive in tutti i campi applicativi delle biotecnologie. “Materia Rinnovabile” ha intervistato Isabel Garcia Carneros, che ne è la direttrice operativa, per comprendere quale ruolo giocano le biotecnologie industriali nella crescita della bioeconomia.

Asebio – Asociación española de bioempresas, www.asebio.com/en/ index.cfm

Qual è lo stato dell’arte delle biotecnologie industriali in Spagna? “Le prime iniziative spagnole per promuovere e incoraggiare la bioeconomia, insieme alla presenza di un settore bioindustriale sviluppato, di opportunità di mercato già esistenti e di un avanzato sistema di cooperazione, hanno creato l’ambiente ottimale per il prosperare della nostra industria. Il progresso nel campo delle bioraffinerie, la ricerca nei nuovi processi di produzione e i miglioramenti nella catena di valore ci hanno permesso di acquisire la conoscenza necessaria per conseguire rapidi avanzamenti, creare nuove tecnologie per l’utilizzo della biomassa e generare nuove nicchie di mercato. A livello nazionale, diversi organismi pubblici si sono allineati alle politiche e alle strategie europee. Si sta quindi creando un contesto politico propizio alla creazione di bioraffinerie e all’implementazione della bioeconomia in Spagna. Per esempio, il segretariato di stato per Ricerca, sviluppo e innovazione, che dipende dal ministero dell’Economia e competitività, con la partecipazione dei settori industriale, accademico e scientifico, ha pubblicato la strategia spagnola per la bioeconomia, pensata per potenziare l’attività economica migliorando la competitività e la sostenibilità nel settore della

produzione, promuovendo e incoraggiando lo sviluppo e l’applicazione pratica delle tecnologie nate dalle collaborazioni tra il sistema scientifico-tecnologico e le aziende private spagnole. Al cuore della strategia spagnola ci sono l’agricoltura, il settore marino, le industrie forestale e alimentare e l’uso efficiente e sostenibile dei loro prodotti, sottoprodotti e scarti, per trasformarli in una nuova linea di bioprodotti, incluse le bioenergie, per i quali le biotecnologie industriali sono essenziali. Va anche segnalato che la Commissione europea (DG Growth) ha selezionato il progetto presentato dall’Andalusia per trasformare la regione in un modello per la ricerca e lo sviluppo nell’ambito dell’economia circolare e dei sistemi per la simbiosi industriale. L’obiettivo di tutto questo è rendere più efficiente e sostenibile l’uso delle risorse e delle materie prime disponibili, come le biomasse, e la gestione degli scarti.” Qual è il ruolo delle biotecnologie industriali nello sviluppo della bioeconomia spagnola? “Le biotecnologie rappresentano una grande opportunità per risolvere le attuali sfide globali che la comunità internazionale si trova di fronte, offrendo potenzialmente soluzioni alla crescente domanda di cibo, di mangimi animali, di carburanti e altri materiali. Le biotecnologie industriali ci consentono di sviluppare soluzioni molto più redditizie per un gran numero di prodotti, riducendo nel contempo l’impatto ecologico. Sfruttando questo passo avanti nelle tecnologie, possono essere creati nuovi prodotti e processi di produzione, trasformando i cosiddetti materiali o prodotti ‘alternativi’ in soluzioni economicamente


©Manuel Estrada, marchio per Cajaviva, fusione di quattro Casse rurali

Policy ed ecologicamente efficienti per una vasta serie di applicazioni quotidiane, creando più competitività e ampliando il mercato. Questo aiuta le aziende a sviluppare e commercializzare prodotti e processi che possiedono un intrinseco valore innovativo, che è altamente rilevante quando devono misurarsi con i competitori tradizionali. Così, questi strumenti contribuiscono a contenere l’impatto ambientale dei processi produttivi senza ridurne l’efficienza, le prestazioni o la redditività. Il crescente impiego di biotecnologie industriali da parte di aziende tradizionali permette l’inclusione e l’applicazione delle tecnologie in settori maturi, migliorandone l’efficienza e la sostenibilità.”

©Manuel Estrada, copertina di una rivista gastronomica

©Manuel Estrada, marchio per Gamesa, i mpresa di energia eolica, 2016

Quali sono i punti forti e quelli deboli dell’industria biotech spagnola? “La Spagna possiede un nutrito network di università e notissimi centri di eccellenza specializzati in diverse aree di grande importanza per le bioraffinerie, come la chimica, il settore dell’energia e quello delle biomasse; e anche una notevole infrastruttura industriale cresciuta esponenzialmente negli ultimi 10 anni. Il triangolo formato da scienza, tecnologia e settore privato rappresenta un grande bacino di conoscenza con una lunga tradizione di cooperazione, caratteristica che favorisce il successo nello sviluppo di un sistema globalmente integrato. Inoltre, un crescente numero di imprese biotech innovative spagnole sono entrate con successo nel mercato globale, facendo aumentare l’interesse internazionale per la nostra industria delle biotecnologie. Nonostante in termini di ricerca e di sviluppo accademico la qualità sia alta, la quantità di questa conoscenza che viene trasformata in prodotti industriali presenti sui mercati è insufficiente. È quindi importante promuovere la creazione di istituti e aziende produttrici di tecnologia che utilizzino questa conoscenza, trasformandola in un bene industriale concreto. L’amministrazione pubblica deve anche sostenere le aziende incoraggiandole a innovare. L’accesso ai capitali di rischio e ai mercati finanziari, come anche un forte supporto governativo alle politiche di ricerca e sviluppo, sono garanzie fondamentali quando si investe nella bioindustria.”

Idae – Instituto para la diversificación y ahorro de la energía, www.idae.es

In che modo viene supportata l’innovazione nel biotech in Spagna? “Come istituzione pubblica, il Centro per lo sviluppo delle tecnologie industriali (Cdti) dà un contributo fondamentale allo sviluppo della tecnologia in Spagna finanziando progetti di ricerca con fondi pubblici e anche privati, dedicati alle biotecnologie. È già possibile vedere riferimenti al sostegno istituzionale alla bioeconomia. Il ministero dell’Agricoltura, della Pesca, dell’Alimentazione e dell’Ambiente (Mapama) supporta esplicitamente le bioraffinerie attraverso il suo programma nazionale per l’innovazione e la ricerca agroalimentare e forestale, il programma nazionale per lo sviluppo rurale dal 2014 al 2020 e la strategia spagnola per la bioeconomia. Questi programmi promuovono l’utilizzo ottimale della biomassa presente in Spagna, fornendo una soluzione alle sfide tecnologiche del futuro prossimo. In aggiunta, il ministero dell’Economia e della

Competitività ha varato una serie di meccanismi di supporto a ricerca e sviluppo, per stimolare queste industrie (la strategia spagnola per scienza e tecnologia e innovazione e il piano nazionale per la ricerca e l’innovazione scientifica e tecnica). Anche il ministero dell’Industria, Energia e Turismo (Minetur) ha adottato gli obiettivi stabiliti dalla direttiva Ue sulle energie rinnovabili (28/2009/CE) nel suo piano di azione nazionale per le energie rinnovabili (Panero) per il periodo 2011-2020. Il documento elenca gli obiettivi che la Spagna deve raggiungere entro il 2020: il 20% dell’ammontare totale dell’energia utilizzata dovrà provenire da una fonte rinnovabile – e il 10% nel caso dei trasporti. Il ministero ha anche posto la re-industrializzazione della Spagna come obiettivo fondamentale, impegnandosi a sviluppare industrie che operino a stretto contatto con le bioraffinerie. Inoltre, dobbiamo sfruttare il grande interesse dimostrato da varie regioni della Spagna nel rivalorizzare le loro biomasse e impiantare bioindustrie, portando vantaggi sociali, economici ed ecologici a queste aree.” Quali sono i principali cluster per le biotecnologie industriali e la chimica verde? “Come accade per l’Andalusia, ci sono altri portatori di interesse in tutta la Spagna che lavorano su progetti di ricerca in questo campo, tra cui iniziative del settore privato, organizzate con il supporto della pubblica amministrazione, come succede per il progetto Clamber (Castilla-La-Mancha Bio-Economy Region), che è attualmente in corso. Questo progetto intende gettare le fondamenta affinché la regione diventi leader nel campo delle ricerche sulla gestione delle biomasse nell’Europa meridionale. Il progetto comprendeva lo sviluppo di iniziative di ricerca innovative per trasformare gli scarti agricoli in prodotti a valore aggiunto e anche la costruzione di una versatile raffineria pilota modulare.” Esiste un problema di disponibilità di biomassa in Spagna? “La Spagna ha un grande potenziale in fatto di biomassa. Questo contribuisce a creare solide fondamenta per lo sviluppo di bioraffinerie, dato che la biomassa è la materia prima dalla quale si ricavano energia, prodotti chimici e altre sostanze. Disponiamo di una grande quantità di biomassa, che aumenta di anno in anno, anche se è sottoutilizzata. Inoltre la Spagna presenta le condizioni ottimali, grazie alla posizione geografica e al suo clima, per produrre certi tipi di biomassa. Si sta anche lavorando per facilitare l’utilizzo di terreni attualmente incolti e improduttivi, infondendo così energia nelle aree industriali e rurali. Secondo il rapporto tecnico intitolato ‘Valutazione del potenziale di energia dalla biomassa’, realizzato dall’Istituto spagnolo per la diversificazione e il risparmio dell’energia (Idae, ‘Evaluacion del potencial de energia de la biomasa’), la Spagna ha il potenziale per produrre quasi 40 milioni di tonnellate di biomassa agricola all’anno, delle quali 17,7 milioni arriverebbero dalle colture dedicate alla biomassa e 21,6 milioni dal settore della lavorazione del legno. Lo studio suggerisce anche la rivalorizzazione la biomassa costituita dagli

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materiarinnovabile 15. 2017 scarti agroalimentari come pure di quella proveniente dalle colture dedicate alla produzione di energia. Un altro rapporto interno dell’Idae ha mostrato che sarebbe possibile (da un punto di vista agronomico) dedicare il 50% del terreno attualmente incolto – circa due milioni di ettari – a colture destinate alla produzione di energia. La maggior parte delle terre incolte è costituita da terreni non irrigati attualmente inutilizzati, il che significa che, una volta messi in uso, non si avrebbe un impatto negativo sulla produzione di cibo. Infine, è importante sottolineare l’importanza dell’agricoltura: è responsabile del 79% della

produzione di biogas agroindustriale e del 67% del totale del di biogas potenzialmente disponibile in Spagna.” Ci sono piani per l’utilizzo della biomassa marina? “Attualmente, nel campo della biomassa marina (principalmente delle macroalghe) si è focalizzati sul continuare la ricerca di bioprodotti e carburanti competitivi. Sebbene non ci siano veri piani ‘istituzionali’ del genere, la comunità scientifica e vari gruppi di ricerca, in particolare nel nord della Spagna, sono molto attivi in questo campo.”

Intervista

di M. B.

La bioeconomia nel vocabolario della politica Javier Velasco Álvarez, amministratore delegato di Neol Bio

Javier Velasco Álvarez è amministratore delegato di Neol Bio, una delle più dinamiche aziende spagnole di biotecnologie industriali. È anche coordinatore del Gruppo di lavoro sulle biotecnologie industriali di Asebio, l’Associazione spagnola della bioindustria. In questa intervista esclusiva con “Materia Rinnovabile” ci parla della bioeconomia in Spagna: i suoi punti di forza e le sue debolezze, il ruolo della società e le misure necessarie alla sua crescita.

Neol Bio, neolbio.com/en

Quali sono i punti di forza e le debolezze della bioeconomia spagnola? “La Spagna ha un forte settore agroalimentare e una grande disponibilità di spazi geografici che possono e devono trarre il meglio dai benefici offerti dalla bioeconomia, promuovendoli al massimo. L’attività agricola è però condizionata dalla disponibilità idrica, che è in diminuzione, e dalla necessità di una gestione sostenibile basata sulla scienza e sulla tecnologia. Ne risultano dei settori produttivi già consolidati, accanto ad altri che stanno ancora emergendo e sono in fase di sviluppo. Inoltre, la Spagna ha capacità significative di creare un importante know-how nella bioeconomia nei suoi centri di ricerca pubblici e nelle università, in collaborazione con le imprese attive in questo campo, che stanno sviluppando tecnologie molto interessanti. Come penso valga anche per altri paesi europei, esiste, però, ancora qualche disallineamento tra il settore pubblico della ricerca e sviluppo e gli interessi delle imprese private. Detto ciò, ritengo che la principale debolezza della bioeconomia spagnola sia la mancanza di grandi aziende chimiche che potrebbero agire da traino e diventare gli utilizzatori finali dei bioprodotti creati. Questo problema si è aggravato con i problemi finanziari di cui Abengoa ha sofferto ultimamente.”

In che modo il fallimento di Abengoa Bioenergy ha influenzato lo sviluppo della bioeconomia in Spagna? “Naturalmente i problemi che hanno colpito Abengoa Bioenergy hanno avuto effetti negativi sulla bioeconomia in Spagna, perché questa impresa è stata una forza trainante del settore e ha fatto da guida a molti progetti industriali e di ricerca e sviluppo (Babilafuente, Hugoton ecc.). Io, però, sono geneticamente ottimista e, come nel caso dell’energia, credo che i bioprogetti ‘non possono essere né creati né distrutti; piuttosto si trasformano da una forma all’altra’. Ho fiducia che le tecnologie e, ancora più importante, le persone che ne sono artefici, troveranno altri finanziamenti e ricominceranno, arricchite dalla lezione appresa.” Quali sono gli altri principali attori della bioeconomia spagnola? “Direi che le imprese leader della bioeconomia in Spagna sono quelle di biotecnologie industriali come Biopolis, Inkemia, AlgaEnergy e, naturalmente, la mia azienda Neol Bio. Alcune grandi imprese, come Fertiberia nel settore chimico e dei fertilizzanti ed Ence (energia, pasta e carta), sono anche molto attive nell’ambito della ricerca e sviluppo e nei progetti industriali. Le grandi aziende petrolifere ed energetiche (Repsol, Cepsa, Endesa ecc.) hanno preso parte a progetti di ricerca e sviluppo, ma secondo me dovrebbero svolgere un ruolo più attivo.” Può spiegarci in che settori opera la sua azienda? “L’obiettivo di Neol Bio è lo sviluppo di bioprocessi da residui di materie grezze, in particolare per la produzione di oli microbici e oleochimici. Abbiamo messo a punto diversi bioprocessi per la conversione microbica degli scarti agricoli e industriali in prodotti dal valore aggiunto. Alcune di queste tecnologie sono state sviluppate per industrie nostre clienti,


©Manuel Estrada, immagine della mostra di Manuel Estrada a Bilbao, 2015

Policy

mentre altre sono state create utilizzando risorse interne e adesso costituiscono parte della proprietà industriale dell’azienda come brevetti e know-how. La tecnologia più rilevante sviluppata da Neol Bio è MicroBiOil®, una piattaforma per la produzione di oli a valore aggiunto e oleochimica di derivazione microbica da risorse rinnovabili. Nel campo degli ingredienti alimentari abbiamo sviluppato un bioprocesso per ottenere oli ricchi di Dha attraverso la coltura di microalghe selezionate dall’ecosistema della penisola iberica.” La strategia nazionale è stata presentata l’anno scorso. A che punto è la sua implementazione? “Sì, la ‘Strategia spagnola per la bioeconomia Orizzonte 2030’ è stata presentata l’anno scorso e, anche se abbiamo alcune incertezze dovute alla situazione politica, è stato predisposto un primo piano d’azione. Il miglior risultato è che la bioeconomia sia già entrata a far parte del vocabolario di diversi ministeri e autorità regionali e che esista la volontà di comprendere quale sia la percezione di questo tema da parte della società, così come di favorire lo scambio di opinioni tra i rappresentanti dei settori produttivi, i consumatori, gli opinionisti, le ong ecc. La strategia attribuisce un importante ruolo alla società. Qual è la percezione della bioeconomia nell’opinione pubblica spagnola? “Lo sviluppo di una strategia di comunicazione

con tutti gli attori sociali ed economici è un elemento essenziale per ottenere progresso tecnologico e applicarlo alla realtà produttiva, e dovrebbe costituire una priorità nello sviluppo della strategia per la bioeconomia. Stando ad alcuni recenti studi sulla percezione pubblica, la maggior parte degli intervistati condivide una visione ottimistica dei benefici potenziali della bioeconomia, i più importanti dei quali sono considerati la riduzione di rifiuti e dell’inquinamento. Molti intervistati concordano però sull’esistenza di alcuni importanti rischi che devono essere tenuti a mente nel corso dello sviluppo della bioeconomia: per esempio il rischio di sovrasfruttamento delle risorse naturali e la sicurezza alimentare, sia nei paesi dell’Unione europea sia in paesi terzi. La società spagnola nel suo insieme deve essere messa al corrente degli obiettivi e dei princìpi dell’economia basata sull’utilizzo di risorse di origine biologica, del suo impatto favorevole sull’ambiente, con la riduzione della dipendenza dai combustibili fossili una volta che le tecnologie avranno ottenuto la giusta valutazione. I cittadini vanno anche informati sulla gamma di nuovi prodotti che arriverà gradualmente sui nostri mercati e sarà disponibile ai consumatori.” Quali misure sono presenti in Spagna a sostegno della bioeconomia? E quali pensa debbano essere attuate nel breve termine? “Per raggiungere gli obiettivi operativi, saranno intraprese azioni in cinque aree specifiche: 1) creazione di innovazione attraverso la conoscenza e la sua applicazione pratica in contesti di impresa; 2) promozione dell’interazione tra i diversi attori coinvolti nella bioeconomia; 3) sviluppo del mercato per i prodotti esistenti o i nuovi prodotti che derivano dal contesto dei bioprocessi; 4) incremento della domanda attraverso l’analisi delle procedure per gli acquisti della pubblica amministrazione e, infine, 5) diffusione della conoscenza della bioeconomia attraverso la cooperazione e la comunicazione dei successi ottenuti. Per promuovere la ricerca nel pubblico e nel privato e favorire gli investimenti per l’innovazione da parte delle imprese nell’area dei progetti di ricerca per la bioeconomia, un obiettivo importante consiste nell’analizzare i modelli di collaborazione di successo fra pubblico e privato volti alla creazione di innovazione imprenditoriale (per esempio Bioaster, Novo Nordisk, Wageningen), proponendo misure simili da applicare anche in Spagna.”

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materiarinnovabile 15. 2017 a cura dell’Institut de l’économie circulaire, Parigi www.institut-economie-circulaire.fr

Quando l’UNIONE fa la forza

Adrian Deboutière, project manager presso l’Institut de l’économie circulaire. Laurent Georgeault, ricercatore associato presso l’Università Paris I Panthéon Sorbonne, lab. Géographie Cités, team CRIA.

Laurent Georgeault

di Adrian Deboutière e Laurent Georgeault

Risparmio nell’uso di materie prime, trasformazione degli scarti in risorse, riduzione dei costi grazie alla condivisione di beni e servizi. Così il programma francese sulla simbiosi industriale permette alle aziende di diventare più competitive e migliorare le proprie prestazioni ambientali.

Adrian Deboutière

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Dagli inizi del 21° secolo, in Francia l’industria ecologica ha gradualmente integrato i campi scientifici e quelli politici; i primi progetti di ricerca-azione si sono limitati principalmente alla gestione dei parchi industriali. Ideato come programma sperimentale nazionale con lo scopo di rinnovare i metodi di simbiosi industriale in Francia in linea con le nuove riforme territoriali, il Pnsi (Programme National de Synergies Inter-entreprises) – durante gli incontri del G7 sull’efficienza delle risorse – è stato presentato dal ministero per l’Ambiente come programma principale per la competitività e la sostenibilità delle aziende francesi. L’industria ecologica punta a integrare le attività economiche con i limiti degli ecosistemi: viene

attuata attraverso la simbiosi industriale che in poco tempo è stata riconosciuta come un potente strumento politico in grado di migliorare sia la performance industriale sia quella ambientale nei territori. La simbiosi industriale rappresenta un’azione cooperativa tra diverse aziende: consiste nel condividere le competenze o ottimizzare i flussi di materia e di energia. Il recupero delle acque reflue e dell’energia, la sostituzione delle materie prime e dei minerali grazie al riuso o la condivisione di macchinari o conoscenze sono alcune delle sinergie alla base del programma nazionale francese per la simbiosi industriale. Il Pnsi è nato come programma guida dopo la conferenza francese sull’ambiente del 2013 che ha indicato l’ecologia industriale come una delle priorità della politica ambientalista francese, cosa che è stata ribadita nel 2015 dalla legge nazionale sulla transizione energetica. Messo a punto dall’Institut de l’économie circulaire, questo programma sperimentale è stato introdotto in quattro regioni (Nuova Aquitania, Bretagna, Normandia, Alvernia-Rodano-Alpi) e in zone selezionate di attuazione della simbiosi industriale in Francia. A differenza dei precedenti progetti che si concentravano su zone industriali ristrette per periodi limitati, in questo caso alle regioni è stato dato un ruolo di primaria importanza per assicurare la complementarietà, la coerenza e la continuità degli interventi a livello locale. La portata del coordinamento è in linea con le nuove competenze delle regioni in materia


Policy

di sviluppo economico sostenibile stabilite dalla recente legge francese sull’organizzazione territoriale. Il Pnsi contribuisce a rinnovare i metodi di simbiosi industriale in Francia rispondendo più efficacemente ai bisogni e alle restrizioni del mondo industriale. Mentre i precedenti esperimenti si basavano su un’analisi esaustiva dei flussi di materia per ogni azienda, il Pnsi si fonda su un metodo di collaborazione tra gruppi di lavoro di stampo britannico. Dall’inizio del programma nel luglio 2015, sono stati organizzati 15 incontri tra più di 500 Pmi e grandi imprese. Ogni azienda si è aggiudicata nuove opportunità economiche con benefici ambientali. In ogni regione è stato istituito un gruppo di esperti che aiuteranno le aziende a completare le sinergie: le aziende sono piacevolmente soprese nello scoprire che ci sono buone possibilità di creare numerose sinergie intersettoriali con le realtà imprenditoriali vicine. Anche il supporto tecnico e normativo può essere condiviso e fornito sia a livello regionale sia nazionale. Per esempio, le barriere amministrative relative alle sinergie individuate con il programma possono essere rimosse a livello nazionale. Gli esperti però devono collaborare fianco a fianco con le aziende per garantire il successo. In Francia, le Camere di commercio, gli amministratori e le associazioni locali esplicano questo ruolo di intermediazione. Inoltre, per condividere le migliori prassi sulla mobilitazione della aziende e per monitorare le sinergie è stata

creata una rete nazionale di esperti di Pnsi. Le sinergie interregionali possono essere gestite anche quando non è possibile soddisfare i bisogni delle aziende a livello locale. A luglio 2017 i risultati del Pnsi saranno pubblicati e guideranno la strategia nazionale francese in materia di ecologia industriale. Già i risultati intermedi sono promettenti e corroborano il crescente slancio verso una simbiosi industriale nel territorio francese. Le autorità locali giocano un ruolo fondamentale nella transizione ecologica attraverso la pianificazione territoriale e delle politiche economiche. Certo, non hanno tutti gli strumenti operativi per coinvolgere le aziende locali in uno sviluppo sostenibile e nell’economia circolare. Il Pnsi dimostra che le aziende sono motivate a ridurre la loro impronta ambientale se fiutano un concomitante beneficio economico. Per questo la simbiosi industriale è stata definita come una politica intersettoriale efficiente sia dal G7 sia dalle raccomandazioni della Commissione europea sull’efficienza delle risorse.

Programme National de Synergies Inter-Entreprises, www.pnsi.fr

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Focus

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PACKAGING VS SPRECO ALIMENTARE


CARTA e CARTONE diventano smart

Aldric Rodríguez/The Noun Project

Case Studies

Per combattere lo spreco di cibo anche le innovazioni nell’ambito degli imballaggi di carta possono dare il loro contributo. Con involucri attivi che interagiscono con gli alimenti, limitando la degradazione dei prodotti e prolungandone la vita sugli scaffali.

di Marco Gisotti e Letizia Palmisano

Marco Gisotti è giornalista professionista e divulgatore, dirige l’agenzia di studi e comunicazione ambientale Green Factor. Giornalista ambientale e social media manager, Letizia Palmisano si occupa di comunicazione, formazione e sviluppo di strategie di comunicazione web. È docente, in tali campi, in corsi e master, anche universitari.

Da sempre gli imballaggi – basti pensare alle antiche anfore – sono realizzati per contenere, trasportare e soprattutto conservare il cibo. Ovvero anche per evitare lo spreco di cibo. Ai giorni nostri, nei paesi ricchi, l’ampia disponibilità di alimenti e in parallelo una scarsa informazione o attenzione alle scadenze rendono molti frigoriferi e dispense dei depositi di cibo scaduto, destinato a diventare un rifiuto. Peraltro anche quando il cibo viene correttamente utilizzato, vi è una cospicua produzione di rifiuti che non sempre è riavviabile al riciclo o al compostaggio a causa di imballaggi non riciclabili. Il tema della riduzione dei rifiuti negli ultimi anni è all’attenzione sia dell’Europa e dei singoli paesi, sia delle industrie alimentari. Da un lato vi è l’esigenza di mettere a dieta la pattumiera con packaging che contribuiscano a ridurre gli sprechi alimentari, dall’altro di realizzare imballaggi che richiedano un numero minore di materie prime, con effetti positivi anche sulla riduzione dei costi di produzione. L’esempio degli imballaggi di carta o cartone Carta e cartone sono tra gli imballaggi più usati nell’intera filiera agroalimentare e sono tra gli attori “protagonisti” dell’economia circolare. Un approccio in cui lo stesso scarto diventa risorsa attraverso il riciclo. “Il ciclo della carta e dell’imballaggio cellulosico – ci informano Comieco e il Club Carta e Cartoni – già di per sé costituisce un perfetto esempio di economia circolare, con una percentuale di recupero pari

all’89%, e di riciclo pari all’80%. Questo significa che 8 imballaggi su 10 oggi tornano a nuova vita: nel 2016 gli imballaggi cellulosici immessi al consumo sono stati 4,6 milioni di tonnellate e di questi 3,7 milioni di tonnellate sono state avviate a riciclo”. Attualmente lo studio e le tecnologie impiegate per produrre imballaggi in carta e cartone si stanno concentrando su soluzioni per la riduzione degli sprechi alimentari. Diverse sono a questo proposito le innovazioni: il confezionamento in atmosfera modificata è ormai consolidato, mentre ora si sta affermando il packaging attivo. Si tratta di confezioni altamente tecnologiche che interagiscono con l’alimento, come i “pad” in cellulosa che hanno una funzione assorbente dei gas o liquidi o le confezioni che rilasciano sostanze antimicrobiche che impediscono o limitano la degradazione dei prodotti alimentari, come la carne. Molto si sta facendo anche per la conservazione dell’ortofrutta. Oggi esistono confezioni che rilasciano all’alimento oli essenziali e sostanze antimicrobiche, in modo che il prodotto contenuto, che sia una pera o un pomodoro, possa non solo estendere la sua durata a scaffale (shelf life), ma anche mantenersi fragrante e gustoso fino al momento del consumo. Un’altra innovazione allo studio riguarda l’introduzione di imballaggi cellulosici per uso alimentare accoppiati alle bioplastiche. Secondo una recente ricerca curata dall’Università Bocconi e promossa da Comieco, si potrebbe così

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materiarinnovabile 15. 2017 “Se avanzo mangiatemi” Ricerca Università Bocconi presentata a Cibus 2016, tinyurl.com/kfjnw6s

“Doggy Bag – Se avanzo mangiatemi” è l’iniziativa creata da Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica) in collaborazione con Slow Food Italia per incentivare e promuovere, anche nel nostro paese, l’utilizzo di doggy bag, il contenitore che consente di portare a casa con sé ciò che si è avanzato al ristorante. Trasformare un problema in opportunità e far partire una rivoluzione culturale con l’obiettivo di ridurre le quantità di alimenti gettati e di stimolare un cambio di mentalità nei ristoratori e nei clienti. Il progetto ha incontrato l’adesione entusiasta di importanti esponenti della cultura italiana come l’architetto Michele De Lucchi e lo scrittore Andrea Kerbaker che hanno coordinato un team di professionisti chiamati a fare della doggy bag un vero e proprio oggetto d’autore. Il progetto, lanciato a Milano, si è poi diffuso a Bergamo, Varese e Roma, incontrando l’entusiasmo di ristoratori e clienti. www.slowfood.it

contribuire a prolungare la shelf life dei prodotti e ridurre le presenze di materiali estranei nella raccolta differenziata della carta e dell’organico, con significativi risparmi dei costi di smaltimento (22 milioni di euro per la frazione carta e fino a 56 milioni di euro per l’organico). L’utilizzo di imballaggi che possono essere conferiti insieme agli alimenti scaduti nella raccolta dell’umido consentirebbe di ottenere l’invio a compostaggio di oltre 615.000 tonnellate di pack compostabile (che – si sottolinea nella ricerca – salgono fino a circa 877.000 tonnellate, considerando anche lo scarto della Gdo – grande distribuzione organizzata), che diversamente finirebbero nell’indifferenziato; un aumento nell’uso di carta pari a circa 588.000 tonnellate; una crescita nel mercato delle bioplastiche pari a oltre 121.000 tonnellate. Di attualità è anche lo studio di formati più idonei alle nuove modalità di consumo per contrastare il problema dello spreco: per esempio attraverso una maggiore diffusione di confezioni più piccole o di monodosi. Il ruolo chiave delle aziende alimentari Per dialogare e trasferire alle aziende alimentari le best practice e le informazioni in materia di imballaggi cellulonistici nasce nel 2012 il Club Carta e Cartoni. Il Club che – oltre a rendere disponibili online queste informazioni – ha promosso una serie di altre iniziative di formazione e aggiornamento sui temi del packaging sostenibile e sostiene progetti di ricerca per sviluppare l’innovazione nel campo. Oggi conta più di 270 aziende, la maggior parte delle quali attive nel settore alimentare; in questi anni il suo impegno si è focalizzato anche sulla promozione di un maggiore dialogo lungo la filiera del packaging, mettendo in contatto produttori e utilizzatori, con loro esigenze e problematiche. “In questi anni – ci spiegano dal Club – abbiamo rilevato un importante e crescente interesse da parte delle aziende verso un approccio sempre più attento alla sostenibilità, anche e soprattutto a partire dal packaging che costituisce il primo ‘biglietto da visita’ di un prodotto”.

Info www.comieco.org www.clubcartaecartoni.org


Case Studies

FOCUS

Packaging vs spreco alimentare

H. Alberto Gongora/The Noun Project

Come è cambiata

di M. G. e L. P.

QUESTA LATTINA

Lattine, scatolette, vaschette: le mille facce del packaging in alluminio. Un materiale che consente una continua evoluzione.

Basterebbe ripercorrere la storia di una lattina della nostra bevanda preferita per renderci conto di com’è cambiato il mondo degli imballaggi nel settore del food. A cominciare dalla nascita di un nuovo prodotto, dall’aspetto di bottiglia, ma fatto di alluminio. “Nel settore del packaging in alluminio per bevande stiamo attualmente assistendo all’introduzione sul mercato di un nuovo e innovativo formato ‘ibrido’ lattina-bottiglia a cura di Rexam srl, denominato Fusion” spiega il CiAl, il Consorzio imballaggi alluminio. La Fusion conserva in tutto e per tutto le caratteristiche dei tradizionali format delle lattine: leggerezza, riciclabilità, ottimo livello di protezione e di conservazione del prodotto. Ma è una “bottiglia” in alluminio, tappo compreso. Il che è un vantaggio in termini di raccolta e riciclo del contenitore. Le lattine in Italia raccontano anche un’altra storia. In meno di vent’anni, dal 1997 a oggi, lo spessore del laminato, per esempio, si è ridotto del 6,9%. Addirittura se confrontiamo una lattina del 2016 con una del 1977 scopriamo che la riduzione

è stata del 37%. Nel 1990 una lattina pesava 16,58 grammi: oggi 12,50. Ci sono poi stati mutamenti nel design: pensiamo alla lattina sleek, lanciata nel 2009, più alta e slanciata ma non per questo meno efficiente. Anzi. Il miglioramento di un prodotto di questo tipo non è soltanto estetico, ma comporta evidenti vantaggi in termini di materia prima risparmiata, di peso ridotto in tutte le operazioni di logistica e trasporto. Condizioni che si ripercuotono positivamente sugli impatti ambientali della filiera. Sicuro dentro e fuori Ma quando parliamo di alimentazione è evidente che le preoccupazioni del consumatore non sono solo dirette verso l’ambiente esterno, ma anche – e soprattutto – verso quello che il contenitore protegge al proprio interno. Sicurezza alimentare in primo luogo, ma anche capacità di conservare bevande e cibi integri nelle loro caratteristiche organolettiche. Gli imballaggi in alluminio, spiega il CiAl, sono imballaggi ad alta performance. Garantiscono

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materiarinnovabile 15. 2017 la conservazione del sapore, del colore, della struttura, delle caratteristiche nutrizionali dei cibi. Assicurano la migliore protezione in assoluto dalla contaminazione e dall’inquinamento attraverso l’effetto barriera, che blocca la penetrazione di ossigeno, umidità, luce, raggi ultravioletti, oli e grassi, microorganismi e odori. Non a caso l’alluminio viene utilizzato per imballare anche prodotti sensibili come quelli farmaceutici. Garantiscono, inoltre, la più lunga durata a scaffale, a vantaggio di un uso razionale delle risorse alimentari e della loro distribuzione e logistica. E, grazie all’ottima conducibilità termica, permettono maggior efficienza nell’uso dell’energia nella fase di refrigerazione. Infine, gli imballaggi in alluminio consentono di preparare, trasportare, esporre e consumare il cibo sempre nello stesso contenitore, risparmiando così energia e materia. Non solo lattine Uno dei settori che più di ogni altro ha registrato una forte accelerazione nello sviluppo innovativo è quello delle scatolette. “Le scatolette negli ultimi anni – secondo CiAl – sono state al centro dell’attenzione e degli accorgimenti di design con la nascita di nuove forme moderne e innovative caratterizzate da linee più morbide e arrotondate. Il nuovo design delle scatolette è stato affiancato anche da interessanti soluzioni dei coperchi e delle modalità di apertura caratterizzate da una maggior sicurezza e facilità”.

Un “tatuaggio” ecologico È senza dubbio importante spiegare ai consumatori quanto sia riciclabile l’alluminio. E renderlo evidente sulla confezione stessa può essere un modo immediato per farlo. Oggi una nuova tecnologia consente di marcare le vaschette in alluminio senza dover sovrastampare nulla. La Constantia Teich ha, di recente, presentato una vaschetta in foglio d’alluminio con il logo Recycling incorporato. Il processo messo a punto consiste nell’incorporare il logo – o la serie di loghi – nel foglio rendendolo parte del materiale, senza dover ricorrere ai processi di goffratura o di stampa. Nella fase finale di laminazione viene creata un’immagine sulla superficie dell’alluminio apportando apposite variazioni alla brillantezza del foglio in determinate aree. Al contrario della normale goffratura, in questo processo tecnicamente innovativo il materiale non viene deformato su entrambi i lati. Questa tecnologia rappresenta una buona alternativa per prodotti di alta gamma sottoposti a processi produttivi complessi, tra cui sterilizzazione o altri procedimenti impegnativi per la conservazione degli alimenti.

Info www.cial.it

Per esempio, i coperchi peel seam, quelli con la linguetta, una volta usati quasi solo per prodotti secchi come il latte in polvere o il caffè, oggi sono sempre più richiesti dal mercato italiano ed europeo. Infatti, grazie all’utilizzo di materiali resistenti alla sterilizzazione, questa tipologia di chiusure trova facilmente applicazione nel packaging di prodotti che necessitano di un trattamento termico per la conservazione. Abbinati, poi, con barattoli dalle forme particolari – dalla scodella alla cupola fino a quelli perfettamente rettangolari – si possono ottenere imballaggi originali e personalizzati in base alle esigenze del consumatore. E, soprattutto, composti di un unico materiale che ne facilita il conferimento in raccolta differenziata e la riciclabilità. Una variante è anche quella dei PeeliCan: un sistema completo di coperchietti per l’industria ittica che rappresenta un’alternativa, pulita e facile da usare, alle tradizionali scatolette di pesce con apertura ad anello. Anche il mondo delle vaschette ha subito una progressiva evoluzione. Come accaduto nelle lattine, anche qui si è cercato via via di ridurne il peso grazie alla progettazione di nuovi stampi che usando nervature e balconcini a raggio differenziato permettono di realizzare contenitori di spessore inferiore, pur con le stesse prestazioni. Per non dire dei bordi a “G” della vaschette della linea caldo, che consentono di impilare uno stesso numero di vaschette ma in minor spazio, riducendo così le dimensioni degli imballi secondari. O, in alternativa, aumentando il numero di pezzi imballati. Infine val la pena di citare i vantaggi offerti dall’alluminio quando si parla di imballaggi flessibili e di incarti poliaccoppiati. Negli ultimi quindici anni, fanno notare al CiAl, lo spessore medio dei fogli di alluminio è stato ridotto del 30% sia negli imballaggi per il cioccolato sia nell’applicazione in poliaccoppiato per cartoni per bevande a lunga conservazione; del 33% nel poliaccoppiato per il caffè. Dunque, l’unione fa la forza, se consideriamo inoltre che gli accoppiati in cui è presente l’alluminio necessitano di minore quantità di carta e plastica rispetto a quelli in cui è assente. L’esempio più diretto è quello dei cibi sterilizzati a lunga conservazione che possono fare a meno della refrigerazione grazie all’effetto barriera offerto dal foglio di alluminio. Inoltre le continue innovazioni di processo nelle fasi di fusione e di laminazione, l’applicazione di sofisticati sistemi di automazione e controllo e l’utilizzo di nuove leghe sviluppate per applicazioni specifiche, ha consentito di ottenere fogli di alluminio sempre più sottili e performanti, così da ridurre, nei cibi conservati, il peso addizionale derivato dall’imballaggio. Senza dimenticare, infine, che l’alluminio – con pochi altri materiali fra i quali vetro e acciaio – è un materiale permanente. Una volta prodotto può essere riciclato per sempre.


Case Studies

FOCUS

Packaging vs spreco alimentare

Nook Fulloption/The Noun Project

Acciaio, una cassaforte

DELLA NATURA Dalle scatolette usate durante la guerra di Crimea ai family bag, innovativi contenitori di design per trasportare cibo avanzato. Oggi in Italia ogni anno si utilizzano – solo per i derivati dal pomodoro – 3,5 miliardi di barattoli di acciaio: messi uno dietro l’altro corrisponderebbero a 700.000 km, 17 volte il giro della Terra. di M. G. e L. P.

Anicav, www.anicav.it

Nell’immaginario comune, l’acciaio è il metallo (più precisamente una lega) indistruttibile per eccellenza. D’altronde non è un caso se appartiene a quei materiali, come il vetro e l’alluminio, che vengono detti permanenti: una volta prodotto, infatti, può essere riciclato per un numero infinito di volte. E come ricorda lo stesso Domenico Rinaldini, presidente di Ricrea, “l’acciaio è il materiale da imballaggio più riciclato al mondo”. E, in un mondo che evolve sempre, sempre più numerosi si fanno gli esempi che dimostrano come questo materiale riesce ad adattarsi. Una delle notizie più recenti che lo riguarda è quella dei contenitori di design per portarsi a casa il cibo avanzato al ristorante. Un’idea che – sotto il nome di family bag – ha visto l’acciaio con il consorzio Ricrea essere partner del ministero dell’Ambiente e Unioncamere Veneto, incluso tutto il sistema Conai e altri consorzi di filiera. Lo scopo è quello di sensibilizzare i cittadini a

ridurre gli sprechi alimentari, evitando che gli avanzi finiscano nella spazzatura. “Mi sono impegnata personalmente per avviare questo progetto, che rappresenta un passaggio culturalmente importante per tutti gli italiani – spiega Barbara Degani, sottosegretaria al ministero dell’Ambiente – family bag rappresenta l’upgrade delle doggy bag, affrancando, attraverso contenitori sicuri e di design con estetica curata, questo concetto dal nostro immaginario e dal pudore di richiederlo a fine pasto. Non sprecare deve essere un nuovo stile di vita italiano”. Ma il legame che unisce l’acciaio al food si esplica anche in altre forme. E da molto più tempo, come racconta Giovanni De Angelis, direttore generale di Anicav, l’Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali: “Il barattolo di acciaio, che garantisce la salubrità del prodotto e la sicurezza alimentare per i consumatori, è da 150 anni il contenitore più utilizzato dalle nostre aziende per i derivati

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materiarinnovabile 15. 2017

Anfima, www.anfima.it

del pomodoro. Oltre a conservare le caratteristiche nutrizionali e organolettiche del prodotto, è anche assolutamente sostenibile, garantendo una totale riciclabilità”. Per fare un esempio, nel nostro paese, i contenitori in acciaio – soprattutto barattoli – utilizzati ogni anno per la produzione dei derivati dal pomodoro sono 3,5 miliardi: messi uno dietro l’altro corrisponderebbero a 700.000 km, cioè 17 volte il giro della Terra. Per altro il connubio pomodoro-acciaio ha portato, nel dicembre scorso, all’organizzazione di una

mostra-evento tenuta alla Città della Scienza di Napoli e dedicata proprio alla storia della conservazione dei pomodori in questo metallo. L’aspetto educativo in questo contesto assume, dunque, un’importanza particolare. A Pollenzo, in provincia di Cuneo, per esempio, dove ha sede l’Università di Scienze Gastronomiche voluta da Slow Food, Ricrea ha fatto formazione e dato “lezioni di scatolette”. In effetti la comprensione di come e perché si usino dei contenitori di un certo tipo e non altri può non essere così scontata e, allo stesso tempo, rivelarsi una nozione importante per chi un domani dovrà maneggiare il cibo per professione. Per Giovanni Cappelli, consigliere di amministrazione del Consorzio Ricrea e direttore di Anfima, l’Associazione che riunisce i produttori di imballaggi metallici e affini, l’incontro fra acciaio e cibi, storicamente, non è stato un caso. “Ciò fu possibile, e lo è ancor più oggi, – spiega – perché il barattolo metallico per alimenti è ermetico, pratico, conservabile a temperatura ambiente; è resistente, sicuro e infrangibile, protegge il contenuto da aria e luce, non necessita di particolari accorgimenti per la conservazione e assicura una più lunga shelf life. Inoltre la sua caratteristica di essere riciclabile all’infinito ne fa il re degli imballaggi sotto l’aspetto della salvaguardia ambientale”. “La scatoletta – continua Cappelli – è una vera propria ‘cassaforte della natura’ e il packaging con i tassi di spreco più bassi, prossimi allo zero. Grazie a tutte le sue proprietà, l’impatto ambientale dei contenitori di acciaio per alimenti si è ridotto in media del 30%”. D’altronde le nostre cucine ben conoscono quanti e quali alimenti viaggiano da sempre nelle scatolette d’acciaio: dal tonno alla frutta sciroppata, dal caffè ai pomodori pelati, fino a dolci e liquori. Persino fusti e aerosol in acciaio, all’inizio appannaggio di altri settori, data la loro versatilità e sicurezza sono diventati nel tempo utili contenitori se non veri e propri utensili per l’uso di alimenti. Per non parlare dei tappi a corona della birra, delle tante capsule di vario tipo per bottiglie e vasetti di vetro o dei coperchi a strappo così detti easy open.

Info www.consorzioricrea.org

A proposito dei contenitori in acciaio si racconta una storia, accaduta sul serio, durante la guerra di Crimea. Siamo alla metà dell’Ottocento, più precisamente fra il 1853 e il 1856, al tempo chiamata Guerra d’Oriente: da una parte erano schierate la Francia, il Regno Unito, il Regno di Sardegna e l’Impero Ottomano, dall’altra la Russia. La ragione ufficiale del contendere era il possesso di luoghi santi in terra ottomana. Ovviamente le ragioni politiche erano tutt’altre, ovvero il timore di un’espansione della Russia nel Mediterraneo. In questo spaccato di storia, la scatoletta di acciaio per i cibi svolse un ruolo importantissimo. Fu assai apprezzata e sfruttata sui campi di battaglia perché veniva considerata uno strumento insostituibile per il vettovagliamento. In particolare i soldati inglesi riuscirono a scongiurare il pericolo di contrarre lo scorbuto mangiando in sicurezza.


Case Studies

Sarebbe sufficiente ricordare che oggi – secondo il Corepla, Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclaggio e il recupero degli imballaggi in plastica – grazie al continuo sviluppo di nuove tecnologie è possibile realizzare bottiglie in Pet con il 50% di materiale riciclato. Sono numerosissimi gli imballaggi in diverse tipologie di plastica che entrano nelle nostre case come contenitori per cibi o bevande. Queste le più usate. Il polietilene tereftalato, della famiglia dei poliesteri, per le sue caratteristiche di trasparenza, resistenza e barriera ai gas, è usato soprattutto per la fabbricazione delle bottiglie per bevande gasate e per la realizzazione delle vaschette per alimenti. Il polietilene (Pe) è il più semplice tra i polimeri sintetici ed è la più comune fra le materie plastiche. Si tratta di una resina termoplastica particolarmente adatta alla produzione di barattoli e contenitori rigidi. Viene utilizzata, per esempio, per i flaconi dei detersivi ma anche per i contenitori di alimenti. E in polietilene spesso sono anche i tubi per il trasporto dell’acqua. Il polietilene a bassa densità (un’altra termoplastica della famiglia dei polietileni) trova applicazione soprattutto nella produzione di manufatti flessibili come film e pellicole – da cui derivano anche sacchetti e buste – utilizzati sia per gli imballaggi, sia in agricoltura. Il polipropilene isotattico, ancora una termoplastica, è la famosa invenzione del premio Nobel Giulio Natta commercializzata negli anni

’50 e ’60 con il nome di “moplèn”. Questa plastica è una delle più comuni, utilizzata per gli articoli casalinghi e giocattoli, ma anche per molti imballaggi sia rigidi (barattoli, flaconi) sia flessibili (film per imballaggio automatico). Infine il polistirene, più noto come polistirolo, è un altro polimero (dello stirene) di grande successo, usato dagli imballaggi alla produzione di stoviglie usa e getta. Secondo Corepla, nel 2015 sono state riciclate circa 900.000 tonnellate di rifiuti di imballaggi in plastica provenienti dalla raccolta differenziata. A questo numero vanno aggiunte 327.000 tonnellate derivanti dal riciclo indipendente. Sono state inoltre recuperate 324.000 tonnellate di imballaggi che ancora faticano a trovare sbocchi industriali verso il riciclo meccanico e il mercato e hanno prodotto calore ed energia pulita.

Perché vino e olio si sposano con il vetro Cosa hanno in comune vino e olio? In primis, sicuramente il fatto di essere due prodotti iconici del made in Italy, molto amati (e consumati) in Italia e oltre confine. Secondo, l’imballaggio. In entrambi i casi, infatti, il materiale principalmente utilizzato per la loro conservazione è il vetro. Il perché è stato recentemente illustrato

Info

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www.assovetro.it

Info www.corepla.it

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Tutte le plastiche per il food

in un convegno di Assovetro durante il quale sono state presentate due ricerche condotte sull’utilizzo del vetro per contenere vino e olio, realizzate dal Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agroambientali dell’Università di Pisa e dal Dipartimento di Scienze e Innovazione tecnologica dell’Università del Piemonte Orientale – Alessandria. Da entrambi gli studi è emerso come il vetro rappresenti un packaging insostituibile per mantenere inalterate tutte le sfaccettature del sapore di questi due prodotti, per proteggere le sostanze preziose per la salute, per isolarli dagli agenti esterni evitandone l’ossidazione e prolungare così la loro shelf life. Il tutto dando una mano anche all’ambiente, visto che la bottiglia di vetro – un materiale permanente – rappresenta un perfetto esempio di economia circolare. Andando nel dettaglio, per il vino i risultati migliori riportati nella ricerca dell’Università di Pisa si sono avuti nelle bottiglie di vetro, chiuse con turacciolo di sughero, meglio se conservate in posizione orizzontale. Nel caso della preservazione delle proprietà dell’olio, la ricerca dell’Università del Piemonte orientale ha individuato come miglior packaging il vetro scuro.

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WATER Resilience di Emanuele Bompan

Sversamenti, guasti, fenomeni di innalzamento della falda e anche cyber-attacchi. Per gestire questi eventi l’Ue chiede di predisporre per le infrastrutture idriche vere strategie di resilienza. Tra i primi ad averlo fatto in Europa, il Gruppo Cap che ha già avviato un piano di sicurezza idrica per garantire acqua sana. Anche in presenza di scenari di rischio sempre più complessi.

Oms, Guidelines for Drinking-water Quality, v. 1, 3. ed., Ginevra 2004; tinyurl.com/k2xnful

Negli scacchi non basta guardare alla prossima mossa, ma bisogna proiettarsi almeno quattro o cinque mosse più avanti. Significa prevenire anche le occorrenze più improbabili; creare una strategia resiliente, pronta ad assorbire gli shock e a reagire. Fino a oggi la fornitura idrica non ha mai operato secondo una strategia “da scacchista”. Certo l’acqua che si beve in Europa è sicura. Le società effettuano regolari controlli ai pozzi, agli impianti di potabilizzazione e nei punti di immissione in rete per verificare eventuali contaminazioni di piombo e arsenico nel suolo o per evitare la presenza di diserbanti e fitofarmaci nell’acqua del rubinetto. Ma una vera strategia di resilienza riguardante tutta l’infrastruttura idrica, che tenga conto di qualsiasi evento ordinario (malfunzionamenti, sversamenti, guasti) e straordinario (adattamento al cambiamento climatico, fenomeni di innalzamento della falda, attentati terroristici e cyber-attacchi) sul breve e lungo termine, a oggi è molto poco diffusa.

Un modello resiliente, però, esiste. Si chiama Piano di sicurezza idrica, o Water Safety Plan (Wsp), un approccio nato nel 2004 con la pubblicazione della terza edizione delle Linee Guida per l’acqua potabile, contenute nel manuale realizzato dall’Oms – Organizzazione mondiale della sanità. Obiettivo del Wsp è mappare tutti i fattori peculiari di un territorio, siano essi geografici o antropici, valutando quali sono i rischi e le minacce e valorizzando nel contempo le opportunità presenti. Il tutto entro una visione olistica del sistema basata su una serie di scenari possibili. “Tradizionalmente, la qualità dell’acqua fornita ai consumatori fa affidamento su test svolti nei pressi degli impianti di trattamento oppure selezionando casualmente i rubinetti dei consumatori. L’aspetto negativo di questo approccio è che l’acqua viene consumata prima che vengano svolte le analisi e, quindi, prima che i risultati siano resi noti”, spiega Luca Lucentini dell’Istituto Superiore di Sanità


Case Studies

Oms, Investing in Water and Sanitation, Report 2014; tinyurl.com/hc86axx

E a sancirne l’efficacia è proprio l’Oms che continua ancora oggi a ribadire la necessità dei Wsp, sia nelle piccole comunità rurali sia nei grandi centri urbani occidentali. “Questa modalità rimane tuttora la più efficace per poter fornire un servizio ininterrotto di acqua di buona qualità”, si legge nel report Oms del 2014, Investing in Water and Sanitation. Al punto che il Wsp è diventato parte integrante della legislazione europea, essendo recepito con la direttiva 2015/1787 che modifica la direttiva 98/83/CE riguardante la qualità delle acque destinate al consumo umano. Grazie alla nuova direttiva gli stati membri hanno due anni di tempo per adeguarsi alla normativa: quindi entro il 2017 tutte le società dovrebbero essere dotate di Wsp. Il primo paese a muoversi in questa direzione è stato l’Italia. Qui il Gruppo Cap, gestore del servizio idrico integrato della Città Metropolitana di Milano e di diverse aree della Lombardia,

invece di attendere la direttiva, ha deciso di giocare d’anticipo, realizzando il proprio Piano di sicurezza idrica su uno dei suoi sistemi acquedottistici, quello di Legnano, città dell’area metropolitana di Milano. Per testare il sistema Wps – e una serie di tecnologie di supporto legate alla sua implementazione – il Gruppo Cap ha scelto tre Comuni (Legnano, Cerro Maggiore, San Giorgio su Legnano). Una sperimentazione a livello europeo con lo scopo di garantire una delle acque più sicure d’Europa, che vede il coinvolgimento di enti locali come Arpa, Agenzia regionale della protezione ambientale; Ats, Agenzia per la tutela della salute, e la Regione Lombardia, l’ente amministrativo territoriale, con il sostegno tecnico dell’Istituto Superiore di Sanità italiano. Il team istituito da Gruppo Cap per realizzare il Piano di sicurezza idrica è caratterizzato da una elevata multidisciplinarità, includendo esperti di igiene, informatici, ricercatori universitari, addetti agli impianti idraulici, a dimostrazione della complessità del progetto. “Nel sistema acquedottistico – spiega Lucentini che ha collaborato con Gruppo Cap – abbiamo studiato tutti i passaggi critici che possono mettere a repentaglio l’acqua in ogni fase della sua presenza nell’ambiente naturale: dalla captazione al trattamento e alla distribuzione

Luca Lucentini

italiano. “Il Wsp, invece, guarda al sistema in un’ottica di resilienza. Quando accade un evento potenzialmente dannoso il sistema è già predisposto a reagire e rispondere all’avvenimento, impedendo che l’acqua contaminata venga erogata. È una vera e propria strategia organica, che richiede un approccio sistematico inclusivo e duraturo.”

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materiarinnovabile 15. 2017 fino al rubinetto, stimandone i gradi di rischio e il possibile impatto sulla salute e ridefinendo le procedure per evitare pericoli”. Gli strumenti a disposizione sono molteplici: dalle stazioni di rilevazione chimico-biologica e le sonde parametriche, alla maggiore protezione dell’infrastruttura informatica. Dal controllo della sicurezza e sorveglianza degli impianti ai sismografi nel terreno in grado di bloccare l’erogazione in caso di scosse violente. Un extra costo o un’opportunità? Per Lucentini, “se pensiamo agli effetti di un potenziale evento catastrofico – per esempio la contaminazione da agenti chimici, un terremoto o gli effetti complessi a lungo termine prodotti dai cambiamenti climatici, come picchi di prelievo o altri fenomeni – capiamo subito che il Wsp comporta un grandissimo risparmio economico e rappresenta una strategia per salvare vite umane. Oggi i rischi di cyber-attacchi sono una realtà che è meglio prevenire piuttosto che trovarsi a doverne affrontare le conseguenze”. Però anche in uno scenario più ordinario il Wsp consente, una volta ammortizzati gli investimenti, di risparmiare. “Significa avere una gestione oculata, moderna e sicura, che favorisce il consumo di acqua dal rubinetto invece che

Info

Alessandro Russo, presidente Gruppo CAP, con il sindaco di Legnano Alberto Centinaio e l’assessore all’Istruzione di Legnano, Chiara Bottalo

www.gruppocap.it

Il laboratorio analisi di Gruppo CAP

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dalla bottiglia”, aggiunge Lucentini. Il che ha impatti anche dal punto di vista ambientale, poiché offrendo una percezione di maggiore sicurezza ai cittadini, può ridurre il consumo di acqua in bottiglia. “Al riguardo abbiamo un sogno – racconta Alessandro Russo, presidente di Gruppo Cap – quello di non comparire più tra i primi paesi al mondo per consumo di acqua in bottiglia. Oggi siamo al terzo posto dopo Messico e Thailandia. Segno che i cittadini non si fidano ancora abbastanza dell’acqua del rubinetto. Crediamo che con il Wsp si possa raggiungere questo obiettivo e garantire un’acqua sicura a tutti”. Per Gruppo Cap il passaggio al Wsp rappresenta un investimento importante in innovazione tecnologica, in ricerca e sviluppo della conoscenza. È il proseguimento di un percorso che ha portato il Gruppo a dotarsi di strumenti innovativi: tra questi il Pia (Piano infrastrutturale acquedotti), il WebGIS come sistema gestionale, l’accreditamento ISO 17025 del Laboratorio acque potabili, e infine il censimento degli scarichi. Senza queste tappe non sarebbe stata possibile l’adozione del Water Safety Plan, grazie al quale ora il Gruppo Cap è un modello da seguire in Europa e non solo.


Rubriche

Rubriche Il circolo mediatico

Una bussola contro la disinformazione Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.

Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Parliamo di Climalteranti, il sito di informazione sui temi del cambiamento climatico ideato e coordinato da Stefano Caserini. Di norma in questa rubrica scriviamo dei media che si occupano di ambiente, ma stavolta descriveremo un mezzo di informazione che racconta come i media si occupano di ambiente e di cambiamento climatico. Troppo spesso – si scopre – con superficialità, approssimazione, confusione. E talvolta, con uno spirito di disinformazione che porta dritto dritto ad affermazioni false e fallaci. Conclusioni che vengono smascherate in modo implacabile e con grande e corrosivo umorismo negli articoli di Climalteranti. Che rovescia secchiate di onta e disonore – senza guardare in faccia nessuno – addosso ai troppi commentatori e giornalisti che ancora oggi sostengono tesi imprecise o sbagliate, non provate scientificamente, quando non di esplicito negazionismo climatico. Un’opera meritoria, quella portata avanti da Climalteranti. Perché la battaglia per limitare il riscaldamento globale è tutt’altro che vinta – anzi – ed è fondamentale che tutte le energie siano mobilitate per conquistare per le generazioni a venire un cambiamento climatico “limitato” e “mitigato”. Un’opera meritoria, a maggior ragione, in una stagione come questa che viviamo, caratterizzata dall’apparentemente inarrestabile avanzata delle bufale, delle fake news, dei “fatti alternativi” ribaditi con faccia di bronzo. Insomma, è una guerra di liberazione dalle panzane. Una guerra che va condotta con determinazione, e senza temere di farsi nemici importanti. Ovvero i grandi giornali, i telegiornali e le firme “autorevoli” che quando serve vengono spernacchiate e sberleffate come meritano.

Climalteranti, www.climalteranti.it

Stefano Caserini ha pubblicato con Edizioni Ambiente: Il clima è (già) cambiato (2016), Guida alle leggende sul clima che cambia (2009) e A qualcuno piace caldo (2008).

Ma questo non è l’unico core business di Climalteranti, che a buon diritto può essere considerata una delle più autorevoli iniziative interdisciplinari dei climatologi italiani, e utilizza un sistema di peer-review per la pubblicazione degli interventi: un metodo basato sulla lettura da parte del suo comitato scientifico delle proposte di pubblicazione, che vengono valutate e modificate affinché siano accurate e leggibili. E si apre poi al dibattito con la possibilità di commenti da parte della Rete. Nella maggior parte dei post del sito Caserini & C. analizzano i dati sull’andamento della temperatura globale o dei ghiacciai o studiano i risultati delle conferenze sul clima.

Ma spesso scoprono sui mezzi d’informazione piccole/grandi bufale e le distruggono. Come detto, ideatore e fondatore del sito è Stefano Caserini, ingegnere ambientale, titolare del corso di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, che da anni si occupa di ricerche nel campo dell’inquinamento dell’aria, degli inventari delle emissioni e della riduzione delle emissioni in atmosfera. E anche grazie alle tante assurdità smascherate, ha pubblicato diversi libri sul tema della comunicazione del problema dei cambiamenti climatici. Partendo dalla constatazione che nell’informazione sui cambiamenti climatici si assiste a una pericolosa biforcazione: da un lato, la quasi totalità degli scienziati concorda nell’individuare le attività umane quali principali responsabili dell’aumento di CO2; dall’altro sui media trovano spazio argomentazioni poco scientifiche che negano qualunque valore all’imponente mole di evidenze che si va accumulando. Il meccanismo con cui i mistificatori cercano di difendere la legittimità di certe teorie senza valore è simile a quello esaminato in questi mesi parlando di bufale e fake news. Ci sono i complottisti che con maggiore o minore maniacalità asseriscono che “tutto quello che sapete è falso”. Ma di questi se ne troveranno pochi sui giornali. Sui media trovano spazio soprattutto tre categorie di negazionisti climatici: quelli che “ormai è troppo tardi”, secondo cui “che vuoi che sia qualche grado in più di temperatura, e comunque qualche soluzione la troveremo”; quelli che “comunque è troppo costoso”, i quali spiegano che non vale la pena di penalizzare certi comparti economici, col rischio di perdere posti di lavoro e pagare più tasse. Infine, e sono i più comuni, quelli che “bisogna essere imparziali”. Ovvero, coloro che in nome di una presunta par condicio mettono a confronto la tesi del riscaldamento globale di origine umana – su cui concorda il 99,7% della comunità scientifica – con tesi “alternative” senza alcun valore scientifico. E succede di frequente. In passato ci è caduta qualche volta anche La Stampa, il mio giornale. Ancora troppo spesso ci cade il Corriere della Sera, che il 26 febbraio scorso ha pubblicato due pagine titolate “Credetemi, il clima non è surriscaldato”, citando dati sbagliati e argomentazioni folli. Se si fosse parlato con analoga surreale “imparzialità” di vaccini, o peggio ancora di olocausto, in redazione sarebbero successo un’iradiddio.

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materiarinnovabile 15. 2017

Pillole di innovazione

La scienza in trincea Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.

Poiché Materia Rinnovabile è una rivista ampiamente attraversata da tematiche scientifiche e tecnologiche, ho pensato che una mia recente esperienza negli Stati Uniti possa essere utile per avere una certa visione su cosa sta accadendo in questi pochi mesi trumpizzati. Sono stato al grande meeting della Aaas – American Association for the Advancement of Science. Ci vado spesso. Quest’anno l’incontro era a Boston, area nella quale la presenza della ricerca scientifica si nota anche nelle panetterie. Ma il meeting dell’Aaas è comunque un intervento che va oltre la sua location. Comprende un centinaio di seminari quotidiani, raccoglie migliaia di donne e uomini e che lavorano nella scienza, con un 70% provenienti dagli Stati Uniti e un 30% da tutto il mondo. Io conosco bene l’aria che si respira in questo appuntamento, e quella che ho respirato lo scorso febbraio era del tutto diversa. Possiamo partire da varie scenette. La ricercatrice di origine cinese o giapponese che prima del suo speech, con il pollice e il medio di entrambe le mani cerca di allargarsi gli occhi per “truccarsi” da americana, con risate e applausi a seguire. Fisici indiani che “sono contento di essere a questo meeting del 2017 perché non so se l’anno prossimo potrò venirci”. Grafici proiettati, che raccontano i dati di fenomeni di varia natura, ai quali viene aggiunta una colonna according with trumpism, cioè quale sia l’interpretazione del presidente, che, naturalmente, se si parla di – che ne so – spettrometria, dice che i fantasmi non esistono in Usa. Forse in Europa. E il dato serio, di base, che viene anche un poco psicologicamente ridotto nella sua ansiogenicità con frizzi e lazzi di varia natura, è il seguente: a quest’uomo mancano i fondamenti minimi per capire cosa è la scienza. Ma detto con grande serietà. Per esempio, è altamente probabile che Mr Trump non sappia cosa sia l’entropia e quindi potrebbe tranquillamente finanziare ricerche per macchine che producano energia in perpetuo senza bisogno di essere alimentate. Quest’uomo non è un antiambientalista;

quest’uomo non conosce i paradigmi di fondo delle fenomenologie ambientali. È una realtà che non si è mai presentata nella storia americana. Poi c’è il personaggio con il suo decisionismo soluzionista e la sua aggressività. Sono rimasto a bocca aperta nel sentire, durante un incontro – ce ne sono stati almeno quattro in cinque giorni, non meno di un migliaio i presenti ogni volta – dedicato al tema Cosa fare con Trump, eminenti scienziati dare indicazioni, a chi fa ricerca negli enti pubblici, del tipo “non fatevi intimidire, resistete, parlate con i decisori politici in tutti i modi e spiegate come si fa scienza”. Sembravano, nei toni, gli appelli che de Gaulle lanciava dalla radio inglese ai francesi durante la Seconda guerra mondiale. La sensazione complessiva, comunque, parlando con tutti e tutte, è che questa situazione non è assolutamente possibile che possa durare per quattro o addirittura otto anni. La ritirata da progetti di ricerca internazionali, per esempio – Trump vi ha accennato più volte – può costare centinaia di miliardi di dollari all’economia americana. Insomma, dagli Stati Uniti, nei quali naturalmente la percezione degli avvenimenti si costruisce sulla base di molte notizie e commenti che qui da noi non possono arrivare, lo scenario che si sta delineando nel mondo scientifico è che sia imminente un uragano senza alcun precedente storico.



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