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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE

Euro 16,00 – www.renewablematter.eu – Poste Italiane S.P.A. – Spedizione in abbonamento postale – 70% LOM/MI/00670_Tassa Pagata/Taxe Perçue/Postamail Internazionale

26 | marzo-aprile 2019 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

L’obsolescenza e il diritto di riparare •• Joe Iles: l’arma segreta del progettista •• Material Matters, l’importanza della materia •• Riutilizzo: come orientarsi nella complessità del settore

Navi da smantellare e riciclare: un problema irrisolto •• Nørrona, la moda outdoor cambia abito •• Tutto il potenziale circolare delle alghe •• Quando il tappo di sughero diventa Etico

In depth: lo sguardo sui ghiacci •• Dalla plastica all’olio •• Il Circular Economy Club: un progetto “glocal”

Dossier Australia: una bioeconomia a tutta energia •• La via australiana verso la decarbonizzazione


THE GREEN TECHNOLOGY EXPO

PROGETTIAMO UN MONDO MIGLIORE. Dai nuovi modelli di sviluppo dell'economia circolare alle soluzioni tecnologiche per la gestione e la protezione delle risorse: una piattaforma internazionale per favorire la crescita di un ecosistema imprenditoriale innovativo e creare un futuro piĂš sostenibile.

5 - 8 NOVEMBRE 2019 QUARTIERE FIERISTICO DI RIMINI Organizzato da

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Editoriale

di Emanuele Bompan

Europa sul baratro L’Europa si trova davanti a una grande sfida con le prossime elezioni del 23-26 maggio. Si tratta di riformare il Parlamento e la Commissione europea, ricalcando la visione politica dei cittadini europei e dare così forma a una nuova fase dell’Unione. I sondaggi dei primi di marzo raccontano la grande forza politica che stanno acquisendo partiti ultra nazionalisti, sovranisti e in alcuni casi apertamente nazi-fascisti. Dal gruppo di Visengrad alla Lega Nord italiana, dal partito Legge e Giustizia di Jarosław Kaczyński al Front National di Marine Le Pen l’asse europea di coloro che sono antitetici all’integrazione, all’innovazione, all’economia circolare, alla lotta per il clima, alla parità di genere, guadagna consensi. Dall’altra parte dell’Atlantico invece una nuova campagna politica lanciata da Sunrise Movement e Justice Democrats, due gruppi di pressione politica, e dalla neo-congress woman AOC, Alexandria Ocasio-Cortez basata sul progetto di un Green New Deal ha velocemente consolidato il consenso democratico a sinistra, preparando il terreno politico per le elezioni presidenziali del 2020. Al cuore della proposta la decarbonizzazione dell’economia, puntando a un obbiettivo 100% energia da fonti rinnovabili, promuovere processi di efficientamento e economia circolare, investimenti pesanti in infrastrutture pubbliche per i trasporti, creando nuovo lavoro e realizzando un sistema di tutele crescenti nell’occupazione (oggi fortemente flessibile). Come sostenere economicamente questa transizione? Innanzitutto tassando i super-ricchi con un’aliquota del 70% per redditi superiori ai 10 milioni di dollari. Insomma un mix di azione liberal di mercato,

politiche ambientaliste consolidate, e politiche apertamente e orgogliosamente “socialist”, calate nel contesto sociale degli USA 2020. Potrebbe essere il Green New Deal l’ultima salvezza contro l’avanzata di un Europa disgregata, meno unionista, meno ambientalista, meno agglutinante? Questa rivista ritiene, dal suo osservatorio, che assolutamente sì, un Green New Deal europeo, che unisca democratici, Verdi, forze di sinistra del gruppo GUE/NGL, l’emergente partito paneuropeo Volt, e persino il mondo liberal e popolare moderato che capisce l’urgenza della sfida sul clima e sullo sviluppo sociale nell’Europa degli anni Venti 2.0, sia assolutamente, urgentemente e fondamentalmente necessario. Il rischio è consegnare l’Europa a una schiera di cloni di Trump, altrettanto demenziali (ve lo immaginate Geert Wilders alla commissione Lavoro?) e soprattutto pericolosi. Abbiamo rallentato la decarbonizzazione dell’economia del pianeta con la prima presidenza Trump. Non possiamo permetterci di perdere un ulteriore treno. Come fare dunque per attivare un GND europeo che renda solidali tutte le forze EU animate da uno spirito ambientalista, dall’equità sociale, dai diritti, da politiche occupazionali innovative, che rendano l’Unione davvero all’avanguardia su green job, economia circolare, decarbonizzazione, inclusione sociale, sicurezza ambientale e infrastrutturale, politiche agricole di rigenerazione del suolo, mobilità sostenibile ed educazione e ricerca? La ricetta quale potrebbe essere? Definire un programma solido, dettagliato e fondato sul confronto intellettuale. Creare una formidabile macchina di raccolta finanziamenti dal basso, sostenuta anche dal mondo associativo e delle fondazioni, che possa incamerare un discreto bottino. Dunque predisporre una campagna di base partendo dai centri minori (anziché fare sempre i convegni nelle capitali) e una potente offensiva mediatica e sui social media, che aggiri la disattenzione sui movimenti ambientali dei grandi media, forte di un programma degno di tale nome e con le giuste risorse economiche. In Europa non esiste una macchina di costruzione del consenso paragonabile a quella progettata dal Sunrise Movement. È arrivato li momento di costruirla.



L’economia circolare e il diritto alla riparazione di Gay Gordon-Byrne

Gay Gordon-Byrne è executive director di The Repair Association. Si dedica a promuovere l’inserimento di politiche a favore della riparazione nella legislazione attraverso i decisori politici e le organizzazioni legate agli standard. La Repair Association, che ha la sua sede negli Stati Uniti, ha contribuito anche lavorando in maniera analoga in Ue, Canada e altri Stati.

The Repair Association, https://repair.org

Vi do una brutta notizia. Il riciclo non è la chiave dell’economia circolare: lo è la riparazione. I diagrammi che mostrano un cerchio perfetto, in cui i beni riciclati si trasformano in nuovi prodotti, ignorano la preoccupante verità che il riciclo di apparecchi elettronici non rientra in quel cerchio. Mentre è vero che i produttori comprano alcune materie prime da fonti riciclate, non raccolgono i componenti usati né li installano in nuovi prodotti. Tutto il lavoro impiegato per creare questi componenti recuperabili viene buttato via. Ecco perché. I produttori, in generale, non progettano i prodotti in modo che vengano riusati, riparati o che si possano recuperare le parti preziose alla fine della loro vita. Non è una pratica scellerata, ma il risultato di decenni di modelli di business focalizzati sulla vendita di nuovi prodotti in un mercato altamente competitivo. I produttori e i loro manager sono premiati per nuove vendite sia in termini di profitto che di aumento del valore delle azioni. Non guadagnano niente quando fate riparare i vostri apparecchi. Di fatto ogni apparecchio riparato è uno in meno venduto. Apple ha riconosciuto questo problema nella sua ultima guida per gli investitori e ha prontamente perso valore in borsa. La riparazione non è una buona cosa per i produttori. Né i prodotti elettronici sono progettati per facilitare il disassemblaggio, la riparazione o il riuso. I produttori prevedono la necessità di parti riparabili in garanzia, ma niente di più. Questo genera un’enorme problema nella chiusura del cerchio. Le parti non sono compatibili tra un modello e il successivo e spesso variano nell’arco del periodo di produzione. Di fatto i riciclatori ricevono una varietà sconcertante di prodotti in ordine casuale. La sola selezione e identificazione dei prodotti o delle parti che hanno un valore e di quelle che non ce l’hanno richiede un intenso lavoro. È necessario altro lavoro per disassemblare e rimuovere le parti per il riuso e la rivendita. Non sorprende che il tasso di recupero di componenti e prodotti elettronici oscilli intorno al 14% anche nei flussi di materiali meglio curati. Poi c’è il problema del valore delle materie prime. Le parti di maggior valore della maggioranza dei prodotti di consumo sono spesso gli alloggiamenti

di metallo e di plastica, che vengono facilmente separati e venduti come materie prime. Le viti hanno un valore ma non i circuiti stampati. Questi richiedono una dissaldatura particolare per recuperare quantità minuscole di metalli preziosi e il resto del circuito finisce comunque in discarica. In realtà i camionisti guadagnano dal trasporto più di quanto la maggior parte delle municipalità realizzi in valore dalle parti recuperate. In aggiunta a queste difficoltà, i produttori hanno attivamente dissuaso i consumatori a riparare e continuare a usare i prodotti acquistati. Producono apparecchi progettati per guastarsi. Includono batterie che hanno una vita limitata, usano la colla per bloccare le batterie rendendo impossibile sostituirle. Molte aziende rifiutano di fornire la documentazione, i ricambi e gli attrezzi per consentire la riparazione. Alcune addirittura promuovono aggiornamenti software dannosi per deteriorare le prestazioni in concomitanza con l’uscita di nuove versioni dei prodotti. Incentivare la riparazione ha un enorme potenziale inutilizzato per ripristinare la visione del cerchio. I consumatori vogliono continuare a usare le cose che hanno comprato perché a loro piacciono. Sappiamo per esperienza che quasi tutti cercano prima di far riparare, e rimpiazzano solo quando non è possibile riparare. La riparazione è l’attività che favorisce l’uso esteso e aumenta il valore degli apparecchi usati. Il costo della riparazione è cruciale per la conservazione del valore dell’apparecchio. Se la riparazione è diffusamente disponibile si crea un mercato dei ricambi che vanno recuperate per la rivendita da parte di riutilizzatori, tecnici riparatori e riciclatori. Le attività di riparazione risponderanno rapidamente all’opportunità di crescere, creando una maggiore domanda di ricambi recuperati, e a loro volta ridurranno il volume di scarti che necessitano di lavorazione allungando contemporaneamente il tempo di vita utile di quello che già possediamo.


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M R MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE www.renewablematter.eu ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Emanuele Bompan Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Irene Baños Ruiz, Francesco Bassetti, Karin Bolin, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Rudi Bressa, Emanuele Del Rosso (vignetta a pag. 5), Gay GordonByrne, Joe Iles, Richard Heinberg, Giorgia Marino, Pietro Luppi, Francesco Petrucci, Katie Pyzyk, Alessandro Speccher, Alessandro Strada, Antonella Ilaria Totaro, Fabiano Ventura Caporedattore Maria Pia Terrosi Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Francesco Bassetti Paola Cristina Fraschini Design & Art Direction Mauro Panzeri Impaginazione e infografiche Michela Lazzaroni

26|marzo-aprile 2019 Sommario

Emanuele Bompan

5

Europa sul baratro

Gay Gordon-Byrne

7

L’economia circolare e il diritto alla riparazione

10

NEWS

Joe Iles

12

Politiche: l’arma segreta del progettista

Alessandro Speccher

14

Riconoscere la limitatezza delle risorse assegnando loro una identità

a cura della redazione

16

Il Circular Economy Club: un progetto “glocal” Intervista ad Anna Tarí

Irene Baños Ruiz

18

Riciclo sostenibile delle navi: un problema irrisolto

a cura della redazione

24

Francesco Bassetti

32

Mario Bonaccorso

37

Dossier Australia Una bioeconomia a tutta energia

Giorgia Marino

44

Il diritto di riparare

a cura della redazione

Think Thank

Policy

Community manager Antonella Ilaria Totaro Traduzioni Patrick Bracelli, Erminio Cella, Laura Coppo, Franco Lombini, Mario Tadiello

In Depth Lo sguardo sui ghiacci

Prevenire un’altra bolla: il potenziale circolare delle alghe


9

Coordinamento generale Anna Re

World Pietro Luppi, Alessandro Strada, Karin Bolin

Responsabile relazioni esterne Anna Re

48

Riutilizzo e nuove direttive europee: come orientarsi nella complessità del settore

Katie Pyzyk

52

Dalla plastica all’olio

Rudi Bressa

54

Quando il tappo di sughero diventa Etico

Emanuele Bompan

56

Nørrona, la moda outdoor cambia abito

Ufficio stampa press@renewablematter.eu Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti Solo on-line su www.renewablematter.eu/it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi)

Startup

Copyright ©Edizioni Ambiente 2019 Tutti i diritti riservati

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Packaging dai crostacei con Cruz Foam

59

Ioniqa, Pet vergine da packaging non riciclabile

60

Yescapa, noleggiare camper da privati

61

Dispositivi elettronici in abbonamento con Grover

Richard William Heinberg

62

Thinking resilience Che spreco di rifiuti

Francesco Petrucci

63

Antonella Ilaria Totaro

Responsabile relazioni internazionali Federico Manca

Rubriche

Circular by law L’economia circolare avanza, le azioni sul clima no

In copertina foto di joakant@pixabay/ CreativeCommons CC0


materiarinnovabile 26. 2019

NEWS

a cura della redazione

African mimetic butterflies, 1910s

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Marzo di carta Per la carta è un momento felice. Oggi sempre più oggetti monouso si realizzano in carta, che però deve essere correttamente smaltita. Comieco, il Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica italiano, ha lanciato il Mese del Riciclo di Carta e Cartone: un contenitore d’iniziative rivolto a tutti – cittadini, scuole, media, istituzioni, associazioni e aziende – che vuole far emergere l’importanza della raccolta differenziata e il ruolo della carta come esempio di circolarità. “In Italia oggi si ricicla l’80% degli imballaggi cellulosici, una quantità pari a 10 tonnellate di macero al minuto”, afferma Carlo Montalbetti, direttore generale di Comieco. “Inoltre, l’apertura di tre nuove cartiere sul territorio nazionale, con una capacità di riciclo di circa 1,2 milioni di tonnellate, permetterà di gestire l’aumentata offerta di macero.”

Cenere eri, neomateriale ritornerai Se vi capitasse di morire nello Stato di Washington, USA, potreste tornare in “vita” sotto forma di compost, biogas o elemento nutritivo per insetti. Il senatore democratico Jamie Pedersen ha introdotto una legge per legalizzare l’uso di resti umani in un compostatore predisposto per una rapida decomposizione. Il nome

tecnico? Ricomposizione umana. Secondo Recompose, società americana di compostaggio, la ricomposizione è meno costosa e più rispettosa dell’ambiente sia rispetto alla sepoltura – che rilascia tossine dannose nel terreno circostante e nelle falde acquifere – che alla cremazione, che rilascia circa

245 chili di CO2 per corpo. In forte opposizione la chiesa cattolica che ritiene la separazione di parti del corpo teologicamente problematica. Eppure Pedersen è ottimista: secondo il senatore la legge sarà in vigore dal 1° maggio 2020. Cambiando radicalmente il concetto di resurrezione.

Wcef 2019

Quest’anno il forum, dopo la tappa in Giappone nel 2018, torna in patria. Secondo gli organizzatori l’evento avrà una forte enfasi sulla prossima era dell’economia circolare, puntando molto su innovazione e processi. Un incontro internazionale a cui Materia Rinnovabile non mancherà di partecipare.

Brexit, caos rifiuti Funzionari governativi inglesi si stanno preparando ad affrontare un’emergenza rifiuti nel caso di una Brexit senza accordo, secondo documenti trapelati al Guardian. Per il Regno Unito lasciare l’Ue senza un accordo significa rendere invalide le licenze di esportazione per milioni di tonnellate di rifiuti. Inoltre lo stop all’esportazione di bestiame verso il continente potrebbe aumentare a dismisura la presenza dei capi negli allevamenti, causando un’emergenza sanitaria e ambientale. Per fronteggiare qualsiasi evenienza il governo May ha lanciato un piano per attivare in caso di necessità centri di crisi operativi 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Sitra, fondo finlandese sovrano, ospiterà il 3 ° World Circular Economy Forum a Helsinki, in Finlandia, dal 3 al 5 giugno 2019. Il Wcef 2019 riunirà circa 2.000 pensatori e operatori chiave dell’economia circolare provenienti da tutto il mondo.


News Pubblicato “Designing for the Circular Economy”

IKEA al Servizio! Billy, Poäng, Lack, Klippan da oggi potranno essere noleggiati. Il colosso dell’arredamento di interni, Ikea, infatti ha lanciato in Svizzera un progetto di prodotto-come-servizio, nel quale i mobili saranno affittati per poi essere restituiti allo scadere del noleggio. In questo modo l’azienda potrà ritenere il valore del prodotto, realizzando

Pannelli solari a consumo Altro annuncio nel settore dei prodotti-come-servizio. Green Genius, azienda lituana, ha lanciato un nuovo modello di business per chi vuole rendere la propria casa più efficiente e sostenibile ma non può o non vuole affrontare la spesa necessaria per installare

un sistema di rigenerazione dei mobili in grado di reimmetterli sul mercato. Questa è la prima di una serie di iniziative che l’azienda metterà in atto al fine di sviluppare un modello di “abbonamento” per varie componenti di arredamento. I primi mobili disponibili al noleggio saranno sedie e scrivanie per uffici, presto seguiti dai componenti per cucine.

pannelli fotovoltaici. Il modello di leasing dei pannelli non richiede investimento iniziale e consente di dimezzare la tariffa elettrica, con una riduzione del 20% delle spese annuali per l’elettricità. “Siamo orgogliosi di far entrare le centrali solari nella Circular Economy” ha commentato Lina Galatiltė, CEO Global di Green Genius.

Martin Charter è l’autore e curatore del nuovo libro Designing for the Circular Economy che descrive come ripensare il design possa essere un fondamento dell’economia circolare. Designing for the Circular Economy evidenzia ed esplora lo stato dell’arte della ricerca e della pratica industriale, evidenziando la circular economy come fonte di nuove opportunità di business; cambiamento aziendale radicale; innovazione dirompente; cambiamento sociale; nuovi atteggiamenti dei consumatori. I 34 capitoli editi da Routledge forniscono una panoramica completa

delle questioni relative alla circolarità del prodotto, dalla politica alla progettazione e allo sviluppo.

ECHA alle strette “L’Ue deve accelerare gli investimenti in nuove sostanze chimiche se vuole sostenere la transizione verso la circular economy” ha dichiarato Bjørn Hansen, direttore esecutivo dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa), aggiungendo che la circolarità invariabilmente porterà a unire le normative Ue in materia di sostanze chimiche e rifiuti e che l’Echa sarebbe ben posizionata per prendere parte alla transizione. Un annuncio per rilanciare il

ruolo dell’agenzia con sede a Helsinki, che potrebbe subire tagli importanti al budget 2020-2027, proprio in un momento chiave di rilancio della chimica verde in Europa. Mentre tante sostanze chimiche utilizzate in una vera economia circolare devono ancora essere inventate, Hansen ha detto che data la mancanza di un’agenzia dell’Ue per i rifiuti – nonostante la raffica di leggi su di essa – l’Echa sarebbe in grado di contribuire “al bene della CE nei prossimi anni”.

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Politiche: l’arma segreta del progettista Politiche intelligenti possono ispirare la scelta di materiali migliori, modelli di business innovativi e la continua circolazione del valore. di Joe Iles

Joe Iles è editor in chief di Circulate alla Ellen McArthur Foundation contribuendo a diffondere pareri illustri, notizie e casi di studio sull’economia circolare.

Dalla sua nascita nel 2010, la Ellen MacArthur Foundation ha considerato la progettazione un elemento cruciale per arrivare a un’economia circolare. In effetti la prima iniziativa della fondazione fu Project ReDesign, che ha invitato migliaia di studenti a ripensare i prodotti e i sistemi per un’economia circolare. Nel frattempo i dibattiti sull’economia circolare spesso servono a rammentarci l’importanza della progettazione, più precisamente a ricordarci che l’economia circolare è un modello di economia rigenerativa per principio. Perché è così? Osservando molti dei limiti dell’odierna economia lineare che estrae, elabora e butta via, si capisce che gli impatti negativi conseguenti sono stati messi in moto nella fase di progettazione. Le decisioni prese durante questo processo influenzano quello che accadrà a valle: come un prodotto viene fabbricato, utilizzato e smaltito, sia che finisca in un inceneritore, in una discarica o inutilizzato nel garage di qualcuno. Queste scelte potrebbero anche destinare un prodotto a essere condiviso, riparato, recuperato, rilavorato o trasformato in compost. In definitiva, la creazione è consona a un’economia circolare? Quest’ultima tende a rafforzare lo status quo dell’estrazione e del consumo, o aspira alla circolazione e alla rigenerazione restituendo più di quanto prelevato? Questo può essere reso possibile solo a monte, nella fase di progettazione.

Detto con una battuta dell’esperta di materiali Alysia Garmulewicz, “non si può riottenere un uovo da una frittata”. Tali scelte di progettazione potrebbero stabilire il tipo e la varietà di materiali di cui è composto un prodotto, se venga assemblato usando colla o viti, e se possa essere aggiornato o migliorato in futuro. Andando oltre il prodotto in sé, le decisioni relative al modello di business giocano un ruolo fondamentale. Per esempio, un detergente viene venduto in minuscoli sacchetti, in bottiglie monouso o con sistema ricaricabile? Per alcuni prodotti, vendita e possesso non rappresentano più l’unica opzione, e nuove modalità come affitto, condivisione, e restituzione incentivata sono tutte possibili. Gli impatti innescati in questa fase di progettazione possono essere profondi. Dover gestire i sintomi di un’economia lineare “dopo che il danno è fatto” e ripulire a valle della catena è spesso più dispendioso, meno efficace e a volte non è proprio possibile. Lo vediamo chiaramente oggi nei sintomi quasi irreversibili del modo in cui produciamo e usiamo la plastica. Una volta che ha raggiunto le discariche e gli oceani è difficile rimuoverla. D’altro canto, creare con l’ottica della circolarità sin dall’inizio può dare accesso a prodotti e servizi migliori o più sicuri, a migliori relazioni con i clienti e a un risparmio di risorse ed energia, incidendo positivamente sul bilancio finale. È attraverso la progettazione che possiamo affrontare le cause


Think Tank delle attuali sfide economiche, sociali e ambientali invece di limitarci a trattare i sintomi.

Concept, www.ellenmacarthur foundation.org/circulareconomy/concept Case studies Ellen MacArthur, www.ellenmacarthur foundation.org/casestudies Open letter “Drawing a line in the sand”, newplasticseconomy.org/ about/open-letter Direttiva Ecodesign della Commissione europea, ec.europa.eu/growth/ industry/sustainability/ ecodesign_en The Circular Design Guide, www.circulardesign guide.com

Dovrebbe ormai essere chiaro che questo ha una rilevanza che va ben oltre la sfera del classico progettista industriale. Tim Brown, Ceo di IDEO sostiene da tempo che “la progettazione è ovunque, inevitabilmente ognuno è un progettista”. Quindi questa fase è fondamentale non solo per un comparto ma per l’intera organizzazione, se sta studiando un’economia circolare. Se non ci si focalizza sulla progettazione, l’economia circolare non diverrà mai una realtà. C’è però un punto di stallo. I progettisti – e tutti coloro che sono coinvolti nella creazione di nuovi prodotti e servizi – devono affrontare richieste contraddittorie. Anche se progettano tenendo presente l’economia circolare i loro sforzi possono essere vanificati dai sistemi lineari attualmente operanti. In un altro punto del sistema, le aziende che recuperano prodotti per ripararli o riciclarli, per esempio, hanno bisogno di processi o tecnologie adeguati a quello che i progettisti mandano loro. Questa situazione ostacola i sinceri sforzi per passare a un’economia circolare. È qui che i decisori politici hanno un ruolo vitale. I decisori politici sono nella posizione migliore per creare condizioni abilitanti che permettano all’intera catena di valore di passare a un’economia circolare. Con una visione sistemica, essi hanno il potere di collegare ciò che sta a monte della catena con ciò che sta a valle, e creare le condizioni ottimali per il funzionamento del sistema complessivo. Focalizzare le misure politiche sulla fase di progettazione può riconciliare le richieste economiche, ambientali e sociali, creando e distribuendo i benefici di un approccio migliore. C’è altrettanto bisogno che i progettisti elaborino nuovi concetti circolari quanto di fattori “attrattivi” per allineare gli sforzi. I progettisti devono poter confidare nel fatto che le loro ultime creazioni saranno gestite adeguatamente lungo la catena, che si tratti di come i prodotti vengono raccolti o del fatto che possano essere rimessi in circolo senza ostacoli normativi. Questo potrebbe comprendere la rimozione delle barriere non finanziarie alla progettazione per l’economia circolare, come le definizioni dei rifiuti che ostacolano il commercio e il trasporto di prodotti per la rilavorazione, o informazioni erronee che disincentivano le aziende a dedicarsi ad attività di riparazione, disassemblaggio e ammodernamento. Anche gli utilizzatori dovranno essere guidati nella direzione giusta. Durante questo passaggio nella nostra economia, persino prodotti e servizi progettati per un’economia circolare possono essere gestiti nella maniera inadeguata dei soliti modelli lineari, per esempio attraverso lo smaltimento improprio o il sottoutilizzo. Nel 2017 il governo svedese ha dato un elegante esempio di come i decisori politici possono stabilire questa direzione. L’emendamento vedeva una riduzione dell’imposta sul valore aggiunto, o VAT (valueadded tax), dal 25 al 12% per la riparazione di articoli come biciclette, indumenti, biancheria

per la casa, articoli in pelle e scarpe. Azioni come questa potrebbero innescare una reazione a catena positiva in tutta l’economia. Per cominciare, una VAT ridotta dovrebbe rendere la riparazione più appetibile ed economicamente sostenibile per i consumatori. In aggiunta a questo, i progettisti hanno un maggiore incentivo a progettare per questa nuova situazione, rendendo i loro prodotti più riparabili. Mentre politiche come queste possono innescare nuovi comportamenti da parte di progettisti, produttori e aziende, una visione e un approccio condivisi avrebbero un effetto unificante nell’industria della progettazione. A oggi, la direttiva Ecodesign della Commissione europea è stata efficace in termini di riduzione del consumo di energia. Ora è tempo di ampliare gli orizzonti della direttiva per prendere in considerazione una migliore scelta dei materiali, modelli di business innovativi e attività come la riparazione e il riciclo. I segnali provenienti dall’economia ci dicono che questo è il momento giusto per unirsi a sostegno di questa ambizione condivisa. I progettisti stanno acquisendo sempre più familiarità con l’economia circolare, migliaia di essi hanno utilizzato la Circular Design Guide e stanno costituendo un movimento attraverso la connessione online. Sono figure che vanno da progettisti di aziende a studenti e professori, a liberi professionisti o dipendenti di agenzie, e vogliono usare la loro creatività per riprogettare prodotti e servizi per l’economia circolare. Lo sviluppo tecnologico sta dando accesso a nuove possibilità per prodotti e modelli di business circolari, tra i quali il tracciamento dello stato e delle prestazioni di beni utilizzando l’internet delle cose, la comunicazione della composizione dei materiali mediante watermark digitali, l’ottimizzazione dell’uso di materiali con la stampa 3D e la condivisione delle informazioni sui prodotti mediante blockchain. Business leader operanti in tutti i settori industriali si stanno impegnando per raggiungere ambiziosi obiettivi nell’economia circolare. Nella società civile sempre più cittadini sono consapevoli dei limiti dell’economia lineare, che si tratti degli impatti dell’inquinamento, di prodotti ideati male, o di richieste di un servizio migliore e maggiore trasparenza alle aziende. Durante il Project ReDesign, la risposta da parte di studenti e insegnanti in tutto il paese ha rivelato come l’economia circolare possa infondere ottimismo nelle persone riguardo al futuro. Questa nuova visione del mondo porta con sé la passione e l’intraprendenza per riprogettarlo. Sappiamo tutti che la passione e la spinta individuali possono portare a grandi progressi. Se questa energia viene supportata da incentivi, creazione di conoscenza e totale libertà di esplorazione di queste possibilità, daremo veramente inizio a una nuova era della progettazione.

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materiarinnovabile 26. 2019

Riconoscere la limitatezza delle risorse assegnando loro una identità di Alessandro Speccher

Alessandro Speccher si occupa di formazione e consulenze ambientali. La sua ricerca spazia tra le sfere ambientale, sociale ed economica con uno specifica attenzione alla relazione tra natura e ambiente antropizzato.

I rifiuti sono materie prime finite nell’anonimato: il primo passo è organizzare la gestione della loro identità. Material Matters, L’importanza della materia – Un’alternativa al sovrasfruttamento, di Thomas Rau e Sabine Oberhuber, offre un punto di vista ragionato e critico per capire meglio lo sfruttamento delle materie prime in un momento storico in cui vi è la necessità di alimentare la riflessione. L’uscita del libro cade a ridosso del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, ricorrenza che gli autori hanno metaforicamente richiamato per portare fisicamente alle Nazioni Unite la Dichiarazione universale dei diritti dei materiali (UDMR) – presente nel testo come appendice – accompagnandola con il seguente messaggio “La Terra è l’unica legittima proprietaria di tutte le materie prime e di tutti i materiali, e vi è un solo ‘membro permanente’ che disponga davvero di un diritto di veto: la natura”. Material Matters diventa così un testo che ben si sposa con la Dichiarazione, illustrandone la genesi e descrivendone i fondamenti costitutivi, ma allo stesso tempo arricchisce il dibattito e offre un interessante contributo al dibattito tecnico scientifico. La critica degli autori è tagliente quando si tratta di discernere tra una reale innovazione rispetto a un mero efficientamento dello status quo. L’applicazione del mantra reduce-reuse-recycle è rigorosa e coerente. Secondo gli autori, l’economia lineare “organizzata in modo tale che nessuno debba assumersi la responsabilità delle conseguenze delle sue azioni”, stenta a essere superata perché ancora non compresa. Parafrasando Kelvin, “non si può migliorare ciò che non si conosce, non si può conoscere ciò che non si misura”, la non conoscenza dei limiti del sistema, l’assenza di dati, l’approccio specialistico che tende a perdere di vista il tutto, sono le barriere per una riscoperta dell’economia circolare. La separazione tra “potere” e “responsabilità”, viene identificata come la genesi del modello dentro il quale ci troviamo. “Ai consumatori viene quindi chiesto fin troppo: non possono in nessun

modo sobbarcarsi la responsabilità di risolvere tali problemi, con il risultato che le conseguenze delle decisioni dei produttori vengono sempre collettivizzate sotto forma di rifiuti.” Non avendo più il consumatore la minima conoscenza della catena che ha portato all’esistenza del prodotto che sta usando, egli si sente deresponsabilizzato e inerme di fronte ai problemi generati da un modello economico e produttivo di cui è solo l’ultimo anello della catena. Il modello Turntoo, sviluppato dagli autori e presentato nel libro attraverso la sua trattazione teorica e numerosi esempi concreti quali LAAS (Light As a Service con Philips) o AAAS (Appliance As a Service con Bosch), vuole offrire una risposta a questo problema. Esso evolve il concetto di “prodotto come servizio”, già da decenni oggetto di dibattito e pilastro della circular economy, offrendo una possibile risposta al quesito principe: cosa succede quando il produttore non intende più utilizzare i materiali che costituiscono la base dei propri servizi? La risposta a questa domanda trae spunto da un interessante riflessione sull’identità dei rifiuti. Cosa sono i rifiuti se non materie prime finite nell’anonimato? È stato osservato che teniamo traccia di ciò che consideriamo “prezioso” e cancelliamo ciò che ci appare “privo di valore”. L’identità, infatti, è più di una somma di caratteristiche, suggerisce l’idea che si tratti di qualcosa che non deve andare perduto e che perciò va protetto. Come è possibile organizzare e istituire un documento di identità dei materiali? La gestione di un identità richiederebbe di tenere traccia di come il portatore di identità evolve e si trasforma. Lo studio di questa evoluzione creerebbe consapevolezza che a sua volta aprirebbe la strada ad un reale miglioramento dei processi. In questo modo un edificio da demolire e privo di valore si trasformerebbe in un deposito temporaneo di materiali, in questo modo si potrebbero premiare i produttori che realizzano oggetti progettati per durare (e non per rompersi), per essere aggiornati (invece che per superati), per appassionare invece che per passare di moda.


Think Tank

T. Rau S. Oberhuber, Material Matters. L’importanza della materia – Un’alternativa al sovrasfruttamento, Edizioni Ambiente 2019; www.edizioniambiente.it/libri/1241/materialmatters

Il volume – attualmente disponibile nelle edizioni olandese, italiana e tedesca – è in attesa di trovare un editore interessato alla pubblicazione in lingua inglese. T. Rau S. Oberhuber, Material Matters. Het alternatief voor onze roofbouwmaatschappij, B+L 2018; www.bertramendeleeuw.nl/boek/ material-matters

Occorre che anche alla Terra sia riconosciuto un diritto alla sovranità, che non vuole dire l’impossibilità per noi umani di sfruttare le sue risorse, bensì il potere di amministrarle nel migliore dei modi.

Riappropriati di un identità possiamo tornare a parlare di diritti, la Dichiarazione universale dei diritti dei materiali e delle analogie con la Dichiarazione universale dei diritti umani. Se accettiamo di trattare i materiali come vorremmo essere trattati noi stessi, ne consegue una conclusione radicale: nessuno può appropriarsi dei materiali forniti dal nostro sistema chiuso. Nella catena di produzione lineare il capitale è incorporato nei materiali, e ciò induce a speculare sulle materie prime, ovvero sulla natura e a suo danno. Per evitare tutto ciò occorre che anche alla Terra sia riconosciuto un diritto alla sovranità, che non vuole dire l’impossibilità per noi umani di sfruttare le sue risorse, bensì il potere di amministrarle nel migliore dei modi. L’amministrazione non ha a che fare con la proprietà, ma con l’assunzione di responsabilità. Non con il possedere, ma con il prendersi cura. Nel modello Turntoo, nel quale i contratti sono basati sul concetto del prodotto come servizio, dotato di un identità, si riprende il principio del “buon padre di famiglia”. Identità e responsabilità diventano cosi l’uno la rappresentazione della logica e del pensiero scientifico meccanicistico e l’altro la rappresentazione dell’approccio olistico, etico e filosofico. Essi devono lavorare all’unisono e in sinergia per trovare una risposta rapida ed efficace ai problemi ambientali che l’economia lineare ha generato. Per cambiare il nostro rapporto con la

T. Rau S. Oberhuber, Material Matters. Wie wir es schaffen, die Ressourcenverschwendung zu beenden, die Wirtschaft zu motivieren, bessere Produkte zu erzeugen und wie Unternehmen, Verbraucher und die Umwelt davon profitieren, Ullstein 2018; www.ullsteinbuchverlage.de/nc/buch/details/materialmatters-9783430202688.html

Terra servono sia un nuovo sistema economico sia un cambiamento culturale. Se vogliamo davvero migliorare il nostro rapporto con la Terra, dobbiamo cambiare l’anima della nostra economia e della nostra società. Sempre più spesso troviamo nei saggi di settore, e questo libro non fa eccezione, l’affiancamento di un pensiero quantitativo (pilotato dalla linearità del ragionamento) a un pensiero qualitativo, legato alla tempestività, all’attimo, all’aspetto etico delle nostre scelte e tipico del ragionamento sistemico. Il testo offre sia soluzioni tecniche sia argomentazioni etiche e sistemiche con un modo di ragionare che prende il meglio dall’uno e dell’altro modo di pensare. Una parte del mondo ha già fatto un passo evolutivo, lo vediamo nella meccanica classica che viene ora arricchita e completata dalla meccanica quantistica, nel design che trova nella biomimesi nuova linfa vitale, nelle scienze che attraverso la biofilia arricchiscono la trattazione della sua componente emotiva, nell’industria che inizia timidamente ad applicare i concetti di prodotto come servizio, nell’architettura che vede gli edifici come depositi di materiali (il Comune di Brummen, progettato da Thomas Rau, è il primo edificio al mondo a essere dotato di carta d’identità per ogni materiale utilizzato). La nostra società vive in un momento di grande accelerazione, sia distruttiva sia costruttiva. Il contributo di Rau e Oberhuber arricchisce senza dubbio il dibattito aperto sul nostro futuro.

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Il Circular Economy Club: un progetto “glocal”

Intervista ad Anna Tarí

Anna Tarí, al centro

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a cura della redazione

Fondatrice e amministratore delegato del Circular Economy Club, Anna Tarí recentemente è risultata vincitrice nella categoria economia circolare dello Youth Ibero-American Award.

Circular Economy Club, www.circulareconomy club.com

Nel ruolo di fondatrice e amministratore delegato del Circular Economy Club (Cec), Anna Tarí ha avuto l’opportunità di acquisire una prospettiva unica sull’evoluzione del movimento dell’economia circolare, che l’ha portata alla convinzione che la transizione verso la circolarità sia un processo inevitabile che deve essere accelerato. Quando ha dato vita al Cec nel 2012, come sito web, questo concetto era poco compreso. I diversi protagonisti dell’economia circolare che mirano a fare la differenza hanno trovato in questa organizzazione internazionale con sede a Londra una rete di circa 3.100 membri provenienti da più di 100 paesi. Il Cec è così diventato una piattaforma per accelerare il cambiamento e unire i protagonisti dell’economia circolare, creando forti legami fra loro. Un luogo in cui si possono condividere buone pratiche e allo stesso tempo ottenere un impatto sia a livello locale sia globale. Qual è il ruolo del Cec nell’economia circolare? “Consiste nell’offrire una piattaforma in cui ognuno possa fare la propria parte per accelerare la transizione verso un’economia circolare. Grazie al nostro lavoro abbiamo realizzato workshop in più di 160 città in tutto il mondo per avviare strategie locali di economia circolare, introdotto organizzatori Cec nelle università puntando a inserire nei programmi l’economia circolare, sostenuto 140 startup attraverso un tutoraggio gratuito, dando loro visibilità e aiutandole a trovare finanziamenti. Attualmente abbiamo 3.100 membri in più di 100 paesi, da professori e studenti ad amministratori delegati e giornalisti, e tutto ciò che si colloca fra queste categorie. Tutti devono poter avere l’opportunità di fare la loro parte

Una rete no profit a impatto “glocal” che unisce 3.100 protagonisti dell’economia circolare provenienti da più di 100 paesi. nell’economia circolare. Penso che il motivo per il quale il Cec sta crescendo così rapidamente è che diamo alle persone la possibilità di fare qualcosa che porta risultati tangibili, e le colleghiamo a una comunità mondiale di attori che a loro volta fanno la propria parte.” Come si può accelerare la transizione verso un sistema più circolare? “Ci sono tre aree chiave. In primo luogo, implementare nuove regole che vadano in direzione di limitare e proibire l’uso di materiai tossici e lo smaltimento in discarica, oltre a incentivare i prodotti creati con materiali riciclati e progettati per essere riutilizzati. In secondo luogo, canalizzare maggiori finanziamenti verso le attività economiche che creano tecnologie per facilitare il recupero di materiali e la loro biodegradabilità, attuando soluzioni di logistica inversa e creando mercato per i prodotti usati e per quelli che oggi chiamiamo rifiuti. Infine, costruire consapevolezza attraverso l’educazione e i media, per fare comprendere a un numero sempre maggiore di persone che possiamo creare un sistema più intelligente per gestire le nostre risorse.” Quali ostacoli incontra questa transizione? “L’ostacolo principale è l’assenza di mercato per i prodotti e i materiali di scarto o già utilizzati. Finché non avremo un mercato redditizio per i rifiuti di ogni tipo (per esempio i rifiuti plastici), non saremo in grado di incentivare le persone e le organizzazioni al recupero. L’azione dei governi e delle aziende sono entrambe fondamentali per rendere efficace questa spinta. Da una parte i governi possono incentivare l’utilizzo di materiali recuperati nei processi produttivi, oltre a facilitare


Think Tank le infrastrutture e la logistica per un adeguato recupero e conversione dei rifiuti in materiali di pregio. D’altra parte le aziende possono iniziare a lavorare sulle possibilità di valorizzazione dei rifiuti che abbiamo già prodotto, creando nuovi modelli di business. Per esempio la birra Toast Ale è prodotta utilizzando pane che altrimenti sarebbe finito in discarica.” Che altro può essere fatto? “I governi non incentivano le aziende e i cittadini

I governi non incentivano le aziende e i cittadini in modo sufficiente da spingerli a cambiare i loro comportamenti. Al momento è più facile fare la cosa sbagliata che non quella giusta.

in modo sufficiente da spingerli a cambiare i loro comportamenti. Al momento è più facile fare la cosa sbagliata che non quella giusta. È più semplice buttare le cose nell’immondizia generica, che non in un bidone per la raccolta differenziata. È più semplice ed economico smaltire i rifiuti in discarica che non recuperarli, e così via. Dovremmo creare un sistema circolare di default. Per cominciare, se non esistessero le discariche e fossero implementate logistiche di ritorno per il recupero dei materiali, questi rientrerebbero in ciclo più rapidamente e con minore impatto ambientale.” Quali sviluppi interessanti avete potuto osservare nel vostro lavoro con il Cec? “Agli esordi dell’economia circolare la mia paura era che le persone la identificassero immediatamente con il riciclare. C’è stata tutta una discussione sulla necessità di non associare la circolarità solo con il riciclaggio, ma di lavorare per la scomparsa dei rifiuti, non creare rifiuti di default. Sono ottimista perché vedo che le persone hanno iniziato a capire e assimilare il concetto di circolarità. Esiste un numero crescente di organizzazioni, comprese grandi aziende, impegnate a ridisegnare l’intero sistema di produzione e consumo. Per esempio, uno dei membri del Cec, l’azienda Terracycle, in collaborazione con Nestlé, Danone, P&G e altri, ha lanciato Loop, un sistema che permette ai consumatori di comprare prodotti in contenitori riutilizzabili e che si possono restituire.” Sembra che l’economia circolare abbia catturato l’attenzione di consumatori

e produttori. Pensa che questo processo continuerà a crescere? “La circolarità, in termini sia di consapevolezza sia di azioni, è cresciuta in modo esponenziale. Lo si può notare dalla gran quantità di eventi e conferenze che si tengono nel mondo, dalla quantità di aziende che cercano di capire come farla diventare parte delle proprie pratiche e dal numero di nuovi membri che si aggiungono al Cec. Secondo noi non si tratta di una tendenza che andrà a scomparire, ma è piuttosto una trasformazione del modello economico che aiuterà l’umanità a mantenere la nostra qualità di vita, rivedendo allo stesso tempo la nostra relazione con l’ambiente e con la società nel suo insieme. Abbiamo raggiunto un punto critico in cui o cambiamo o siamo rovinati. Fortunatamente molte persone lo stanno realizzando. Il modello economico di cui abbiamo bisogno comporta il passaggio dall’essere meri consumatori a utilizzatori: questi cambiamenti sono collegati agli stili di vita di cui ci stiamo già appropriando quando, per esempio, affittiamo auto o vestiti.” C’è un cambiamento culturale in atto su scala globale? “La definizione di cultura e di circoli culturali sta perdendo sempre più di significato all’interno del mondo interconnesso di oggi, in cui le persone appartengono sempre di più a molti luoghi contemporaneamente. Alcuni paesi sono più rapidi nell’accogliere l’economia circolare, a volte grazie al fatto che non hanno abbondanti risorse e devono imparare rapidamente a gestire quelle che hanno. Alcuni paesi, inoltre, sono più grandi e nelle loro scelte influenzano altri paesi. Per esempio da quando la Cina ha chiuso le porte all’importazione di rifiuti da paesi stranieri, l’Unione europea ha dovuto accelerare il processo attraverso il quale gestire i suoi ingenti flussi di rifiuti. Anche se alcuni paesi si avvicinano all’economia circolare dopo altri, evolversi e costruire comunità migliori è una tendenza insita nella natura umana, per cui probabilmente è un passo che prima o poi faranno tutti.” Quali paesi sono in prima linea nell’economia circolare? “Durante la Circular Economy Mapping Week che ha avuto luogo a marzo in 65 città di tutto il mondo, più di 2.100 membri del Cec si sono incontrati per identificare le soluzioni circolari già adottate nel mondo. I Paesi Bassi, il Regno Unito (specialmente la Scozia) e la Finlandia sono i paesi in cui si registra il maggiore impegno e progresso in questo ambito. Il pilastro fondante comune a questi tre Stati consiste in un autentico impegno da parte dei governi a investire in nuove soluzioni circolari per riprogettare, in particolar modo le proprie strategie industriali. Per esempio, l’economia circolare è un aspetto fondamentale dell’Economic Strategy and Manufacturing Action Plan scozzese, sostenuto da investimenti per 70 milioni di sterline, 30 dei quali provenienti da fondi europei.”

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Riciclo sostenibile delle navi: un problema irrisolto

di Irene Baños Ruiz

Le navi possiedono il potenziale per diventare fonti sia di rifiuti tossici sia di preziosi materiali. Un approccio circolare al loro smantellamento può quindi recare benefici all’ambiente, all’economia e all’occupazione.

1. www.shipbreaking platform.org/platformpublishes-list-2018

Nel solo 2018, 518 navi hanno raggiunto delle spiagge dell’India, del Bangladesh e del Pakistan, rappresentando più del 90% del tonnellaggio totale delle navi a fine vita smantellate complessivamente.1 Secondo l’ong Shipbreaking Platform, un gruppo di organizzazioni che lavorano per migliorare le condizioni umane e ambientali nel settore del riciclo delle navi, su una flotta mondiale di oltre 50.000 navi – con un ciclo di vita medio che va dai 25 ai 30 anni – nel 2018 solo 744 sono state smantellate. Materiali preziosi come alluminio, argento e – naturalmente – acciaio che costituisce il 95% del peso di una nave2 – vengono rivenduti, rilavorati o riciclati. Però durante questo processo, in assenza di un’adeguata gestione dei

2. www.ban.org/greenship-recycling

Shipbreaking Platform, www.shipbreaking platform.org

rifiuti pericolosi finiscono nell’ambiente sostanze tossiche come piombo, mercurio e liquami oleosi. Nel rapporto Ship recycling: reducing human and environmental impacts, la Commissione europea ha evidenziato come lo smantellamento improprio delle navi danneggia l’ambiente e le persone, incrementando la percentuale di malati di cancro e inquinando gli ecosistemi in luoghi come il Bangladesh e l’India. “Se demolisci una nave senza essere in grado di contenere lo sversamento di sostanze tossiche nell’ambiente e senza protezione per i lavoratori, metti in pericolo gli esseri umani, l’ambiente e le comunità che dipendono da questi ecosistemi, per esempio


Policy 3. https://www.ilo.org/ safework/areasofwork/ hazardous-work/ WCMS_110335/lang--en/ index.htm

6. www.shipbreaking platform.org/wp-content/ uploads/2019/01/StatsGraphs_2018-List_ FINAL.pdf

4. www.shipbreaking platform.org/platformpublishes-list-2018

7. www.basel.int

5. www.researchgate.net/ publication/237549357_ Ship_Breaking_Activities_ and_its_Impact_on_ the_Coastal_Zone_of_ Chittagong_Bangladesh_ Towards_Sustainable_ Management

8. https://ec.europa.eu/ info/news/new-eu-regimesafer-and-greener-shiprecycling-enters-force2019-jan-08_en 9. http://ec.europa.eu/ environment/waste/ships/ list.htm

quelle dei pescatori”, afferma Nicola Mulinaris, funzionario per la comunicazione e le politiche di Shipbreaking Platform. In effetti, l’International Labour Organisation ha collocato lo smantellamento delle navi tra i lavori più pericolosi.3 Nel solo 2018 almeno 34 lavoratori sono morti demolendo navi.4 E non sono le uniche vittime. Secondo il Marine Institute della University of Chittagong in Bangladesh, 21 specie di pesci si sono estinte e 11 sono minacciate dalle pratiche di smantellamento.5 Scappatoie nella normativa

In alto: MV Paris Express – consegnata nel 1994, riciclata in Cina nel 2015. Credit: Hapag-Lloyd

Irene Baños Ruiz è una giornalista freelance che si occupa di temi ambientali. Attualmente vive a Bonn, in Germania, dove collabora regolarmente con Deutsche Welle.

Emirati Arabi Uniti, Grecia e Stati Uniti sono responsabili delle peggiori pratiche nella demolizione delle navi, dato che nel 2018 la maggior parte delle loro navi a fine vita sono finite sulle spiagge. La Germania, nota per le sue credenziali ecologiche, ha mandato tutte le sue navi in India, Pakistan e Bangladesh.6 L’Asia meridionale attrae i proprietari di navi a causa della ridotta normativa in tema di ambiente e sicurezza, per il lavoro a basso costo e gli alti prezzi dell’acciaio. “In Asia meridionale si possono ricavare da una nave media 2 o 3 milioni di dollari in più rispetto a Europa, Turchia o Stati Uniti”, spiega Mulinaris. Sebbene i numeri oscillino, i depositi dell’Asia meridionale offrono attualmente 450 dollari per Ldt (tonnellata di dislocamento a vuoto), quelli turchi circa 250 dollari, mentre in Europa la cifra scende ulteriormente. In teoria, la Convenzione di Basilea delle Nazioni Unite,7 che regola la movimentazione transfrontaliera di rifiuti pericolosi, pone delle restrizioni anche nel commercio internazionale di navi a fine vita. Eppure le compagnie di navigazione trovano il modo per passare tra le maglie della normativa. Ecco il trucco: la convenzione riguarda solo le navi destinate allo smaltimento, mentre le compagnie ufficialmente vendono le loro navi per un utilizzo ulteriore e non per smantellarle. Nel gennaio del 2019, la società Holland Maas

Scheepvaart Beheer II BV, proprietaria di navi, è stata sanzionata con una multa da 780.000 euro e ha pagato una penale di 2,2 milioni per avere esportato illegalmente una nave in India per la demolizione. E non si tratta di un caso isolato. “Le compagnie di navigazione mentono alle autorità. Una volta che le navi sono in acque internazionali cambiano destinazione, vanno direttamente sulla spiaggia e nessuno può farci niente. A meno che le autorità dimostrino, come hanno fatto quelle olandesi, una chiara intenzione di demolire”, rivela Nicola Mulinaris. Per creare una struttura normativa più restrittiva, nel 2013 l’Ue ha adottato la Ship Recycling Regulation, che punta a migliorare il riciclo delle navi. La normativa limita l’uso di certe sostanze tossiche a bordo delle navi, che devono avere l’Inventario dei Materiali Pericolosi (IHM, Inventory of Hazardous Materials).8 Dopo la sua piena implementazione il 31 dicembre del 2018, “il riciclo di tutte le grandi navi che battono una bandiera dell’Ue può avvenire solo nei bacini inclusi nella Lista europea dei cantieri per il riciclo delle navi”. La lista comprende 23 cantieri in Ue, due in Turchia e uno negli Stati Uniti, e si prevede che aumenti in futuro.9 Gli esperti considerano questa lista un punto di svolta. “Per troppo tempo le navi dell’Ue sono state smantellate in condizioni ambientali e sociali precarie. Questo non è più accettabile. L’entrata in vigore della Regolamentazione dell’Ue sul riciclo delle navi è una pietra miliare in questo settore: detta regole chiare e precise su come le navi battenti bandiere dell’Unione europea debbano essere riciclate”, spiega Karmenu Vella, Commissario europeo per l’Ambiente, gli Affari Marittimi e le Aree di Pesca, durante una visita a un cantiere autorizzato a Gand, in Belgio. Però delle quasi 600 navi che hanno raggiunto le spiagge dell’Asia meridionale, più o meno solo 40 battevano bandiere dell’Ue, e 30 di queste lungo il tragitto per l’Asia hanno cambiato bandiera con una extraeuropea. Le bandiere di convenienza sono un altro grande problema che ostacola la demolizione sostenibile delle navi. Le compagnie spesso scelgono di registrare le loro navi in paesi con leggi più permissive. “Compagnie come Maersk hanno precisato che se l’Ue non aggiunge i cantieri indiani alla lista, per esempio, smetteranno di usare la bandiera danese e passeranno a una bandiera extraeuropea”, spiega Mulinaris. “Non è illegale cambiare bandiera, è semplicemente immorale”. Detto questo, Maersk dichiara che più di metà delle navi della compagnia battono bandiera extraeuropea a causa delle loro attività di commercio internazionale e che nessuna delle sue navi riciclate ad Alang, in India, batteva una bandiera europea. “Maersk rispetta e ha sempre rispettato tutte le normative dell’Ue applicabili”, dice a Materia Rinnovabile John Kornerup Bang, Capo della Strategia per la Sostenibilità di Maersk. Kornerup Bang si spinge oltre spiegando che, quando si tratta di riciclare le navi a fine vita, la compagnia

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A sinistra: Smantellamento di una nave su un molo dotato di gru in Cina. Credit: Wallenius Wilhelmsen

Ce, Ship recycling: reducing human and environmental impacts, 2016; tinyurl.com/y5qpvzf9

decide caso per caso valutando fattori come il prezzo dell’acciaio e le opportunità offerte dalla nazione di bandiera o dalla legislazione fiscale.

SSI, www.ssi2040.org

Rendere circolare il trasporto marittimo Secondo Andrew Stephens, executive director della Sustainable Shipping Initiative (SSI), mentre la chiusura delle scappatoie normative può richiedere molto tempo, una pressione crescente da parte delle istituzioni finanziarie si sta dimostrando efficace, dato che gli azionisti stanno cercando soluzioni più verdi e più etiche nelle quali investire. Nel 2018, per esempio, il Norwegian Oil Pension Fund, il più grande investitore privato del mondo, ha disinvestito da quattro compagnie di navigazione a causa delle loro pratiche di demolizione. Compagnie come Maersk stanno reagendo. Di fatto, la più grande compagnia del mondo di trasporto marittimo sta investendo in sforzi per migliorare gli standard lavorativi e ambientali sulla spiaggia di Alang, in India, uno dei più grandi cimiteri di navi al mondo. “Il nostro impegno in alcuni cantieri di Alang comprende la nostra partecipazione attiva nel processo di riciclo al massimo dei loro standard. Il nostro coinvolgimento locale ha stimolato un concreto cambiamento in positivo in un intervallo di tempo relativamente breve e noi beneficiamo di questo standard più alto quando demoliamo le nostre navi in questi cantieri”, spiega Kornerup Bang. Inoltre, Maersk sta sviluppando un cosiddetto passaporto cradle-to cradle (dalla culla alla culla) per preparare le navi a un riciclo qualitativamente migliore a partire dalla fase di progettazione, un passo cruciale nell’economia circolare. Secondo la compagnia, “il Passaporto, una novità assoluta per l’industria della navigazione, comprenderà un database online per creare un inventario

dettagliato utilizzabile per identificare e riciclare i componenti nel miglior modo attualmente possibile”. Sia Maersk che la compagnia di navigazione tedesca Hapag-Lloyd fanno parte della Ship Recycling Transparency Initiative, una piattaforma online lanciata nel dicembre del 2018 dalla SSI per accrescere la consapevolezza tra gli azionisti delle compagnie di navigazione e ispirarli alle buone pratiche. “Quelli che partecipano all’iniziativa sono quelli che stanno stabilendo lo standard di cosa è responsabile”, elabora Stephens. Per Mulinaris, la politica di abbandono delle spiagge di HapagLloyd è un modello che vale la pena seguire. Al contrario, enfatizza il fatto che Maersk non sta facendo abbastanza: “Maersk ha contribuito a migliorare alcuni cantieri indiani, non possiamo negarlo. Ma perché una compagnia all’avanguardia come Maersk non usa la sua influenza per spostare completamente lo smantellamento delle navi in India dalle spiagge a veri cantieri industriali? Maersk sta legando la demolizione delle navi a un metodo che la compagnia stessa aveva condannato precedentemente”. Al riguardo Kornerup Bang ha replicato che “il livello di sostenibilità di un processo di riciclo non è determinato dal tipo di metodo impiegato, ma dal fatto che il metodo stesso permetta il controllo degli scarichi e offra un’implementazione controllata e di alta qualità di tutte le procedure, evitando danni ambientali e garantendo le condizioni di lavoro”. In ogni caso, questi sforzi rappresentano un grande passo avanti rispetto a quello che giganti come Fincantieri, tra i più grandi costruttori di navi al mondo, fanno per migliorare il riciclo delle navi a fine vita: praticamente niente. Gli esperti concordano sul fatto che esistono già delle soluzioni per rendere più sostenibile


Policy

In questa pagina: Foto Imo (International Maritime Organization)

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©NGO

©Studio Fasching

Policy

©Studio Fasching

Pagina accanto: Bangladesh, navi naufragate

In alto: Pakistan, piattaforma di demolizione delle navi

©Andreas Ragnarsson

©Andreas Ragnarsson

A sinistra: Bangladesh, lavoratori

la demolizione delle navi, basta volerle usare. L’opzione preferita sono i dry-dock (bacini di carenaggio prosciugabili): forniscono una piattaforma di lavoro stabile e impediscono lo sversamento in mare di olio e rifiuti pericolosi. L’industria del riciclo delle navi potrebbe passare definitivamente ai dry-dock entro il 2030, secondo la Shipbreaking Platform. I miglioramenti nel settore della demolizione delle navi contribuirebbero a proteggere l’ambiente e la salute dei lavoratori, oltre a far risparmiare preziose risorse. “C’è un grande potenziale in termini di economia circolare nel riciclo delle navi”, dichiara Mulinaris. Il processo di riciclo potrebbe veramente generare una quantità di rifiuti quasi nulla, come precisa la International Maritime Organisation: “L’acciaio viene rilavorato per essere trasformato, per esempio, in verghe di rinforzo impiegate in edilizia o in blocchi d’angolo e cardini per container. I generatori delle navi vengono riutilizzati a terra. Le batterie vengono immesse nell’economia locale. Gli idrocarburi a bordo diventano prodotti petroliferi rigenerati da usare come combustibili nei laminatoi o nelle fornaci per i mattoni. Gli impianti di illuminazione reimpiegati a terra”. In aggiunta, conclude Stephens, la demolizione sostenibile delle navi potrebbe dare impulso alla creazione di posti di lavoro verdi in Europa. Un colpo da maestro.


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In Depth

Lo sguardo sui ghiacci Le trasformazioni epocali che coprono archi temporali di decenni sono spesso difficili da studiare. Figuriamoci da comprendere e interiorizzare. Quando parliamo di cambiamento climatico ne capiamo le cause e comprendiamo i rischi. Ma è la scala spaziale e temporale a confonderci e disorientarci. Fino a qualche anno fa gli stessi effetti del cambiamento climatico potevano essere raccontati da tabelle e paper scientifici, ma era difficile darne chiara raffigurazione. Come si racconta un fenomeno globale su una scala temporale di un centinaio di anni? Il lavoro colossale “Sulle tracce dei ghiacciai” di Fabiano Ventura analizza le foto storiche di ghiacciai montani scattate sul Karakorum, in Caucaso, in Alaska, sulle Ande, in Himalaya e sulle Alpi confrontandole con le foto degli stessi luoghi come sono oggi, utilizzando lo stesso punto di ripresa (repeat photography). Attraverso la comparazione, e grazie alla potenza visiva delle immagini, emerge in tutta la sua drammaticità la trasformazione dei ghiacciai legata ai cambiamenti climatici. Nella primavera del 2018 Fabiano Ventura ha ultimato la quinta spedizione sull’Himalaya, in compagnia del geologo Andrea Bollati e del regista documentarista Federico Santini. Il team – guidato da

un nutrito gruppo di sherpa – ha esplorato la sezione della catena himalayana al confine tra il Nepal, l’India e la Cina, comparando lo stato attuale dei ghiacciai con le immagini scattate in passato durante alcune tra le più grandi imprese che hanno toccato la zona dell’Everest e del Kangchenjunga, rispettivamente la prima e la terza montagna più alta della Terra. Le foto storiche usate (ne trovate alcune in queste pagine) sono quelle della spedizione del 1899 dell’alpinista inglese Douglas W. Freshfield, alla quale partecipò anche il fotografo italiano Vittorio Sella, e di quelle a cui hanno preso parte negli anni ‘20 e ‘30 George Mallory e Edward Oliver Wheeler, tra i primi britannici a vedere dal vivo il monte Everest. “Utilizziamo il confronto fotografico come strumento che coniuga la forza comunicativa delle immagini con il rigore della ricerca storica e scientifica”, spiega Fabiano Ventura. “Le immagini, che testimoniano l’arretramento dei più grandi ghiacciai montani della Terra, unite ai dati scientifici rilevati, forniscono un’idea immediata delle straordinarie variazioni climatiche che il nostro pianeta sta vivendo, e confermano quanto siano urgenti tutte le possibili azioni che ne limitino le conseguenze.”

Mor von Dechy, 1884 – ©Royal Geographical Society

a cura della redazione

“Sulle tracce dei ghiacciai”, sulletraccedeighiacciai.com Nel 2020 si svolgerà la spedizione conclusiva del progetto “Alpi 2020”.

CAUCASUS

CAUCASO

A destra, vista frontale del ghiacciaio Adishi, situato nella parte centrale della catena montuosa del Grande Caucaso nella regione di Svaneti, in Georgia. Dal confronto fotografico è ben evidente il collasso dell’intera superficie della fronte del ghiacciaio. La lunghezza del ghiacciaio Adishi è di 9 chilometri e la sua superficie è di 12,9 chilometri quadrati. La lingua del ghiacciaio scende fino a 2.298 metri sul livello del mare, con una caduta di oltre mille metri, uno dei più spettacolari della regione. Il ghiacciaio Adishi, che prende il nome dal vicino villaggio, è la sorgente del fiume Adishischala, un importante bacino idrico della zona.

Fabiano Ventura, 2011 – ©Archivio F. Ventura

Mappa: John Britt

GHIACCIAIO ADISHI IN SUANEZIA


In Depth

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HIMA LA YAS HIMALAYA

Il ghiacciaio Gyarag e il monte Cho Oyu (8.201 m), la sesta montagna più alta della Terra. Grazie al punto di vista della fotografia particolarmente angolato dall’alto, il confronto mette in evidenza l’impressionante lago glaciale formatosi negli ultimi cinquant’anni a seguito dello scioglimento superficiale che oggi misura oltre 2 chilometri di lunghezza e 600 metri di larghezza. La formazione di questi laghi è ormai purtroppo una caratteristica dei ghiacciai himalayani che spesso rappresenta un pericolo per le popolazioni vallive. Infatti è successo più volte che a seguito della rottura delle dighe naturali che ne contengono le acque si siano create improvvise inondazioni.

Major E.O. Wheeler, 1921 ©Royal Geographical Society

GHIACCIAIO GYARAG

Fabiano Ventura, 2018 – ©Archivio F. Ventura

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ANDES ANDE

GHIACCIAIO UPSALA E CATENA DI CONFINE TRA IL CILE E L’ARGENTINA A 85 anni di distanza il ghiacciaio Upsala nel Parco Nazionale Los Glaciares in Argentina si è ritirato di 15 chilometri. La valle ripresa nella fotografia è lunga 90 chilometri e larga più di 10. Il suo nome deriva dall’Università svedese di Uppsala (riprende la vecchia ortografia, Upsala), che ha condotto la prima indagine glaciologica della regione nel 20 secolo. La parte settentrionale che scende dal campo di ghiaccio si trova nella zona di confine non demarcata colpita dal contenzioso del campo di ghiaccio Patagonico Sud tra Argentina e Cile, che continua ad allegare il ghiacciaio nelle proprie mappe ufficiali.


In basso: Fabiano Ventura, 2016 – ©Archivio F. Ventura

In alto: Alberto Maria De Agostini, 1931 ©Museo Borgatello

In Depth 29


ALAS KA ALASKA

CONGIUNZIONE TRA IL GHIACCIAIO MUIR E IL SUO AFFLUENTE RIGGS NEL FIORDO MUIR L’immagine è stata scattata dalla stazione fotografica 4 dal White Thunder Ridge, nell’attuale Parco Nazionale di Glacier Bay, Alaska. A 72 anni di distanza la parte terminale del ghiacciaio Muir nel Parco Nazionale di Glacier Bay si è ritirato di quasi 20 chilometri fino a scomparire dall’inquadratura. Il confronto fotografico documenta in modo molto evidente i significativi cambiamenti del paesaggio come per esempio la crescita di una fitta vegetazione sulle montagne circostanti del fiordo Muir. Si noti inoltre la corrispondenza tra la linea della trimline sulla montagna di sfondo e l’altezza del ghiacciaio nella fotografia storica che nella zona centrale superava i 700 metri di spessore.

William Osgood Field, 1941 ©Alaska and Polar Regions Collections & Archives, Elmer E. Rasmuson Library, University of Alaska Fairbanks

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Fabiano Ventura, 2013 – ©Archivio F. Ventura

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Prevenire un’altra bolla: il potenziale circolare delle alghe Più che per ricavarne biocarburante oggi si guarda alle alghe pensando al loro potenziale come alimento per il consumo umano, come mangime per gli animali e per ricavarne bioplastica. Ma occorre che la loro coltivazione avvenga in un contesto di circolarità. di Francesco Bassetti

Francesco Bassetti è editor di Materia Rinnovabile ed è esperto in sostenibilità ed economia circolare. Attualmente vive a Londra, dove ha conseguito un Master in sviluppo sostenibile presso lo UCL.

Poco più di dieci anni fa Sir Richard Branson, fondatore del Gruppo Virgin, si impegnò a donare più di tre miliardi di dollari per combattere il riscaldamento globale attraverso la creazione di carburanti a basso tenore di carbonio, e in particolare di un carburante per aerei ricavato dalle alghe. In un’intervista esclusiva rilasciata alla BBC nel 2008 lanciò un appello per “un carburante che

non abbia effetti nefasti sulla nostra sicurezza alimentare […] carburanti come quelli basati sulle alghe, che possono essere coltivate e non incidono sull’approvvigionamento alimentare”. A causa del forte aumento dei prezzi del greggio tra il 2003 e il 2008, e il conseguente boom dei combustibili a base vegetale, l’interesse per la creazione di carburanti alternativi è diventato una priorità. In questo contesto i biocombustibili derivati dalle alghe si sono affermati come la


Policy ultimi due anni, grazie soprattutto al settore alimentare, e che “l’utilizzo a cascata della biomassa delle alghe deve diventare il futuro di questa industria”.

https://seamorefood.com/press

Dal biocarburante ai super alimenti a base di alghe

In alto: Seamore, azienda olandese che produce alimenti a base di alghe, ben rappresenta questo approccio. Unisce un marketing accattivante a un notevole impegno nell’educazione dei consumatori riguardo i benefici e i potenziali usi delle alghe

1. Si tratta di una varietà di macroalghe marine che possono appartenere a tre gruppi distinti che contengono più di 1.000 specie: le alghe marroni, quelle rosse e quelle verdi.

Pagina accanto: Contenitore biodegradabile ed edibile di Skipping Rocks. Credit: Skipping Rocks

nuova frontiera, quale combustibile che non incide sull’approvvigionamento alimentare. A oggi però la produzione di biocarburante basato sulle alghe è inferiore al milione di galloni all’anno e si è ancora ben lontani da un prezzo di mercato competitivo, tanto che il decennio a partire dal 2005 è stato definito come decennio della “bolla dei biocarburanti derivati dalle alghe”. Promettenti aziende che avevano ricevuto fondi per milioni di dollari all’inizio del Duemila (Solazyme, XL Renewables, Aurora Biofuels e GreenFuel Technologies per citarne alcuni) sono fallite, oppure si sono convertite verso prodotti a più alto valore aggiunto quali gli alimenti, gli additivi alimentari, i cosmetici, gli oli speciali e i mangimi per animali. Oggi l’interesse si è spostato dall’utilizzo delle alghe1 per la produzione di biocarburante al loro potenziale quale materia prima, con una gran varietà e possibilità di applicazioni. L’applicazione più promettente continua a essere quella delle alghe come fonte di cibo sia come alimento in sé, che come additivo/addensante: in questo settore la loro produzione genera il maggior valore aggiunto e a oggi occupa la percentuale più alta del mercato delle alghe. Risultano in crescita anche i settori degli alimenti per animali e delle bioplastiche, particolarmente promettenti se le alghe vengono prodotte in un contesto di circolarità in cui ne vengono utilizzate tutte le parti, limitando gli scarti e massimizzandone il valore. Sander van den Burg, ricercatore presso la Wageningen University nei Paesi Bassi ed esperto di spicco nel campo dello sviluppo sostenibile, dell’innovazione d’impresa e delle alghe, sottolinea infatti quanto il mercato delle alghe sia cresciuto enormemente negli

Secondo la Banca Mondiale (dati 2016) si prevede che la produzione mondiale di cibo dovrà crescere dal 50 al 70% entro il 2050 per mantenersi al passo con l’attuale andamento della crescita. Pertanto la promozione del consumo di alghe rappresenta un importante contributo alla sicurezza alimentare. Dati Fao rivelano che ogni anno al mondo se ne consumano già più di 6 milioni di tonnellate, e il mercato principale è quello asiatico: 5 milioni di tonnellate in Cina, 800.000 tonnellate in Corea e 600.000 tonnellate in Giappone (van den Burg 2016). In Europa le alghe stanno guadagnando terreno come fonte diretta di cibo per il consumo umano in quella parte del settore alimentare che si concentra su salute e benessere. Si tratta di un settore in espansione e alla ricerca di nuovi prodotti in grado di soddisfare la domanda dei consumatori. Secondo la United Kingdom’s Food and Drink Federation, il mercato degli alimenti e delle bevande biologiche è cresciuto nel Regno Unito del 6% dal 2016, contro una crescita del 2% di quello non biologico, mentre nell’Unione europea la vendita di prodotti biologici è cresciuta di quasi il 50% tra il 2012 e il 2016. Questo settore in espansione è terreno fertile per i prodotti a base di alghe: in Europa però è necessario che le aziende accompagnino i consumatori, educandoli agli usi e ai benefici di questi prodotti. van den Burg evidenzia tale aspetto sottolineando che queste nuove aziende al momento “utilizzano molto tempo a spiegare ai consumatori che cosa fare con i loro prodotti. Si tratta di una cosa necessaria. Non si possono semplicemente far seccare le alghe, confezionarle e basta: i consumatori devono essere supportati e anche educati”. Da alimento a mangime Al secondo posto tra gli utilizzi delle alghe è il loro uso quale fonte diretta di nutrimento e additivo nei mangimi già esistenti, sia nell’allevamento di bestiame che nell’acquacoltura. Questo mercato è promettente anche dal punto di vista ambientale perché coinvolge grandi industrie che trasformano grandi quantità di materie prime. Per esempio, nei Paesi Bassi tra il 2010 e il 2011 la quantità totale di soia utilizzata per i mangimi è stata di 2.353.000 tonnellate (van den Burg 2016). Produrre

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materiarinnovabile 26. 2019 Circolo dei nutrienti

Ma il principale contributo potenziale delle microalghe consiste in un approccio realmente circolare alla loro produzione: l’acquacoltura multi-tropica integrata (Imt). L’Imt fa condividere lo stesso spazio ad animali e piante di diversi livelli trofici, affinché l’acquacoltura possa funzionare come un vero e proprio ecosistema. Gli spazi ristretti dei sistemi di acquacoltura in cui i pesci vengono allevati spesso porta ad alti livelli di inquinamento nelle acque circostanti. Coltivare alghe in loro prossimità porta a benefici reciproci: le alghe trovano le sostanze nutritive necessarie alla loro crescita, e al contempo aiutano a migliorare la qualità delle acque da cui dipendono i pesci. Perciò nell’acquacoltura multitropica integrata il circolo dei nutrienti avviene a ciclo chiuso. Ma i benefici dell’Imt non sono solo limitati alle alghe prodotte per i mangimi: la grande quantità di biomassa di alghe prodotta in questi sistemi fa sì che la prospettiva che esse diventino un componente delle bioplastiche (e potenzialmente dei biocarburanti) inizi a sembrare economicamente sostenibile.

Fonte: Wageningen Institute. CIBO

Allevamento di pesci

ACQUACOLTURA SOSTENIBILE

Produzione di microalghe e mitili

Nutrienti + CO2

CIBO

MicroSynbiotiX Ltd, www.microsynbiotix.com Evoware, www.evoware.id Skipping Rocks, www.skippingrockslab. com/index.html

BIOGAS

Materie prime/ ingredienti per il mangime per i pesci

FERTILIZZANTE

la stessa quantità di mangimi utilizzando alghe comporterebbe una riduzione significativa della quantità di terreno, acqua e risorse utilizzate invece per le colture tradizionalmente dedicate a sfamare gli animali. Infatti van den Burg sostiene che “l’industria casearia potrebbe costituire un mercato interessante per i mangimi a base di alghe”. Non solo le alghe hanno un alto contenuto proteico, ma a bassi livelli di inclusione (meno del 2% di assunzione di sostanza secca) possono esercitare una significativa attività prebiotica, migliorando pertanto la salute degli animali e aumentando la produzione senza il rischio dello sviluppo di resistenza agli antibiotici nel bestiame (Evans & Critchley 2013). Anche l’acquacoltura può trarre importanti benefici dall’utilizzo delle alghe, aspetto che riveste una particolare importanza dal momento in cui la produzione globale di pesce di allevamento ha superato quella dei bovini, con un aumento di 14 volte dal 1980. Per esempio la MicroSynbiotiX Ltd, vincitrice del 2016 Blue Economy Challenge, mira a creare un mangime contenente microalghe che serva da veicolo a una varietà di vaccini, riducendo così l’utilizzo di antibiotici.

Il problema della plastica L’umanità ha prodotto più di 8 miliardi di tonnellate di plastica dal 1950 a oggi; l’Europa da sola nel 2015 ha generato 58 milioni di tonnellate di plastica. La crescente preoccupazione per l’impatto della plastica sulla nostra salute e sull’ambiente (e in particolare l’inquinamento marino) ha portato ad un interesse crescente per le bioplastiche. Uno dei principali fautori dello sviluppo delle bioplastiche è l’acido polilattico (PLA) – un’alternativa sostenibile ai polimeri basati su combustibili fossili – compostabile e biodegradabile. La gran parte della produzione di PLA e altri polimeri però attualmente dipende da materia a base vegetale come il mais, il grano, la barbabietola da zucchero e la canna da zucchero; per questo costituisce una minaccia alla sicurezza alimentare perché mette il cibo e le colture destinate all’alimentazione in diretta competizione con la manifattura di bioplastiche. La European Bioplastic Association dichiara infatti che “l’industria si impegna a mobilitare nuove risorse rinnovabili e abbandonare le piante a uso alimentare, ed è pienamente consapevole che l’approvvigionamento sostenibile della propria materia prima sia il prerequisito per prodotti più sostenibili”. Le alghe stanno emergendo con forza come alternativa. Van den Burg vede le bioplastiche come “una delle principali aree di interesse futuro per i prodotti a base di alghe”. Aziende quali la Evoware e la Skipping Rocks si sono fortemente impegnate per migliorare gli imballaggi biodegradabili prodotti da alghe. La Skipping Rocks, fondata nel 2013, ha creato un prodotto che può sostituire le bottiglie di plastica con bottiglie per l’acqua biodegradabili, e addirittura commestibili. Van den Burg sostiene che “anche se attualmente il settore delle bioplastiche non costituisce ancora il principale


Policy impulso per il mercato delle alghe […] ne ha il potenziale”.

Evoware

Il potenziale delle alghe per la produzione di bioplastica assume particolare interesse quando vengono coltivate attraverso i sistemi Imy. Una ricerca del progetto Seabioplas, finanziata dalla Ue, ha esplorato il potenziale circolare dei sistemi di produzione integrata delle alghe. La ricerca a dimostrato come dal 67 all’80% dell’azoto e il 50% del fosforo con il quale vengono alimentati i pesci di allevamento viene nuovamente rilasciato nell’ambiente, direttamente dai pesci o attraverso i rifiuti solidi. Le alghe si cibano di questo azoto e fosforo, rimuovendone in questo modo l’eccesso e generando ulteriore biomassa. Ciò non solo è benefico per le alghe e consente di rimuovere elementi inquinanti dall’acqua, ma rispetto ad altre materie prime utilizzate nelle bioplastiche, comporta meno emissioni di CO2, una maggiore produttività, nessun rischio di deforestazione e nessun utilizzo di acqua dolce, fertilizzanti e pesticidi. In più, una volta che le alghe sono state utilizzate per creare PLA, i residui possono diventare validi sottoprodotti nei mangimi animali, o negli integratori alimentari/additivi. Questo è enormemente importante, dato che utilizzare i residui significa sia minimizzare gli scarti che massimizzare il profitto (e di conseguenza la fattibilità economica) della produzione di bioplastiche da alghe. Un futuro circolare

Evoware

Le attuali ricerche sulla fattibilità della produzione di alghe per le bioplastiche e i biocarburanti si basano generalmente su un utilizzo singolo delle alghe. Combinarne diversi impieghi attraversi approcci quali l’Imt, e insieme sviluppare il mercato degli alimenti a base di alghe e dei mangimi, potrebbe essere fondamentale per potenziare la produzione di alghe. Nonostante ciò sono necessari più dati e ricerche sulla nostra capacità di utilizzare applicazioni a cascata, quali l’estrazione di preziosi idrocolloidi, additivi alimentari funzionali e l’utilizzo dei materiali rimanenti come ingredienti per i mangimi o per la produzione di bioplastica. Nelle parole di Paulien Harmsen, esperto in bioraffineria presso il Wageningen Institute: “La coltivazione di alghe può diventare un’importante industria in Europa se possiamo produrre un’ampia gamma di prodotti dalla stessa biomassa. Se utilizziamo l’approccio a cascata e padroneggiamo le tecniche di bioraffinazione commerciale il mercato per questa industria sostenibile sarà enorme”.

Alghe come fonte di bioplastica Fonte: Wageningen Institute.

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Sole, CO2, nessun fertilizzante aggiunto

Prodotti dall’acido polilattico

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Fermentazione in acido lattico

Acquacoltura (IMTA)

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(Avanzato) pre-trattamento

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Dossier

AUSTRALIA Sesto paese del mondo per estensione, l’Australia è ricca di risorse naturali e dotata di uno spiccato dinamismo economico, ha le carte in regola per giocare un ruolo da protagonista nello sviluppo di questo settore a livello globale. Lo dimostra puntando su bioenergia, biochimica e biotecnologie.


Policy

Una bioeconomia a tutta energia Pur in assenza di una strategia sulla bioeconomia l’Australia – dodicesima economia mondiale, in crescita da quasi 30 anni – sta dimostrando con i fatti di puntare in modo deciso su un futuro sempre più biobased. Una transizione che è già iniziata, guidata dallo Stato del Queensland. di Mario Bonaccorso

Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista.

Queensland Biofutures, 10-Year Roadmap and Action Plan, https://statedevelopment. qld.gov.au/resources/ plan/biofutures/ biofutures-10yr-roadmapactionplan.pdf

L’Australia è il sesto paese del mondo per estensione. Ricco di risorse naturali e trainato da uno spiccato dinamismo economico, il paese guidato dal primo ministro Scott John Morrison non ha ancora una propria strategia sulla bioeconomia, ma certamente ha tutte le carte in regola per giocare un ruolo da protagonista nello sviluppo di questo settore a livello globale. Tutto ciò grazie soprattutto all’iniziativa presa dallo Stato del Queensland, che nel 2016 ha presentato un proprio piano decennale focalizzato sulla creazione della bioindustria del futuro: Queensland Biofutures, 10-Year Roadmap and Action Plan. “La nostra visione è per un settore dei bioprodotti e delle biotecnologie industriali sostenibile e orientato all’export da un miliardo di dollari, che attragga significativi investimenti internazionali e crei posti di lavoro ad alta intensità di conoscenza e ad alto valore a livello regionale. La bioindustria del futuro potrebbe avere un effetto trasformativo sull’economia del Queensland, ma ciò non accadrà senza l’impegno del governo. Noi siamo determinati a vedere diventare realtà un forte e sostenibile settore dei bioprodotti e delle biotecnologie industriali”, si legge nella prefazione del documento che punta ad affrancare nel medio-lungo termine la regione nord-orientale dell’Australia dall’impiego delle fonti fossili. Se il Queensland è alla guida della transizione verso la bioeconomia, l’intero paese, pur in assenza di una strategia, sta comunque dimostrando con i fatti di puntare in modo deciso su un futuro sempre più biobased. L’economia che rappresenta la dodicesima realtà mondiale e che conosce una crescita ininterrotta dal 1991, ha infatti implementato negli ultimi anni una serie di politiche per favorire la crescita del settore bioenergetico, testando nuovi tipi di materia prima che vanno dagli scarti agricoli e forestali alle alghe.

Il settore delle bioenergie L’Australia ha una necessità: aumentare la propria sicurezza energetica, stimolando lo sviluppo regionale e riducendo al contempo le emissioni di gas a effetto serra. Attualmente, la bioenergia rappresenta circa l’1% della produzione di elettricità in Australia e il 7% della produzione di elettricità rinnovabile. Mentre i biocarburanti rappresentano tra l’1 e il 3% del consumo di carburante complessivo. La maggior parte dell’attuale capacità bioenergetica dell’Australia deriva dalla cogenerazione di bagassa. La chiara volontà politica è favorire una crescita continua e sostenibile del settore, grazie a una certezza nel lungo termine per gli investimenti e a un’accresciuta consapevolezza da parte della comunità dei cittadini. In questa prospettiva nel 2015 è stato lanciato l’Australian Bioenergy Fund dalla Clean Energy Finance Corporation (CEFC), una green bank di proprietà del governo di Canberra che gestisce complessivamente 10 miliardi di dollari americani per progetti di energia pulita. Il fondo Bioenergy è un fondo azionario per la bioenergia e l’energia dai rifiuti, compresi i rifiuti agricoli e forestali, in cui il CEFC ha impegnato 100 milioni, con altri 100 i messi da investitori privati, per investire in nuove tecnologie che consentano di accrescere l’impiego di scarti agricoli e forestali o di alghe per la produzione di nuove energie e carburanti biobased. Queste tecnologie avanzate consentono lo sviluppo sostenibile dell’industria bioenergetica senza competere con l’agricoltura tradizionale per terra e risorse, come nel caso della tecnologia sviluppata dall’Università di Melbourne per ricavare biodiesel da biomassa microalgale. A ottobre 2018 a nome del governo australiano, l’Agenzia australiana per le energie rinnovabili (ARENA) ha annunciato un finanziamento di 23

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materiarinnovabile 26. 2019

Circa Group, www.circagroup.com.au Leaf Resources, http://leafresources.com.au

milioni di dollari per lo sviluppo del primo progetto di energia da rifiuti nell’Australia Occidentale, che ha l’obiettivo di ridurre i rifiuti destinati alla discarica. Sviluppato insieme da Macquarie Capital (Australia) Limited e Phoenix Energy Australia Pty Ltd, l’impianto da 668 milioni di dollari sorgerà nell’area industriale di Kwinana, a 40 km a sud di Perth. La struttura produrrà energia dai rifiuti, con una capacità elettrica di circa 36 MW sufficiente per alimentare 50.000 famiglie e recuperando fino a 400.000 tonnellate all’anno di rifiuti solidi urbani non riciclabili provenienti dalla raccolta porta a porta. L’impianto sarà anche in grado di trattare rifiuti commerciali e industriali e rifiuti di costruzione e demolizione, ottenendo un sottoprodotto di ceneri comunemente usato come base stradale o nel settore delle costruzioni in Europa. L’impianto di Kwinana sarà di proprietà di un consorzio di cui fanno parte tra gli altri Macquarie e il Fondo olandese per le infrastrutture (DIF). L’impianto di Kwinana sarà di proprietà di un consorzio di cui fanno parte tra gli altri Macquarie e il Fondo olandese per le infrastrutture (DIF). In questo progetto – la cui conclusione è prevista per la fine del 2021 – la Clean Energy Finance Corporation prevede di investire fino a 90 milioni di dollari. L’impianto sarà realizzato da Acciona e gestito da Veolia; si prevede che creerà più di 800 posti di lavoro durante la costruzione e 60 posti di lavoro a tempo pieno una volta operativo. Secondo l’amministratore delegato di ARENA,

Darren Miller, “ogni anno in Australia vengono prodotti più di 23 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani, questo progetto potrebbe aiutare a deviare i rifiuti non riciclabili dalle discariche e recuperare energia nel processo”. I grandi player della biochimica Non c’è solo l’energia nella bioeconomia australiana. Due delle più dinamiche società della chimica biobased a livello mondiale hanno il proprio quartier generale in Australia. Si tratta di Circa Group e di Leaf Resources. La prima, basata a Parkville nei pressi di Melbourne, è stata fondata nel 2006 con lo scopo di creare un business sostenibile che convertisse la cellulosa non alimentare in prodotti chimici rinnovabili ad alte prestazioni. La cellulosa è il polimero più abbondante e rinnovabile al mondo. Milioni di tonnellate di cellulosa sono sottoutilizzate ogni anno e Circa vede una chiara opportunità di ricavarne più valore. Utilizzando il processo Furacell, di cui è proprietaria la società, Circa produce quantità industriali di Levoglucosenone, una molecola piattaforma altamente funzionale con molte applicazioni industriali potenziali, inclusi prodotti farmaceutici, agro-chimici, alimentari e avanzati. La società guidata da Tony Duncan sta inoltre costruendo un portafoglio di prodotti derivati da Levoglucosenone in diversi settori chimici specializzati con un mercato in crescita come i


Policy Il Queensland vola a biofuel Tra i molti passi compiuti verso la bioeconomia australiana, per il Queensland l’utilizzo di un biocarburante avanzato (biojet) nel sistema di rifornimento dell’aeroporto di Brisbane rappresenta certamente una pietra miliare che posiziona la città al fianco di Los Angeles, Oslo, Stoccolma, Ginevra e Chicago come uno dei pochi aeroporti per l’aviazione sostenibile. La sperimentazione avviata tra il 2017 e il 2018 mette le basi per il futuro di Brisbane come centro regionale per i biocarburanti, con una bioraffineria capace di produrre biojet sostenibile dalla biomassa locale. È il risultato di una collaborazione tra Virgin Australia, il governo del Queensland, Brisbane

National Marine Science Plan 2015-2025, https:// www.marinescience. net.au/wp-content/ uploads/2018/06/NationalMarine-Science-Plan.pdf

Airport Corporation, il produttore americano di biocarburanti Gevo, Inc. e i partner della catena di distribuzione Caltex e DB Schenker per approvvigionare e miscelare biocarburante avanzato per aviazione con il tradizionale carburante usato all’aeroporto di Brisbane. Il progetto potrebbe accelerare l’uso di biocarburanti per l’aviazione in altri aeroporti del Queensland, a beneficio degli agricoltori delle principali regioni agricole dello Stato – tra cui Cairns, Townsville, Mackay, Bundaberg e Toowoomba – grazie a una maggiore domanda per la biomassa locale, come la canna da zucchero, e a una maggiore occupazione nel settore.

bio-tensioattivi, gli aromi, i prodotti agrochimici, i biopolimeri e i biosolventi, come nel caso del biosolvente Cyrene. Quest’ultimo è stato sviluppato in collaborazione con il Green Chemistry Center of Excellence (GCCE) dell’Università di York, nel Regno Unito, con particolare attenzione al mercato dei solventi da nelle industrie farmaceutiche e chimiche speciali pari a 900mila tonnellate. Cyrene è un’alternativa a base biologica ai solventi tradizionali come NMP (N-Metil-2Pirrolidone), DCM (cloruro di metilene) e DMF (Dimetilformammide), che sono sotto pressione regolatoria in tutto il mondo a causa della loro tossicità. Tuttavia, la società australiana vede opportunità per Cyrene che vanno al di là della semplice sostituzione. Come parte del piano di scalabilità dell’impresa, nel 2015 Circa ha costituito una joint venture con la norvegese NorskeSkog. Insieme, hanno costruito FC5 nello Stato australiano della Tasmania, un impianto dimostrativo commerciale da 6,5 milioni di dollari con una capacità di 50 tonnellate all’anno per Cyrene. Gli scarti di cellulosa certificati e rinnovabili provenienti dalle operazioni di fabbricazione della carta e dalla silvicoltura vengono utilizzati come materia prima per produrre Levoglucosenone e Cyrene. In Europa Circa fa parte del consorzio ReSolve, un progetto finanziato da Horizon 2020 da 4,3 milioni di euro, che mira a sostituire i tradizionali solventi a base di fossili classificati come sostanze estremamente problematiche (SVHC) ai sensi del regolamento REACH europeo. A Darra, vicino a Brisbane nel Queensland, si trova Leaf Resources, che ha sviluppato un processo innovativo basato sul glicerolo, un rifiuto generato dalla produzione del biodiesel. L’innovazione di Leaf Resources si chiama Glycell, il processo che abbatte efficacemente la biomassa vegetale in zuccheri cellulosici e lignina economici e puliti. La società australiana riesce a ottenere un maggiore recupero della cellulosa e una conversione molto

più rapida agli zuccheri, ma l’assoluta svolta è la capacità di recuperare il glicerolo a una purezza più elevata e rivenderlo con profitto. Il processo Glycell può produrre zuccheri cellulosici a circa 50 dollari alla tonnellata, a fronte di una media di mercato da altre fonti pari a 200 dollari alla tonnellata. Gli zuccheri cellulosici sono una materia prima importante per i prodotti chimici verdi rinnovabili, come bioplastiche e biocarburanti, prodotti i cui mercati hanno un valore di molti miliardi di dollari e crescono rapidamente. Riducendo drasticamente il costo della materia prima principale per prodotti chimici, plastiche biobased e biocarburanti, il processo Glycell ha il potenziale per cambiare il volto della produzione globale rinnovabile. Leaf Resources, che nel 2016 ha siglato un importante accordo di collaborazione con la danese Novozymes, leader mondiale nel mercato degli enzimi (ne detiene circa il 50%), e con Claeris, società di primo piano per la costruzione di impianti industriali a basso impatto ambientale, sta portando avanti in Malesia la costruzione di un proprio impianto commerciale: una bioraffineria che sarà localizzata a Segamat, nello Stato dello Johor nel Sud del paese. La società del Queensland ha firmato un memorandum di intesa con Agnensi Inovasi Malaysia (AIM), l’agenzia governativa malese per l’innovazione e con la Malaysian Bioeconomy Development Corporation, l’agenzia che ha lo scopo specifico di sviluppare la bioeconomia nel paese asiatico. E ha costituito proprio con Claeris una joint venture, Leaf Malaysia, per portare avanti il progetto. Al suo attivo, Leaf, le cui azioni sono quotate alla borsa australiana, vanta anche un brevetto per l’estrazione di silice dalla lolla di riso. I risultati iniziali mostrano che la silice viene estratta in una preziosa forma amorfa e dopo l’estrazione la biomassa è pronta per il processo Glycell. Questa è un’opzione a lungo termine, ma potenzialmente fornisce una fonte di biomassa molto economica.

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materiarinnovabile 26. 2019 Ricerca e innovazione In Australia, in attesa di una strategia, il governo ha fornito orientamento politico e sostegno in diverse aree tematiche della bioeconomia, in particolare per quanto riguarda l’aumento del valore aggiunto delle risorse agricole, forestali e marine. In termini di focus governativo, la maggior parte delle politiche legate a questo metasettore possono essere caratterizzate come strategie di ricerca e sviluppo. Nel 2013, il governo australiano ha definito quindici priorità di ricerca strategica per il futuro, che integrano anche temi chiave della bioeconomia, non solo nel campo bioenergetico ma anche nel monitoraggio e nella gestione degli ecosistemi e nell’ottimizzazione dell’alimentazione e della salute. Lo sviluppo delle biotecnologie è stato particolarmente incoraggiato dalla politica nazionale in materia di biotecnologia e dalle strategie di comunicazione che sensibilizzano sull’importanza e i benefici della moderna biotecnologia per il settore agricolo e per quello industriale. Inoltre, nel 2011 il governo australiano ha pubblicato due studi sulle bioraffinerie che indagano il potenziale delle catene del valore della biomassa tropicale e temperata. Al fine di promuovere le capacità di ricerca in settori chiave della conoscenza, quali le bioscienze e le biotecnologie, il governo ha sviluppato nel 2011 la “Strategic Roadmap” per l’infrastruttura di ricerca australiana. A seguito del piano di investimenti per la ricerca pubblicato nel 2012, il sostegno a importanti infrastrutture di ricerca è stato identificato come un elemento chiave e proseguito nel quadro della “Strategia nazionale per le infrastrutture di ricerca collaborativa (2013-2016)”. Inoltre, la Strategic Roadmap del 2011 per l’infrastruttura di ricerca australiana ha supportato numerose infrastrutture e reti relative alla bioeconomia, in modo specifico nei campi della scoperta biologica integrata, delle collezioni biologiche, delle biotecnologie per materiali avanzati e industriali, nonché dei biocarburanti di prossima generazione. Nel 2015, il ministero dell’Industria e della Scienza ha lanciato il “National Marine Science Plan 2015-2025”, che si concentra sullo sviluppo del valore aggiunto dell’economia del mare (blue economy), proteggendo al contempo gli oceani e le risorse marine australiane. La Marine Science Strategy delinea i cosiddetti “passi di 10 anni per il successo”: le aree prioritarie di ricerca individuate sono la creazione di strumenti di supporto decisionale scientifico per le politiche e l’industria; la costruzione di un sistema di modellizzazione oceanografica; lo sviluppo di basi marine nazionali e programmi di monitoraggio a lungo termine; partnership industriali e governative; formazione scientifica marina in un contesto più interdisciplinare; investimenti in navi da ricerca; la realizzazione dell’esplorazione, mappatura e monitoraggio di ecosistemi marini, favorendo collaborazioni nazionali.

Oltre a queste strategie nazionali di innovazione, l’Australia Meridionale ha pubblicato una strategia di bioeconomia regionale “Costruire una bioeconomia nell’Australia Meridionale 2011-2015”. La strategia per la bioeconomia dell’Australia Meridionale è orientata al business e identifica tre elementi strategici d’intervento. In primo luogo, essa mira a garantire l’accesso al capitale di rischio. In secondo luogo, vuole favorire la creazione di infrastrutture come i cluster. In terzo luogo, offre assistenza allo sviluppo commerciale e assistenza nell’area marketing alle nuove attività. Per sviluppare la bioeconomia locale è stato coinvolto anche il Centro di ricerca tecnica VTT finlandese. La più grande organizzazione di ricerca applicata multitecnologica nel Nord Europa, su richiesta del governo dello stato dell’Australia Meridionale, ha studiato le condizioni delle industrie del settore forestale nella regione del cosiddetto Triangolo verde e ha esaminato il valore aggiunto che può essere raggiunto attraverso produzioni ad alta tecnologia. Il governo locale ha invitato il VTT a identificare modi per aumentare la produttività dell’industria forestale e delle segherie della regione ea promuovere la cooperazione tra le imprese. Il Centro di ricerca finlandese ha raccomandando sette percorsi futuri per la regione. Tre hanno un orizzonte temporale di circa 3-5 anni, il resto si estende oltre i 10 anni. I mezzi proposti per aumentare la produttività a breve termine sono l’uso più efficiente delle risorse di legname, l’aumento del valore della produzione per il settore edilizio e la necessità di sfruttare le opportunità offerte dalle materie prime in fibra e dai flussi collaterali industriali. Secondo il VTT, la scansione a raggi X del legname potrebbe aumentare il volume di resa del 5%, equivalente a un fatturato annuo extra di 70 milioni di dollari australiani (circa 46 milioni di euro) per le segherie di grandi dimensioni. La scansione viene utilizzata per analizzare la struttura interna del legno e identificare l’uso ottimale. L’implementazione delle raccomandazioni a lungo termine del VTT richiede la costruzione di nuove bioraffinerie per la produzione di prodotti altamente raffinati, come materiali assorbenti e membrane, tessuti a base di cellulosa, prodotti chimici e polimeri a base biologica e nanocellulosa. Lo studio in due fasi è stato cofinanziato dal governo dello Stato e dal governo federale. L’Australia Meridionale vanta notevoli risorse forestali: oltre 340.000 ettari di foreste di piantagioni. Queste consistono principalmente in pino ed eucalipto. L’industria della segheria fornisce lavoro a circa il 35% della popolazione nella regione del Triangolo verde dell’Australia Meridionale.


Policy Intervista

di M. B.

L’Australia supporta l’innovazione e la sostenibilità Marco Baccanti, Chief Executive di Health Industries

Marco Baccanti oggi è il Chief Executive di Health Industries SA, organizzazione del governo dell’Australia Meridionale.

Health Industries, http://healthindustries. sa.gov.au

Marco Baccanti è Chief Executive di Health Industries, agenzia per lo sviluppo economico del settore delle scienze della vita del governo dello Stato dell’Australia Meridionale, con capitale Adelaide. Forte di un team di professionisti con esperienza internazionale nel settore, l’organizzazione si occupa delle politiche di incentivazione del settore industriale, della ricerca e del relativo trasferimento, dello sviluppo infrastrutturale dello stato, dell’attrazione di investimenti, del supporto alle imprese nel territorio e alle startup. In questa intervista con Materia Rinnovabile ci racconta come il governo dello Stato australiano sta supportando la bioeconomia e l’innovazione in generale. Negli Stati Uniti la definizione di bioeconomia comprende l’area delle biotecnologie per la salute. In Europa queste sono invece escluse, perché si preferisce ragionare sulla base delle sfide sociali da affrontare. Come viene definita la bioeconomia in Australia? “L’approccio australiano è sempre pragmatico, semplificato, in questo senso direi anglosassone. Pertanto il concetto di bioeconomia qui ha un’accezione semplice: risorse, energia, trasformazione di materie prime rinnovabili, bioraffinerie per la valorizzazione dei residui di produzioni agricole, farming ecc. L’associazione del concetto di bioeconomia con le biotecnologie per la salute non avviene, sono concetti considerati distanti.”

Sundrop. Credit: Mansouraboud68 / CC BY-SA 4.0

In che modo l’Australia Meridionale supporta la bioeconomia e l’innovazione? “Negli ultimi anni l’azione del governo statale ha dedicato molti investimenti e iniziative legislative

innovative al settore delle fonti di energia sostenibili. Sono stati finanziati progetti molto importanti, tra i quali la realizzazione del maggiore parco batterie al mondo, collegato agli impianti eolici di generazione elettrica, realizzato in tempi molto brevi in collaborazione con Tesla. E anche il progetto Sundrop: in pieno deserto è stato realizzato un parco di specchi che convoglia energia solare a una torre centrale con caldaia a sali fusi, alta 127 metri. L’energia elettrica così generata viene utilizzata per un impianto di desalinizzazione di acqua di mare che alimenta un grande impianto di serre idroponiche per la produzione di pomodori. L’impianto è completamente indipendente dal punto di vista delle risorse energetiche e minerali, e produce ben 15.000 tonnellate di pomodori all’anno, con un ciclo chiuso, integrato e autosufficiente di energia, acqua, anidride carbonica e sali. Per quanto riguarda le iniziative legislative a favore della produzione di energie alternative, ricordiamo il recente incentivo grazie ai quali i cittadini dell’Australia Meridionale ottengono dallo Stato un significativo rimborso per l’installazione, nelle proprie abitazioni, di batterie per l’accumulo di energia. In questo modo l’energia solare prodotta dai loro pannelli non viene immessa in rete, ma accumulata per il successivo uso domestico, ad esempio nelle ore serali. Tale incentivo ha già avuto un importante effetto indotto: il gruppo tedesco Sonnen ha insediato ad Adelaide un impianto di produzione di batterie domestiche, con un programma di assunzione di 430 dipendenti entro la fine del 2019. Il programma è stato appena riconfermato, in seguito all’acquisizione di Sonnen da parte del gruppo Shell, annunciata all’inizio di febbraio 2019.

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materiarinnovabile 26. 2019 Un ultimo importante capitolo è costituito dalle iniziative nel settore delle cellule a combustibile e idrolizzatori per la produzione di idrogeno. Anche in questo caso, si tratta di una strategia per immagazzinare e valorizzare lo sfasamento tra la produzione di energia fotovoltaica e solare e l’effettivo fabbisogno della rete. Nonostante la recente enfasi nei confronti del tema della sostenibilità, non vi sono invece esempi di bioraffinerie o di valorizzazione di residui, ad esempio dall’industria alimentare. L’approccio più comune è quello dell’export di commodity a basso valore aggiunto, senza trasformazione locale. Infine, dal punto di vista del sostegno all’innovazione, lo schema più efficace per il supporto dell’innovazione è quello federale, grazie al quale tutte le imprese registrate in Australia, con un fatturato inferiore a 13 milioni di euro (AUD 20 milioni), hanno diritto al risarcimento in contanti del 43,5% di quanto spendono in ricerca e sviluppo.” Qual è la percezione da parte dell’opinione pubblica della bioeconomia e delle biotecnologie? “Per quanto riguarda la bioeconomia, purtroppo il dibattito qui è molto meno acceso di quanto lo sia in Europa. Nel settore delle biotecnologie, la presenza dell’incentivo descritto precedentemente per il rimborso delle spese di ricerca e sviluppo, ha aiutato molto lo sviluppo di iniziative imprenditoriali e l’attrazione di investimenti da parte di imprese biotecnologiche internazionali, che – relativamente al settore della salute – in Australia vengono a svolgere la loro ricerca clinica.

L’incentivo infatti è reso disponibile anche ad imprese straniere, purché costituiscano una ragione sociale in Australia.” Che cosa rende l’Australia più o meno competitiva rispetto a Stati Uniti e Europa nei settori più innovativi come la bioeconomia? “Per quanto ho modo di osservare, l’Australia oggi è in posizione di vantaggio competitivo grazie ai generosi incentivi alla ricerca e alla agilità del suo sistema regolatorio, strutturato in modo semplice e veloce. A titolo di esempio: in Australia il tempo necessario per ottenere le autorizzazioni a procedere per un first in human clinical trial di un farmaco biotecnologico, può essere di sole sei settimane, contro i nove mesi mediamente necessari per ottenere una analoga approvazione dalla EMA in Europa o dalla FDA negli USA. Oltre a questo esiste una buona qualità della ricerca scientifica e l’accesso al mercato dei capitali è relativamente facile, soprattutto per quanto riguarda la prima quotazione in borsa. Di contro, l’Australia certamente sconta la distanza geografica dai principali mercati, la scarsa competizione e la minore cultura imprenditoriale nell’ambito della ricerca, che rendono complicato anche il trasferimento tecnologico e le collaborazioni industriali. Non secondaria alla distanza geografica, nel rendere il paese meno competitivo, è anche la dimensione ridotta del mercato interno, condizionato dal fatto che la popolazione è di soli 25 milioni di abitanti.”

Intervista

di M. B.

La via australiana verso la decarbonizzazione Tony Duncan, CEO di Circa Group

Tony Duncan è co-fondatore e CEO di Circa Group, l’azienda di biotech australiana che converte biomasse di scarto in materiali biochimici avanzati. In questa intervista a Materia Rinnovabile Duncan delinea i punti di forza e le debolezze della bioeconomia australiana e indica cosa Circa Group ha pianificato relativamente allo sviluppo dell’industria chimica per la lavorazione di materiali biologici.

Co-fondatore e CEO di Circa Group, Tony Duncan è direttore di Circa Sustainable Chemicals.

1.http://www.fao.org/3/ I9580EN/i9580en.pdf

Quali sono i punti di forza e i punti deboli della bioeconomia australiana? “Le iniziative legate alla bioeconomia australiana hanno incluso una grande varietà di sviluppi, come ci si aspetterebbe da un paese che possiede una quantità considerevole di risorse naturali. Nonostante i numerosi successi nel settore delle industrie tradizionali legate alla bioeconomia (silvicoltura e agricoltura), la commercializzazione delle tecnologie più recenti è stata limitata.

Dal punto di vista governativo, ci si è concentrati su specifiche opportunità su larga scala relative all’energia (per esempio l’eolico, il solare, il sequestro e stoccaggio del carbonio – carbon capture and storage, CCS), parallelamente ai finanziamenti in corso per la ricerca nelle Università. Nel settore industriale gli incentivi per Ricerca e Sviluppo1 rappresentano un elemento molto importante. Contribuiscono allo sviluppo di nuove tecnologie e sono stati fondamentali per la costruzione dell’impianto pilota di Circa. Altre iniziative federali e statali hanno contribuito nel corso degli anni, sebbene spesso dipendessero dall’agenda dei governi. Detto questo, abbiamo la sensazione che il governo stia diventando sempre più consapevole della necessità di una pianificazione a lungo termine in questo settore e del crescente bisogno di equilibrare meglio gli incentivi per la commercializzazione e per la ricerca”.


Policy

2.https://biooekonomie. de/sites/default/files/ country_profile_australia_ pdf.pdf

3.http://www.fao.org/3/ I9580EN/i9580en.pdf

Qual è il ruolo di Circa Group nella bioeconomia? Che progetti avete per il futuro? “Circa Group ha iniziato a produrre Cyrene in un primo impianto pilota dimostrativo su larga scala FC5 (una joint venture con Norske Skog), fornendo prove commerciali di questo solvente e garantendo la credibilità delle forniture presso acquirenti e ricercatori in tutto il mondo. Ora il nostro prossimo obiettivo è pianificare un aumento di scala con un impianto FC6 su scala commerciale. Cyrene, prodotto utilizzando biomasse sostenibili non alimentari, è uno dei pochi nuovi solventi aprotici polari sul mercato. È in competizione con i solventi tradizionali come NMP, DMF, DMSO e possiede anche alcune proprietà uniche che possono costituire un prezioso elemento di differenziazione in certe aree. Per esempio, le ricerche condotte recentemente dalla University of York e da CSIC Madrid hanno rilevato che Cyrene ha ottenuto la migliore dispersione di grafene mai registrata; anche rispetto al NMP, un solvente il cui uso viene sempre più limitato e che compare attualmente nella lista dell’Ue delle sostanze estremamente preoccupanti (Substances of Very High Concern, SVHC). Questo fatto ha delle implicazioni commerciali ad ampio raggio, dato che rende possibili opportunità di mercato del valore di molti milioni di euro di utilizzare il grafene in applicazioni come composti e polimeri avanzati, rivestimenti, batterie e materiali stampati in 3D. Studi più recenti eseguiti in Gran Bretagna dal National Institute of Graphene e dalla University of Manchester hanno ulteriormente migliorato le scoperte iniziali relative al Cyrene. Ora stiamo valutando le opportunità di applicare direttamente inchiostri al grafene a materiali come tessuti e carta, così come usarlo in diverse applicazioni relative a transistor, sensori, antenne, targhette di identificazione delle radiofrequenze (RFID tag) e apparecchi elettronici indossabili. Recentemente abbiamo avuto l’autorizzazione della European Chemicals Agency (ECHA) di produrre o importare fino a 100 tonnellate all’anno di Cyrene nell’UE, dopo aver ricevuto l’approvazione REACH Annex VIII. Il nostro prossimo obiettivo è la registrazione del Cyrene negli Stati Uniti e in altre giurisdizioni. Infine, continueremo a ricercare altre applicazioni di grande valore per il Cyrene poiché crediamo che il suo potenziale non sia ancora stato pienamente esplorato. Per esempio siamo a conoscenza di progetti in corso in cui viene sperimentato come solvente con cui produrre resine epossidiche ad alte prestazioni, membrane per il filtraggio dell’acqua e ingredienti farmaceutici attivi – per citarne solo alcuni”. Sembra che in Australia ci sia una mancanza di specifiche strategie governative sulla bioeconomia. Quali benefici porterebbe un piano governativo onnicomprensivo? “Come già accennato, la politica sulla bioeconomia in Australia trarrebbe vantaggio da una maggiore connessione, dato che molte iniziative politiche sono più regionali, come la strategia ‘Building a Bioeconomy in South Australia 2011-2015’. Recenti politiche si sono anche focalizzate sul

fronte dell’economia biobased legato alla bioenergia.2 Una strategia di bioeconomia onnicomprensiva aiuterebbe il governo federale australiano a raggiungere molti dei suoi obiettivi relativi alle politiche, come migliorare la sicurezza alimentare, ridurre l’impronta di carbonio dell’industria e favorire la transizione verso l’abbandono dei combustibili fossili e usare di più materie prime sostenibili”. Quanto è rilevante il ruolo delle industrie dell’agricoltura e della silvicoltura nella bioeconomia australiana? E quanto lo è il ruolo giocato dalla chimica verde? “Silvicoltura e agricoltura sono industrie fondamentali in Australia, e contribuiscono sostanzialmente alla ricchezza del paese che è stata tradizionalmente biobased. Queste industrie comprendono, per esempio, la bioenergia, l’industria casearia, quella del grano, della carta prodotta da fibre vegetali e della produzione di packaging. Le politiche sono sempre più focalizzate sulla biotecnologia industriale come strumento per abbandonare le materie prime derivate dal petrolio e passare a biomasse rinnovabili.3 In Australia manca un’industria tradizionale su larga scala per la produzione di sostanze chimiche al di fuori dell’industria mineraria, del petrolio e del gas, e delle sostanze chimiche usate in agricoltura. Il governo federale non ha ancora capito come gestire questo settore. Inoltre, sebbene siano presenti molti eccellenti gruppi di ricerca nelle università, essi sono spesso relativamente piccoli – con un supporto industriale limitato – rispetto a quelli in paesi come Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna o Francia”. Senza la collaborazione della popolazione è davvero difficile decarbonizzare veramente. Qual è l’opinione dei cittadini australiani sulla bioeconomia? Ci sono piani per l’istruzione e la formazione? “Sono sicuro che non sia un problema solo australiano, l’opinione pubblica su questo argomento è divisa. Però stando alla nostra esperienza l’accettazione di nuove tecnologie più sostenibili da parte dei cittadini sta crescendo rapidamente (prendete per esempio gli impianti fotovoltaici). L’Australia è un paese molto soggetto agli eventi meteorologici estremi e, generalmente, le tecnologie che contribuiscono a mitigarne gli effetti vengono favorite. Abbiamo rilevato che la consapevolezza della popolazione riguardo alla bioeconomia in Australia – e globalmente – è spesso legata all’interesse verso le industrie sostenibili. Il lavoro di Circa ha generato un grande interesse in Australia perché la sostenibilità sta diventando sempre più mainstream”.

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Il diritto di riparare di Giorgia Marino

Contro l’obsolescenza l’Europa per la prima volta mette nero su bianco delle regole per aiutare ad allungare la vita utile degli apparecchi elettrici ed elettronici. Giorgia Marino – giornalista freelance e web editor – scrive di cultura, ambiente e innovazione. In passato direttore del magazine Greenews.info oggi lavora per diverse testate tra cui La Stampa.

Una lavatrice non è per sempre, su questo non ci piove. Ma se un tempo comprare un elettrodomestico era un investimento di lunga durata, oggi non si può più dire altrettanto. Che l’obsolescenza sia programmata, o indotta dalla psicologia di mercato, o resa inevitabile dall’avanzamento tecnologico, di fatto la vita dei prodotti – quelli elettrici ed elettronici soprattutto – si accorcia. Colpa, anche, della difficoltà nel ripararli. I tecnici costano parecchio, i pezzi di ricambio dopo un po’ non si trovano più in commercio, gli apparecchi a volte sono troppo complicati da smontare o sono fatti in modo che non sia possibile disassemblarli. “Conviene buttarlo e comprarne un altro” è la conclusione a cui, spesso, giunge il riparatore di turno chiamato ad aggiustare il condizionatore, la lavastoviglie o il computer. Intanto i rifiuti elettronici si accumulano, rischiando di diventare la prossima gravissima emergenza ambientale: secondo proiezioni del Global E-waste Monitor delle Nazioni Unite, nel 2018, in un solo anno, siamo arrivati a 48,5 milioni di tonnellate, quanto mille Titanic o 4.500 Tour Eiffel di materiali potenzialmente tossici e pericolosi. Insomma, la cultura del “buttalo via” non è più sostenibile. E l’istanza del diritto alla riparabilità, portata avanti da cordate di associazioni e Ong, è arrivata in Commissione europea ed ha

finalmente fatto il suo ingresso ufficiale nella direttiva Ecodesign. Del resto, è dal design che tutto comincia: come ricorda il network di Ong European Environmental Bureau (Eeb), “l’80% degli impatti ambientali di un prodotto sono determinati al momento della progettazione”. Efficienza energetica o durabilità? La direttiva Ecodesign e i suoi aggiornamenti si sono finora occupati essenzialmente di progettazione ecocompatibile dal punto di vista del risparmio energetico o, al massimo, del risparmio idrico. La partita aperta dal pacchetto sull’economia circolare ha però, adesso, allargato l’attenzione sull’intero ciclo di vita dei prodotti, rendendo prioritari aspetti come la riciclabilità, il riutilizzo e la durata dei beni. L’allungamento della vita di un prodotto e il miglioramento della sua efficienza energetica, tuttavia, possono a volte essere parametri in opposizione. Per le tasche del consumatore, l’ideale è ovviamente un prodotto che duri il più possibile, ma non sempre questo ha coinciso con vantaggi per l’ambiente. “Per molto tempo – si legge in un rapporto del 2018 stilato dall’ŐkoInstitut di Friburgo – il messaggio che passava ai consumatori attenti al risparmio energetico era di comprare un nuovo elettrodomestico più efficiente dopo qualche


Policy

ŐkoInstitut www.oeko.de/en

anno. Per alcuni tipi di prodotti, questo poteva avere senso. Ma oggi, anche grazie all’Energy Labelling europeo e alle direttive sull’Ecodesign, l’efficienza energetica di molte categorie di elettrodomestici è migliorata sensibilmente. Quindi, chi già possiede un prodotto energeticamente efficiente, dovrebbe cercare di utilizzarlo per il più lungo tempo possibile così da minimizzare gli impatti sull’ambiente”. Quale sia la scelta migliore per l’ambiente – cambiare o riparare – dipende ovviamente dal tipo di prodotto. L’ŐkoInstitut ha stilato una

lista di elettrodomestici e devices elettronici che dovrebbero essere usati il più a lungo possibile: computer, laptop e smartphone, lavatrici, asciugatrici con pompa d calore ad alta efficienza, altri elettrodomestici come frigoriferi, aspirapolvere e lavastoviglie già in classe A (o anche B per gli aspirapolvere). Negli altri casi, invece, può essere più ecosostenibile cambiarli. Comunque, “numerose ricerche condotte su notebook e lavatrici sostengono che un apparecchio di lunga durata sia in generale più ecosostenibile, anche nel caso che i nuovi modelli siano più efficienti. Per esempio, in uno studio condotto per l’Agenzia Federale dell’Ambiente della Germania (UBA), l’ŐkoInstitut ha calcolato che, anche se il nuovo modello di notebook usasse il 10% in meno di energia rispetto al vecchio, dovrebbe essere utilizzato per almeno 80 anni per compensare l’energia consumata per la sua produzione”. Stesso discorso vale per i televisori e gli smartphone: meglio tenerseli e averne cura. Le basi della riparabilità: smontaggio e pezzi di ricambio Trovata dunque la proporzione aurea tra efficienza e durata, la questione è: come allungare la vita utile dei prodotti? Il pacchetto di modifiche apportate alla direttiva Ecodesign, tra dicembre 2018 e gennaio 2019, contiene appunto una serie di misure che dovrebbero facilitare la riparabilità di apparecchi energy-related, come lavatrici, lavastoviglie, asciugatrici, frigoriferi, schermi per computer e tv, illuminazione. I focus sono essenzialmente tre: una progettazione più orientata alla durata, anche grazie alla modularità e alla possibilità di upgrading; la disponibilità delle parti di ricambio; la fornitura di informazioni sia per la manutenzione che per il potenziamento. Si chiedeva, per cominciare, di rendere più facile lo smontaggio dei prodotti, evitando per esempio di fondere o incollare più pezzi insieme. Richiesta in buona parte accordata, ma con importanti eccezioni, come per le lavatrici e le lavastoviglie. Altra fondamentale questione è la reperibilità delle parti di ricambio. Per la prima volta viene stabilito e messo nero su bianco che i pezzi debbano essere disponibili per almeno 7 anni dopo l’uscita di un modello dal mercato, arrivando in alcuni casi fino a 10 anni. Uno sforzo certo non indifferente per le aziende, che avranno tempo fino a marzo 2021 – data dell’entrata in vigore dei nuovi regolamenti – per adeguare la produzione. “Sono tempistiche sfidanti per l’industria”, commenta Paolo Falcioni, direttore generale di Applia Europe, l’associazione internazionale che riunisce produttori e distributori di elettrodomestici in Europa. “Tuttavia il testo uscito dalla Commissione europea è equilibrato nel tenere conto delle diverse istanze in gioco e i costruttori sono senz’altro a favore della trasparenza e della definizione di requisiti minimi per la disponibilità delle parti di ricambio.

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Eeb – European Environmental Bureau https://eeb.org Home Appliance Europe www.applia-europe.eu

Ci saranno ovviamente dei costi in più per le aziende, ma la legislazione chiederà questo sforzo a tutti i produttori, anche a quelli extra-europei che vendono sul mercato comunitario. Questo garantirà dunque una fondamentale uniformità di mercato, senza disparità”. Soddisfatto, ma con qualche riserva, anche il mondo della società civile. “È un primo passo importante – commenta Stephane Arditi, responsabile delle politiche per l’economia circolare di Eeb – Per la prima volta ci sono delle regole chiare e pratiche sulla riparabilità degli apparecchi: un ottimo precedente per futuri traguardi. Certo, il periodo di disponibilità dei pezzi di ricambio non è molto esteso e penalizza apparecchi che potrebbero durare anche di più se riparati”. “Altra criticità – fa ancora notare Arditi – riguarda i pezzi “accoppiati”. Alcune parti di ricambio che negli apparecchi vanno sempre insieme, possono ora essere vendute singolarmente oppure in coppia; ma ce ne sono altre che continueranno a essere vendute solo accoppiate. Questo, oltre allo spreco di materiali, non fa che aumentare il costo delle riparazioni. Fattore determinante, perché per rendere davvero la riparabilità un’opzione diffusa, bisogna che sia conveniente”. Chi ripara cosa? E chi lo stabilisce? Il vero oggetto del contendere, tuttavia, è il “chi”. Chi ha il diritto, le qualifiche e la facoltà di riparare? Stabilirlo è cruciale, perché significa decidere a chi le aziende sono obbligate a fornire le informazioni per la manutenzione e le schede tecniche delle componenti elettroniche. Senza, la riparazione diventa una missione impossibile, o perlomeno molto ardua. “Ciò che chiedeva la cordata di Ong – racconta Davide Sabbadin di Legambiente – era la trasparenza delle schede per la diagnostica elettronica. L’ideale per noi era che fossero aperte e scaricabili dal web, consultabili da tutti gli utenti.

In modo che non solo i riparatori professionisti, ma anche le associazioni e gli ecocentri potessero riparare gli apparecchi ed eventualmente rivenderli, intercettando una fetta di mercato più povero e ottimizzando al massimo la vita utile dei prodotti”. Ma l’informazione è potere e a nessuno piace cederla. Il lavoro della Commissione è consistito allora in un delicato bilanciamento fra le istanze dei produttori e quelle di associazioni e consumatori. “Gli Stati membri – spiega Robert Nuij, Head of sector for Energy efficiency of products della Commissione Ue – si sono accordati per introdurre due liste di parti di ricambio: una solo per i riparatori professionali, l’altra sia per i professionisti che per gli utenti finali. Se le informazioni della seconda lista sono accessibili a tutti, le schede tecniche della prima sono invece disponibili solo per i riparatori professionali. Questi ultimi, per essere autorizzati, devono essenzialmente soddisfare due requisiti: essere coperti da un’assicurazione di responsabilità civile e avere le competenze tecniche per riparare gli apparecchi in questione. Il riferimento a un registro ufficiale, magari nazionale, sarà considerato sufficiente a dimostrare quest’ultimo requisito. E crediamo che queste nuove regole spingeranno gli Stati membri a istituire degli appositi registri per le organizzazioni di riparatori”. “È una legislazione equilibrata, che tiene nel giusto conto la sicurezza e il diritto di riparare” commenta Paolo Falcioni. “Le informazioni tecniche saranno fornite a chi potrà dimostrare di essere in grado di aprire una lavatrice o una lavastoviglie senza mettere a repentaglio la propria incolumità e quella dei consumatori. La legge non taglia fuori nessuno, stabilisce solo dei criteri necessari per poter riparare in sicurezza. Sono poi contemplate anche riparazioni più semplici, che gli stessi utenti possono effettuare senza rischi, ad esempio cambiare la guarnizione di un frigo. Per questi casi, alcuni produttori già offrono kit di pronto intervento che facilitano le operazioni.” Meno soddisfatto è invece il mondo delle Ong. “Sappiamo che la regola, sulla carta, non è discriminatoria, ma per i piccoli riparatori o i repair cafè può diventare molto complicato e oneroso accreditarsi come professionisti” fa notare Arditi di Eeb. “E c’è il rischio è che le grosse aziende esercitino un controllo sull’accesso alle autorizzazioni per riparare i loro apparecchi.” Anche sulla questione sicurezza è dubbioso: “Non si può sapere se il consumatore deciderà di provare ad aprire e riparare da solo un apparecchio. A questo punto, per ridurre i rischi, sarebbe meglio che le informazioni fossero sempre disponibili per tutti”. Uno sguardo al futuro Criticità e mezze soddisfazioni a parte, il pacchetto di revisioni della direttiva Ecodesign avrà certamente un impatto positivo sull’ambiente e sul risparmio energetico europeo. “Secondo le


Policy nostre stime – dichiara Nuij – il risparmio totale atteso sarà di circa 130 TWh all’anno entro il 2030. In pratica l’equivalente del consumo energetico annuo dell’Irlanda”. Quello che ancora manca è un sistema di etichette che renda immediatamente percepibile ai consumatori il grado di riparabilità dei prodotti. “Ma ci si sta lavorando” assicura Stephane Arditi. “Il Joint Research Centre, che affianca la Commissione europea, sta conducendo vari studi per mettere a punto un Repair Scoring System. Potrebbe diventare un’etichetta simile a quella energetica, con diverse classi a seconda del grado di riparabilità. Uno strumento del genere sarebbe davvero efficace per trasformare finalmente il mercato.” Intanto lo sguardo si sposta fuori dall’Europa, con la consapevolezza che le regole che si stanno oggi creando a Bruxelles costituiscono un

vero precedente storico e un unicum in tutto il mondo. “Il Nord America ha iniziato prima di noi le campagne per il diritto alla riparazione – spiega Arditi – ma l’approccio degli Stati Uniti è diverso, per loro si tratta più di una battaglia sui principi che sui dettagli tecnici”. Il pragmatismo europeo potrebbe quindi fare da capofila a una vera rivoluzione dei modelli di mercato. “Ciò che vorremmo è unire le forze, mettere insieme l’esperienza sul campo del Nord America con i precedenti legali che si stanno creando in Europa e anche con le esperienze più interessanti di paesi asiatici come Cina, Taiwan, Corea, così da creare un mercato globale per gli apparecchi riparabili. Una volta raggiunto questo livello, ci sarebbe la massa critica per creare delle vere opportunità di business per prodotti più durevoli e più sostenibili per l’ambiente”. E fermare la folle corsa dell’e-waste generation.

Repair Scoring System http://susproc. jrc.ec.europa.eu/ ScoringSystemOn Reparability/index.html

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Riutilizzo e nuove direttive europee: come orientarsi nella complessità del settore di Pietro Luppi, Alessandro Strada, Karin Bolin

In Europa il settore dell’usato è composto da molteplici attività, commerci e mestieri. Particolarmente interessante è la filiera degli indumenti usati che vede crescere l’offerta di abiti ma al tempo stesso diminuire la qualità della raccolta e aumentare i costi di smaltimento.

Pietro Luppi, direttore del Centro di Ricerca dell’Occhio del Riciclone, portavoce della Rete Nazionale Operatori dell’Usato, responsabile innovazione per Humana People to People Italia.

Il commercio di oggetti usati è uno dei mestieri più vecchi del mondo, ma il valore ecologico del riutilizzo è stato riconosciuto solo in tempi recenti. Il pacchetto sull’economia circolare fornisce strumenti e obiettivi che, sempre di più, favoriscono un’effettiva introduzione del riutilizzo – e della preparazione per il riutilizzo – nelle politiche di prevenzione e gestione dei rifiuti. Il mercato dell’usato sarà inondato da una gigantesca offerta di beni che prima non erano disponibili e le istituzioni comunitarie e nazionali dovranno prendere decisioni che cambieranno profondamente il volto del settore. Un compito difficile da assolvere in assenza di una nozione precisa della realtà. L’Unione europea chiede di “creare e sostenere le reti di riutilizzo”: ma cosa bisogna sostenere esattamente? Chi deve essere coinvolto in queste reti? Oggi il settore dell’usato in Europa è composto da una vasta pluralità di attività, commerci e mestieri: ambulanti, rigattieri, negozianti mono-merce e conto terzi, raccoglitori di indumenti usati o altri beni durevoli, grossisti, charity shop e piattaforme online. Le merci usate

Alessandro Strada, filosofo specializzato in marketing strategico. Dal 2010 collabora con il settore gare e raccolta indumenti usati di Humana People to People Italia. Karin Bolin, presidente di Humana People to People Italia. Lavora nel settore riuso da oltre 30 anni, con esperienze operative in Italia, Francia, Svezia, Slovacchia, Romania e Bulgaria.

spesso viaggiano dal territorio più ricco a uno più povero. Dove il reddito è più alto, l’abbondante disponibilità di usato e la scarsa richiesta determinano prezzi bassi. Dove il reddito è inferiore accade esattamente il contrario e quindi, per osmosi, esiste un costante flusso di import/export sia all’interno dell’Unione sia al di fuori di essa. Spesso, come dimostrano gli studi Eurotranswaste (2012) e “Holes in the Circular Economy” (2019), il fenomeno dà vita ad attività illegali. In Italia, addirittura, la criminalità organizzata tende ad accaparrarsi i vestiti usati raccolti nei Comuni per poi renderli oggetto di traffici internazionali di rifiuti. I numeri generali presentati sono contraddittori ed è evidente che il policy maker rischia di confondersi. I report in circolazione a volte danno conto solo delle attività di riutilizzo formalmente già coinvolte in programmi di prevenzione: secondo questo approccio le Fiandre (Belgio) risultano in cima alla lista sfiorando il risultato di 5 kg ad abitante di riutilizzo, mentre l’Italia ha numeri assolutamente irrilevanti. Ma, secondo il Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018 di Occhio


World del Riciclone e Utilitalia, se si conteggiassero tutte le attività che autonomamente fanno prevenzione di rifiuti in Italia si arriverebbe probabilmente a 8 kg di riutilizzo ad abitante. Filiere degli indumenti usati: un’anticipazione del futuro Le filiere della raccolta e recupero di indumenti usati sono particolarmente interessanti perché anticipano di vari anni le tendenze di strutturazione e integrazione alle politiche ambientali che oggi si osservano su tutte le altre merceologie di beni durevoli. Gran parte degli indumenti usati europei sono raccolti mediante contenitori stradali e, molto spesso, nel quadro di servizi di raccolte differenziate di rifiuto tessile che sono affidati ai sensi dei codici di appalto per i contratti pubblici. L’affidamento è un anello sempre più

Figura 1 | Numero di volte che un capo viene indossato* *Numero medio di volte che un capo viene indossato prima di cessare di essere utlizzato

>100 miliardi di unità (2015)

200 190

2x

180 170 160 150 140 130 120

~50 miliardi di unità (2000)

110 100

2000

2005 Pil mondiale

2010

2015

Utilizzo dell’abbigliamento

Vendite d’abbigliamento Fonte: Ellen MacArthur Foundation. Euromonitor International Apparel & Footwear, Edizione 2016 (Tendenze del volume di vendita 2005-2015) Banca Mondiale, Indicatori di Sviluppo mondiali – GD (2017)

rilevante perché dà origine a filiere complesse, schematizzabili in queste fasi principali: raccolta differenziata, primo stoccaggio in impianti di messa in riserva (R13), vendita o il trasferimento del materiale cosiddetto “originale” a impianti di recupero (R3), trattamento/preparazione per il riutilizzo, vendita intermedia e finale della frazione riutilizzabile nei canali della seconda mano, riciclo delle frazioni non idonee a riutilizzo, smaltimento di ciò che non può essere recuperato. Nel corso della filiera intervengono attori fra loro diversi per identità e finalità (alcuni profit e altri non profit) che si posizionano in una o più fasi in virtù delle proprie competenze, della capacità operativa e del proprio posizionamento su un mercato sempre più internazionale. Una ricerca realizzata nel 2016 da Humana People to People Italia e Target Consulting su un campione rappresentativo di 1.000 persone ha evidenziato come i cittadini, oltre a chiedere la pulizia e la trasparenza delle filiere, siano più propensi – per l’84% del campione – a destinare i propri abiti usati alle filiere caratterizzate da finalità solidaristiche: il risultato ambientale è quindi strettamente legato al rispetto del “mandato solidale” del donatore. Un altro tema da monitorare è la sostenibilità economica del servizio. Infatti, a differenza di altre frazioni merceologiche di rifiuti, la cui raccolta e trattamento rappresentano un costo per la collettività, la frazione tessile storicamente è stata avviata in canali di recupero in grado di produrre ritorni economici capaci di ripagare i costi della raccolta e, talvolta, anche di produrre qualche margine. Questo aspetto ha creato nei Comuni e nei gestori l’abitudine di non riconoscere nulla agli affidatari del servizio, confidando nella loro capacità di sostenere autonomamente ogni costo. Ma il quadro di sostenibilità delle filiere sta cambiando. I mercati assistono a un drastico calo nei prezzi di vendita internazionali dell’”originale” (in media 20-25% in meno rispetto al 2014) come esito di molteplici fattori. Tra questi: un incremento complessivo sul mercato dell’offerta di abiti usati dovuto alla maggiore capacità di intercettazione in Europa e Stati Uniti e al fatto che Cina e Sud Corea hanno recentemente iniziato a raccogliere e collocare sul mercato i propri indumenti usati (550 mila tonnellate nel 2017; UN Comtrade);le scarse marginalità degli impianti di selezione e la loro difficoltà a canalizzare la frazione tessile di minor qualità; la politica internazionale (paesi importatori afflitti da guerre civili o dazi di importazione alti ecc.). Parallelamente aumentano quantità di residuo da smaltire e costo al chilogrammo dello smaltimento. L’abbassamento generalizzato della qualità delle raccolte è dovuto al boom del fast-fashion e al cambio delle abitudini di consumo nei cosiddetti paesi ad economia avanzata: secondo McKinsey& Co il consumatore medio compra il 60% di vestiti in più rispetto all’anno 2000 e li conserva per la metà del tempo (figura 1).

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materiarinnovabile 26. 2019 Gare fondate sul prezzo e punti di equilibrio economici Il mutato equilibrio tra costi e prezzi di vendita delle filiere degli indumenti usati fa riflettere sull’effettiva sostenibilità di gare di affidamento del servizio di raccolta e recupero che siano basate (direttamente o indirettamente) su offerte Occhio del Riciclone di prezzo al massimo rialzo. In Italia, Spagna e Network, www.occhiodelriciclone.com Regno Unito questa è una pratica sempre più diffusa nonostante sia arduo argomentare che Humana People raccolta e recupero di vestiti usati facciano parte to People Italia, dei servizi ad “alta ripetitività” o standardizzazione www.humanaitalia.org per i quali il codice appalti europeo consente richieste economiche di questo tipo: la qualità dei vestiti raccolti è variabile, i costi sono variabili e i ricavi non solo sono variabili ma sono anche esposti a radicali fluttuazioni. Nel 2017, in un evento a Ecomondo, Humana People to People Italia ha evidenziato che nelle congiunture più

Figura 2 | Impatto del “massimo rialzo” sui punti di equilibrio della raccolta di indumenti usati Fonte: elaborazione Occhio del Riciclone, 2019. 0,60 €

0,40 €

0,20 €

0€

2000

2005

2010

Prezzo di vendita (“originale” 20.01.10) Costo accumulato (costo operativo + massimo rialzo)

2015

2019

Costi raccolta differenziata e stoccaggio (R13)

critiche l’esistenza di un fattore economico rigido che rompe il quadro di sostenibilità rischia di favorire gli operatori disposti ad abbattere costi mediante illeciti ambientali o di altro tipo. In generale, il massimo rialzo produce competizioni spietate tra gli operatori, che tendono a offrire alle stazioni appaltanti ogni loro margine economico pur di aggiudicarsi il servizio e sopravvivere. Una logica che rischia di rendere vano ogni intervento che, in linea con la direttiva europea, stabilisca agevolazioni o incentivi finalizzati a rendere più sostenibile l’economia del riutilizzo (come le proposte di legge Vignaroli, Braga e Muroni in discussione al Parlamento italiano); tali incentivi rischiano infatti di risolversi, nel concreto, in elargizioni indirette alle multi-utilities o ai Comuni che appaltano i servizi. Nella figura 2 si descrive – in relazione a un campione di 100 Comuni italiani – la fluttuazione di costi e ricavi della raccolta evidenziando gli effetti sul punto di equilibrio di un’integrazione nei costi di un’ipotetica offerta alla stazione appaltante di 8 centesimi di euro al kg (in realtà sono frequenti contributi che superano i 10 centesimi). Responsabilità estesa del produttore e modelli “measuring oriented” L’obbligatorietà della raccolta differenziata del tessile entro il 2025, introdotta dalla direttiva europea 851, potrebbe generare un aumento globale dei volumi raccolti e una diminuzione della quota di valorizzabile, rendendo molto difficile sostenere i tradizionali schemi di raccolta fondati sulla prestazione gratuita di chi svolge il servizio. La stessa dinamica potrebbe ripetersi, in un medio termine, con tutte le altre frazioni di beni durevoli riutilizzabili. In questa prospettiva la responsabilità estesa del produttore (Rep) potrebbe diventare indispensabile per la tenuta del sistema riutilizzo. Ma oggi più che mai i produttori del nuovo hanno ragione di vedere gli operatori dell’usato come scomodi concorrenti, tanto che se avessero in mano il governo dei nuovi schemi Rep potrebbero optare per logiche di accaparramento del riutilizzabile in grado di sfavorire la rimessa in circolazione delle merci. Occorre poi agire con cautela nella distribuzione dei finanziamenti pubblici o dei produttori per evitare ingiustizie o deformazioni del mercato. In questo senso, vanno osservate con preoccupazione le esperienze Rep e gli schemi di finanziamento pubblico al riutilizzo applicati in Francia e in Belgio, dove esistono cordate di operatori dell’usato non profit che oltre a beneficiarsi di importanti agevolazioni sui costi ricevono fino a un 75% dei loro ricavi da finanziamenti pubblici o dei produttori, focalizzando i loro processi operativi non sul mercato ma sulle misurazioni richieste dagli elargitori. Ricevere tanti incentivi permette di fissare prezzi che i concorrenti (profit e non profit) non possono uguagliare. A volte i loro prezzi sono così bassi da attrarre l’interesse di operatori dell’usato esteri che accaparrano merci nei negozi sovvenzionati e le trasportano nei loro paesi.



Dalla plastica

all’olio

Agilyx – un’azienda statunitense di pirolisi che ha impiegato quasi 15 anni a perfezionare la produzione di olio sintetico – ha ora ampliato la propria operatività riuscendo a trattare un materiale raramente riciclato: la schiuma. di Katie Pyzyk

Giornalista freelance statunitense, Katie Pyzyk scrive di ambiente, tecnologia e anche rifiuti e riciclo, problemi sociali e città intelligenti.

Quasi 15 anni fa Agilyx ha aperto un impianto di pirolisi specializzato nella lavorazione di plastiche varie difficili da riciclare in olio grezzo sintetico di alta qualità. Nell’aprile 2018, l’azienda con sede a Tigard, nell’Oregon, ha avviato una nuova area di ricerca potenzialmente rivoluzionaria nell’ambito del riciclo del polistirene (PS): Agilyx ha infatti avviato un sistema circolare di riciclo chimico in grado di de-polimerizzare il polistirene ricavandone olio monomerico di stirene. L’azienda Agilyx è in grado di processare tutte le forme di polistirene, ma ha suscitato grande interesse per il fatto di poter lavorare nei suoi impianti il polistirene espanso (EPS), detto anche foam (schiuma). Il polistirene espanso presenta una serie di difficoltà nel riciclo, in parte a causa del suo basso punto di fusione e della sua leggerezza – aspetti che rendono costoso trasportarlo e fa sì che sia raramente accettato nei programmi statunitensi di riciclo porta a porta. Di fatto, un numero crescente di municipalità americane ha messo al bando i prodotti in polistirene espanso o sta cercando di farlo. Effettivamente la schiuma è spesso considerata un agente contaminante se mescolata ad altri prodotti riciclabili e quindi viene per lo più smaltita in discarica. Esistono negli Stati Uniti alcune operazioni di riciclo dell’EPS, ma solitamente addensano o fondono la schiuma per mantenere il materiale nella sua forma di polimero. La resina di PS viene poi elaborata in nuovi prodotti come cornici per fotografie, tavole da surf e legname sintetico. Mentre invece esistono pochi impianti in grado

di trasformare il polistirene espanso in olio monomerico, specialmente alla scala operativa di Agilyx. Un altro aspetto unico della lavorazione di Agilyx è che accetta materie prime a qualsiasi livello di contaminazione, molte delle quali vengono considerate da altre aziende troppo “sporche” per essere trattate. Un rapporto dell’American Chemistry Council (ACC) nota che sebbene la contaminazione costituisca un problema per altri metodi di riciclo della plastica, “dato che la depolimerizzazione scompone i frammenti di plastica negli elementi costituenti della resina, la contaminazione viene rimossa”, il che rende il prodotto risultante “privo di impurità, e con proprietà simili a quelle della resina vergine”. La depolimerizzazione pertanto permette il recupero di “resina che altrimenti non viene generalmente recuperata”, riferisce l’ACC. Le principali materie prime di Agilyx provengono da fornitori commerciali o industriali, sebbene l’azienda accetti anche materiali monouso postconsumo, come tazze in EPS usate o vassoi per il cibo utilizzati nelle scuole. I manager dell’azienda ritengono di avere perfezionato negli ultimi cinque anni un protocollo di gestione delle materie prime “altamente disciplinato” in grado di garantire un prodotto sicuro e di alta qualità. Prima di accettare le materie prime da un fornitore, i dipendenti di Agilyx caratterizzano ogni lotto di materiali e aggiungono la caratterizzazione ai loro modelli predittivi. In questo modo conoscono la resa e il livello di contaminazione di ogni polimero in anticipo, e possono quindi modificare il processo di pirolisi per assicurare un prodotto coerente.


World “La composizione e i processi di controllo della qualità influiscono pesantemente sulla capacità di realizzare un prodotto”, dichiara Joseph Vaillancourt, CEO di Agilyx. “Questa è la parte che alla maggior parte della gente non piace. [...] Agilyx riceve rifiuti da 500 aziende diverse”, che vengono poi usati per creare un olio monomerico uniforme che può essere personalizzato secondo le specifiche di ogni utilizzatore finale. Successivamente l’olio monomerico viene inviato a un impianto di raffinazione che elabora ulteriormente il prodotto in stirene lavorabile, che viene utilizzato per creare nuovi prodotti in PS. Ogni mese Agilyx processa oltre 270 tonnellate di polistirene producendo circa 212.000 litri di olio di stirene monomerico. Il processo di depolimerizzazione non solo comporta una degradazione minima del materiale, ma “viene realizzato con emissioni di carbonio del 70% inferiori rispetto all’utilizzo di risorse vergini”, precisa Vaillancourt.

Agilyx, www.agilyx.com 4R Sustainability, Conversion technology: a complement to plastic recycling, https://plastics. americanchemistry.com/ Plastics-to-Oil

Inizialmente Agilyx non intendeva entrare nel mercato della lavorazione dei materiali. Il piano commerciale del fondatore era di creare un’azienda tecnologica in grado di vendere sistemi per la pirolisi ad aziende attive nel trattamento dei rifiuti o a compagnie petrolchimiche. Però ha incontrato resistenze da entrambe le parti: “Le aziende di trattamento dei rifiuti non erano interessate a diventare aziende per il riciclo dell’olio. E noi siamo troppo piccoli per le compagnie petrolchimiche, oltre al fatto che apprezzavano l’idea ma non volevano procurarsi il materiale dall’industria dei rifiuti”, spiega Vaillancourt. Quindi Agilyx ha trovato la sua nicchia come azienda di medie dimensioni. “Ci siamo integrati verticalmente per assicurarci i nostri rifiuti,” afferma. “Stiamo mettendo insieme due industrie totalmente separate.” Vaillancourt evidenzia come alcuni anni fa il business dell’olio grezzo sintetico abbia subito un duro colpo quando “i mercati delle materie prime

sono crollati al punto che la nostra piattaforma iniziale non era più sostenibile finanziariamente.” Fu allora che Agilyx prese in considerazione la lavorazione di polimeri separati invece di un mix di plastiche, e scelse il PS per il suo primo progetto di olio monomerico. L’azienda sospese la parte del business relativa al carburante sintetico sviluppando nel frattempo la lavorazione dell’olio monomerico, ma il management è intenzionato a reintrodurre i carburanti sintetici nella gamma di prodotti offerti. Complessivamente Agilyx sta lavorando su ricerca e sviluppo di circa 60 nuovi progetti di pirolisi, compresi alcuni per i quali gli utilizzatori finali hanno chiesto all’azienda di creare prodotti specifici che soddisfacessero le loro necessità. Secondo Vaillancourt ci sono molte opportunità per l’espansione del business accettando altri materiali “difficili da riciclare” oltre alla schiuma, come gli articoli di plastica monouso che il governo degli Stati Uniti sta sempre più regolamentando, tra i quali le cannucce per le bibite e il packaging. Per l’immediato futuro Agilyx sta esplorando opportunità derivanti dall’impiego di scarti differenziati omogenei di diversi tipi di resina provenienti dai suoi fornitori e lavorarli per trasformarli in monomeri, analogamente all’attuale modello di lavorazione del polistirene. Ai dirigenti di Agilyx piace “pensare alle plastiche come una materia prima già di alta qualità, anche se sono ‘rifiuti’ e sono presenti agenti contaminanti”, dice Vaillancourt, “le plastiche potranno non avere un grande valore economico, ma sono materie prime di grande valore”. Si prevede che il valore crescerà con l’aumentare delle pressioni per conservare le risorse naturali. Per esempio, pensando a tutti i polimeri che verranno prodotti nei prossimi vent’anni, “se si raccoglie tutta la plastica e la si converte in un substrato chimico o in olio, si ottiene il 200% di quanto gli Stati Uniti stimano di avere nei loro giacimenti di petrolio. È un’opportunità enorme… un’opportunità da 50 miliardi di dollari all’anno.” Chi lavora in Agilyx è ottimista riguardo al futuro e orgoglioso di contribuire all’economia circolare e alla creazione di nuovi mercati del riciclo della plastica. Vaillancourt evidenzia come la creazione di nuovi modi per riciclare la plastica e nuovi mercati per il suo utilizzo potrebbe contribuire a cambiare la percezione dei cittadini sulle plastiche in generale: “Siamo entusiasti riguardo alla nostra flessibilità e a quello che possiamo ottenere sia in termini di tipi di prodotti che possiamo ottenere sia per il fatto che possiamo realizzare un riciclo totalmente circolare.” Gli avanzamenti tecnologici e gli anni di ricerca e test sui processi di pirolisi hanno dato un contributo importante all’attuale successo di Agilyx. “Abbiamo investito molto tempo e ingenti capitali in questo”, spiega Vaillancourt, e sorride affermando: “Rappresentiamo un successo ‘istantaneo’ che ha richiesto 15 anni per portarci dove siamo ora”.

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Quando il tappo di sughero diventa

Etico

Grazie a un progetto avviato da Amorim Cork Italia ogni anno 80 milioni di tappi di sughero vengono raccolti e riciclati per diventare oggetti di design.


World di Rudi Bressa

Rudi Bressa, giornalista ambientale e naturalista, si occupa di rinnovabili, economia circolare e sostenibilità.

È un materiale prezioso il sughero: per avere un singolo tappo sono necessari oltre 40 anni. È un materiale nobile che porta con sé la storia di un territorio e che può essere recuperato e riciclato al 100%, trovando varie applicazioni in bioedilizia, nell’arredamento, nel settore dell’abbigliamento, in quello meccanico, fino a quello aerospaziale. Spesso però viene perduto e subito dopo il suo utilizzo, dopo aver “stappato” una bottiglia, finisce per diventare un rifiuto. Per questo nel 2011, da un’idea di Amorim Cork Italia, azienda che opera nel mercato dei tappi in sughero, nasce “Etico”, il primo progetto di recupero e riciclo dei tappi in sughero in Italia. “In Italia abbiamo dato vita a un progetto che potesse fungere da modello per la raccolta dei tappi durevole nel tempo”, racconta Carlos Veloso dos Santos, direttore generale di Amorim Cork Italia, filiale italiana del gruppo portoghese tra i leader del mercato delle chiusure in sughero. “Per questo il progetto continua e anzi è cresciuto negli anni. Oggi collaboriamo con 40 associazioni, 1.000 volontari e oltre 6.000 punti di raccolta tra Nord e Sud Italia”. L’economia circolare è anche solidale

Amorim Cork Italia, www.amorimcorkitalia.com

Oggi col progetto “Etico”, Amorim Italia riesce a raccogliere tra le 70 e le 80 tonnellate di sughero l’anno, l’equivalente più o meno di 11 camion pieni di tappi. Il sughero successivamente viene trattato e trasformato in granina. E tutto a spese dell’azienda. “Se per la raccolta dei tappi di plastica di solito vengono corrisposti 150 euro a tonnellata, Amorim alle onlus che raccolgono il sughero dà 700 euro a tonnellata”, spiega dos Santos. “A cui vanno aggiunti i costi della macinatura (circa 300 euro a tonnellata, ndr). Ciò significa che noi investiamo 1.000 euro per tonnellata di sughero raccolto”. In questo modo le associazioni e le cooperative vengono spinte e supportate nel fare la raccolta, trovando allo stesso tempo un modo di finanziarsi: ogni tappo contribuisce così ad alimentare non solo la filiera del riciclo, ma anche quella della solidarietà a livello locale. Grazie a questa iniziativa Amorim è riuscita a evitare che oltre 80 milioni di tappi finissero della spazzatura. Ma come creare una filiera capace di dare un valore aggiunto alla materia prima seconda, che poi altro non è che uno degli scopi dell’economia circolare? Producendo oggetti di qualità, meglio se legati agli ambienti di prima provenienza, come cantine ed enoteche. È questo il secondo step del progetto Etico: far diventare il sughero riciclato un materiale nobile. “Lanceremo insieme a Greencorks una linea di complementi d’arredo, di espositori per bottiglie, di scaffalature interamente realizzate in sughero recuperato dai tappi”, spiega dos Santos. “Faremo entrare il tappo di sughero nelle cantine non più come chiusura per le bottiglie, ma sotto un’altra forma”. Non più tappo, ma oggetto di design dunque. Dopo il Veneto, il progetto “Etico” si è esteso anche in Lombardia, Friuli, Piemonte, Toscana e

Umbria, raggiungendo anche la Sicilia, Campania e Calabria. A essere coinvolte non sono solo le onlus, ma anche altri soggetti come alcuni enti pubblici impegnati nella raccolta differenziata. Sono loro a prendersi carico dei box messi a disposizione dall’azienda, a raccogliere i tappi sensibilizzando la cittadinanza e a fare una prima selezione dei tappi, grazie anche al lavoro svolto dalle cooperative che coinvolgono i disabili o i carcerati nell’attività di cernita. Alla fine del processo le aziende specializzate nel riciclo acquistano e triturano il sughero per realizzare materiali da destinare all’isolamento termico o acustico in bioedilizia o per nuovi oggetti, come sgabelli, secchielli per raffreddare il vino e molto altro. Un concetto di sostenibilità a tutto tondo, circolare, che soddisfa sia le richieste ambientali sia quelle economiche e sociali. Ambientali perché viene mantenuto il valore che il sughero possiede come materia prima. Economiche perché il guadagno della vendita dei tappi di chi ne farà granina per la bioedilizia si unisce al contributo spontaneo di Amorim Cork Italia e diventa una forma di autofinanziamento per le onlus. Sociale perché i volontari delle associazioni potranno realizzare i loro progetti a supporto della collettività. “L’obiettivo è creare un modello di economia circolare capace di coinvolgere anche le realtà più deboli della società e renderlo un sistema di gestione funzionale e remunerativo”, conclude Carlos dos Santos. Nel momento in cui viene dato un valore a un materiale attraverso l’estetica, questo acquisisce un valore economico e trasmette un messaggio: che sia possibile raccogliere e recuperare quel miliardo di tappi che finiscono nella spazzatura ogni anno, solo in Italia. Le opportunità per creare una filiera del tutto nuova ci sono, come esistono già le aziende disposte a investire, e certo non manca il materiale. Ora non resta che diffonderlo nel paese.

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Nørrona, la moda outdoor cambia abito

Un brand che realizza prodotti durevoli e riparabili – 10.000 capi riparati nel 2017 – impiegando materiali a basso impatto come il cotone biologico o il poliestere riciclato. Un’azienda dove la sostenibilità non entra solo nella filiera produttiva, ma è parte integrante della sua identità. di Emanuele Bompan

Nørrona, www.norrona.com

Per Jørgen Jørgensen, CEO di Nørrona, la sostenibilità è un obiettivo di vita. Spesso si parla di value proposition nel mondo del business, ovvero di una “promessa di valore” da consegnare al cliente veicolandola con i prodotti e le policy aziendali. Per Nørrona invece l’ambiente fa parte dell’identità d’impresa fin dalla sua creazione. L’azienda norvegese è infatti da sempre in prima linea per fermare il cambiamento climatico e fornire soluzioni sostenibili per il pianeta. Offrendo prodotti durevoli e impiegando materiali a basso impatto ambientale, come il cotone organico e il poliestere riciclato. “Mio nonno diceva sempre di scegliere i prodotti top di gamma per la loro resistenza”, spiega Jørgensen. “Mentre un nuovo prodotto Norrøna è fantastico, uno vecchio potrebbe esserlo ancora

di più. Una lunga durata è uno degli strumenti migliori per ridurre al minimo l’impatto ambientale di un prodotto, quindi abbiamo offerto riparazioni su tutti i nostri prodotti sin dall’inizio, nel 1929. Realizzando capi di alta qualità che durano anni e che possono essere riparati, ci assicuriamo che non sia necessario acquistare di nuovi”. Nell’ultimo anno ben 10.000 capi sono stati riparati, un aumento notevole rispetto ai 3.500 del 2015. A Nørrona si fa parecchia attenzione anche al riciclo dei materiali. La prima giacca in pile riciclata è stata prodotta oltre dieci anni fa ed entro il 2020 l’azienda ha l’obiettivo di impiegare solo fibre recuperate. Come il poliestere, una delle fibre più comunemente utilizzate che presto sarà tutta materia prima seconda. Nel 2017 il 58% del poliestere impiegato in azienda era riciclato. Nel 2020 sarà il 100%, così per il nylon, 8% riciclato nel


World 2016, 43% nel 2017, 75% nel 2020. Quando non si impiegano fibre si usa lana rigenerata proveniente da vecchi capi oppure cotone di origine biologica. Stop anche alle fibre chimiche. Entro il 2020 l’azienda dismetterà completamente tutti i PFAS, componenti perfluoroalchiliche utilizzati per l’impermeabilizzazione dei capi, considerati oggi tossici. “La nostra ambizione è diventare leader nella responsabilità ambientale e sociale all’interno del nostro mercato”, spiega Jørgensen. “Molti di questi obiettivi sono impegnativi, ma vogliamo sforzarci al massimo per raggiungerli”. Iniziando dalla propria sede: la Norrøna House, il quartier generale, è alimentata esclusivamente da energia rinnovabile e da quest’anno tutti i dipendenti devono viaggiare in modo sostenibile usando bici, auto elettriche oppure a piedi. Il prossimo step? Diventare un quartier generale a rifiuti zero, in altre parole riciclando e riutilizzando ogni scarto di produzione o di gestione. Infine, per sostenere la lotta contro il climate change, Nørrona si è autoimposta una tassa ambientale sui profitti. L’1% dei ricavi è donato a organizzazioni che lavorano a progetti di sostenibilità ambientale, per un totale di quasi un milione di euro negli ultimi due anni. Una strategia ambientale che non sembra cercare un punto di arrivo, quanto una base di continua espansione per migliorare le proprie performance.

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Startup

Nome: Settore: Plus:

Caratteristiche:

Packaging dai crostacei con Cruz Foam Cruz Foam Nuovi materiali Materiale biodegradabile e compostabile prodotto dalla chitina ottenuta dai gusci di scarto dei gamberetti Il processo brevettato crea una schiuma simile al polistirolo e poliuretano espanso che sta dimostrando ottime prestazioni come sostituto nella produzione di imballaggi

di Antonella Ilaria Totaro

www.cruzfoam.com

La chitina è il polisaccaride più abbondante presente sul nostro pianeta dopo la cellulosa. È presente nei gusci di gamberetti, granchi e aragoste. Non a caso Cruz Foam ha messo questo biopolimero al centro del suo processo di upcycling, estraendolo dai gusci di scarto dei gamberetti e creando un materiale con grandi potenzialità nel settore del packaging. La startup californiana, infatti, attraverso un processo brevettato a base di acqua, è riuscita a ottenerne una schiuma che per proprietà meccaniche assomiglia al polistirolo e per struttura al poliuretano espanso. Nata come spin off dell’Università di California di Santa Cruz, la startup sta ora verificando la scalabilità del processo produttivo e l’applicazione della schiuma nella produzione di imballaggi. Tutto è partito da due studenti ricercatori, John Felts e Xiaolin Zhang che, guidati da Marco Rolandi, docente di ingegneria elettrica, hanno avuto l’intuizione di approfittare di un rifiuto abbondante, ma poco sfruttato in California. Qui infatti sono numerose le aziende che producono crostacei sgusciati e congelati; mentre a livello mondiale l’industria alimentare produce 8 milioni di tonnellate di gusci di scarto. Il sovraciclo dei gusci dei gamberetti è un progetto partito quasi un decennio fa. Dopo numerosi anni di ricerche e verifiche ormai alle spalle per l’utilizzo della schiuma nella produzione di tavole da surf, ora l’azienda punta totalmente sul settore del packaging B2B e sta collaborando con compagnie del settore per accelerare il lancio del prodotto sul mercato.


Startup

Startup

Nome: Settore: Plus:

Caratteristiche:

di Antonella Ilaria Totaro

www.ioniqa.com

Ioniqa, Pet vergine da packaging non riciclabile Ioniqa Tecnologia per il riciclo Un processo di separazione magnetica intelligente trasforma qualsiasi tipo di plastica Pet vergine, da cui è possibile realizzare nuovo Pet Materiali magnetici e processi di separazione chimica per il riciclo infinito di rifiuti Pet in Pet di alta qualità a fronte di un consumo di energia relativamente basso

“Puntiamo a riciclare tutti i rifiuti colorati in Pet vergine fino a trasformare, in futuro, in imballaggi per alimenti anche vecchi indumenti in poliestere”: lo afferma Tonnis Hooghoudt, AD di Ioniqa. L’azienda olandese, nata come spin-off dell’Eindhoven University of Technology e del Dutch Polymer Institute, ha sviluppato un processo di riciclaggio chimico con materiali magnetici in grado di trasformare bottiglie, tessuti e tappeti in Pet di bassa qualità, oggi

non riciclabili, in Pet vergine di alta qualità. La tecnologia di riciclaggio brevettata da Ioniqa trasforma rifiuti contenenti Pet di difficile riciclo, come contenitori colorati, in blocchi di polimeri purificati. Il Pet colorato viene raccolto in contenitori e sminuzzato e, grazie all’aggiunta di un fluido magnetico e al calore, viene depolimerizzato. Nella fase successiva, un magnete attiva il processo di desorbimento chimico grazie al quale i coloranti sono separati e rimossi. Al termine del processo si ottiene Pet come materiale vergine. Multinazionali tra cui Coca-Cola e Unilever, oltre a diversi produttori di Pet, stanno collaborando e investendo nel perfezionamento della tecnologia di Ioniqa e ipotizzando processi di logistica inversa per i propri contenitori a fine vita. Dopo il successo dei test svolti nello stabilimento dimostrativo a Rotterdam nel 2018, a fine gennaio 2019 Ioniqa ha chiuso un round di investimenti da 12 milioni di euro che serviranno all’apertura di un impianto industriale da 10 mila tonnellate già in fase di costruzione a Eindhoven.

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Startup

Nome: Settore:

Yescapa, noleggiare camper da privati Yescapa Consumo collaborativo

Plus:

Noleggio di camper, van e furgoni camperizzati tra privati con incluse assicurazione e assistenza 24 ore su 24

Caratteristiche:

Piattaforma che permette di noleggiare camper tra privati mettendo in contatto proprietari dei mezzi e viaggiatori in partenza e che assume il ruolo di intermediario di fiducia

di Antonella Ilaria Totaro

Cinquemila veicoli disponibili, centocinquantamila utenti, trentamila prenotazioni effettuate: sono questi i numeri di Yescapa, la piattaforma che permette di noleggiare camper tra privati mettendo in contatto proprietari dei mezzi e viaggiatori in partenza. Il meccanismo è semplice: i proprietari inseriscono gratuitamente un annuncio sulla

www.yescapa.fr

piattaforma e impostano le proprie tariffe. I viaggiatori scelgono il mezzo preferito e trovano un accordo con il proprietario. Prima della partenza, dopo aver visionato il camper, le due parti sottoscrivono un contratto che include assicurazione multi-rischi e assistenza stradale 24/7. Yescapa trattiene su ogni transazione una commissione, interamente a carico del viaggiatore, che oscilla tra il 10 e il 15% in funzione della stagionalità, del numero di giorni di noleggio e di eventuali servizi supplementari come la gestione della cauzione. È stato calcolato che in media sei settimane di condivisione permettono ai proprietari dei camper di ammortizzare completamente il costo del veicolo: il compenso medio di un proprietario è di circa 490 euro a settimana (70 euro al giorno), mentre i compensi annui medi si aggirano sui 2.500 euro. Nata nel 2012 a Bordeaux, l’Airbnb dei camper, ha già debuttato in Spagna, Germania, Regno Unito, Portogallo e Italia. Un’espansione che non pare fermarsi. Come sostiene, infatti, il fondatore e amministratore delegato Benoît Panel, “stiamo lavorando affinché Yescapa diventi punto di riferimento in Europa per i viaggi itineranti, dando sempre maggiori opportunità di viaggiare alla community e facilitando l’accesso a tutti i tipi di veicoli ricreazionali”.


Startup

Startup

Nome: Settore: Plus:

Dispositivi elettronici in abbonamento con Grover Grover Prodotto come servizio Abbonandosi al servizio gli utenti hanno accesso a tutte le tecnologie più innovative offerte in pay-as-you-go

Caratteristiche:

Attraverso il proprio sito e la rete di partner Grover offre gadget e tecnologie che gli utenti possono utilizzare per quanto tempo desiderano a fronte di un abbonamento mensile, trimestrale o annuale

di Antonella Ilaria Totaro

Che si voglia essere al passo con le ultime tecnologie, provare uno smartphone prima di acquistarlo o utilizzare una GoPro per una breve vacanza, Grover, startup con sede a Berlino, offre l’accesso a gadget elettronici di ogni tipo abbonandosi al suo servizio di prodotto-come-servizio. Evitando così l’acquisto.

www.getgrover.com

Il servizio è attivo al momento solo in Germania. L’utente può sottoscrivere l’abbonamento sul sito o nei negozi dei partner come Media Markt e Saturn. Il cliente paga il primo mese di abbonamento e riceve il prodotto nel giro di due o tre giorni.

“Non è richiesto alcun deposito, anzi Grover copre la metà dei costi di riparazione in caso di danno” spiega Thomas Antonioli, Chief Financial Officer dell’azienda. Con un abbonamento a partire da 14,90 euro al mese gli utenti possono accedere a proiettori, cuffie, lenti VR, videogiochi per il tempo desiderato, prima di restituirli. Tutti i prodotti restano di proprietà dell’azienda, ma per gli utenti il vantaggio è chiaro: accesso a gadget e tecnologie, libertà di scelta e piena flessibilità nell’usare, cambiare, comprare, e restituire l’oggetto. Inserita nei CE100 dell’Ellen MacArthur Foundation, Grover è stata fondata nel 2015 da Micheal Cassau, ex Investment Professional di Goldman Sachs, affascinato dai possibili incroci tra possesso ed esperienza. Con 50 dipendenti e tassi di crescita annuali del 20% l’azienda sta dimostrando come anche nell’elettronica sia possibile separare accesso e possesso dei beni. L’azienda che sta pensando all’espansione in Europa e negli USA, nel 2018 ha chiuso un round d’investimenti di 37 milioni di euro. Segno che l’elettronica come servizio ha colto nel segno.

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Rubriche Thinking resilience

Che spreco di rifiuti Richard William Heinberg è un giornalista americano, ha scritto su questioni energetiche, economiche ed ecologiche, tra le quali il problema dell’esaurimento delle scorte petrolifere. È autore di 13 libri, e attualmente è Senior fellow presso il Post Carbon Institute.

Trash in America, Frontier Group; https://frontiergroup.org/ reports/fg/trash-america J. McCarthy, “The US is rapidly running out of landfillspace”, Global Citizen; www.globalcitizen.org/en/ content/us-landfills-arefilling-up “Extended producer responsibility: the answer to cuttingwaste in the UK?”, The Guardian; www.theguardian.com/ suez-circular-economyzone/2017/may/10/ extended-producerresponsibility-theanswer-to-cutting-wastein-the-uk The Natural Step, https://thenaturalstep.org

Perché non rendere circolare l’economia in modo che gli scarti di un processo possano alimentare altri processi produttivi, riducendo la necessità di estrarre nuove risorse e di smaltire rifiuti? Per raggiungere questo obiettivo occorre ridurre, riusare, riparare e riciclare e sostituire le fonti non rinnovabili con altre rinnovabili ovunque sia possibile. L’economia circolare è oggi necessaria come non mai. Nei soli Usa si producono circa 260 milioni di tonnellate (US short tons) di rifiuti all’anno sommando quelli domestici e quelli delle attività commerciali, pari a poco più di 2 chilogrammi al giorno a persona (dati Epa 2015). Ma questo rappresenta solo il 3% di tutti i rifiuti solidi generati dall’economia statunitense: il restante 97% viene dai processi agricoli e industriali (per esempio attività estrattive e lavorazione). Se il flusso totale di rifiuti (incluse le acque reflue) fosse ripartito su base pro capite, ogni americano genererebbe 1,8 milioni di chilogrammi di rifiuti all’anno (includendo i rifiuti prodotti per i beni esportati). Solo circa un terzo dei rifiuti provenienti da abitazioni e attività commerciali viene riciclato; la percentuale relativa ai rifiuti industriali è parecchio inferiore, pari a solo il 2% del totale... Nel frattempo le 2.000 discariche attive negli Stati Uniti, nelle quali viene smaltita questa mole di rifiuti domestici, stanno raggiungendo il limite della capacità. Gli americani dovrebbero riciclare di più. In questo modo ridurrebbero l’inquinamento, rallenterebbero i cambiamenti climatici e mitigherebbero l’esaurimento delle risorse e la distruzione dell’ambiente legate alle attività minerarie e a taglio e trasporto del legname. Ma, purtroppo, l’industria del riciclo ha dei problemi. Negli ultimi anni i prezzi degli scarti metallici e cartacei sono scesi e la Cina non è più interessata ad accettare rifiuti metallici e plastici dagli Usa. La principale sfida sistemica è rappresentata dal fatto che raccogliere i rifiuti eterogenei in piccole quantità, trasportarli presso un impianto dedicato, dividerli per tipo, ripulirli, imballarli e trasportarli di nuovo, quasi sempre costa di più e richiede maggiori quantità di energia rispetto allo smaltimento in una discarica locale. I rifiuti sono ciò che gli economisti chiamano “danno collaterale”: non sono mai un elemento

desiderato e di valore del processo di produzione, sebbene impongano costi inevitabili che gravano spesso su tutta la collettività. L’obiettivo delle aziende è produrre di più, e questo si traduce nella strategia dell’obsolescenza programmata, fabbricare prodotti destinati a essere sostituiti in breve tempo invece di essere riusati e riparati. Occorrono due cose per rendere circolare l’economia. Primo: un impegno sistemico collettivo al progetto. Il che significa l’adesione da parte di industria, governo e cittadinanza. Fare le cose in modo da facilitarne il riciclo. Concentrarsi sul principio dell’estensione della responsabilità del produttore. I produttori di automobili, per esempio, utilizzano già un’ampia gamma di materiali riciclati. Ma rendere l’industria automobilistica davvero circolare richiederà partecipazione lungo tutta la catena di rifornimento, il sostegno del governo attraverso incentivi e normative, e un’educazione dei consumatori. Ci aspetta un lavoro imponente visto che altre industrie, come quella dell’elettronica di consumo, sono molto più indietro rispetto ai produttori di automobili. Ma l’altra cosa che dobbiamo fare rappresenta una sfida ancora più ardua: abbandonare l’imperativo della crescita. Finché la massimizzazione del profitto e la crescita generale saranno obiettivi impliciti dell’economia, il riciclo resterà un’industria elitaria che funzionerà per persone relativamente ricche che possono permettersi di assecondare la loro coscienza ecologica. Un’economia davvero circolare sarà quella in cui i processi industriali saranno innocui per le persone e per l’ambiente. Questo significa che tutta la “crescita” dovrà verificarsi nella sfera culturale e non nei flussi di materiali ed energia. Dobbiamo concentrarci sulla felicità umana invece che sul pil; sui tassi di partecipazione nel campo dell’istruzione e delle arti invece che sui grafici delle vendite. Attualmente siamo lontani dall’avere un’economia circolare: lo dimostrano le discariche straripanti, i giganteschi barconi di rifiuti e anche il vortice di plastica che galleggia nell’Oceano Pacifico. Il monumento alla nostra civiltà sarà una montagna di spazzatura? Possiamo fare meglio, ma dovremo prenderci un impegno sistemico nella costruzione di un’economia circolare a stato stazionario i cui obiettivi siano la bellezza e la felicità invece della crescita fine a se stessa.


Rubriche

Circular by law

L’economia circolare avanza, le azioni sul clima no Francesco Petrucci in collaborazione con Rivista “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” e Osservatorio di normativa ambientale su www.reteambiente.it

Circular Plastic Alliance https://ec.europa.eu/growth/ industry/policy/circularplastics-alliance_en

Il Piano d’azione per l’economia circolare lanciato a dicembre 2015 può dirsi completato o in via di completamento. Secondo quanto affermato nella Relazione della Commissione europea diffusa il 4 marzo 2019 le 54 azioni previste dal Piano sono state attuate o sono in fase di attuazione. L’attuazione del Piano ha accelerato la transizione verso un’economia circolare in Europa favorendo l’occupazione (+6% rispetto al 2012 nei settori dell’economia circolare) e generando nel 2016 nelle attività circolari come la riparazione, il riutilizzo o il riciclaggio quasi 147 miliardi di euro di valore aggiunto, con investimenti pari a circa 17,5 miliardi di euro. Successi del Piano d’azione per l’economia circolare sono l’approvazione delle direttive sui rifiuti in vigore dal 4 luglio 2019, il regolamento sui fertilizzanti che spinge sul recupero di rifiuti organici su cui si è raggiunto l’accordo il 12 dicembre 2018. Così come la Strategia sulla plastica di gennaio 2018 che ha prodotto la direttiva sulla plastica monouso in via di definitiva approvazione dopo l’accordo del 18 gennaio 2019 e la campagna volontaria di impegno in materia (Circular Plastic Alliance) lanciata dalla Commissione cui hanno aderito già 70 imprese e che porterà il mercato della plastica riciclata a un +60% entro il 2025. Infine il 25 febbraio 2019 è stato chiuso l’accordo sulla bozza di regolamento che introduce parametri “low carbon” da applicare agli strumenti finanziari, per orientare i consumatori verso prodotti di investimento “green”. Resta da capire come stimolare il mercato verso i prodotti “circolari” dato che nel 2016 solo il 12% delle risorse materiali utilizzate nell’Ue proveniva da prodotti riciclati e materiali recuperati (dati Eurostat 4 marzo 2019). Se l’Europa può essere soddisfatta delle azioni per spingere l’economia circolare, meno felici sono le azioni per ridurre i gas a effetto serra. La Commissione europea aveva lanciato il 28 novembre 2018 la Strategia europea a lungo termine per combattere il riscaldamento globale, ma le proposte sono state ritenute insufficienti dal Parlamento Ue che ha ribadito che occorre ridurre le emissioni di gas serra del 55% al 2030 (l’obiettivo della Commissione è il 40%), al fine di raggiungere il saldo netto di zero emissioni al 2050 come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015. Buone notizie sul clima arrivano però da Eurostat (dati febbraio 2019) secondo cui tra il 2008 e il 2016

si è verificato un calo generalizzato (-26%) delle emissioni totali dei gas acidificanti prodotti dalle imprese della Ue. Intanto dal 24 dicembre 2018 sono in vigore il regolamento Ue sulla governance dell’energia e le nuove direttive europee su energie rinnovabili ed efficienza energetica. Obiettivo delle direttive: rinnovabili al 32% ed efficienza al 32,5% al 2030, recepimento da parte degli Stati entro il 30 giugno 2021. L’Agenzia europea per le sostanze chimiche ha aggiornato i format per presentare le domande di autorizzazione delle sostanze chimiche ai sensi del regolamento “Reach”. Le novità si applicano dal 1 giugno 2019. Sempre in materia di Reach dal 7 luglio 2020 sono in vigore le restrizioni e divieti di immissione sul mercato di quattro “ftalati” come stabilito dal regolamento 2018/2005/Ue. Dall’1 gennaio 2020 invece scattano le regole Reach per i nanomateriali (regolamento 2018/1881/Ue). È invece vigente dal 31 gennaio 2019 il regolamento 2019/37/Ue che aggiorna le sostanze utilizzabili nei materiali in plastica che vengono a contatto con gli alimenti. I materiali conformi alle vecchie regole potranno essere immessi sul mercato fino al 31 gennaio 2020 e rimanervi fino a esaurimento scorte. Aggiornamenti anche per le certificazioni di qualità. Il 19 dicembre 2018 sono state approvate le “buone pratiche ambientali” ai fini della certificazione Emas per automobili e apparecchiature elettriche ed elettroniche (decisioni 2019/62/Ce e 2019/63/Ce) mentre con regolamento 2018/2026/Ue è stata aggiornata la dichiarazione ambientale Emas a carico delle aziende certificate. Aggiornati anche i criteri ecologici per ottenere il marchio di qualità Ecolabel Ue per la carta grafica e il tessuto carta (decisione 2019/70/Ue). Per quanto riguarda i produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee), il regolamento 2019/290/Ue ha dettato un format comune per la registrazione dei produttori di Aee e per la comunicazione annuale degli apparecchi immessi sul mercato. Infine dal 1° marzo 2020 saranno efficaci le dieci direttive (dalla 2019/169/Ue alla 2019/178/Ue) che consentono ancora di usare cadmio e piombo in una serie di apparecchiature in deroga al divieto generale previsto dalla direttiva in materia del 2011.

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