MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE
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27 | maggio-giugno 2019 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente
Economia circolare 3.0 •• Alexandre Lemille: esseri umani come predatori, natura come preda •• Schmidt: il valore reale del cibo •• Sandrine Dixon-Decleve: il tempo è ora
Circular Economy Stakeholder Conference •• Reportage: tutti insieme, per l’Europa •• Lo stato dell’economia biobased in Europa •• LCA, uno strumento indispensabile
Arriva l’Asia •• Dossier Bioeconomy Thailandia •• Giappone circolare •• Il mercato dei rifiuti elettronici in India
Soluzioni •• Plastica: il riciclo entra in corsia •• Un barattolino sostenibile e circolare •• Progetto Retrace
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Editoriale
di Emanuele Bompan
Extinction Rebellion, https://rebellion.earth Fridays For Future, www.fridaysforfuture.it 350.org
XR
Dichiariamo l’emergenza planetaria. Anche Materia Rinnovabile abbraccia la richiesta proveniente dalla piazza di Extinction Rebellion, il movimento eco-rivoluzionario pacifista che ha occupato le vie e i ponti di Londra per due settimane e che presto potrebbe estendersi anche fuori dal Regno Unito. Extinction Rebellion chiede tre cose: 1) il governo deve dire la verità dichiarando lo stato di emergenza climatica ed ecologica, collaborando con altre istituzioni per comunicare l’urgenza del cambiamento; 2) fermare la perdita di biodiversità; 3) ridurre le emissioni di gas a effetto serra fino allo zero netto entro il 2025. Extinction Rebellion si va ad aggiungere alle proteste di Fridays For Future e a quelle di lunga data degli americani di 350.org. Con buona pace dei media che avevano inizialmente caratterizzato le proteste come “tanto rumore per nulla.” Invece la folla ribelle ha chiesto e ottenuto. Jeremy Corbyn ha sostenuto una mozione in parlamento per dichiarare l’emergenza climatica, così come Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese. Numerosi comuni hanno fatto altrettanto nel Regno Unito e nel resto d’Europa. L’onda sta crescendo. Il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e la devastazione planetaria non hanno subito alcun arresto, nonostante i continui tentativi di trasformare il settore economico, di regolare le emissioni, di proteggere la biodiversità. Le misure adottate fino a oggi sono state timide e fondate sul compromesso. Basta vedere l’ultimo rapporto IPBES sull’erosione del capitale naturale. Come ci ricorda Greta Thunberg, la casa è in fiamme.
E quando brucia qualcosa bisogna agire con la massima rapidità e gravità. E all’umanità questa gravitas ambientale è mancata. Abbiamo trattato la distruzione del pianeta come una commedia, discettando con maschere assurde, di volta in volta negazionisti, petrolieri, esperti di green marketing, ambientalisti d’opportunità, sovranisti degni di essere dimenticati non solo dalla storia, ma anche dalla cronaca. Si allarga la scala della protesta: potenzialmente potrebbe divenire un ’68 ambientale, diffondendo il seme della rivolta pacifica, colta, creativa, situazionista. Sempre più cittadini comprendono quanto critica stia diventando la trasformazione globale. Come dice brillantemente la giornalista italiana Elisabetta Corrà “la rapidità dei cambiamenti climatici e a maggior ragione l’estinzione della biodiversità terrestre ci pongono cioè in quella condizione del tutto speciale che Hannah Arendt definì ‘il terrore della necessità’. [...] Ma la Arendt sapeva che il riconoscimento di una enorme minaccia comune è un innesco politico formidabile per grossi cambiamenti, che si tratta poi di governare o di subire. Extinction Rebellion, facendo appello alla verità delle cose, pone la società britannica [e non solo] dinanzi alla tremenda necessità di un risveglio brutale, e pragmatico. Il terrore della necessità, allora, è il porsi nelle condizioni psicologiche di sentire, fin dentro ogni fibra del proprio corpo e del proprio cervello pensante, che il pericolo è gravissimo, incombente e mortale”. Cosa fare dunque? Serve uscire del tutto dalla nostra zona di comfort e aprire completamente lo sguardo all’emergenza. Che si sia top manager d’impresa, ricercatrice o figura politica, è giunto il momento di lavorare per trasformare la nostra economia, cambiando innanzitutto – e ciò sarà difficile – le nostre abitudini, ma soprattutto usando il nostro ingegno per garantire a tutti, come ben illustra Kate Raworth nella sua “economia della ciambella”, equità sociale senza erodere le risorse del pianeta. Un lavoro che una rivista di settore come Materia Rinnovabile deve avere ben in testa e continuare a offrire spunti di riflessione, buone pratiche, anche criticando se stessa e i suoi sostenitori più stretti. La casa è in fiamme e noi vogliamo essere acqua.
È arrivato il momento di investire in un piano di emergenza
di Sandrine DixsonDecleve
Sandrine DixsonDecleve è co-presidente del Club di Roma, e ha 30 anni di esperienza sia in politiche europee e internazionali sia in direzione e strategie d’impresa. Si occupa in particolare della crisi climatica a livello europeo e internazionale, di sviluppo sostenibile, di crescita verde, di soluzioni energetiche convenzionali e sostenibili e di finanza sostenibile.
per il clima L’ondata globale di scioperi studenteschi per il clima e la massiccia campagna di disobbedienza civile non violenta guidata da Extinction Rebellion hanno portato sotto i riflettori la minaccia esistenziale posta dai cambiamenti climatici. Considerati anche i chiari avvertimenti che emergono dal rapporto dell’ottobre scorso del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) a proposito dell’impatto conseguente a un aumento delle temperature di 1,5 e di 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, e degli effetti devastanti dei disastri legati al clima, non possiamo trarre che una conclusione: è ora di agire, adesso! L’unica risposta possibile è un’azione di emergenza per trasformare il nostro sistema sociale, economico e finanziario. Cinquant’anni fa il Club di Roma aveva già messo in guardia il mondo sulle sfide ambientali e demografiche che si sarebbero dovute affrontare. Il messaggio centrale de I limiti dello sviluppo – Un rapporto del Club di Roma, era che perseguire la crescita illimitata di popolazione, beni materiali e risorse in un pianeta finito avrebbe alla fine portato a un collasso sia del sistema economico sia ambientale. Sfortunatamente sulla base di evidenze scientifiche sempre più chiare emerse nei decenni successivi, questa conclusione resta valida oggi come allora, a meno che l’umanità non cambi radicalmente strada. Il futuro non deve essere necessariamente disastroso. Se si riconosce la crisi climatica è possibile mettere le basi per un rinascimento della società, che porti al benessere per tutti e all’armonia fra esseri umani e natura. Ma serve un piano di azione d’emergenza e di ampia portata, portato avanti a livello collettivo. Un aspetto fondamentale di questo piano consiste nel passaggio alle rinnovabili. Secondo i dati recenti pubblicati dall’Iea infatti, nel 2018 le emissioni di CO2 legate all’energia sono aumentate dell’1,7% rispetto all’anno precedente. I combustibili fossili coprono circa il 70% della crescita della domanda energetica globale e il
30% di tutte le emissioni di CO2 legate all’energia sono prodotte da centrali a carbone. Nonostante la crescita delle fonti rinnovabili abbia raggiunto percentuali a due cifre, non è riuscita a tenere il passo con l’aumento significativo della domanda elettrica globale. Il livello attuale di investimenti nelle rinnovabili è decisamente insufficiente per orientare il panorama globale dell’energia verso un cammino più pulito. Le seguenti azioni prioritarie, delineate nel piano di emergenza climatica del Club di Roma, rispondono direttamente a questo bisogno urgente, e offrono una tabella di marcia precisa. 1. Fermare la crescita dei combustibili fossili e sospendere i sussidi entro il 2020. Nessun nuovo investimento in ricerca e sviluppo per carbone, petrolio e gas entro il 2020, e uscita dall’industria fossile entro il 2050. Sospensione dei sussidi ai combustibili fossili entro il 2020. Indirizzare questi fondi alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica. 2. Raddoppiare la capacità eolica e solare ogni 4 anni, triplicare gli investimenti nelle rinnovabili, nell’efficienza energetica e nelle tecnologie a bassa emissione entro il 2025. Dare precedenza ai paesi in via di sviluppo per evitare che impegnino risorse in un’economia ad alta intensità di carbonio, e adottare tassonomie di finanza sostenibile e obblighi di informazione per investitori privati e pubblici. 3. Imporre prezzi e tasse che riflettano il vero costo dell’utilizzo dei combustibili fossili e delle loro emissioni entro il 2020. Introdurre prezzi minimi del carbonio e far convergere i mercati del carbonio e i loro strumenti a livello globale. Includere il carbonio nella tassazione, attraverso tasse sui consumi mirate. Orientare le entrate fiscali alla ricerca, sviluppo e innovazione di soluzioni a bassa emissione, riducendo le tasse o sostenendo il sistema di welfare. Finché la crisi climatica non verrà affrontata come emergenza, questi dibattiti resteranno però meramente accademici. È giunto il momento di correre ai ripari se vogliamo non solo sopravvivere, ma anche uscirne rafforzati, come civiltà prospera e in equilibrio con i nostri limiti planetari.
8
M R MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE www.renewablematter.eu ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Emanuele Bompan Coordinamento editoriale Marco Moro direttore editoriale di Edizioni Ambiente Hanno collaborato a questo numero Irene Baños Ruiz, Silvia Barbero, Francesco Bassetti, Mario Bonaccorso, Ilaria Nicoletta Brambilla, Carol J. Clouse, Chiara De Carli, Emanuele Del Rosso (vignetta a pag. 5), Sandrine Dixson-Decleve, Soumik Dutta, Alexandre Lemille, Cillian Lohan, Giorgia Marino, Amina Pereno, Francesco Petrucci, Elisa Poggiali, D. Reike, Antonella Ilaria Totaro, W.J.V. Vermeulen, S. Witjes, Silvia Zamboni Editor Maria Pia Terrosi (edizione italiana) Francesco Bassetti (edizione inglese) Coordinamento di redazione e redazione Paola Cristina Fraschini
27|maggio-giugno 2019 Sommario
Emanuele Bompan
5
XR
Sandrine Dixson-Decleve
7
È arrivato il momento di investire in un piano di emergenza per il clima
10
NEWS
Walter J.V. Vermeulen, Denise Reike, Sjors Witjes
12
Economia circolare 3.0
Alexandre Lemille
16
Progettare un sistema circolare equo che salvaguardi l’umanità
Emanuele Bompan
20
L’Europa che verrà
Francesco Bassetti
22
Il valore reale del cibo Intervista a Peter Schmidt
Ilaria Nicoletta Brambilla
25
Circular Economy Stakeholder Conference
Cillian Lohan
28
Riflessioni sulla Piattaforma europea degli stakeholder per l’economia circolare
Mario Bonaccorso
32
Dossier Thailandia Thailandia: una bioeconomia molto biotech
Silvia Zamboni
37
Dossier Giappone Giappone circolare
a cura della redazione
Think Thank
Policy
Design & Art Direction Mauro Panzeri Impaginazione e infografiche Michela Lazzaroni Community manager Antonella Ilaria Totaro Traduzioni Patrick Bracelli, Erminio Cella, Laura Coppo, Franco Lombini, Mario Tadiello
World a cura della redazione
42
Ecco lo stato dell’economia biobased in Europa Intervista a Michael Carus
a cura della redazione
46
L’Italia ha una nuova strategia per la bioeconomia
Ilaria Nicoletta Brambilla
48
Itelyum: economia circolare, visione sistemica
9
Coordinamento generale Anna Re
Soumik Dutta
50
Urban mining: il mercato miliardario di rifiuti elettronici dell’India
Chiara De Carli
53
Plastica: il riciclo entra in corsia Intervista a Susanne Backer
Giorgia Marino
56
C’è del buono nella CO2 (basta saperla prendere) Intervista a Fabrizio Pirri
Carol J. Clouse
58
Combattere la plastica usa-e-getta
Responsabile relazioni esterne Anna Re Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa press@renewablematter.eu Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it
Ilaria Nicoletta Brambilla
62
Un barattolino sostenibile e circolare
Abbonamenti Solo on-line su www.renewablematter.eu/it/moduloabbonamento
Elisa Poggiali
64
Bellezza ecologica
Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers
Silvia Barbero, Amina Pereno
68
Progetto RETRACE
Irene Baños Ruiz
70
LCA, uno strumento indispensabile Intervista a Marcus Wendin
a cura della redazione
73
Packaging innovativo e sostenibile
74
3SIXTY: le bottigliette di plastica diventano biancheria
75
Piñatex: il tessuto ottenuto dalle foglie di ananas
76
Certificare la plastica riciclata con Flustix
77
Gioielli da argento sovraciclato con Floios
78
Circular by law Clima: gli esperti Onu invitano ad azioni decise
Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright ©Edizioni Ambiente 2019 Tutti i diritti riservati
Startup Antonella Ilaria Totaro
Rubriche Francesco Petrucci
In copertina Particolare della bandiera giapponese. Qui sopra la sua costruzione grafica. Wikimedia Commons CC 3.0
10
materiarinnovabile 27. 2019
NEWS
a cura della redazione
Acqua viva
Bioeconomia e Politica agricola comune
American Dream
Selezionata tra 20 candidati provenienti da tutto il mondo, l’italiana Hexagro Urban Farming lavorerà per 6 mesi a fianco dei ricercatori di Salazzurra, il polo di Research&Development, del gestore idrico italiano, Gruppo Cap. Hexagro ha realizzato il progetto Living Farming Tree, un orto automatizzato high-tech, che consente la coltura di piante medicinali e aromatiche tramite l’esperienza interattiva IoT. Si tratta di un sistema a basso costo e altissima produttività, che può far risparmiare fino al 90% di acqua, il 70% di fertilizzante e ottenere coltivazioni fino a 3 volte più veloci grazie al metodo di aeroponica ad alta pressione. Le torri aeroponiche, metodo di coltivazione senza l’uso di terreno o di crescita nel suolo, possono aiutare l’agricoltura tradizionale a sostenere le enormi sfide legate ai cambiamenti climatici. Il programma #waterevolution Innovate H2O del Gruppo Cap è nato per sostenere le idee più promettenti e gli input più innovativi legati all’innovazione circolare nel sistema idrico integrato.
Nell’ambito della futura Politica agricola comune (Pac), la Commissione europea non approverà il piano strategico nazionale di uno Stato membro che non include la promozione della bioeconomia in agricoltura. Queste le parole del commissario europeo all’agricoltura Phil Hogan. Una decisione che rimarrà anche nella prossima legislatura. “La bioeconomia è una
Gli Usa alla scoperta dell’economia circolare. Il GreenBiz organizza il 18-20 giugno a Minneapolis, Circularity 19. Il mega-evento riunirà più di 500 leader di pensiero e professionisti per definire e accelerare il passaggio all’economia circolare. In parallelo si terrà una fiera focalizzata sulle soluzioni circular. Il 15 e 16 agosto, a Washington DC, invece, torna la quinta edizione dell’Annual Sustainability and Circular Economy Summit, evento per key-player del settore. Quest’anno si lavorerà molto su come implementare soluzioni circular nel mondo delle corporation americano. Due eventi di cui Materia Rinnovabile sarà partner e racconterà nei suoi articoli.
Legno trasparente Rendere trasparente il legno mantenendone le proprietà di resistenza e isolamento. I ricercatori del Kth Royal Institute of Technology di Stoccolma hanno realizzato questo nuovo materiale rimuovendo chimicamente la lignina, un componente delle pareti cellulari. “Quando la lignina viene rimossa, il legno diventa bianco, ma poiché il legno non è naturalmente trasparente otteniamo questo effetto lavorando a scala nanometrica”, spiega Lars Berglund, professore al Wallenberg Wood Science Center di Kth. Rimossa la
questione molto importante che richiede un’azione a livello europeo e ora si afferma esplicitamente come parte dei nove obiettivi dell’Ue della Pac riformata” ha dichiarato Hogan. Attraverso i piani strategici nazionali stabiliti nella Pac proposta, tutti gli Stati membri dovranno spiegare come intendono raggiungere questi nove obiettivi, compresa la promozione della bioeconomia.
lignina, il substrato bianco poroso risultante viene impregnato con un polimero trasparente – glicole polietilenico – accoppiando le proprietà ottiche dei due materiali.
News
Prodotta dall’Università di Eindhoven, Noah è considerata la prima auto (parzialmente) biodegradabile. Delle dimensioni di una citycar, Noah è composta da pannelli biobased. Nello specifico il materiale dello chassis è un biocomposito con una struttura a nido d’ape fatta
di lino e zucchero, mentre gli elementi strutturali sono realizzati con fibre di lino. Biposto, lunga 2 metri e larga 1,70, Noah pesa solo 360 kg (senza batterie) ed è elettrica. Il prototipo, spiegano gli inventori, serve soprattutto per far prendere coscienza delle immense possibilità di ridurre le emissioni e gli impatti ambientali nel settore automobilistico.
Accordo Eni-Pertamina
La gogna della plastica
La compagnia petrolifera italiana Eni e l’omologa indonesiana Pertamina hanno siglato un accordo per progetti di economia circolare, realizzazione di prodotti a basse emissioni di carbonio e sviluppo di energie rinnovabili. Il MoU include opportunità di collaborazione nello sviluppo di tecnologie per la valorizzazione dei rifiuti, biofixaton di CO2 e riutilizzo per la mobilità sostenibile sfruttando tecnologie proprietarie di Eni, sistemi waste-to-energy, waste-tohydrogen, conversione dei fanghi di depurazione nella produzione di biometano mediante digestione anaerobica, biocarburanti avanzati da biomassee prodotti chimici da biomasse. Eni e Pertamina hanno anche firmato un accordo di intesa per una joint venture finalizzata alla costruzione di una bio-raffineria di base in Indonesia.
New Plastic Economy è il nuovo report pubblicato dalla Ellen MacArthur Foundation in collaborazione con UN Environment per raccogliere le strategie per mettere la plastica al bando, in particolare all’interno delle grandi corporation globali. Nel report (scaricabile da newplasticseconomy.org)
Blockchain per i negoziati climatici Può la blockchain aiutare l’implementazione dell’Accordo di Parigi, in particolare l’articolo 6 sulla riduzione delle emissioni? Ne è convinta la Blockchain for Climate Foundation, no-profit canadese che sta lavorando su un sistema Ethereum per ottimizzare i meccanismi di reporting delle emissioni e per facilitare lo scambio di quote di carbonio tra chi riduce le emissioni e chi è costretto a compensare acquistando carbon credit da altri paesi. “Rendicontare correttamente la riduzione delle emissioni e la cessione delle quote di emissioni è fondamentale”, spiega Joseph Pallant di Blockchain for Climate. “La blockchain basata su Ethereum servirebbe a creare un sistema open source, accessibile a tutti, trasparente
vengono offerti i dettagli sul consumo di plastica di marchi quali Carrefour, Colgate Palmolive, Mars, Incorporated, Nestlé, SC Johnson, The Coca-Cola Company e Unilever, e come pensano di sostituire queste plastiche monouso. Le aziende intervistate aumenteranno il contenuto di plastica riciclata nel loro
ed efficace che permetterebbe di rendere più trasparenti gli scambi”. Il sistema è stato testato in aprile e presentato a vari stakeholder, inclusa la Banca Mondiale, alcuni governi e la stessa United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC).
imballaggio in media del 25% entro il 2025, rispetto all’attuale media globale di appena il 2%. Quaranta marchi e rivenditori stanno pilotando o espandendo i sistemi di riutilizzo e ricarica. Infine tutti concordi: stop completo alle plastiche monouso come bicchieri, posate e altro.
Stefan Schweihofer/Pixabay
L’auto che va nell’organico
11
12
materiarinnovabile 27. 2019
Economia
circolare 3.0
Fare ordine nei nuovi concetti di circolarità riorganizzando il concetto delle 3R in una gerarchia a 10R. di Walter J.V. Vermeulen, Denise Reike e Sjors Witjes
International Sustainable Development Research Society, http://isdrs.org Copernicus Institute for Sustainable Development, www.uu.nl/ en/research/copernicusinstitute-of-sustainabledevelopment
In anni recenti il concetto di economia circolare ha ricevuto sempre maggiore attenzione, sia nel settore scientifico che in ambito decisionale politico. Anche se vari studiosi e professionisti lo presentano come una novità, in realtà è stato costruito sull’eredità di alcuni predecessori, concetti come il riciclo e la separazione dei rifiuti, l’ecologia industriale, i parchi eco-industriali e la simbiosi industriale. Diversi di questi risalgono agli anni ’80 dello scorso secolo, come i concetti di gerarchia dei rifiuti (delle 3R, delle 4R ecc.) e della ricaduta a cascata. Il concetto delle 3R è diventato usuale in molte normative nazionali sui rifiuti in tutto il mondo. ESTRAZIONE
PRODUZIONE DI MATERIALI
R7
Già presidente della International Sustainable Development Research Society, Walter Vermeulen è professore associato presso il Copernicus Institute for Sustainable Development della Utrecht University. Denise Reike è junior assistant professor e ricercatrice presso il Copernicus Institute for Sustainable Development. Sjors Witjes è assistente universitario presso l’Iinstitute for Management Research della Radboud University.
R0 --> R9: Gerarchia delle
opzioni di conservazione del valore (R) nell’economia circolare per consumatori e business
R0 = rifiutare C = consumatori R1 = ridurre B = business R2 = rivedere, riusare R3 = riparare R4 = rinnovare R5 = rilavorare R6 = riproporre R7 = riciclare i materiali R8 = recuperare energia R9 = ri-estrarre
R7
Think Tank Figura 1 | Mappatura delle opzioni di conservazione dell’economia circolare: fabbricazione e il ciclo di vita utile del prodotto Fonte: Reike et al. 2018.
R2
vendita iniziale del prodotto flussi iniziali di rifiuti
Estensione del tempo di vita utile in paesi meno sviluppati (di basso valore)
riciclo del prodotto vendita secondaria del prodotto vendita dei profitti derivati
R9 Estrazione da discariche
Invio a paesi meno sviluppati
R8
(Fornitura di acqua distillata)
Fornitura di energia
Incenerimento
Cannibalizzazione
PRODUZIONE DI COMPONENTI
FABBRICAZIONE DEL PRODOTTO FINALE / MARCHI
R5
VENDITA AL DETTAGLIO
R1
R0
CONSUMATORI
R4
RACCOLTA
SMALTIMENTO IN DISCARICA
R2/3
C C
R7
R2
R2
R3
C
B
B
B
B
B
R2
C B
R6 Riproposizione da terze parti
R5
R4 Rilavorazione da terze parti
R7 Rinnovo da terze parti
Vendita di seconda mano
Riparazione
Acquisizione analisi separazione vendita
Triturazione distrazione rilavorazione
R7
13
14
materiarinnovabile 27. 2019 Tabella 1 | Descrizioni comunemente usate delle opzioni di conservazione del valore e parole preferibilmente da evitare Fonte: Reike et al. 2018. Cicli di vita di due prodotti distinti: Opzioni per la conservazione del valore
CICLO DI VITA 1: creazione e uso del prodotto
CONSUMATORI
R0 – R9:
Rifiutare:
R0
Ridurre:
CICLI CORTI: R0-3
R1
Rivendere/ Riusare:
R2
Riparare:
R3
CICLI MEDIO-LUNGHI: R4-6
Rinnovo:
R4
Rilavorazione:
R5
Riproporre:
R6
CICLI LUNGHI R7-9
Riciclare i materiali:
R7
Recuperare (energia):
R8
Ri-estrarre
(R9)
PRODUTTORI/RIVENDITORI AL DETTAGLIO
CICLO DI VITA 2: ideazione e progettazione del prodotto
PROGETTISTI
non applicabile
rifiutare l’uso di materiali pericolosi o di materiali vergini; progettare il processo produttivo per evitare scarti
usare meno frequentemente i prodotti acquistati; usarli più con maggiore cura e più a lungo
non applicabile
come passi espliciti nella progettazione del prodotto: usare meno materiale per unità di produzione; o “dematerializzazione”
comprare di seconda mano, o trovare un acquirente per un prodotto non usato o usato poco, possibilmente dopo una ripulita o un ripristino di piccola entità; usare aste online da consumatore a consumatore per i prodotti usati
“riuso diretto” come attività economica attraverso collezionisti e rivenditori, possibilmente con controlli di qualità, ripulitura e piccole riparazioni; (commerciale e non commerciale); “riuso diretto” di resi invenduti o prodotti con imballo danneggiato; riusi ripetuti dell’imballaggio (da trasporto)
“riuso nella fabbricazione” utilizzo di materiali riciclati
da parte del consumatore nei suoi dintorni, o in loco, o attraverso un’azienda di riparazione o presso un “repair café”
mandare i prodotti riacquisiti presso i propri centri di riparazione, a centri di riparazione controllati dal produttore, o di terze parti; distinguere la “riparazione pianificata” come parte di un piano di manutenzione per una lunga durata dalle riparazioni “ad-hoc”
rendere possibile la riparazione facile
non applicabile
la struttura generale dei grandi prodotti multicomponente rimane inalterata, mentre molti componenti vengono sostituiti o riparati, dando luogo a un complessivo “upgrade” della qualità del prodotto. Esempi: edifici, aeroplani, treni, escavatori minerari
non applicabile
l’intera struttura di un prodotto multi-componente viene disassemblata, esaminata, pulita e quando necessario sostituita o riparata in un processo industriale, possono essere impiegate parti riciclate
scelta di comprare meno o usare meno; rifiutare imballaggi inutili e sacchetti di plastica
Parole generali non specificate (da evitare in futuro)
“eliminare i rifiuti, non smaltire più” “come per tutte le azioni degli utenti”
confuso con “rinnovo”
alcuni si riferiscono a questo come “ricondizionamento”, “ri-processamento” o “ripristino”: meglio evitare riusare beni scartati o componenti adattati per un’altra funzione:
alcuni usano: “ripensare” o “ammodernamento”: meglio evitare
restituire come flussi differenziati di rifiuti
lavorazione di flussi misti di prodotti postconsumo o flussi di rifiuti post-produttore impiegando costose apparecchiature tecnologiche, mediante triturazione, fusione e altri processi per catturare materiali (quasi) puri
utilizzare materiali riciclati
“riciclare” è frequentemente e confusamente usato per rappresentare tutte le alternative: meglio evitare
non applicabile
catturare l’energia contenuta nei rifiuti, collegandola all’incenerimento in combinazione con la produzione di energia, acqua distillata o altri usi della biomassa
non applicabile
“recupero” spesso usato come equivalente di riciclo in generale: meglio evitare
non applicabile
riappropriazione dei materiali dopo lo smaltimento in discarica: “cannibalizzazione”; estrazione hi-tech da discariche o da aree urbane
utilizzare materiali riciclati
non applicabile
Think Tank
La tabella 1 fornisce la principale lezione tratta da questa analisi, che suggeriamo di usare come una guida per il futuro. Nel farlo dobbiamo distinguere tra due tipi di cicli di vita del prodotto: il ciclo di vita legato a “Produzione e uso” e quello legato a “Concetto e design”. Non operare questa distinzione causa una parte della confusione dato che si riferiscono a diversi attori e opzioni. Nella figura 1 mostriamo la sintesi in forma di ciclo di vita onnicomprensivo di Produzione e uso del prodotto (il secondo ciclo di vita del prodotto è mostrato in Reike et al. 2018).
Reike, D., Vermeulen, W.J.V. & Witjes, S., 2018, “The circular economy: New or Refurbished as CE 3.0? — Exploring Controversies in the Conceptualization of the Circular Economy through a Focus on History and Resource Value Retention Options”, Resources, Conservation and Recycling, 135, pp.246-264; https://doi.org/10.1016/j. resconrec.2017.08.027
1. In ordine alfabetico sono: recuperare, regredire, rettificare, riacquisire, riadattare, riassemblare, ricatturare, ricavare, riciclare, ri-commercializzare, riconcepire, ricondizionare, ricreare, ridistribuire, ridurre, rifiutare, rilavorare, rimodernare, rimpiazzare, rinnovare, riparare, ripensare, ri-possedere, ripristinare, riprocessare, riprodurre, riprogettare, riproporre, ri-servire, risintetizzare, ristrutturare, ri-svendere, ritornare, riusare, riutilizzare, rivendere, rivitalizzare e rovesciare.
Il presente articolo è una riedizione di un precedente contributo pubblicato online su www.cec4europe. eu/publications
Kirchherr, J., Reike, D. & Hekkert, M., 2017, “Conceptualizing the circular economy: An analysis of 114 definitions”, Resources, Conservation and Recycling, 127, pp.221-232; https://doi.org/10.1016/j. resconrec.2017.09.005
Nella migliore ipotesi, possiamo inquadrare la rinnovata attenzione come “Economia Circolare 3.0”. Dando questa definizione la domanda che segue è su cosa viene dalle versioni 1.0 e 2.0 e cosa è nuovo. Gli imperativi all’azione suggeriti dagli scienziati potrebbero rappresentare l’elemento più importante: quello che i produttori dovrebbero veramente fare per avere il maggiore impatto. Tradizionalmente queste azioni sono state espresse con le varie R, completate con espressioni relative a preferenza e priorità. Dall’esame della letteratura di varie discipline (tra cui scienze ambientali, ingegneria, logistica, studi politici), è emersa una confusa discordanza riguardo alle 3 o più R come imperativi per la conservazione del valore (meglio non usare più la parola “riciclo” come concetto onnicomprensivo, ndA). Mentre spiegano cosa fare questi studiosi presentano una gamma da 3R a 10R, con la versione a 5R che risulta quella suggerita più spesso. Allo stesso modo analizzando 114 definizioni abbiamo anche evidenziato confusione sull’idea stessa di economia circolare (Kirchherr et al. 2017). La stessa confusione si ritrova anche in documenti politici: sia l’Ue sia le Nazioni Unite suggeriscono un approccio a 3R, ma le R hanno significati diversi. Questo porta a un problema più serio nella letteratura scientifica sull’economia circolare: quando stabiliamo una gerarchia nei rifiuti che va da 3R a 10R, gli scienziati fanno ulteriore confusione perché usano 38 differenti parole che iniziano con il prefisso “ri” (o “re”) in queste gerarchie,1 persino quelle che utilizzano 3R o 4R non si riferiscono alle stesse R. Per questo occorre riordinare quanto più possibile questa confusione concettuale:
sintetizzando i vari contributi, presentiamo una gerarchia finale a 10R, che parte da R0, cioè “rifiuto” dal punto di vista del consumatore, e finisce con R9, la ri-estrazione dalle discariche. Nella figura 1 presentiamo una versione integrata della mappatura delle opzioni di conservazione del valore, che comprende alcuni dei cicli che vengono spesso ignorati (come i consistenti invii a paesi meno sviluppati) ed evidenzia il ruolo di nuovi attori economici nella riparazione, rinnovamento, e ri-commercializzazione dei prodotti. La figura permette di ripartire equamente l’attenzione prestata ai cicli di conservazione del valore lunghi (in molti casi già ben organizzati), medio-lunghi (nel cui ambito stiamo assistendo alla nascita di molti nuovi modelli di business) e corti (con un ruolo fondamentale per i consumatori e le attività non commerciali). Questa analisi enfatizza la distinzione tra cicli corti, mediolunghi e lunghi. I primi quattro cicli corti (R0-3) sono vicini al consumatore e possono essere collegati ad attori commerciali e non commerciali coinvolti nell’estensione del ciclo di vita del prodotto. Gli studiosi che applicano una gerarchia chiara li caratterizzano come le R preferibili nell’economia circolare. Probabilmente l’enfasi variabile su R0 e R1 nella letteratura potrebbe essere prova di una divisione paradigmatica in relazione al problema della necessità percepita di una riduzione assoluta di input e consumo, quindi essere anche correlata alle differenti motivazioni nella promozione dell’economia circolare. Cosa che potrebbe essere in conflitto con l’attuale attenzione alle opportunità di business nell’economia circolare. Il secondo gruppo di cicli medio-lunghi (R4-6) include rinnovamento, rilavorazione e riproposizione, spesso confusi tra loro e con altri concetti. Per questi cicli l’attività di business commerciale rappresenta la principale forza trainante, con terze parti spesso specializzate con alti livelli di competenza come soggetti coinvolti. Il terzo gruppo (R7-9) si riferisce ad attività tradizionali di gestione dei rifiuti, tra le quali riciclo, diverse forme di recupero di energia e, più recentemente, ri-estrazione. Molti studiosi che applicano gerarchie chiare alle loro R concordano sul fatto che queste opzioni siano le meno desiderabili. Eppure materiali o particelle ottenuti attraverso un loop di riciclo più lungo possono servire come input per R con cicli più corti (vedi “rilavorazione”). Questo è anche il settore sul quale le politiche governative si sono concentrate maggiormente nell’economia circolare 1.0 e 2.0. Una sfida cruciale qui è come arrivare a un impiego di maggior valore per i materiali, specialmente nei paesi dove il riciclo di massa è già ben organizzato, per lo più in Europa nordoccidentale e centrale.
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Progettare un sistema circolare equo che salvaguardi l’umanità di Alexandre Lemille
Oggi stiamo superando la capacità di carico della Terra a causa di una cattiva gestione delle risorse.
Alexandre Lemille è il fondatore di Wizeimpact, un’azienda che usa il business come strumento per trovare soluzioni ai problemi ecologici e di sistema. Ha sviluppato una versione dell’economia circolare socialmente più inclusiva, ottenendo riconoscimenti dal WEF e anche da Change Hackers nel 2018. wizeimpact.com
Abbiamo la possibilità di cambiare il corso della nostra storia condivisa grazie a tutte le informazioni che abbiamo raccolto fino a questo momento. Imparando dagli scienziati e dagli esperti possiamo proporre nuove forme di governance e implementare in maniera collaborativa azioni a impatto netto positivo per adattarci più rapidamente. Conoscere le origini specifiche di un potenziale collasso è il miglior modo per evitarlo. Gli esseri umani come predatori, la natura come preda Sin dalla sua pubblicazione nel 1972 I limiti dello sviluppo ha rappresentato lo standard di
riferimento per modellare la crescita esponenziale economica e demografica su un pianeta limitato. Il suo aggiornamento dopo 30 anni ha confermato che le previsioni del 1972 non solo erano accurate, ma che in effetti sottostimavano la situazione. Recentemente è stato pubblicato un modello di previsione più attuale che contempla un più ampio spettro di scenari: il modello Human and Nature Dynamics (HANDY) (Motesharrei, Rivas, Kalnay, 2014). Questo modello delle dinamiche dell’umanità si basa sull’approccio predatorepreda in cui noi siamo i predatori e la natura è la preda (consumata dagli esseri umani). L’approccio predatore-preda deriva dal regno animale nel momento in cui la popolazione di predatori supera la capacità di carico (entità
Think Tank “Mantenere le nostre scorte di materiali di alta qualità è essenziale per la nostra sopravvivenza.”
Pexels/Pixabay
Safa Motesharreia, Jorge Rivasb, Eugenia Kalnayc, “Human and nature dynamics (HANDY): Modeling inequality and use of resources in the collapse or sustainability of societies”, Ecological Economics v. 101, maggio 2014, p. 90-102; https:// doi.org/10.1016/j. ecolecon.2014.02.014
World inequality database, www.wid.world
massima di popolazione di una specie che l’ambiente può sostenere a tempo indeterminato). Questo porta alla denutrizione o alla migrazione dei predatori fino a che la popolazione di prede si sia ripresa. Questo modello può facilmente essere riportato al genere umano, con la differenza che noi esseri umani siamo in grado di accumulare grandi scorte in eccedenza (descritte più avanti come “ricchezza”). Scorte che esauriamo quando la produzione non copre più il nostro fabbisogno. Per esempio oggi noi stiamo superando la capacità di carico della Terra (consumiamo 80 miliardi di tonnellate di materiali provenienti dalla Terra quando essa è in grado di offrirne solo 50 miliardi), dato che la popolazione umana continua a crescere in maniera esponenziale. Stratificazione economica e accumulo di ricchezze Il modello HANDY si differenzia dai precedenti per la sua maggiore varietà di scenari (scenario 1: società egualitarie; scenario 2: società eque; scenario 3: società inique) e per l’aggiunta di indicatori chiave come: •• stratificazione economica (“élite”, popolazione ricca, e “cittadini comuni”, popolazione povera, e i corrispondenti pattern di consumo); •• accumulo di ricchezza (quello che abbiamo appena definito come capacità di creare scorte in eccedenza). Comprendere l’impatto di queste due componenti – che hanno avuto ripercussioni negative su civiltà
precedenti come gli antichi Maya – è essenziale per comprendere come dovremmo muoverci oggi tra gestione dell’inventario, pattern di consumo e, cosa più importante, accesso etico ed equo alle scorte. Nelle previsioni per “società egualitarie” l’equilibrio può essere raggiunto lentamente quando i cittadini comuni non superano la capacità di carico della Terra. Vivere bene in equilibrio mostra risultati simili nelle “società eque” in cui la crescita è lenta e i salari sono equi. Ma quando l’esaurimento delle risorse supera un certo limite la natura collassa completamente nei tre possibili scenari: società egualitarie, eque e inique. Consumare oltre la capacità di carico porta all’esaurimento delle risorse naturali, come nel caso dell’Isola di Pasqua. Questo viene chiamato Collasso di Tipo-N (esaurimento delle risorse naturali). In questo senso la ricerca evidenzia che oggi non siamo in questa situazione. La sparizione dei cittadini comuni La configurazione che più si avvicina alla nostra situazione globale non è il collasso della natura. Ora tutti sappiamo che la Terra continuerà lungo il suo percorso di recupero da tutte le forme di esaurimento a lungo termine, oltre qualsiasi orizzonte temporale correlato all’umanità. Il rischio che corriamo oggi è la sparizione della forza lavoro rappresentata dai cittadini comuni. Questo viene chiamato Collasso di Tipo-L (carenza di forza Lavoro). Nelle società inique (per maggiori informazioni si può fare riferimento all’“Elephant graph of
Figura 1 | Un tipico modello predatore-preda: l’interdipendenza delle popolazioni di lupi e conigli Fonte: HANDY, 2014.
POPOLAZIONE 400 lupi 2.000 conigli lupi (predatori)
congili (prede)
200 lupi 1.000 conigli
TEMPO (ANNI)
0 lupi 0 conigli
0
150
300
450
600
750
900
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materiarinnovabile 27. 2019 “Un accesso giusto ed equo alle scorte è molto più vitale della loro gestione circolare.”
inequality”, il rafforzamento della stratificazione economica tra le classi sociali viene, secondo i ricercatori, “riscontrato frequentemente nelle società collassate in passato”. Essi aggiungono che “la soluzione (vedi figura 2) sembra trovarsi in un percorso sostenibile per un periodo piuttosto lungo, ma, anche attenendosi a un tasso di esaurimento ottimale e partendo con un numero molto ridotto di élite, alla fine le élite stesse causeranno il collasso della società”.
che prevenga questo collasso dato che abbiamo informazioni sufficienti per guidare la popolazione mondiale lungo un percorso di questo genere: •• ridurre considerevolmente le diseguaglianze (qui tradotte nell’allargamento della stratificazione economica tra cittadini comuni ed élite in figura 2); •• ridurre il tasso di crescita della popolazione. Però il problema che ne deriva è che le élite che beneficiano delle eccedenze e controllano l’accesso alle scorte non possono ricoprire contemporaneamente il ruolo di decisori politici. Sembrerebbe che “i collassi storici sono stati resi possibili dalle élite che sembrano essere inconsapevoli della traiettoria catastrofica” (HANDY, 2014), in riferimento alle civiltà dell’Impero Romano e degli Antichi Maya. Ancora peggio, anche le élite collassano a causa della sparizione dei cittadini comuni.
Riassumendo, il rischio che corriamo è di un aumento (attuale) della cattiva gestione delle risorse a causa del consumo diseguale e dell’accesso limitato, in aggiunta all’adattamento ai cambiamenti climatici e alla loro mitigazione. Le “élite” non sono in una condizione che permette loro di essere lungimiranti “La cattiva gestione delle risorse e l’accesso iniquo alle stesse dovrebbero essere affrontatati come problemi urgenti.”
I ricercatori hanno accertato chiaramente che “le élite – a causa della loro ricchezza (cioè accesso e controllo delle scorte) – non subiranno gli effetti deleteri del collasso ambientale fino a molto tempo dopo i Cittadini Comuni” (HANDY, 2014). Aggiungono inoltre che “queste riserve di ricchezza permettono alle élite di continuare il business as usual nonostante la catastrofe imminente”.
Ora è chiaro occorre una forma di governance diversa da quella attuale. Coloro che hanno accesso alle eccedenze non sono nella posizione migliore per guidarci verso il nostro futuro comune. La governance per il futuro della civiltà umana dovrebbe piuttosto essere guidata dal gruppo che deve affrontare un rischio di estinzione più alto. Quindi dovremmo ispirarci molto di più a quello che le antiche tribù ci dicono sulle loro tecniche di sopravvivenza in un ambiente ostile, invece che a tutti i mezzi per saccheggiare le loro competenze tecniche per scopi commerciali. Seguire i loro principi
Come in tutte le organizzazioni della società, chiediamo ai leader di essere lungimiranti per consentire alle persone di poter godere di un futuro più prosperoso. È possibile trovare un equilibrio
Figura 2 | La nostra situazione attuale – società iniqua: collasso di tipo-L (carenza di forza lavoro) Fonte: HANDY, 2014.
“Collasso della popolazione dopo un apparente equilibrio (entro la capacità di carico) dovuto a una inizialmente ridotta popolazione di élite” che in seguito cresce esponenzialmente. La natura recupera, la popolazione no 6x 1y 4y
NATURA RICCHEZZA
(PARI) ÉLITE
3x 0,5 y 2y
CAPACITÀ DI CARICO
0x 0y 0y 0
100
x: capacità massima di carico y: capacità di carico della natura
CITTADINI COMUNI
200
300
400
500
TEMPO (ANNI)
600
700
800
900
1000
Think Tank Figura 3 | In questo modello circolare-equo scompaiono non solo i rifiuti e l’inquinamento, ma anche la povertà e la diseguaglianza Fonte: Lemille, 2018.
L’ANTROPOSFERA CIRCOLARE EVO
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DEDICARSI AI BISOGNI DELL’UMANITÀ utilizzare la circolarità dei materiali GESTIRE I RIFIUTI + ZERO DISUGUAGLIANZE applicare il pensiero circolare EVITARE I PICCHI DI CONSUMI promuovere il decentramento collettivo
Circular Economy 2.0, www.AlexandreLemille.com
dovrebbe essere obbligatorio per le nostre future governance. Economie circolari eque incentrate sulla prosperità della società
“Le élite collasseranno indipendentemente dall’entità della ricchezza accumulata o custodita.”
Con un tale modello delle dinamiche dell’umanità abbiamo in mano il nostro destino, perché un collasso di Tipo-L si può prevenire. Però è chiaro che dobbiamo prendere decisioni drastiche riguardo al modo in cui governiamo le nostre società e all’evoluzione delle politiche. L’economia circolare rappresenta un’eccellente soluzione alla cattiva gestione delle risorse: ci consente di gestire scorte di risorse e flussi di energia rinnovabile con un approccio virtuoso. L’economia circolare imita la Natura in cui le risorse inutilizzate diventano cibo per un altro ciclo vitale. Però cittadini e comunità hanno bisogno di qualcosa di più di un modo migliore per gestire le risorse come modello di business del futuro. Hanno bisogno della certezza che usciremo da un iniquo mondo lineare entrando in un altro prosperoso ed equo, in linea con la rigenerazione del nostro ecosistema naturale dal quale dipende la nostra sopravvivenza. In un contesto circolare di salvaguardia delle risorse, anche l’attenzione verso le persone sarà una “buona notizia” per la prosperità del business poiché il modello di business si baserà sulle regole della rigenerazione del sistema e di una maggiore collaborazione. Un’economia che si basa sui risultati diventa
estremamente versatile per soddisfare i bisogni della società, i risultati forniti integrano anche tali bisogni nella loro ricerca della prestazione totale. Poiché si sarà premiati se si soddisfano i bisogni della gente nella propria comunità e mercati, più il proprio business assicurerà che tutti i bisogni saranno trattati con riguardo e meglio sarà. Prendersi cura delle persone e delle risorse è possibile quando il proprio prodotto scompare dietro l’offerta di un’esperienza olistica di cura (prendersi cura delle scorte e delle persone). In aggiunta, una tale economia basata sui risultati dovrebbe fornire ai Cittadini Comuni posti di lavoro in attività di ripristino e rigenerative che implementano le strategie collaborative. Infine, un modello circolare-equo dovrebbe anche essere governato da comunità differenti che capiscano come le decisioni prese oggi proteggeranno le generazioni di persone non ancora nate. Un tale processo decisionale è sempre esistito. Si chiama “decentramento”, o capacità di stabilire se le generazioni future saranno d’accordo o no con le decisioni prese (indicato in figura 3 come terza priorità su cui concentrarsi). Il decentramento ha aiutato le minoranze a sopravvivere in un contesto poco promettente come nel caso, tra gli altri, della tribù degli Irochesi. Questo dovrebbe essere insegnato a tutti noi, a partire dalle élite. Il raggiungimento di un equilibrio con la capacità di carico della Terra è l’unica decisione che abbiamo il dovere di prendere oggi.
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L’Europa che verrà
L’economia circolare è stata un pilastro della Commissione uscente. Ma il lavoro della CE Stakeholder Platform continua. Per l’Ue può continuare a essere un vantaggio competitivo. Sia per la sicurezza economica sia per le politiche di decarbonizzazione.
di Emanuele Bompan, da Bruxelles
Non ci sono dubbi. L’economia circolare è stata un pilastro della Commissione e del Parlamento Ue uscente. “La forza politica di questa idea è evidente”, spiega Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, di fronte a una platea di politici e businessman nell’aula strapiena dell’edificio Schuman a Bruxelles riunitisi per la CE Stakeholder Platform Conference, l’evento annuale organizzato dalla Commissione e dal Comitato economico e sociale europeo. “Abbiamo davvero raggiunto importanti risultati. Il senso dell’urgenza di questa trasformazione è reale in Europa. Lo vediamo con i giovani nelle strade che cercano soluzioni per il cambiamento climatico. E l’economia circolare è una delle soluzioni […] Che può creare molti posti di lavoro e miliardi di euro di valore aggiunto. Ed è
necessaria per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs).” Al centro dei lavori della Piattaforma, che sempre più è un ingranaggio fondamentale della CE europea la valutazione dei risultati del Piano di Azione economia circolare e la definizione delle sfide aperte per aprire la strada a un’economia circolare competitiva e neutrale dal punto di vista climatico, dove la pressione sulle risorse naturali e di acqua e sugli ecosistemi è ridotta al minimo. “Tre anni dopo l’adozione, il Piano d’Azione per l’economia circolare può essere considerato completato”, afferma Daniel Calleja Crespo, DG Ambiente della Commissione Ue. “Le sue 54 azioni sono state consegnate o implementate, come documenta l’ultimo report disponibile” (pubblicato il 4 marzo 2019, nda). Secondo i risultati della
Policy strada nella creazione di investimenti, posti di lavoro e nuove imprese.” Gli argomenti trattati sono molteplici, dal food ai fertilizzanti, dalla comunicazione al ruolo delle città. Ovviamente accesissime le discussioni sul tema plastica, al centro dell’attenzione dell’industria e dei legislatori. Per i detrattori della direttiva plastiche ci sono migliaia di posti di lavoro a rischio. Ma per molti dei presenti è fondamentale agire per fermare la contaminazione di microplastiche e per sostenere l’innovazione nei biomateriali e nei materiali riciclati.
rottonara/Pixabay
Elenco dei partecipanti alla stakeholder Conference 6-7 marzo 2019, https://circulareconomy. europa.eu/platform/ sites/default/files/ ce_stakeholder_ conference_2019_list_of_ participants.pdf
Report della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, 4 marzo 2019; http://ec.europa.eu/ environment/circulareconomy/pdf/report_ implementation_circular_ economy_action_plan.pdf
relazione, l’attuazione del Piano d’Azione per l’economia circolare ha realmente accelerato la transizione verso un’economia circolare. Nel 2016, i settori rilevanti per l’economia circolare hanno impiegato più di quattro milioni di lavoratori, un aumento del 6% rispetto al 2012. La circular ha anche aperto nuove opportunità di business, dando origine a modelli di business inediti e sviluppando nuovi mercati, a livello nazionale e al di fuori dell’Ue. Nel 2016 le attività circolari come riparazione, riutilizzo o riciclaggio hanno generato un valore aggiunto di quasi 147 miliardi di euro, con un investimento di circa 17,5 miliardi di euro. In Europa, il riciclaggio dei rifiuti urbani nel periodo 2008-2016 è aumentato e il contributo dei materiali riciclati alla domanda complessiva di materiale presenta un miglioramento continuo. Tuttavia, in media, i materiali riciclati soddisfano solo meno del 12% della domanda europea. A ciò fa eco una recente relazione di uno degli stakeholder (Circle Economy) che suggerisce che la piena circolarità si applicherebbe solo al 9% dell’economia mondiale, lasciando vaste aree di miglioramento. “Una lunga strada e una sfida che può dare all’Europa un importante primato competitivo, aggiunge Timmermans. Il vicepresidente Jyrki Katainen, responsabile per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la competitività, ha dichiarato: “Questo rapporto è molto incoraggiante. Dimostra che l’Europa è sulla buona
Per Joss Blériot, direttore della Ellen MacArthur Foundation la sfida rimane ancora “la realizzazione di una economia circolare che sia davvero tale. Certo ci vorrà un po’di tempo perché questa idea diventi primaria. In una certa misura si potrebbe sostenere che la discussione intorno all’economia circolare sia stata generata dagli attori tradizionali che si occupavano di gestione dei rifiuti quindi è normale che per il momento sia ancora posta in questi termini. Ma penso che se potessimo concentrarci sul potenziale d’innovazione dei nuovi materiali, di nuovi modelli di business, con focus su settori ed aree specifiche potremo accelerare questa transizione”. Le discussioni si sono dilungate anche fuori dai saloni della Commissione e del CESE. In uno dei tanti eventi serali si è dibattuto a lungo sul ruolo della prossima commissione. Per Simona Bonafè, eurodeputata del Partito Democratico Italiano, serve continuare il lavoro bipartisan svolto. “Sperando che i sovranisti non si mettano di mezzo con le loro idee poco green.” Per altri intervistati le questioni centrali della prossima legislatura saranno l’ecodesign e la misurabilità della circolarità nei business, partendo da un’applicazione diffusa della LCA. La Commissione ha incaricato le organizzazioni europee di normazione di sviluppare criteri orizzontali per misurare la durabilità, la riusabilità, la riparabilità, la riciclabilità e la presenza di materie prime critiche. Questi criteri dovranno essere applicati in standard esistenti (come EU Ecolabel) e nuovi in tutta l’unione. Servirà inoltre chiudere il cerchio riguardo alla plastica e rafforzare il Pacchetto per l’economia circolare. “Servirà anche collaborare sempre di più con paesi extra europei. Noi oggi abbiamo numerose missioni commerciali dove insieme a grandi imprese europee valutiamo il potenziale dell’economia circolare e creiamo opportunità di investimento e collaborazione”, aggiunge Daniel Calleja Crespo. “Non possiamo fare il lavoro da soli. Avere partner in Africa e America Latina è fondamentale.” La sfida europea continua. Nella speranza che il prossimo Parlamento e Commissione possano essere ancora più audaci e colgano il messaggio di accelerazione dei processi di rigenerazione della nostra economia. E che il CESE possa continuare a fare l’ottimo lavoro di coordinamento e consultazione che ha svolto fino a oggi.
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materiarinnovabile 27. 2019
Il valore reale del cibo Intervista a Peter Schmidt di Francesco Bassetti
Il sistema alimentare può avere un enorme impatto nella battaglia ai cambiamenti climatici. Però questo richiederà politiche onnicomprensive e la creazione di un’economia circolare per il cibo. Peter Schmidt è membro dello European Economic and Social Committee dal 30 luglio 2014. È a capo del settore affari dell’International and European della Food, Beverages and Catering Union (NGG); presidente del Sustainable Development Observatory; e vicepresidente del Worker’s Group II. È particolarmente interessato alla sicurezza alimentare e all’ambiente.
Come membro dell’EESC, Peter Schmidt si è creato – grazie all’esperienza diretta – un’idea di come il cibo possa assumere un ruolo primario nel raggiungimento degli obiettivi legati alla sostenibilità e di come questo ruolo sia influenzato da normative, politiche e pratiche delle aziende multinazionali. Di fatto l’attuale sistema alimentare
ha distorto il valore del cibo permettendo al grande business di fare enormi profitti a spese degli agricoltori europei che fanno affidamento su 60 miliardi di euro l’anno in sussidi pagati dai contribuenti europei. Una politica alimentare onnicomprensiva che regolamenti il sistema alimentare secondo i principi dell’economia
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Però ora politici, istituzioni e organizzazioni si stanno rendendo conto che la politica agricola è direttamente collegata a una politica a più ampio raggio, ovvero una politica alimentare onnicomprensiva. È una parte di essa. Per esempio, nel documento Verso un’Europa sostenibile entro il 2030 pubblicato il 13 gennaio, vediamo che per la prima volta la Commissione parla di una politica alimentare onnicomprensiva. Quindi, per poter implementare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, i membri della commissione si sono resi conto che abbiamo bisogno di una politica onnicomprensiva, o quantomeno di una politica alimentare.”
circolare ed educhi i consumatori al reale valore del cibo, sarà funzionale alla creazione di un approccio alla produzione e al consumo di cibo più equo e rispettoso dell’ambiente.
European Economic and Social Committee, www.eesc.europa.eu
Quanto sarà importante per l’Europa concentrarsi su una strategia economica circolare riguardo al cibo? “È fondamentale per l’implementazione dell’Agenda 2030 dato che il cibo è legato ad almeno 12 Obiettivi di sviluppo sostenibile. Se non arriveremo a un approccio onnicomprensivo riguardo alla produzione e al consumo di cibo credo che non raggiungeremo gli obiettivi dell’Agenda 2030. L’Europa deve diventare un’apripista in questo processo. Come abbiamo recentemente sentito dal vicepresidente Timmermans, tutto il mondo ha gli occhi puntati sull’Europa e non solo a causa delle elezioni europee, ma anche per quello che sarà fatto per contrastare i cambiamenti climatici e per come svilupperà il suo modello sociale. Quindi una strategia in tema di economia circolare è fondamentale.” Attualmente all’Europa manca una strategia generale riguardo al cibo. È necessaria? “Stiamo cominciando a svilupparne una proprio ora. Come rappresentanza dello European Economic and Social Committee, abbiamo chiesto una politica alimentare onnicomprensiva che non sia completamente racchiusa nella Politica agricola comune. Sebbene le due siano collegate, a Bruxelles i decisori politici sono molto concentrati sulla Politica agricola comune. Ciò è comprensibile poiché riguarda circa 60 miliardi di euro distribuiti sul territorio europeo per alleggerire l’attuale situazione in cui si trovano gli agricoltori.
Questo comporterà l’implementazione di un’economia circolare riguardo al cibo? “Si, naturalmente, altrimenti non si può pensare in termini di approccio onnicomprensivo. Dobbiamo rendere la produzione circolare a tutti i livelli. Dalle fattorie, alla lavorazione, al trasporto e vendita al dettaglio; tutto deve basarsi su una logica circolare. Per esempio un caseificio che produce 300.000 litri di latte al giorno ha una produzione di acque grigie paragonabile a quella di una città con 60/70.000 abitanti. Mettere insieme tutto questo porterà a un accorciamento della catena di rifornimento. Negli ultimi decenni abbiamo sviluppato una catena di rifornimento sempre più globale che deve essere accorciata. Adesso la logica è questa. Se non lo facciamo non possiamo diventare circolari. Il sistema alimentare ha un enorme impatto nella lotta contro i cambiamenti climatici e possiede anche il potenziale per creare occupazione locale, che in futuro dovrà essere retribuita meglio e garantire condizioni di lavoro migliori.” Attualmente l’Unione europea sta dando miliardi di euro agli agricoltori perché i prodotti alimentari hanno prezzi molto bassi. È possibile che una produzione di cibo specializzata contribuisca a stabilizzare la loro situazione finanziaria? “Sì, è dimostrato che più gli agricoltori coltivano con l’agricoltura biologica e più sono alti i ritorni sugli investimenti. Però c’è anche un cambiamento nella mentalità dei consumatori. Guardando agli ultimi 10/15 anni vediamo uno sviluppo enorme: 10/15 anni fa i prodotti da agricoltura biologica erano di nicchia mentre oggi lo sono sempre meno. La produzione biologica è conseguenza logica del pensiero circolare ma dobbiamo vedere quali sono le decisioni politiche dietro questo processo, dal momento che solo i prodotti di nicchia da agricoltura biologica vengono pagati adeguatamente.” Pensa che ci sia uno squilibrio nelle strutture di potere che regolano la produzione di cibo? “Credo che i 60 miliardi di euro in sussidi erogati agli agricoltori rivelano un processo ridicolo a cui stiamo partecipando. Non è un attacco agli agricoltori; gli agricoltori hanno bisogno di questi aiuti finanziari dato che sono schiacciati dalle grandi multinazionali da un lato e dai settori della vendita al dettaglio e della lavorazione
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materiarinnovabile 27. 2019 dall’altro. Ciò che è ridicolo è che nessuno metta in discussione i margini di profitto delle multinazionali. Hanno dei profitti del 20% (da quanto sappiamo) e vogliono guadagnare ancora di più. Eppure allo stesso tempo diamo 60 miliardi di euro agli agricoltori per alleggerire la loro situazione. Questo è ridicolo. Significa che i contribuenti pagano i guadagni delle multinazionali. Bisogna discuterne a livello politico. I contribuenti devono ribellarsi a questo sistema e considerare responsabili i decisori politici.”
Verso un’Europa sostenibile entro il 2030, https://ec.europa.eu/ commission/publications/ reflection-paper-towardssustainable-europe-2030_it
Come possiamo migliorare questa situazione? “Uno dei primi passi intrapresi dall’EESC, e seguito dalla CE, è stato di chiedere una catena di rifornimento più equa nel settore alimentare. Le pratiche commerciali ingiuste nella catena di rifornimento devono essere fermate. Così abbiamo creato un elenco e ora la commissione agisce in base a questo elenco. Questo comprende la regolamentazione della catena di rifornimento alimentare, che – sebbene insufficiente – rappresenta il primo passo verso la regolamentazione dei mercati, e l’abbandono dell’ossessione per un approccio deregolamentato libero ai mercati. La commissione si è resa conto che ci serve una normativa per ottenere l’equità nella catena di rifornimento e quindi prezzi più equi per gli agricoltori.” Il settore agricolo genera una grande quantità di scarti e sottoprodotti. Però questi non sono stati resi redditizi in modo sistematico. L’utilizzo degli scarti e dei sottoprodotti agricoli potrebbe contribuire a creare ulteriori introiti per gli agricoltori? “Non mi sembra un ragionamento del tutto logico. E, cosa più importante, la maggior parte degli scarti non è prodotta dagli agricoltori. La maggior parte degli sprechi si verifica sul lato dei consumatori, e non nei settori della produzione e della lavorazione che sono ben organizzati. Sebbene bisogna distinguere di che tipo di scarti ci riferiamo, n generale, secondo le stime, circa il 30% della produzione totale di cibo viene sprecato. Credo che sia illogico pensare di creare prodotti innovativi ricavati dai rifiuti alimentari. Il primo passo logico sarebbe quello di ridurre la produzione totale di cibo. Nello stesso tempo dobbiamo tenere presente che negli anni a venire la popolazione mondiale sarà di circa 9/10 miliardi di persone. Quindi la domanda giusta da porsi è come produrre cibo in maniera onnicomprensiva e circolare, in modo da contrastare anche i cambiamenti climatici. Se usiamo semplicemente questi rifiuti per creare e organizzare altri materiali, non facciamo niente per combattere i cambiamenti climatici; stiamo semplicemente utilizzando più suolo e distruggendo ulteriormente l’ambiente. Di fatto, per proteggere l’ambiente dobbiamo ridurre la produzione per ettaro. Questa è la
logica. Avere un approccio onnicomprensivo porterebbe esattamente a questa conclusione invece di cercare sistemi per fare guadagnare di più agli agricoltori. Quello di cui abbiamo davvero bisogno è che gli agricoltori vengano pagati adeguatamente per ciò che producono.” Pensa che il modo in cui stabiliamo il prezzo dei prodotti alimentari possa contribuire a creare un sistema alimentare circolare? “Paragoniamo il prezzo di un litro di latte a quello di un litro di Coca-Cola. In molti casi la bibita è molto più costosa del latte che compriamo al supermercato. Possiamo immaginare che produrre latte sia parecchio più complesso rispetto a produrre Coca-Cola: arrivare dalla fattoria e venderlo a fine giornata al supermercato non è cosa semplice. C’è illogicità nello stabilire i prezzi. E la seconda cosa è che tutti i costi aggiuntivi non sono compresi nel prezzo, ma ricadono semplicemente sugli agricoltori. Ecco perché dobbiamo trovare un modo per comunicare quello che è chiaro per noi dell’EESC: il cibo costa troppo poco e il valore del cibo non viene considerato nella maniera giusta. Il valore del cibo non può essere paragonato a quello di uno pneumatico per automobile o di uno smartphone perché rappresenta un processo continuo. In Germania abbiamo un’espressione che rende bene l’idea, diciamo Lebensmittel, che significa ‘beni vitali’. Nessuno può sopravvivere senza cibo e senza un regime alimentare, ed è per questo che dobbiamo rendere le persone consapevoli del valore del cibo al fine di creare politiche alimentari onnicomprensive che rappresentano una parte essenziale del processo.” L’acqua è un altro fattore importante. Cibo e acqua sono strettamente legati. Cosa si può fare per rendere più circolare l’uso dell’acqua? “Questo non è un problema che riguarda solo il settore agricolo, ma anche le aree urbane. Abbiamo perso la capacità di pensare a lungo termine quando costruiamo infrastrutture. Le politiche degli ultimi decenni hanno creato una situazione in cui le municipalità hanno smesso di investire nelle loro infrastrutture, e una parte cruciale delle infrastrutture è rappresentata dal sistema idrico. Ci servono infrastrutture solide e molto durature. Abbiamo rinunciato alla pianificazione a lungo termine e ciò causa grandi perdite di acqua. E questo mi riporta al problema della circolarità. Dobbiamo pensare in maniera circolare in tutti i settori, cosa che richiede enormi investimenti e normative, come pure decisioni coraggiose da parte dei politici. Questo implica anche che si parli della distribuzione della ricchezza nella nostra società: è necessario un dibattito che coinvolga tutta la società su come viene distribuita la ricchezza che produciamo, soprattutto perché viviamo nella società più ricca mai esistita.”
Policy
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Circular Economy Stakeholder Conference
www.eesc.europa.eu/en/news-media
di Ilaria Nicoletta Brambilla
Ilaria N. Brambilla è geografa e comunicatrice ambientale. Collabora con istituti di ricerca, agenzie di comunicazione e con testate italiane e straniere sui temi della sostenibilità.
La comunicazione ambientale deve essere più emozionale Membro del Comitato economico e sociale della Ue, del consiglio d’amministrazione dell’Agence Française de Normalisation e dell’Institut des Futurs souhaitables, Thierry Libaert ha insegnato scienze dell’informazione e della comunicazione all’Università Cattolica di Lovanio. Si è occupato di problematiche legate al consumo sostenibile, all’obsolescenza programmata e all’economia della funzionalità.
Thierry Libaert, membro del Comitato economico e sociale della Ue
In quanto esperto di comunicazione ambientale, come vede la comunicazione europea sui temi dello sviluppo sostenibile e dell’economia circolare? Quale ritiene sia la strategia che si dovrebbe utilizzare? “Credo che la comunicazione globale dell’Unione europea e di molte istituzioni
nazionali sui temi della responsabilità sociale, della sostenibilità e del riscaldamento climatico sia una comunicazione troppo ‘dall’alto’, forse un po’ unilaterale e spesso moralizzatrice. E se guardiamo al modo in cui le persone ricevono i messaggi positivamente, ci sono tre o quattro elementi che non tornano. Per prima cosa il mittente invia il messaggio al ricevente in maniera, appunto, unilaterale, senza interazione e spesso utilizzando un solo strumento, come la pubblicità o gli opuscoli informativi. Faccio un esempio: un tema su cui ho lavorato è stato come spingere le persone a differenziare i rifiuti. Abbiamo verificato che i risultati si ottengano mettendo insieme strumenti informativi e il fattore umano, cioè l’interazione con alcuni
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Circular Economy Stakeholder Conference, https://circulareconomy. europa.eu/platform/en
Quando si inviano messaggi per sensibilizzare nei confronti dell’ambiente funziona come con quelli per la sicurezza stradale: la maggioranza delle persone si ritiene un buon conducente, quindi il messaggio non arriva perché la gente crede sia rivolto ad altri.
esperti che, di persona, spieghino come comportarsi. Il 90% della comunicazione che si limita a inviare dei messaggi di informazione non funziona granché. In secondo luogo, parlando di ambiente, quando si domanda agli europei come si considerano in termini di condotta ambientale si scopre che il 95% si ritiene un ‘buon eco-cittadino’. Pertanto, quando si inviano messaggi per sensibilizzare nei confronti dell’ambiente funziona come con quelli per la sicurezza stradale: la maggioranza delle persone si ritiene un buon conducente, quindi il messaggio non arriva perché la gente crede sia rivolto ad altri. Il sistema, allora, dovrebbe prevedere una maggiore personalizzazione dei messaggi. Terzo, la comunicazione di alcuni temi come il riscaldamento climatico è molto tecnica: ‘rispettare gli accordi su 1,5 o 2 °C’, ‘tot tonnellate di carbonio’ per esempio. Penso invece che la comunicazione debba essere molto più visualizzabile: nessuno ha mai visto una tonnellata di carbonio e quindi il messaggio è difficile da comprendere. Inoltre, occorre fare leva sulle emozioni e su quello che i cambiamenti climatici ci porteranno via se continuiamo in questa direzione.” Una comunicazione più efficace si traduce in migliori scelte d’acquisto da parte dei consumatori? “Il Comitato sociale ed economico europeo, di cui faccio parte, ha lanciato nel 2016 una grande ricerca che ha coinvolto 3.000 persone in Spagna, Repubblica Ceca, Francia e in Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo in un esperimento partecipativo, in cui abbiamo messo le persone nella situazione di dover acquistare dei prodotti. Abbiamo costruito un finto sito di e-commerce e abbiamo chiesto loro di usarlo per fare degli acquisti e abbiamo provato a scrivere tra le informazioni sui prodotti la durata di vita stimata: ci siamo accorti che l’acquirente guardava questa informazione – a dispetto di chi sostiene che ci siano già troppe informazioni sugli imballaggi – e inoltre che le persone sono in grado di scegliere in modo ponderato, non basandosi solo sul prezzo minore ma anzi scegliendo di pagare un prodotto di più se questo garantiva una durata di vita maggiore. Si tratta quindi di un circolo virtuoso, in cui il consumatore guadagna con un prodotto che dura di più, le aziende hanno interesse a produrre oggetti che hanno un costo maggiore e la conseguenza per l’ambiente è un minor uso di materia prima e meno rifiuti.” A lungo si è sostenuto che, per consumare meno energia, dopo un certo numero di anni la scelta migliore sia quella di acquistare un elettrodomestico nuovo. Ma la produzione di nuovi strumenti e l’estrazione di materia prima non sono affatto sostenibili: come uscire dall’impasse? “È un tema ricorrente quando si parla di consumi sostenibili. Per certi prodotti la sostituzione
conviene sia al consumatore sia all’ambiente: un frigorifero di 10 anni fa, anche se funziona benissimo, consuma il 90% in più di uno attuale. Sommando la fase di eco-progettazione, la fase del consumo e quella a valle del riciclo si è quindi riusciti a delineare una durata di utilizzo ottimale di alcuni prodotti. Questo aspetto è fondamentale per una transizione davvero circolare, che è ancora troppo focalizzata sul ciclo dei rifiuti e troppo poco sulla promozione di un consumo sostenibile.” Le aziende, a suo avviso, stanno davvero cambiando marcia? “Credo di sì, che abbiano capito che si tratta di un modello conveniente, anche in termini di reputazione. Dai giganti degli pneumatici che lavorano per estendere il più possibile il ciclo di vita delle gomme, alle grandi aziende di elettrodomestici che garantiscono una riparabilità dei loro prodotti per dieci anni, si tratta di distinguersi dai competitor per l’attenzione ai consumatori e all’ambiente, e non in termini di greenwashing. L’economia dei servizi – che è parte del paradigma circolare, inoltre, ha interesse a far durare il più possibile i propri prodotti.” Tutto questo ha un impatto anche sociale. “Esatto. Dal punto di vista dell’ampliamento dei posti di lavoro nelle varie fasi di realizzazione e riparazione dei prodotti, uno studio commissionato nel quadro della Risoluzione europea del giugno 2017 ha dimostrato che, se si prendessero in considerazione i parametri di durabilità e riparabilità dei prodotti, si creerebbero circa 45 mila posti di lavoro. Inoltre, l’obsolescenza programmata ha un impatto maggiore sulle fasce della popolazione a basso reddito: chi ha meno da spendere compra prodotti a basso prezzo che durano meno. Quindi aumenta la frequenza d’acquisto, generando maggiore indebitamento. Aumentare la durata di vita dei prodotti e la loro riparabilità porta anche a una maggiore equità sociale.”
Policy
Serve più cultura della circolarità Paolo Falcioni è direttore generale di APPLiA da gennaio 2014. È stato uno dei fondatori della Tavola rotonda internazionale delle associazioni di produttori di elettrodomestici (IRHMA) e presidente della Coalition for Energy Savings. È uno dei membri del consiglio di amministrazione di Smart Energy Europe e membro della piattaforma REFIT come rappresentante del gruppo degli stakeholder.
APPLiA, www.appliaitalia.it
Paolo Falcioni, direttore generale di APPLiA
riparazione degli elettrodomestici. Le aziende, quindi, hanno da guadagnarci anche a livello meramente economico dallo sviluppo del mercato post vendita; siamo a favore della riparazione anche quando non gestita direttamente dalle aziende – penso ai repair cafè – purché venga garantita la sicurezza del consumatore finale.”
APPLiA è l’associazione che rappresenta l’industria dell’elettrodomestico in Europa, un settore che crede fortemente nel rinnovare con i prodotti e i processi produttivi per consentire la piena circolarità del prodotto utilizzato dal consumatore. Tra i principali membri dell’associazione ci sono Arçelik, Whirlpool, Daikin, Panasonic, LG, Samsung, De Longhi, Electrolux, Miele, DHS, la quasi totalità delle aziende di elettrodomestici che operano in Europa. Come si posiziona il settore degli elettrodomestici rispetto alle normative europee sull’economia circolare? “Ritengo che il comparto sia più avanti della legislazione. Oggi gli elettrodomestici sono completamente circolari, perché quando vengono re-immessi nell’industria del riciclo tornano materia prima seconda in tutte le loro componenti. La gestione del prodotto, quando correttamente smaltito, porta quindi a una piena circolarità. Ciò che manca è la capacità di tracciare tutti i flussi degli elettrodomestici: non sappiamo dove finiscano circa i 2/3 degli elettrodomestici della quota non tracciata del rifiuto elettrico ed elettronico. Per questo vorremmo un mercato unico europeo del rifiuto.” Qual è il contributo dei vostri associati alla transizione circolare? Come rispondono allo spettro dell’obsolescenza programmata? “Le nostre aziende associate credono nel paradigma circolare, estendendo con la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti il ciclo di vita degli elettrodomestici. Un altro dato è l’attenzione alla riparabilità: a livello globale sono 32.000 le persone impiegate dai nostri soci nella riparazione. Nel 2016, secondo il nostro report, su un totale di 150 milioni di pezzi prodotti dai nostri associati, la percentuale di richieste di riparazione ricevute e soddisfatte è stata dell’81%, grazie a una progettazione che contempla l’intero ciclo di vita. Oggi è pari a circa 2 miliardi di euro il fatturato europeo che deriva dai servizi di
Nella comunicazione di APPLiA si parla di #circularculture: che cosa intendete? “Per diffondere maggiore consapevolezza nel consumatore e spingere i legislatori a operare in direzione di migliori standard di recupero, abbiamo coniato l’espressione ‘cultura della circolarità’ e prodotto dei video che mostrano come ognuno può contribuire a rendere l’economia e i consumi più circolari, perché l’industria da sola non arriva dappertutto. Per esempio, oggi in Europa il 20% dei piccoli elettrodomestici viene ancora gettato nella spazzatura e non conferito ai regolari smaltitori che possono dare valore alla materia. Per questo crediamo che sia necessario responsabilizzare tutti affinché lo sviluppo economico sia sostenibile, dalle aziende ai singoli cittadini e ai legislatori. Inoltre, un uso più consapevole degli elettrodomestici permette di ridurre gli sprechi: si pensi alla lavastoviglie che utilizza il 90% in meno di acqua rispetto al lavaggio a mano dei piatti. Abbiamo il dovere morale di ricordare che, noi europei, siamo privilegiati e quindi dobbiamo fare uno sforzo in più per capire che beni come l’acqua sono preziosi e soggetti a scarsità, mentre altrove è molto più immediato.” Le vostre associate operano anche al di fuori dei confini europei: il loro approccio circolare si estende anche dove la legislazione è meno vincolante? “Sono stato da poco al Forum di Nairobi delle Nazioni Unite ‘Science-Policy-Business’ e ho mostrato come in Europa ci stiamo muovendo verso un’industria circolare. È chiaro che partiamo da posizioni diverse rispetto ad altri paesi, tra chi consuma molto di più e chi molto di meno, ma la nostra esperienza si pone come spunto per ripensare tutti insieme i nostri consumi e il nostro impatto sul pianeta. L’industria che rappresento ha la volontà di offrire il prodotto più innovativo e a basso impatto ovunque nel mondo.”
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Riflessioni sulla
Piattaforma europea degli stakeholder
per l’economia circolare di Cillian Lohan
Il pensiero circolare costituisce uno strumento piccolo ma importante per lavorare alla creazione di un futuro migliore, più equo e prospero. Parte di questo processo comporta un coinvolgimento degli stakeholder aperto a tutti.
Cillian Lohan è Relatore dell’Eesc (European Economic and Social Committee) sul Circular Economy Package, Ceo di Green Economy Foundation e Presidente dell’Irish Environmental Network. È uno scienziato ambientale con un background nel settore del business; attualmente si occupa di economia circolare, finanza climatica e della transizione a un’economia a basse emissioni di carbonio.
Il coinvolgimento degli stakeholder presenta diversi aspetti interessanti. In numerosi processi che puntano a ottenere una trasformazione è diventata pratica comune coinvolgere coloro che subiranno impatti dai potenziali risultati del processo. Spesso mette insieme numerose molteplicità, perché lavora su piani diversi, in modo multilaterale e con molteplici stakeholder, e il suo linguaggio può diventare poco chiaro e burocratico. Ma la sua ragionevole intenzione è quella di coinvolgere tutte le parti, affinché le decisioni siano prese tenendo in considerazione interessi molteplici e vari. A livello statale, può assumere la forma del partneriato sociale, quando i governi determinano le proprie politiche dopo essersi consultati con aziende, sindacati e altri gruppi organizzati importanti, quali gli agricoltori, i consumatori o i rappresentanti del settore ambientale. A livello globale costituisce una parte essenziale dei processi delle Nazioni Unite, in particolare il coinvolgimento degli stakeholder nel processo del COP (Conferenza delle Parti) per affrontare la crisi climatica. Anche a livello di Unione europea viene comunemente utilizzato un processo che permette
di tenere in considerazione interessi molteplici e vari. Durante la stesura del Piano d’azione per l’economia circolare, tutte le istituzioni legislative europee hanno riconosciuto il bisogno di un tale approccio. Dopotutto gli obiettivi per arrivare a un’economia di tipo circolare sono ambiziosi e se pienamente realizzati avrebbero un impatto dirompente su molti modelli di attività economica tradizionale, dalla progettazione, alla manifattura, alle filiere fino ai nuovi modelli di proprietà. Nel nuovo spirito di uscita dagli schemi tradizionali per lavorare con nuovi partneriati, la Commissione europea (CE) e il Comitato economico e sociale europeo (CESE), quali rappresentanti della società civile all’interno dell’Unione europea, hanno creato una Piattaforma unitaria per attuare questo processo. Primo nel suo genere, è sembrato appropriato creare un modello per coinvolgere gli stakeholder nell’obiettivo di reimpostare uno schema economico che mostra di non funzionare più. La Piattaforma europea degli stakeholder per l’economia circolare è nata nel marzo del 2017. Il Segretariato è gestito dal CESE, la Piattaforma è aperta a tutti ed è nata con l’intenzione di evitare che diventasse un organismo Bruxelles-centrico, con le solite facce e i soliti interessi consolidati.
Policy
European Circular Economy Stakeholder Platform, https://circulareconomy. europa.eu/platform/en
La Piattaforma invece si sarebbe dovuta estendere a tutti gli Stati membri, raccogliendo esempi concreti di quello che effettivamente funziona nel mondo reale. Inoltre avrebbe facilitato il dialogo e condiviso le lezioni apprese fra i membri attivi in una determinata area, favorendo contatti fra i protagonisti. Allo stesso modo avrebbe identificato cosa effettivamente serve ai decisori politici per aiutare chi tenta il passaggio al pensiero circolare, o a modelli circolari di business. Per arrivare al numero più ampio possibile di persone e organizzazioni è stato creato un sito web che viene visualizzato da circa 7.000 visitatori al mese. Numero che naturalmente aumenta in caso di un evento specifico. Il sito rappresenta un enorme successo, perché ha permesso a chiunque abbia una connessione
internet di accedere a centinaia di esempi pratici di attività nell’ambito dell’economia circolare. Si tratta di un sito interattivo, in cui ci sono forum di discussione e in più la possibilità per gli attivisti dell’economia circolare di pubblicare le loro azioni per favorire la trasformazione. È uno spazio vivo, in costante crescita e sviluppo, ha un live feed delle conversazioni su twitter, e viene costantemente aggiornato con esempi di buone pratiche. Dopo 60 anni, si tratta del primo sito web interistituzionale dell’Unione europea. L’elemento cruciale che lo rende innovativo sta nel fatto che è prodotto dagli stessi stakeholder. Il CESE ospita il sito, ma l’attività online è gestita dalla comunità dell’economia circolare. Ciò significa che le buone pratiche provengono da ogni parte dell’organizzazione, dagli imprenditori, alle grandi aziende, alle imprese sociali. Inoltre lo spazio online offre una piattaforma che permette di relazionarsi e condividere conoscenza e apprendimento.
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materiarinnovabile 27. 2019 Il sito ospita anche una sezione sulle diverse strategie per l’economia circolare nate in Europa, e questo permette a chi sta creando nuove strategie o sta valutando di mettere in atto strategie esistenti di avvalersi di altre esperienze nello stesso campo, o in ambiti collegati. Inoltre il CESE e la Commissione organizzano e ospitano annualmente una conferenza della Piattaforma europea degli stakeholder per l’economia circolare e un’opportunità per costruire reti. Conferenze molto partecipate: lo scorso marzo è stato emozionante vedere i delegati in coda sulla Rue De la Loi a Bruxelles, in attesa di registrarsi all’evento che ha avuto luogo al palazzo Charlemagne. Questi eventi hanno evidenziato il beneficio sinergico della collaborazione fra CESE e CE nel facilitare questo tipo di coinvolgimento degli stakeholder. La Commissione assume titolarità ai livelli più alti, e può comunicare con chiarezza le ultime iniziative e le tendenze future delle proprie proposte legislative e piani di lavoro. Gli stakeholder possono offrire feedback attraverso workshop interattivi. Per progettare un futuro equo, che sia funzionale alla società nel suo insieme è importante essere aperti a tutti i punti di vista.
La CESE si occupa di mettere in rete coloro che stanno lavorando attivamente al cambiamento. Segue poi una seconda giornata di gruppi di lavoro mirati. Quest’anno è stato creato un Networking Village in forma di pop-up, rendendo possibili queste importanti interazioni dirette. Avvicinandosi a mille il numero dei partecipanti a questa conferenza, non è facile far sì che tutte le diverse voci possano essere ascoltate e tutta la conoscenza accumulata possa essere utilizzata. Con questo obiettivo il CESE e la Commissione hanno deciso di creare un Gruppo di coordinamento per facilitare il funzionamento della Piattaforma. Il Gruppo è composto da 24 rappresentanti di stakeholder dei diversi settori – governo locale, società civile, network nazionali o di settore e modo accademico. La creazione di questo Gruppo riflette ancora una volta l’interesse per l’economia circolare che attraversa tutta Europa: i membri sono 24 anche se le domande per farne parte sono state 200. Ovviamente il Gruppo non riesce a includere tutti i protagonisti più importanti e validi del settore, ma cerca comunque di rappresentarne una sezione trasversale e include 13 diversi Stati membri. Un altro approccio innovativo per il coinvolgimento degli stakeholder consiste nel fatto che la presidenza di questo gruppo viene assegnata a rotazione agli stessi stakeholder. Attualmente è presidente del gruppo per l’anno 2019 Ladeja Godina Košir, punto di forza del network del cambiamento circolare in Slovenia. I suoi membri si incontrano una volta all’anno tra una conferenza e l’altra, ma vi sono anche incontri
informali durante i vari eventi sull’economia circolare che hanno luogo in l’Europa. L’enfasi non è sugli incontri in sé, ma sull’azione, e il gruppo ha progettato e sta attuando un piano di lavoro costruttivo per fa sì che la piattaforma più ampia continui a funzionare efficacemente e aggiunga valore alla creazione dell’economia circolare in Europa, e in definitiva alle filiere che si spingono al di là della UE. La Piattaforma è riuscita a superare alcuni dei normali limiti al coinvolgimento degli stakeholder, limiti che spesso riguardano il fatto che sono i gruppi più organizzati ad avere la massima rappresentatività. Il cittadino medio riveste molti ruoli: è consumatore, capofamiglia, uomo d’affari, lavoratore, imprenditore; è autista, noleggiatore, utilizzatore di servizi e così via. Ma il cittadino medio non è sempre organizzato in modo da sentirsi rappresentato in questi ruoli vari e complessi. Gli stakeholder sono spesso gruppi organizzati di poteri forti, con un obiettivo molto specifico. Per progettare un futuro equo, che sia funzionale alla società nel suo insieme è importante essere aperti a tutti i punti di vista. Interessante notare che un nuovo paradigma, o un nuovo modello economico come quello dell’economia circolare, darà origine a nuovi modelli di business e modi di interagire come consumatori con beni e i servizi. Questi futuri gruppi di stakeholder naturalmente non esistono ancora, e questo costituisce un limite quando si tratta di progettare nuovi ambiziosi futuri, coinvolgendo i portatori di interesse. Spesso inoltre ciascun gruppo ha aspetti molto specifici del nuovo paradigma da tutelare. Il modello sperimentale di coinvolgimento degli stakeholder utilizzato per strutturare la piattaforma ha fornito utili lezioni. Il coinvolgimento rende al meglio quando è aperto a tutti. Le istituzioni e i decisori politici possono fornire strutture e supporto preziosi, ma non dovrebbero assumere un ruolo guida quando si tratta di definirne il messaggio. Inoltre la visione del futuro dovrebbe essere comunicata con chiarezza, affinché tutta la società possa aver chiaro quale i benefici che ne ricava, quale che sia il ruolo che i singoli rivestono in quel momento. Il modello economico lineare ha fallito in tutti i modi quantificabili. Abbiamo vissuto attraverso un periodo di collasso economico, degrado ambientale, perdita di biodiversità, ineguaglianza sociale e paralisi dell’azione. Il pensiero circolare offre un piccolo ma importante strumento per realizzare un futuro più luminoso, equo e prospero per tutti noi. La Piattaforma europea degli stakeholder per l’economia circolare deve restare dinamica e reattiva per ottenere dei risultati. Resta da vedere se ciò sarà possibile, ma il messaggio sicuramente è: finora tutto bene. Molto fatto, ancora molto da fare.
Sasint/Pixabay
Dossier
THAILANDIA Sebbene ancora non abbia un sistema di raccolta e riciclaggio efficiente, la Terra dei Sorrisi, sta investendo risorse per cercare di sfruttare in maniera intelligente l’immenso biocapitale del paese e la poderosa quantità di scarti risultanti dalla produzione agricola. Dopo anni di sprechi e noncuranza potrebbe essere l’inizio di un nuovo sviluppo del paese, tra i più ricchi e popolosi della regione.
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Thailandia:
di Mario Bonaccorso
una bioeconomia molto biotech
L’economia biobased è considerata una leva strategica per lo sviluppo industriale del paese nel terzo millennio. E l’impegno è di portare il contributo della bioeconomia al Pil nazionale dal 2% stimato del 2022 al 37% entro il 2037. Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista.
Abbondanza di materie prime, risorse umane altamente qualificate, un’industria petrolchimica con un peso rilevante e un governo che sostiene con convinzione il processo di decarbonizzazione, con un piano per portare il contributo della bioeconomia al prodotto interno lordo nazionale dal 2% stimato del 2022 al 37% entro il 2037. Sono questi, in sintesi, i punti di forza della Thailandia, il paese asiatico che vanta tra l’8 e il 10% delle specie di microrganismi mondiali e circa l’8% delle piante. In Thailandia si produce il 50% della manioca, il 9,4% dello zucchero e il 24,9% del riso che sono commercializzati su scala mondiale. Questa ricchezza di materie prime, unita a un forte sostegno da parte delle autorità governative (National Biotechnology Framework nel 2004, National Bioplastic Roadmap nel 2008, Alternative Energy Development Plan nel 2012, Thailand 4.0 e la Nuova S-Curve nel 2015), sta consentendo un buono sviluppo delle produzioni biobased con l’attrazione di significativi investimenti da parte di grandi multinazionali estere, come nel caso della Total Corbion PLA, la joint-venture tra il gigante petrolifero francese e la società biochimica olandese focalizzata sulla produzione di bioplastiche PLA (acido polilattico). Anche le risorse umane sono sempre più formate a questo scopo: nel 2017, secondo l’Ufficio dell’educazione superiore thailandese, ci sono stati oltre 34.000 laureati in materie scientifiche e oltre 40.000 in ingegneria. Le università, inoltre, offrono numerosi programmi di studio focalizzati sulla bioeconomia, come nel caso della Mahidol University, che ha lanciato un corso di laurea in “Bioinnovation”. La bioeconomia è protagonista dei programmi di sviluppo a breve, medio e lungo termine delle industrie considerate chiave nel piano di sviluppo economico Thailand 4.0. Quando si parla di agricoltura, biotecnologie e alimentazione per il futuro, la bioeconomia è presente, così come nel lungo periodo quando si parla di biocombustibili
e prodotti chimici di origine biologica. In poche parole l’economia basata sulle risorse biologiche rinnovabili è vista come una leva strategica per lo sviluppo industriale del paese asiatico nel terzo millennio. La bioplastica in pole position Uno dei fiori all’occhiello della bioeconomia thailandese è la produzione di bioplastica. La canna da zucchero, convertita in PLA per poi produrre bioplastiche, può incrementare di oltre sette volte il proprio valore, secondo le stime del governo di Bangkok. L’abbondanza di materie prime e la presenza di una forte industria petrolchimica, con circa tremila imprese attive nel settore della plastica, ha favorito la produzione di bioplastiche, il 90% della quale è destinata all’esportazione. Nel 2006 il governo nazionale ha dichiarato l’industria delle bioplastiche come una delle “industrie della nuova ondata” ritenute di primaria importanza per la crescita del paese. Considerata come un’industria emergente, il suo potenziale è enorme, grazie alla presenza di materie prime (manioca su tutto) a basso costo e facilmente disponibili e a un tessuto di imprese produttrici di plastica con canali consolidati per fare arrivare il prodotto finito in tutto il mondo. La Thailandia è il primo esportatore di plastica nel Sudest asiatico e l’ottavo a livello mondiale. La roadmap per le bioplastiche ha favorito l’integrazione e una più stretta collaborazione tra il governo, il settore privato e la comunità dei ricercatori, e ha posto in essere una serie di programmi di supporto, incentivi e infrastrutture per incoraggiare l’innovazione e la commercializzazione, con l’obiettivo ultimo di creare in Thailandia un’industria delle bioplastiche sostenibile in grado di competere su scala internazionale. In questo quadro sono stati finanziati 89 progetti di ricerca e innovazione, è stata istituita un’associazione industriale di
La Thailandia è uno dei principali paesi del Sudest asiatico per il mercato del bioetanolo.
settore, sono stati inseriti degli standard per le bioplastiche biodegradabili e compostabili, rafforzata la cooperazione con altre associazioni industriali in Europa, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, organizzata una conferenza internazionale (InnoBioplast). I player di mercato Alcuni dei maggiori player su questo mercato o sono thailandesi o hanno comunque qui una loro sede. Multibax è una delle società nazionali più famose nel settore. Il suo prodotto bandiera è Mbio-2, un sacchetto in bioplastica biodegradabile che è stato certificato dai maggiori enti di certificazione mondiali. PTT MCC Biotech è una joint venture tra il colosso chimico thailandese PTT Global Chemical e la giapponese Mitsubishi Chemical, che sviluppa un polibutilene succinato biobased (bio-PBS), la cui applicazione principale è nella bioplastica compostabile ricavata da mais, manioca e canna da zucchero. Anche NatureWorks è una joint venture che vede come protagonista PTT Global Chemical, dove nel ruolo di secondo partner si trova l’americana Cargill. Leader nel mercato delle bioplastiche, la società, che ha il proprio quartier generale nel Minnesota, ha una propria sede nelle vicinanze di Bangkok. Infine, Total Corbion PLA ha una presenza ormai consolidata nel territorio thailandese. Il primo nucleo si deve a Corbion, che è attiva nel paese asiatico dal 2005 per la produzione di acido lattico, impiegato per la produzione di bioplastiche (PLA) a partire dallo zucchero. Lo scorso dicembre la
multinazionale franco-olandese ha annunciato l’avvio del suo impianto di bioplastica PLA (Luminy) da 75.000 tonnellate all’anno a Rayong, nell’Est del paese. La nuova struttura produrrà una vasta gamma di resine PLA Luminy da canna da zucchero non Ogm rinnovabile di provenienza locale: dal PLA standard al PLA innovativo, resistente alle alte temperature. I biocombustibili La Thailandia è anche uno dei principali paesi del Sudest asiatico per il mercato del bioetanolo. Nel 2018 la produzione ha raggiunto 1,5 miliardi di litri, triplicando il valore registrato solo dieci anni prima. E l’obiettivo indicato nel Piano di sviluppo di energia alternativa prevede il raggiungimento di 3 miliardi di litri entro il 2026. Secondo lo stesso piano, entro il 2036 la percentuale di energie rinnovabili sul totale dovrebbe raggiungere il 30%, con una crescita sostanziale per i biocombustibili dal 7 al 25%. Il governo di Bangkok punta in modo deciso sulla crescita del mercato, con un obiettivo di crescita del consumo di bioetanolo da 1,18 miliardi a 4,1 miliardi entro il 2036, e del consumo di biodiesel da 1,24 miliardi a 5,1 miliardi entro la stessa data. Tutto ciò si traduce in una serie di incentivi fiscali e sussidi che supportano l’incremento delle flotte di veicoli che possono essere alimentati sia con miscele E20 sia con quelle E85. Anche in questo caso la canna da zucchero e la manioca sono le principali materie prime, con la canna da zucchero che domina il mercato (70% della produzione di bioetanolo) visti i bassi costi di produzione.
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materiarinnovabile 27. 2019 Tra i principali attori del mercato c’è la Global Green Chemicals, prima conosciuta come Thai Oleochemicals Company, che è leader nella produzione di metil estere, usato come ingrediente nel biodiesel. Al suo fianco si trova la Bangchak Corporation Pulic Company, che si è posizionata nel settore delle bioenergie con tre differenti imprese: la Bangchak Biofuel, la Bangchak Bioethanol e la Ubon Bio Ethanol. La Thailandia è il terzo produttore di olio di palma al mondo, e quindi molto del biodiesel thailandese deriva da questa materia prima. L’attrazione degli investimenti
National Center for Genetic Engineering and Biotechnology, www.biotec.or.th/en/ index.php
È un mercato interessante per la bioeconomia quello thailandese. Anche perché non manca il supporto finanziario da parte del governo. Nel 2017 allo scopo di attrarre investimenti stranieri è stato lanciato lo Schema Bioeconomia: 400 miliardi di baht thailandesi (circa 11,7 miliardi di euro) da destinare alla bioeconomia in tre fasi. La prima dal 2017 al 2018 con 51 miliardi, la seconda nel biennio 2019-2020 da 182 miliardi e la terza dal 2021 al 2026 da 132 miliardi. E all’inizio di quest’anno è stato presentato un piano di sviluppo della bioeconomia, guidato dal Consiglio per gli investimenti (Board of Investments), un’agenzia governativa sotto il diretto controllo dell’ufficio del primo ministro. “Verde è la strada da seguire per gli investitori in Thailandia”, ha dichiarato il 4 marzo scorso il vice-primo ministro Somkid Jatusripitak annunciando il piano per la bioeconomia thailandese, con un nuovo generoso schema di incentivi per gli investitori interessati a costruire la nuova economia del Regno, finanziando ricerca, sviluppo e innovazione. Secondo il primo ministro, una bioeconomia in crescita e lucrativa serve a raggiungere il duplice obiettivo di ridurre la disparità reddituale tra gli agricoltori e di creare prodotti con un maggior valore, attraverso la collaborazione fra scienza, agricoltura e industria. “Il pacchetto per promuovere la Thailandia come hub della bioeconomia non dà soltanto alle grandi imprese una opportunità ma supporta anche le cooperative agricole e le comunità d’affari”, ha detto Somkid. Il piano messo in campo dal Consiglio per gli investimenti thailandese assicura agli investitori una esenzione fiscale totale per i primi otto anni e privilegi fiscali aggiuntivi dopo questo periodo (a seconda degli investimenti realizzati), insieme a misure assistenziali per gli agricoltori. Secondo il consiglio, questo schema di incentivi potrà favorire la nascita di diversi cluster in tutto il territorio, focalizzati sugli scarti della frutta nelle province del nord, sulla canna da zucchero e sulla tapioca nel nord-est e sulla palma nelle province del sud. Il piano di sviluppo per la bioeconomia si basa su cinque pilastri: bioenergia, biochimica, alimentazione, mangimistica e biofarmaceutica. Quest’ultima nella concezione del paese asiatico fa parte a pieno titolo della bioeconomia, secondo il modello anglosassone (Stati Uniti e Regno
Unito fanno espressamente riferimento alla biofarmaceutica nelle loro strategie nazionali). “La Thailandia è stata a lungo un semplice esportatore di materie prime per altri paesi che le trasformavano e creavano valore aggiunto. La sfida per il paese è passare da un’economia a basso valore a una ad alto valore”, ha rivendicato Somkid presentando il piano. Il ruolo del centro di ricerca BIOTEC Alla base dello sviluppo della bioeconomia thailandese c’è l’istituzione nel lontano 1983 del National Center for Genetic Engineering and Biotechnology (BIOTEC), diventato a partire dal 1991 uno dei centri di ricerca di eccellenza della National Science and Technology Development Agency (NSTDA) con un focus specifico sul trasferimento tecnologico. Si tratta del principale centro di ricerca asiatico. BIOTEC gestisce unità di ricerca situate presso il parco scientifico della Thailandia e laboratori specializzati ospitati da università differenti, dando lavoro a oltre 500 persone, tra cui 170 dottori di ricerca e 200 assistenti di ricerca e tecnici di laboratorio. L’attività di ricerca copre un’area molto ampia: dalle scienze agrarie alle scienze biomediche e ambientali. Oltre ai laboratori di ricerca, le attività di BIOTEC comprendono anche un programma di sensibilizzazione, la formazione e le relazioni internazionali. Il Centro è finanziato da fondi provenienti dal governo e da fondazioni privati, ma anche da proventi derivanti dalla fornitura di servizi. Di primo livello è l’attività di trasferimento tecnologico a vantaggio di imprese private e pubbliche, specialmente nelle comunità rurali, a cui si affianca una continua opera di formazione del personale nel campo delle biotecnologie. Le biotecnologie industriali sono il vero motore della bioeconomia made in Thailand.
Policy Intervista
di M. B.
La bioeconomia in Thailandia è in forte espansione Mariagiovanna Vetere, direttore Global Public Affairs di NatureWorks
Joint venture al 50% tra l’americana Cargill e la thailandese PTT Global Chemical, NatureWorks è uno dei leader mondiali nel mercato delle bioplastiche. In questa intervista con Materia Rinnovabile, Mariagiovanna Vetere, direttore Global Public Affairs, ci spiega cosa significa investire in bioeconomia in Thailandia, quali i punti di forza e di debolezza del paese del Sudest asiatico.
NatureWorks, www.natureworksllc.com
NatureWorks è un’impresa per metà thailandese. Quali sono i punti di forza della bioeconomia in Thailandia? “La bioeconomia in Thailandia si sviluppa a partire dall’abbondanza di materie prime e biodiversità che il suo territorio esprime; oggi in Thailandia ci sono approssimativamente l’8% dei microorganismi e il 10% delle specie di piante del mondo. La Thailandia produce oggi a livello mondiale circa il 50% della cassava, il 9,4% di zucchero e il 25% circa di riso (Fonti: World’s Top Exports, KrungsriResearch 2017). Questa abbondanza costituisce il suo punto di forza unitamente a una politica chiara di sviluppo che punta sulla bioeconomia sia in termini di finanziari che di sviluppo culturale, dal momento che il governo supporta molti programmi di educazione superiore per la formazione di esperti in chimica, bioingegneria e biotecnologia.”
E i punti di debolezza? “La bioeconomia è in forte espansione, sia nei materiali (biopolimeri, chimica verde) sia nei biocarburanti; a mio parere la sfida che il paese dovrà affrontare è quella della sostenibilità delle biomasse utilizzate. NatureWorks si è impegnata a certificare tutta la biomassa utilizzata oggi e in futuro nei propri impianti proprio per garantire che lo sviluppo della bioeconomia proceda di pari passo con l’agricoltura sostenibile, la protezione del suolo, delle acque e della biodiversità.” La Thailandia sta supportando molto il settore delle bioplastiche. Cosa significa questo per voi in concreto? E quali sono le principali differenze con Stati Uniti ed Europa? “Il governo thailandese sta investendo più dell’Europa e più degli Usa e propone un piano di supporto agli investitori esteri nel paese molto aggressivo. Basti pensare all’esenzione dalle corporate tax fino a 15 anni e alla totale deducibilità delle spese di Ricerca e Sviluppo. Per NatureWorks questo si traduce in un pacchetto di misure molto appetibili in vista della costruzione di un futuro secondo o terzo impianto di produzione del nostro polimero Ingeo.” C’è consapevolezza da parte della popolazione thailandese delle tematiche “verdi”? “La popolazione sta diventando molto sensibile ai problemi legati al cambiamento climatico, anche a seguito delle inondazioni che periodicamente affliggono il paese. Molto sentito anche il tema dell’inquinamento atmosferico e dell’innalzamento dei livelli di PM2,5 dovuto agli incendi delle foreste praticati dai paesi vicini e all’aumento del traffico veicolare.” Quanto è importante l’olio di palma per la bioeconomia thailandese? “Non sono una esperta in materia, ma so che l’olio di palma viene utilizzato nella chimica verde per produrre numerosi prodotti. La Thailandia è un importante produttore di olio di palma, ma non il principale. Anche qui la sostenibilità gioca un ruolo importante per preservare la grande biodiversità delle foreste thailandesi.” Quali sono i piani di sviluppo di NatureWorks nel Sudest asiatico? “A oggi non ci sono piani di dettaglio; stiamo esplorando la possibilità di localizzare uno dei nostri impianti futuri proprio in Thailandia, ma non ci sono ancora certezze in merito.”
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Dossier
GIAPPONE
D’après Yayoi Kusama
A Kamikatsu in Giappone la raccolta differenziata dei rifiuti domestici prevede 45 tipologie di scarti da differenziare. Ma sono già molte le città giapponesi che puntano a zero waste, in un paese che si muove con determinazione verso l’impiego circolare dei materiali.
Policy
Giappone circolare 81% dei rifiuti avviati a riciclo o riutilizzati, una raccolta differenziata che prevede 45 differenti tipologie: nella cittadina giapponese Kamikatsu l’obiettivo è zero waste. Ma è tutto il Giappone che punta a realizzare una società basata sull’impiego circolare dei materiali per ridurre il consumo di risorse naturali e la pressione sull’ambiente. A Kamikatsu, un comune rurale di 1.500 abitanti situato sulla boscosa isola di Shikoku, nell’arcipelago giapponese, la raccolta differenziata dei rifiuti domestici è da record: sono 45 le tipologie raccolte separatamente. Per le strade non ci sono cassonetti e solo di rado, presso le abitazioni dei più anziani, si vedono i veicoli addetti alla raccolta: sono i residenti, infatti, che consegnano loro stessi al centro unificato di raccolta bottiglie, giornali, imballaggi di plastica, accendini, pile.
Akira Sakano
di Silvia Zamboni
Zero Waste Academy, zwa.jp/en
Silvia Zamboni, giornalista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.
“Venti anni fa abbiamo adottato una strategia per arrivare, al 2020, all’obiettivo zero waste. Oggi l’81% dei rifiuti è avviato a riciclo o viene riutilizzato” ha spiegato al World Economic Forum di Davos (febbraio 2019) Akira Sakano, presidente della Zero Waste Academy, l’organizzazione no-profit che cura la realizzazione del progetto di Kamikatsu. I rifiuti di metallo vengono suddivisi in alluminio, latta, acciaio, flaconi spray, tappi per bottiglie; quelli di plastica in bottiglie di Pet, tappi, schiume di polistirolo; le bottiglie sono separate in base al colore del vetro, mentre giornali, cartone, contenitori del latte e stoviglie di carta sono impilati su scaffali diversi. Dagli scarti alimentari si ricava compost presso le abitazioni. “All’inizio tra i cittadini prevalevano scetticismo e il timore di perdere troppo tempo a differenziare. Ma poi sono arrivati benefici inaspettati, come le migliaia di persone che visitano il centro riempiendo alberghi e ristoranti”, ha raccontato con orgoglio Sakano. Al centro di raccolta, molti residenti si occupano del negozio di beni di seconda mano – il kuru-kuro shop – dove si scambiano gratuitamente oggetti usati, mentre nel laboratorio artigianale – il kurukuro craft center – le nonne del villaggio cuciono capi di abbigliamento riutilizzando vestiti vecchi. In occasione delle feste pubbliche un servizio di
noleggio gratuito di stoviglie sostituisce quelle usa-e-getta. Tra le promozioni, una raccolta punti, collegata al conferimento di rifiuti di carta, poi esteso a ombrelli e rasoi monouso, permette di ricevere prodotti omaggio. Infine, il sistema di certificazione zero waste accompagna ristoranti, bar e negozi nel percorso di riduzione degli indifferenziati. Prossimi obiettivi? “Le priorità oggi sono più complesse: da un lato, aiutare Kamikatsu a diventare sostenibile a tutto tondo, anche economicamente, affrontando il tema dello spopolamento; dall’altro, diffondere l’enorme esperienza che abbiamo accumulata: richieste non mancano, specie dai paesi del Sudest asiatico”, precisa Akira Sakano. Se Kamikatsu è stato il primo comune giapponese, nel 2003, a impegnarsi per l’obiettivo rifiuti zero con una delibera approvata dal consiglio comunale, altre municipalità ne hanno seguito l’esempio: Oki (15.000 abitanti), Mizuma (14.000), Minamata (25.000) e Ikaruga (28.000). Mentre Osaki (134.000 residenti), Zushi (58.000), Hayama (33.000) e Soo (13.000) condividono il medesimo target pur senza un impegno formale. La realtà dei comuni giapponesi zero waste non deve stupire: il primo provvedimento nazionale per promuovere la raccolta differenziata e il riciclo di packaging e contenitori (come bottiglie e lattine) è datato 1997. Successivamente nel 2000 il Giappone ha adottato per legge la strategia delle 3R: riduci, riusa, ricicla. Pietra miliare di questo percorso è stata l’approvazione del Fundamental Plan for Establishing a Sound Material-Cycle Society (Legge-quadro per la realizzazione di una società correttamente basata sull’impiego circolare dei materiali). “Questo provvedimento fissa la cornice teorica della costruzione di una società incentrata sulle 3R per ridurre il consumo di risorse naturali
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Yasuhiko Hotta
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Fundamental Plan for Establishing a Sound Material-Cycle Society, 4. ed. giugno 2018, www.env.go.jp/en/recycle/ smcs/4th-f_Plan.pdf
e la pressione sull’ambiente. Inoltre assegna compiti e responsabilità ai vari stakeholder: Stato, amministrazioni locali, imprese e cittadini”, spiega a Materia Rinnovabile Yasuhiko Hotta, direttore del Dipartimento consumo e produzione sostenibile dell’Institute for Global Environmental Strategies di Tokyo (Iges). In base a questa suddivisione, lo Stato regolamenta la gestione post-consumer dei rifiuti domestici, mentre alle amministrazioni locali spetta organizzare la raccolta. “La modalità più diffusa è quella delle stazioni ecologiche realizzate a spese dei comuni e gestite dai cittadini dove, in base ai giorni della settimana, si consegnano determinate tipologie di rifiuti da riciclare”, precisa Hotta. “In alcuni comuni vige la tariffa puntuale pari al costo dei sacchi per il conferimento degl’indifferenziati, un sistema, questo, che contribuisce a ridurne la quantità”. Ci sono anche amministrazioni che
“impongono l’obbligo di scrivere il proprio nome sui sacchi, per poter risalire ai responsabili di eventuali errori nella raccolta. In mancanza del nome, se viene individuata una irregolarità, gli incaricati possono cercano nel sacco elementi utili per risalire al cittadino, al quale – una volta rintracciato – vengono spiegate le modalità corrette di separazione”, completa il quadro Sakano. L’implementazione della Legge-quadro del 2000 è modulata dai piani-obiettivo quinquennali (conosciuti come Fundamental Plan) che fissano i target, le misure per raggiungerli e gli indicatori per monitorare i risultati, come produttività dell’impiego delle risorse, reimpiego di materiali da riciclo nei cicli produttivi e percentuale di riciclo post-consumer. Completano l’impianto normativo le direttive specifiche sul trattamento di veicoli da rottamare, elettrodomestici, apparecchi elettronici
Video “This Japanese town produces almost zero waste”, WEF Davos 2019 www.youtube.com/watch?time_ continue =31&v=uovxjsO4VnY
Sopra: Centro raccolta materiali riciclabili
La iper-differenziata a Kamikatsu Ecco le 45 tipologie di rifiuti domestici raccolti separatamente (tra parentesi la destinazione diversa da riciclo): beni riutilizzabili, rifiuti organici, lattine di alluminio, lattine di acciaio, flaconi spray, tappi di metallo, oggetti di metallo, giornali, imballaggi di cartone, riviste, cartoni per il latte, stoviglie di carta, contenitori in carta e alluminio, cartone, ritagli di carta, materiale misto di carta, vestiti usati, abbigliamento non recuperabile (trasformato in RPF - Refuse derived paper and plastics densified fuel, un combustibile ottenuto da rifiuti di carta e plastica non riciclabili), bacchette di legno per uso alimentare (destinate a combustione e RPF), olio alimentare, packaging di plastica lavato
(riciclo e RPF), packaging di plastica sporca (RPF), polistirolo bianco, altro polistirolo (RPF), bottiglie di Pet, tappi di Pet (oggetti di plastica e RPF), bottiglie di vetro bianco, bottiglie di vetro colorato, bottiglie di vetro di colori misti, bottiglie a rendere, vasetti di vetro, specchi e termometri al mercurio, lampadine e tubi fluorescenti, pile, batterie, accendini, ingombranti di metallo, ingombranti di legno (RPF), materassi (RPF), ingombranti in Pvc e gomma (incenerimento), rifiuti in Pvc e cuoio (incenerimento), pannolini e tovaglioli di carta (incenerimento), pneumatici (RPF), scaldamani e componentistica varia (discarica), elettrodomestici (ritirati dai produttori).
Policy Le attività di sensibilizzazione della popolazione Tra i programmi di sensibilizzazione dei cittadini da citare la “Settimana della riduzione dei rifiuti e della promozione del riciclo” che si apre il 30 maggio di ogni anno. Ottobre è il mese della promozione delle 3R (riduci, ricicla, riusa), con iniziative rivolte a consumatori e operatori economici. La “Campagna per un consumo amico dell’ambiente” è condotta da governo, amministrazioni locali, associazioni di produttori, imprese e rivenditori. Il ministero dell’Ambiente conferisce premi a cittadini, imprese e comunità che si siano distinti nella costruzione della “Società dell’uso circolare dei materiali”. In rete il sito
In basso a sinistra: Kuru-kuru shop, anziana mostra un telo colorato In basso a destra: Donne al lavoro nel craft center
Re-Style sensibilizza sull’importanza della strategia delle 3R. Stando ai dati statistici, più del 60% dei giapponesi fa la raccolta differenziata, acquista prodotti sfusi e usa borse della spesa riutilizzabili; il 20% circa non acquista prodotti usa-e-getta o non necessari, utilizza le proprie bacchette nei ristoranti e compra prodotti usati/da riciclo. In crescita la partecipazione dei cittadini alla rimozione dei rifiuti dopo partite di calcio, altri eventi sportivi o d’intrattenimento.
domestici, packaging, inerti da demolizioni, scarti alimentari. Per promuovere il mercato di prodotti da riciclo e servizi ecofriendly nel 2000 è stato anche approvato il Green Purchasing Act (Legge sugli acquisti verdi), rivolto in particolare alle amministrazioni pubbliche, i cui acquisti rappresentano il 20% del Pil giapponese. Infine, nel 2001 la Legge sulla gestione dei rifiuti e l’igiene pubblica ha introdotto
Re-Style, www.re-style.env.go.jp
severe norme anti-diossina portando alla chiusura dei piccoli inceneritori. Altro pilastro del sistema Giappone è il programma sovvenzionato dal governo delle eco-town che tra il 1997 e il 2007 ha portato alla realizzazione delle infrastrutture industriali per il trattamento e il riciclo dei rifiuti. I quattro piani-obiettivo approvati finora nel corso degli anni si sono ispirati a diverse esigenze.
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Sopra: Kuru-kuru shop
“Nel primo la priorità era promuovere il riciclo per ridurre il consumo di materie prime. Il secondo ha affrontato il problema dell’export, per esempio verso la Cina e i paesi del Sudest asiatico, di beni usati e materiali riciclabili, una prassi assai diffusa e criticata a causa del mancato controllo sulla correttezza del trattamento finale”, spiega Hotta. Oggi che l’export è divenuto illegale, la percentuale un tempo intorno al 30% si è notevolmente abbassata. Il terzo piano è riuscito a dare slancio alle R di riduzione e riuso, mentre il quarto, approvato nel 2018, “affronta a 360 gradi problematiche ecologiche più complesse, oltre la dimensione tout-court dei rifiuti, come gli impegni internazionali sul clima e i Sustainable Development Goal al 2030 dell’Onu”, precisa Hotta. In particolare, il Giappone punta da un lato su nuovi modelli di business non più incentrati sulla sollecitazione della domanda bensì orientati a fornire i beni nella quantità davvero necessaria; dall’altro su servizi in condivisione (sharing) che riducano l’impiego di risorse nella produzione e promuovano l’uso intensivo dei prodotti. L’ecodesign dovrà garantire riparabilità, sostituibilità, smontaggio, raccolta differenziata
post-consumer e aggiornamento dei beni. Nell’ambito dei nuovi business model avranno la meglio i distributori in grado di connettere produttori e consumatori. Grazie a Industria 4.0, internet delle cose, robotizzazione, Big Data, intelligenza artificiale e altre innovazioni tecnologiche si conta di rilanciare l’economia con ridotto consumo di risorse. Il quarto pianoobiettivo delinea anche il ruolo che il paese intende assumere a livello internazionale nell’economia circolare e l’intenzione di espandere all’estero la propria industria di gestione e riciclo dei rifiuti, anche importando rifiuti dai paesi non in possesso delle tecnologie per il riciclo. Tra le misure annunciate, la realizzazione di campagne nazionali di sensibilizzazione dei cittadini per dimezzare, al 2030 rispetto ai livelli del 2000, i rifiuti alimentari e migliorarne il riciclo; la messa a punto di modalità di raccolta dei rifiuti domestici che rispondano meglio all’invecchiamento della popolazione; l’ulteriore promozione dell’impiego di energia prodotta dai rifiuti. Gli obiettivi di dettaglio al 2025 vedono il tasso di impiego di materie da riciclo (sulle risorse usate) fissato al 18% (rispetto al 16% registrato al 2015), il tasso di riciclo dei rifiuti prodotti al 47% (era al 44% nel 2015) e lo smaltimento in discarica scendere a 13 milioni ton/anno dai 14 milioni del 2015. Al 2025 la produzione pro capite di rifiuti domestici dovrà scendere a 0,440 chilogrammo/ giorno (contro 0,507 registrato nel 2016 e lo 0, 653 nel 2000). Dal punto di vista economico, il traguardo al 2025 è il raddoppio del valore del mercato giapponese delle 3R (uso efficiente delle risorse e delle apparecchiature, trattamento e riciclo rifiuti, uso delle energie pulite, edilizia durevole, agricoltura/pesca/gestione foreste sostenibili) registrato nel 2000 e pari a 40.000 miliardi di yen (saliti a 47.000 miliardi nel 2015). Quanto all’uso efficiente delle risorse (espresso dal rapporto Pil/tonnellate di risorse naturali impiegate nel settore industriale e nei consumi dei cittadini) gli indicatori presenti nel quarto piano ci dicono che nel corso degli anni questo
La gestione dei rifiuti post-disastro Dall’11 marzo 2011 il Giappone è alle prese con un problema di straordinarie dimensioni: la gestione dei rifiuti nucleari formatisi in seguito al terremoto e allo tsunami che hanno colpito la centrale di Fukushima. Ma c’è di più. Il rischio terremoti e il ripetersi di eventi naturali estremi fanno temere disastri di proporzioni ancora maggiori se, per esempio, fosse colpita l’area metropolitana di Tokyo. Una situazione che impone al paese “di mettere a punto un sistema di gestione dei rifiuti prodotti da calamità naturali”, recita il quarto piano-obiettivo, perché “intervenire tempestivamente per raccogliere e trattare
i rifiuti nelle aree colpite è essenziale per renderle di nuovo abitabili”. Alla fine del 2016 la percentuale di comuni dotati di un tale piano era però solo del 24%. Per quanto riguarda Fukushima, l’area evacuata è stata quasi interamente bonificata, a parte quella definita con la formula “Ritorno difficile”. Lo stoccaggio del suolo rimosso e dei detriti contaminati è cominciato a ottobre 2017. A marzo 2018, 1,91 milioni di tonnellate erano state trasferite in stoccaggi temporanei e poi sottoposte a incenerimento in impianti provvisori costruiti in vari comuni per distribuire il quantitativo da trattare.
Accredia, L’economia circolare nelle politiche pubbliche. Il ruolo della certificazione, maggio 2018, www.accredia.it/ pubblicazione/leconomiacircolare-nelle-politichepubbliche-il-ruolo-dellacertificazione
Policy
Sopra: Kuru-Kuru craft center, nonne al lavoro
A destra: raccolta differenziata del cartone, centro raccolta Kamikatsu
rapporto è continuamente migliorato (+50% nel decennio 2000-2009), passando da circa 230.000 yen/ton nel 2000 a 380.000 yen/ton nel 2015, per poi stabilizzarsi. Per rilanciare, il quarto piano-obiettivo ha alzato l’asticella a 490.000 yen/ton al 2025. Per fronteggiare i rifiuti di plastica il governo intende promuovere borse per la spesa riutilizzabili, stoviglie non monouso, contenitori riciclati. Per la plastica non riciclabile, e la bioplastica quando raggiungerà dimensioni di massa, si ricorrerà all’incenerimento con recupero di energia.
bolle di accompagnamento elettroniche per la tracciabilità dei rifiuti (dal produttore all’incaricato della gestione) rese obbligatorie per legge per i grandi produttori di rifiuti speciali (escluso pcb). Nuovo target al 2022: 70% di impiego. Si pensa anche a una hot-line telefonica per raccogliere le segnalazioni di smaltimenti illegali da parte dei cittadini.
Sulle percentuali di riciclo raggiunte dal Giappone in alcuni campi ha acceso i riflettori il rapporto 2018 L’economia circolare nelle politiche pubbliche. Il ruolo della certificazione di Accredia (l’ente unico nazionale di accreditamento designato dal governo italiano): 98% per i metalli, mentre negli elettrodomestici si recupera e riutilizza dal 74 al 89% dei materiali. Per esempio proprio con i metalli recuperati dagli apparecchi elettronici verranno prodotte le medaglie per i Giochi Olimpici e Paraolimpici di Tokyo nel 2020. La legge sulla responsabilità estesa del produttore prevede un contributo, a carico dei consumatori, a copertura dei costi del servizio di raccolta e trattamento post-consumer, e incarica i consorzi dei produttori di gestire gli impianti di recupero. Per questo, prima della messa in produzione, le aziende inviano i prototipi agli stabilimenti di disassemblaggio, di cui sono comproprietarie, per testarne la facilità o meno di smontaggio (fonte: rapporto Accredia). Positivo anche il dato sulla diminuzione dei casi di smaltimento illegale scesi da 1.197 nel 1998 a 131 nel 2016 (ma con un singolo caso di ben 5.000 tonnellate di dumping nel 2016). Ciò grazie alla diffusione (53% nel 2017) delle
Tutto in ordine, dunque? Non per la presidente della Zero Waste Academy: “Per i rifiuti prodotti nelle case e nel terziario siamo solo al 20% di riciclo, mentre il restante 80% finisce negli inceneritori. Per imboccare davvero la strada delle 3R il governo dovrebbe destinare agli impianti per le attività di riciclo i sussidi pubblici con cui oggi preferisce incentivare gl’inceneritori”. E pur riconoscendo che “nel settore industriale le percentuali di riciclo sono più elevate perché le imprese hanno le tecnologie per farlo e un range specifico di rifiuti da trattare, ciò che conta davvero è quale percentuale è reimmessa nel ciclo produttivo e quale è utilizzata come combustibile. Sempre meglio che bruciare senza recupero energetico o smaltire in discarica”, osserva Akira Sakano “ma la pratica dell’incenerimento non ha niente a che fare col recupero di materia secondo i fondamenti dell’economia circolare”. “Abbiamo solo questo pianeta e lo stiamo distruggendo” si è rammaricata Sakano al Forum di Davos. “Ho una figlia di pochi mesi d’età e penso che, se non cambiamo le cose, da grande non potrà vedere con i propri occhi, e non solo su internet, le bellezze della natura”. Recuperare e riusare i beni di uso quotidiano contribuisce a ridurre la produzione di rifiuti e a preservare il pianeta, recita il video mostrato a Davos. “Perché il vostro paese non impara da Kamikatsu?” è la domanda con cui si chiude.
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Ecco lo stato dell’economia biobased in Europa Intervista a Michael Carus a cura della redazione
credit: nova-Institute
Lo sviluppo dell’economia biobased in Europa e la transizione a un’economia basata sul carbonio rinnovabile i temi al centro dell’incontro con Michael Carus, amministratore delegato di nova-Institute. Fisico, fondatore e amministratore delegato del nova-Institute, Michael Carus lavora da 20 anni nel campo dell’economia bio e CO2-based. Si occupa principalmente di analisi di mercato, aspetti tecnico-economici e valutazione ecologica, oltre che del contesto politico ed economico necessario ai processi e alle applicazioni biobased. È impegnato nella costruzione di network nel campo delle risorse agricole e forestali, delle sostanze chimiche e dei materiali biobased e delle biotecnologie e bioraffinerie industriali.
Se si osserva lo stato attuale dell’economia biobased in Europa, se ne possono trarre diverse conclusioni. La ricerca e la tecnologia progrediscono in alcuni campi, come quello del settore della chimica fine e delle fibre di cellulosa, mentre l’applicazione pratica, specialmente nell’industria chimica e della plastica, si sta dimostrando complessa, soprattutto per l’assenza di un chiaro impegno da parte della politica. Per sostituire il carbone fossile nell’intera industria petrolchimica, è necessario un approccio nuovo. L’economia biobased deve diventare parte di una strategia pluridimensionale per il carbonio rinnovabile e costituirne un pilastro. Qual è la sua impressione generale sull’attuale stato dell’economia biobased in Europa? “Molto mista. Ricerca e sviluppo stanno andando a piena velocità, le biotecnologie e i catalizzatori chimici hanno continuato a svilupparsi bene negli ultimi anni. Nonostante il prezzo basso
del petrolio, le nuove tecnologie non sono mai state così vicine a diventare redditizie. Anche gli impianti pilota e dimostrativi possono essere finanziati più facilmente di prima. Ma l’applicazione pratica è complessa, specialmente nelle industrie chimiche e della plastica. Manca la volontà politica necessaria per arrivare un’applicazione su larga scala, e in molti paesi europei ci si concentra più sull’esportazione di tecnologia, che sulla sua applicazione a livello domestico.” Quali settori stanno facendo maggiori progressi? “Le aree che non sono in diretta competizione con il petrolchimico: ossia quella chimica fine, come gli ingredienti per alimenti, gli aromi, i cosmetici e i prodotti farmaceutici. I nuovi building blocks offrono funzioni e proprietà nuove che la petrolchimica non è in grado di offrire. Sono prodotti che possono permettersi di essere un po’ più costosi: in questo tipo di applicazioni, i consumatori premiano i prodotti
Foto-Rabe/Pixabay
World
Nova-Institute Nova-Institute è un istituto indipendente di ricerca fondato nel 1994. Offre ricerca e consulenza in particolare sull’economia biobased e CO2-based nel campo del cibo e dei mangimi animali, della valutazione tecnologicoeconomica, dei mercati, della sostenibilità, della disseminazione, del commercio interaziendale e delle policy. Ogni anno nova-Institute – che un fatturato di più di 3 milioni di euro e 30 impiegati – organizza grandi conferenze su questi argomenti.
L’equivalente della decarbonizzazione nel settore energetico è la transizione al carbonio proveniente da fonti rinnovabili nelle industrie chimica e plastica. È l’unica strada.
naturali e biobased. L’altra area di successo è costituita dalle fibre di cellulosa per il tessile, data la domanda elevata di fibre naturali biodegradabili per evitare le microplastiche. Il cotone non è solamente problematico dal punto di vita ambientale, ma scarseggia e non ha margini di espansione. Le fibre di cellulosa sono il gruppo di fibre tessili che registra la crescita più rapida, con circa il 10% di tasso di crescita annuale composto (CAGR). Noi abbiamo tenuto in considerazione questi nuovi sviluppi, e per prima volta nel corso della nostra conferenza più importante, la Conferenza sui materali biobased abbiamo inserito una doppia sessione sulla chimica fine. Stiamo anche programmando una nuova grande conferenza sulle fibre di cellulosa da tenere nel febbraio del 2020.”
La disponibilità di biomassa di prima generazione non è un problema? “Naturalmente la biomassa sostenibile sarà disponibile solo in misura limitata in futuro, nonostante tutti i progressi nel campo dell’efficienza e dell’allevamento, dell’agricoltura di precisione e della digitalizzazione, che non mettono ulteriormente in pericolo la biodiversità. Quindi chiaramente non saremo in grado di coprire il consumo attuale di beni petrolchimici compresi i carburanti (con il previsto tasso di crescita) unicamente attraverso la biomassa. È necessario che cambino sia il lato della domanda sia quello della risposta: la mobilità dovrebbe rapidamente passare a motori elettrici o a idrogeno e lo stesso vale per il settore energetico nel suo insieme. Tutto ciò metterebbe a disposizione biomassa da utilizzare per cibo, mangimi e settori dell’industria chimica. Inoltre oggi esistono altre fonti per procurarsi carbonio rinnovabile, quali la cattura e l’utilizzo del carbonio che andrà a integrare l’utilizzo di risorse biobased. Queste tecnologie possono essere utilizzate per produrre carburanti e sostanze chimiche, sfruttando energie rinnovabili, in modo molto più efficiente e in aree più ridotte rispetto alla biomassa.”
E quale ambito sta, invece, andando male? “La rinascita dell’economia biobased negli anni ’80 aveva dato inizio a un processo di lungo termine di trasformazione dell’intera industria
Sembrerebbe che nei diversi piani di azione per l’economia biobased si prospetti ancora un quadro positivo per il futuro. Che cosa pensa di questo tipo di iniziative?
http://nova-institute.eu
Conferenza internazionale sui materali biobased, www.bio-basedconference.com
petrolchimica. Tecnologicamente questo oggi sarebbe possibile, ma solo se la politica si mostrasse disponibile ad affiancare il processo attraverso un sistema di quote o di tasse sul carbone fossile. I politici non vogliono però mettersi nei guai con la chimica: l’industria chimica e della plastica hanno notevoli problemi di immagine, e inoltre vogliono cambiare il meno possibile le materie prime di cui si servono. Allo stesso tempo anche l’utilizzo di colture alimentari è un tabù per la politica, nonostante colture zuccherine o amidacei siano disponibili a prezzi ragionevoli e non mettano in pericolo la sicurezza alimentare. Le maggiori difficoltà riguardano soprattutto le proteine. In Germania sono state gradualmente eliminate aree di buona produttività per la barbabietola da zucchero a causa della sovrapproduzione, mentre lo zucchero di seconda generazione non decollerà né dal punto di vista tecnologico, né da quello economico. Guardando indietro nel tempo, il forte investimento nella ricerca focalizzata sulle bioraffinerie per la produzione di zucchero fermentabile dalla lignocellulosa su larga scala sembrerebbe essere stato un errore. Quando oggi vengono costruite nuove bioraffinerie in nord Europa, producono principalmente fibre di cellulosa (a causa della forte domanda) o biocarburante (a causa dei sussidi). E si osserva anche una nuova tendenza a realizzare bioraffinerie su piccola scala.”
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materiarinnovabile 27. 2019 “Vero, ma sfortunatamente questi piani di azione rimangono solitamente molto generali, e sono più un piano di ricerca che di applicazione pratica. Sono rare le misure concrete e gli strumenti che sosterrebbero una più forte penetrazione nel mercato. In più, spesso ci sono notevoli contraddizioni: mentre il settore di ricerca e sviluppo progettano e ottimizzano costantemente nuove plastiche biodegradabili, la strategia europea per la plastica non dà loro alcun credito in termini di possibile contributo allo sviluppo sostenibile. Il mercato si trova attualmente in una fase critica: molte aziende hanno investito in modo proattivo in materiali e prodotti biobased perché si aspettavano che i legislatori avrebbero preso misure appropriate, ma ciò non si è ancora verificato. Allo stesso tempo le ong fanno piovere critiche ogni volta che la biomassa è legata al consumo di suolo. Ora che le politiche sono più concentrate sul riciclaggio, molte aziende stanno perdendo interesse nel biobased. Il fatto che ci siano ancora storie di successo è dovuto a singole aziende che continuano a puntare sul biobased, e ai consumatori che non vogliono più la normale plastica basata sul petrolio.”
Renewable Carbon Platform, www.renewable-carbon.eu
Dovremmo continuare a basarci sui materiali biobased per un futuro della chimica più sostenibile? Quali nuove strategie o alternative vedete? “Dovremmo continuare assolutamente in questa direzione, perché abbiamo bisogno di materie prime biobased per rendere sostenibile l’industria chimica. L’economia biobased deve diventare parte di una strategia pluridimensionale per il carbonio rinnovabile, e costituirne un pilastro importante.” Che cosa comporta la “strategia per il carbonio rinnovabile”? “Guardiamola in questo modo: esiste una politica energetica più o meno consistente che mira chiaramente a raggiungere un sistema energetico rinnovabile al 100% basato sull’energia solare, eolica, idroelettrica e altre fonti rinnovabili. Escluse le bioenergie, tutte queste meritano la definizione di ‘decarbonizzazione’, che è diventato un termine abbastanza popolare per la nostra strategia futura. Non esiste però una politica o una strategia corrispondente per il settore dei materiali, soprattutto per l’industria della chimica e della plastica (anche se nel quadro delle politiche sull’economia circolare la ‘decarbonizzazione’ è citata anche per il settore materiale, cosa che non credo sia accurata o appropriata). Il termine decarbonizzazione non ha senso se riferito alla chimica organica, che è basata sul carbonio. Viene utilizzato per scarsa conoscenza e come analogo dell’ambito dell’energia. Non dovremmo mai utilizzarla in questo contesto. Il termine non solo non ha senso, ma è anche rischioso, perché porta a non considerare la questione delle risorse di
carbonio ‘giuste’, che sono invece proprio quelle che dobbiamo offrire. L’industria chimica potrà diventare un settore sostenibile solo quando abbandonerà le materie prime fossili quali il petrolio greggio, i gas naturali e il carbone, e non utilizzerà altro che il carbonio rinnovabile come materia prima nella chimica organica. L’equivalente della decarbonizzazione nel settore energetico è la transizione al carbonio proveniente da fonti rinnovabili nelle industrie chimica e plastica. È l’unica strada.” Come è possibile raggiungere questo obiettivo? “Carbonio rinnovabile è un termine generale che include tutte le forme di carbonio che evitano o sostituiscono l’utilizzo di altro carbonio da fonti fossili della geosfera. Il carbonio rinnovabile può provenire dall’atmosfera (attraverso la sua cattura e utilizzo, CCU), dalla biosfera (attraverso l’utilizzo di biomassa) o della tecnosfera (attraverso riciclo o CCU), ma non dalla geosfera. Queste sono le uniche tre fonti di carbonio sostenibili: riciclato, biobased e basato sulla CO2. Tutte e tre queste fonti di carbonio sono essenziali per una transizione completa al carbonio rinnovabile, e tutte dovrebbero essere utilizzate dall’industria e sostenute dalla politica. Dovremmo evitare guerre fratricide tra loro perché l’unico vincitore sarebbe il carbonio fossile. Per sostituire tutto il carbonio da fonti fossili che potrebbe essere estratto in futuro, abbiamo bisogno del mix più intelligente possibile di queste tre alternative rinnovabili. Dovrebbero essere la tecnologia e il mercato a decidere quali di queste tre opzioni debbano entrare in gioco, e non la politica. È una cosa che dipende da fattori locali e applicazioni concrete.” Sembra promettente, ma come è stata accettata finora questa nuova strategia dall’industria e dalla politica? “La strategia – seppur lentamente – si sta diffondendo come un virus. È sempre difficile sviluppare una politica trasversale, specialmente se tutti sono trincerati nelle proprie lobby. E si deve accettare che a volte per vincere bisogna condividere. Nel frattempo siamo riusciti a convincere una serie di aziende e forze politiche che condividono la nostra visione, e ogni giorno portano avanti un lavoro convincente. Per rendere comprensibile l’argomento quest’anno stiamo preparando un cartone animato e un video su YouTube che saranno pubblicati su Renewable Carbon Platform.”
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materiarinnovabile 27. 2019
L’Italia ha una nuova strategia per la bioeconomia Presentata a Roma il 14 maggio, punta a riconnettere economia, ambiente e società. a cura della redazione
Sostenibile e sempre più circolare: così deve essere la bioeconomia italiana, secondo l’aggiornamento della strategia nazionale presentato il 14 maggio nella sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roma. L’Italia, in questo, segue senza tentennamenti il modello europeo. La Commissione guidata da Jean-Claude Juncker, infatti, ha già presentato il suo aggiornamento nell’ottobre 2018, legando in modo molto forte i due paradigmi della bioeconomia e dell’economia circolare, così come richiesto più volte dalla pluralità degli stakeholder europei. Ma non solo: al pari di Bruxelles, Roma punta in modo deciso su comunicazione ed educazione per rendere consapevole l’opinione pubblica delle grandi potenzialità dell’economia basata sulle risorse biologiche per la creazione di sviluppo sostenibile e posti di lavoro e porre un argine al cambiamento climatico. I numeri già oggi parlano chiaro: il valore complessivo della bioeconomia nella Penisola ammonta a circa 330 miliardi di euro, con 2 milioni
di occupati. Dati, ripresi dal 5° Rapporto sulla Bioeconomia in Europa di Intesa Sanpaolo, ai quali si arriva superando la definizione classica dell’Unione europea per includere nuove filiere come quella del legno e dell’arredo, la gestione dell’acqua e del rifiuto organico delle città. E l’obiettivo al 2030 è ambizioso: realizzare una crescita del 15%, incrementando anche il livello di circolarità dei bioprodotti. A sancire la comunione di visione e strategia tra Bruxelles e Roma ha contribuito anche la presenza nella capitale di Waldemar Kütt, in rappresentanza della Direzione Ricerca e Innovazione della Commissione europea, e Philippe Mengal, direttore esecutivo della partnership pubblicoprivato Bio-based Joint Undertaking (BBI JU), che in questi ultimi anni ha svolto un ruolo fondamentale nel finanziare l’innovazione biobased nel Vecchio Continente. A guidare l’iniziativa per il governo italiano è stato il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, affiancato dal presidente del Comitato nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze
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A livello di visione, la nuova strategia mira a “favorire approcci multidisciplinari per connettere le tecnologie e le pratiche trasformative, e interconnettere efficacemente i principali settori della bioeconomia, attraverso catene di valore sostenibili, abbracciando la produzione di biorisorse (per esempio, agricoltura, zootecnia, acquacoltura, silvicoltura, sistemi marittimi), la loro elaborazione e la valorizzazione dei prodotti finali (industria alimentare e delle bevande, legno, carta, cuoio, tessile, chimica e farmaceutica e settore energetico), facendo leva su settori tradizionali profondamente radicati nel territorio, nonché stakeholder pubblici e privati nelle comunità locali.” Altra novità importante: la biofarmaceutica entra nel concetto italiano di bioeconomia, sulla scia di quanto già fatto in Europa dal Regno Unito (mentre a Bruxelles il dibattito è ancora in corso). In sostanza, la visione e la strategia a Roma sembrano ormai chiare. Resta sempre l’attesa per un piano d’azione che trasformi tutte le traiettorie disegnate in solida realtà. E con il piano d’azione – reclamano gli addetti ai lavori – anche i fondi necessari.
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“Questo processo di transizione nell’economia e nella società deve svolgersi in modo olistico e, per sfruttarne i principali benefici potenziali, i cittadini devono diventare gli attori principali nelle necessarie trasformazioni sociali che l’economia basata sulle fonti biologiche può stimolare”. Il dialogo sociale e la comprensione delle sfide e delle opportunità della bioeconomia sono quindi ritenuti decisivi per stimolare la domanda di
nuovi prodotti e servizi, e quindi per le relative innovazioni e sviluppi tecnologici. “Azioni quali gli appalti pubblici devono essere trasformate in azioni partecipative che consentano l’impegno, la comprensione e il potenziale di replica.”
Siggy Nowak/Pixabay
La Bioeconomia in Europa 5° Rapporto, marzo 2019 tinyurl.com/y36ys99h
lumix2004/Pixabay
BIT Bioeconomy in Italy. A new bioeconomy strategy for a sustainable Italy, maggio 2019 http:// cnbbsv.palazzochigi.it/ media/1719/bit_en_2019_ web.pdf
della vita, Andrea Lenzi, e dal professor Fabio Fava, a cui è spettato il compito di presentare l’aggiornamento, anche in virtù del suo ruolo di coordinatore del gruppo di lavoro che lo ha redatto. Ma vediamo più nel dettaglio i temi affrontati dalla nuova strategia: essa punta in modo ancora più tenace a “ricollegare economia, società e ambiente”. Per vincere questa sfida – si legge nel documento presentato – “non sarà sufficiente utilizzare semplicemente la biomassa per applicazioni industriali o utilizzare materiali rigenerativi invece di materie prime fossili. Bioeconomia non significa semplicemente integrare le conoscenze biologiche nella tecnologia esistente.” “Per affrontare la sfida – si legge ancora – la transizione deve avvenire anche da un punto di vista sociale, stimolando la consapevolezza e il dialogo sociale, portando a un comportamento più consapevole”. Secondo il governo italiano, occorre maggiore conoscenza di ciò che viene consumato – in particolare di prodotti e processi alimentari – per arrivare a miglioramenti delle condizioni di salute e dello stile di vita, stimolando la domanda di innovazione sostenibile da parte delle imprese. Per questo motivo, una delle misure fondamentali a essere richiamata nel documento è lo sviluppo ulteriore dell’etichettatura ecologica (ecolabeling).
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materiarinnovabile 27. 2019
Itelyum:
economia circolare, visione sistemica Leader internazionale nella rigenerazione degli oli lubrificanti usati e nella produzione di solventi, Itelyum rappresenta un esempio di come il concetto di economia circolare possa estendersi dal core business della gestione e valorizzazione dei rifiuti, a una più inclusiva visione economica, ambientale e sociale. di Ilaria Nicoletta Brambilla
Qualche anno fa, l’economista Pavan Sukhdev spiegava nel suo libro Corporation 2020 che le aziende del presente e del futuro avrebbero dovuto comportarsi diversamente da quelle della cosiddetta brown economy, l’economia insostenibile che ha caratterizzato il Novecento. Sukhdev individuava quattro principali linee di trasformazione: allineamento degli obiettivi di impresa con quelli della società per produrre benessere, equità, armonia sociale e ambientale; generazione di ricchezza garantendo la salvaguardia del capitale finanziario, umano e naturale; ricreare senso di comunità e appartenenza e, infine, accrescere il valore dei propri collaboratori attraverso una formazione di responsabilità sociale. Oggi – precisava Sukhdev – quando si parla di economia circolare, è grande il rischio di fermarsi all’aspetto della rigenerazione e del riciclo, ma il modello circolare non può prescindere da una responsabilità complessiva dell’azienda e degli individui che la compongono.
E questo riguarda aziende grandi e piccole e organizzazioni multinazionali. Itelyum rappresenta un esempio di come il concetto di economia circolare possa e debba estendersi, partendo in questo caso dal core business della gestione e valorizzazione dei rifiuti, a una più inclusiva visione integrata economica, ambientale e sociale. Gruppo italiano nato dall’unione sinergica di 16 società – tra cui Viscolube e Bitolea – Itelyum è leader internazionale nella rigenerazione degli oli lubrificanti usati e nella produzione di solventi puri o da reflui chimici, cui si affianca l’offerta integrata di servizi ambientali per l’industria. La missione di Itelyum è quella di aiutare a preservare le risorse naturali e migliorare la qualità della vita, con processi, prodotti e soluzioni sostenibili per la gestione dei rifiuti e l’ottimizzazione dei mercati serviti, condividendo la creazione di valore con i propri business partner, la società e l’ambiente.
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Pavan Sukhdev, Corporation 2020. Trasformare le imprese per il mondo di domani, Edizioni Ambiente, 2015; www.edizioniambiente. it/libri/1076/ corporation-2020
Itelyum, http://itelyum.com
All’interno di Itelyum ci sono tre mondi. Regeneration Solutions che comprende le attività di Itelyum Regeneration Srl, leader in Europa da oltre 50 anni nella produzione di basi lubrificanti rigenerate di qualità attraverso un processo di ri-raffinazione, sviluppato in proprio e brevettato. Attraverso tecnologie come l’idrogenazione catalitica, gli impianti di rigenerazione trattano oli lubrificanti usati per produrre basi rigenerate di gruppo I+ e gruppo II+ performanti e sostenibili, utilizzate dalle più importanti industrie di lubrificazione al mondo. Dagli oli lubrificanti usati si ricavano anche gasolio e bitume. E il beneficio ambientale è notevole: le basi lubrificanti rigenerate di Itelyum comportano infatti la metà delle emissioni di CO2, quattro volte meno emissioni di polveri sottili, cinque volte meno di emissioni di acidificanti rispetto alle basi ottenute dalla prima raffinazione del greggio. Purification Solutions, che comprende le attività di Itelyum Purification Srl, è da oltre 40 anni leader di settore nella produzione e commercializzazione di solventi da valorizzazione di reflui chimici e di solventi ad alta purezza. Ogni anno rigenera o recupera, con rese industriali e qualità elevate, quasi 100.000 tonnellate di solventi usati provenienti principalmente dalla chimica e dalla chimica farmaceutica. I solventi prodotti possono poi tornare verso il settore di provenienza oppure venire valorizzati con nuove formulazioni per soddisfare altri mercati. Anche in questo caso, la purificazione dei solventi comporta emissioni di CO2 fino a 10 volte inferiori all’equivalente produzione primaria. La capacità produttiva comprende anche 100.000 tonnellate di prodotti puri ottenuti da frazioni petrolifere selezionate, stream tecnici e materie prime vergini ed è integrata da attività di trading. Inoltre, un reparto dedicato sintetizza starting material farmaceutici (materia prima o sostanza di partenza utilizzata nella produzione di un composto farmaceutico, ndr) o prodotti custom made (prodotti realizzati specificamente per terzi su richiesta, ndr), attraverso processi che beneficiano anche della sinergia con l’attività di rigenerazione solventi. Infine, Environment Solutions che raggruppa, controlla e coordina 13 aziende situate nel nord Italia che gestiscono oltre 450.000 tonnellate l’anno di rifiuti speciali in tutte le fasi, dalla raccolta, allo stoccaggio, al trasporto e pretrattamento. A questo si aggiungono le attività di servizio e intermediazione, di consulenza ambientale e per la sicurezza, nonché un laboratorio accreditato per analisi chimiche e ambientali e due impianti di trattamento di acque industriali. Con 15 siti operativi in Italia, 500 dipendenti e più di 20.000 clienti sparsi in oltre 50 Paesi, Itelyum ha messo in discussione gli obiettivi tradizionali di una grande società. Non a caso la vision che ha presentato in occasione del lancio del gruppo lo scorso marzo sposa l’idea che essere leader riconosciuto del settore non significhi solo produrre in modo responsabile, commercializzare prodotti sostenibili e mettere a disposizione del
mercato soluzioni integrate, bensì soprattutto essere ispirazione ed esempio per tutti coloro che intendono le persone, le capacità intellettuali, le relazioni sociali e le risorse naturali, tecnologiche o finanziarie, come capitali che non possono essere trascurati o sprecati, ma vanno valorizzati. “Con Itelyum – afferma Antonio Lazzarinetti, amministratore delegato – abbiamo dato vita a una piattaforma industriale e di servizi interamente dedicati a fornire soluzioni sostenibili in grado di generare valore economico e ambientale per le nostre persone, per i nostri clienti, per gli azionisti e per la società nel suo complesso. Le politiche di sostenibilità e responsabilità di Itelyum si ispirano ai più elevati riferimenti internazionali e in particolare alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, alle Convenzioni, Protocolli e Raccomandazioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro, agli standard SA8000, ISO 26000 e alla Global reporting initiative. Tali politiche sono altresì basate sui Codici adottati da Itelyum, sugli accordi siglati con le parti sociali e sugli impegni derivanti dall’adesione al Global Compact delle Nazioni Unite.” A tal fine, il gruppo mette in pratica gli impegni presi attraverso una serie di obiettivi a piccola, media e grande scala. Per esempio, attraverso il costante coinvolgimento e l’informazione trasparente, dal singolo sito operativo al livello corporate, delle comunità locali e della società in generale, comprese le istituzioni, le organizzazioni non governative e i rappresentanti del settore pubblico e privato. Tutte le società del gruppo, inoltre, sono tenute ad applicare principi di uguaglianza verso tutti i dipendenti, appaltatori, subappaltatori, fornitori, clienti, utenti finali e tutti i soggetti coinvolti nella sfera di influenza del proprio settore di attività. Vengono anche stabilite e mantenute relazioni con clienti e fornitori basate sulla partnership, lo scambio di informazioni e la condivisione di impegni e obiettivi comuni, promuovendo relazioni che investano tempo, competenze e risorse per il sostegno delle comunità e favorendo lo sviluppo locale. Non solo: il gruppo e le sue partecipate non forniscono intenzionalmente alcun tipo di supporto a organizzazioni che non siano in linea con gli stessi standard di integrità aziendale adottati per le proprie aziende. Mettendo insieme quindi la creazione di valore per il mercato alla responsabilità ambientale, promuovendo l’uso responsabile delle risorse naturali sull’intero ciclo di vita e adottando modalità gestionali mirate a ridurne il consumo e preservarne disponibilità e qualità, alla responsabilità sociale, con le politiche antidiscriminatorie, di attenzione al benessere dei lavoratori e delle comunità in cui sono inserite, anche attraverso attività di formazione, la nascita del gruppo Itelyum rappresenta non solo un passaggio nella configurazione aziendale bensì il modello della presa in carico delle responsabilità imprescindibili per un’azienda del 21° secolo.
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materiarinnovabile 27. 2019
Urban mining:
il mercato miliardario di rifiuti elettronici dell’India di Soumik Dutta
Mentre le aziende private cercano di entrare nel settore dell’estrazione urbana, il mercato indiano dei rifiuti elettronici è tuttora largamente in mano al settore non regolamentato.
Soumik Dutta è un giornalista investigativo freelance che vive a Kolkata, in India. È specializzato nelle tematiche energetiche e ambientali. Ha scritto anche di problemi di corruzione finanziaria e diritti delle popolazioni indigene.
La Brand Equity Foundation stima che entro il 2022 il mercato dell’elettronica indiano raggiungerà i 400 miliardi di dollari. Secondo il gigante delle telecomunicazioni Ericsson, gli smartphone guideranno il boom in India passando dai 90 milioni di utenti nel 2013 a 520 milioni entro il 2020. Entro la stessa data i rifiuti elettronici composti da vecchi cellulari e computer cresceranno rispettivamente di circa il 1.800% e del 500%, secondo lo studio congiunto dell’associazione di settore ASSOCHAM-KPMG. È dunque decisamente allarmante che in India venga riciclato solo l’1,5% dei rifiuti elettronici totali e che oltre il 95% sia gestito dal settore non regolamentato, mentre il resto finisce in discarica.
L’urban mining è sempre più diffuso in India L’India è il principale utilizzatore mondiale di oro, sebbene possegga una sola miniera operativa a Hutti, in Karnataka, uno stato dell’India meridionale, che produce la quantità irrisoria di due tonnellate all’anno. Per ottenere un grammo di oro occorre estrarre dalla miniera circa una tonnellata di minerale aurifero, ma la stessa quantità si ottiene riciclando circa 41 smartphone. Alla luce di questa opportunità, varie aziende private in India sono entrate nel settore del’urban mining. Prendiamo per esempio Attero, azienda che ricicla 1.000 tonnellate di rifiuti elettronici al mese, estraendo metalli preziosi nel suo mini impianto di riciclo nello stato indiano di Uttarakhand. Grazie alla sua efficienza operativa, modello di business e redditività, ha attirato investimenti per 5 milioni di
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Rudy and Peter Skitterians/Pixabay
dollari dall’IFC International Finance Corporation, il braccio della Banca Mondiale che si occupa di investimenti nel settore privato. Attero è la seconda azienda indiana per dimensioni attiva nell’estrazione di oro dai rifiuti elettronici. Gestisce anche programmi di riacquisto di rifiuti elettronici per aziende come Voltas, Infosys e Wipro. Sono pochi i soggetti in India che posseggono la tecnologia per estrarre metalli rari in maniera redditizia; Attero afferma di aver condotto test di laboratorio riuscendo a ottenere neodimio – materiale che si trova nel 90% dei magneti esistenti – ma tecnologia non è ancora pronta per essere commercializzata. L’attenzione di Attero all’estrazione le ha dato un vantaggio tecnologico: il suo processo brevettato infatti è il più redditizio al mondo. Mentre la maggior parte delle aziende straniere ha un capex (CAPital EXpenditure, investimenti in capitale, ndr) per tonnellata di circuiti stampati (PCB – Printed Circuit Board) equivalente a circa 15.000 dollari, per Attero scende a circa 1.000 dollari. La dimensione degli impianti della maggior parte delle aziende straniere è di 30 ettari, mentre l’impianto di Attero occupa meno di mezzo ettaro. Ma Attero non rappresenta l’unico esempio: E-Parisaraa è un’altra azienda attiva nel riciclo che ha messo a punto i propri macchinari, semplici e a basso costo, per riciclare rifiuti elettronici, un trituratore di circuiti stampati grazie al quale esporta – con l’autorizzazione del governo indiano – i circuiti triturati alla Umicore Belgium. Con l’obiettivo di trovare una soluzione sostenibile al problema dei rifiuti elettronici in India, Attero.in
EcoCentric (azienda attiva nell’estrazione urbana di metalli preziosi) ha costruito un impianto di lavorazione all’avanguardia in grado di trattare 2.500 tonnellate l’anno a Khopoli, nel Maharashtra (certificato come impianto di riciclo conforme ISO 9001, 14001, 18001). Analogamente l’azienda del settore infotech Cerebra Integrated Technologies di Bangalore possiede il più grande impianto di riciclo indiano in grado di processare quasi 90.000 tonnellate di rifiuti elettronici. Cerebra ha individuato una grande opportunità di business nelle montagne di rifiuti elettronici prodotte nella città di Bangalore, pari a 200.000 tonnellate all’anno, da cui estrae oro e platino. In aggiunta ci sono aziende come la Ecoreco che diversifica all’interno della tavola periodica: considerando che ci sono più materiali rari nei telefoni, computer, laptop e tablet buttati via che in tutte le riserve naturali conosciute e solo l’1% di tali elementi viene attualmente riciclato, questo apre le porte a un mondo di opportunità di riciclo. L’economia dei rifiuti elettronici L’India è uno dei maggiori produttori al mondo di rifiuti elettronici. Il Global E-waste Monitor 2017, pubblicato dalla United Nations University, attesta che l’India produce circa due milioni di tonnellate di rifiuti elettronici all’anno. In pratica al quinto posto tra i paesi produttori di tali rifiuti, sebbene non esistano dati ufficiali del governo sui rifiuti elettronici prodotti nel paese. Una legge del 2016 affida alle State Pollution Control Board (SPCB) il compito di redigere stime in merito, ma nessuna SPCB l’ha ancora fatto. Secondo la Central Pollution Control Board (CPCB) in India ci sono 214 riciclatori/smontatori autorizzati. Nel 2016-17 hanno trattato solo 36.000 tonnellate su 2 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici generati in India. In aggiunta ai problemi dell’India c’è quello dei rifiuti elettronici importati illegalmente. Anche in questo caso il governo non è in possesso di cifre ufficiali. Secondo le Hazardous and Other Wastes (Management and Trans-boundary) Rules del 2016, l’importazione di rifiuti elettronici è bandita in India dopo la ratifica della convenzione di Basilea. Mentre nei paesi sviluppati gli alti margini operativi nel settore dei rifiuti elettronici hanno portato alla creazione di grandi aziende di gestione e smaltimento dei rifiuti, in India È decisamente allarmante che in India venga riciclato solo l’1,5% dei rifiuti elettronici totali e che oltre il 95% sia gestito dal settore non regolamentato, mentre il resto finisce in discarica.
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materiarinnovabile 27. 2019 l’industria è controllata dai kabaadis (termine indiano che indica i raccoglitori di rifiuti del settore non organizzato). Un riciclatore organizzato in India ha oneri di inizio attività che vanno dai 10 ai 20 milioni di dollari, secondo fonti industriali. Persino dopo un tale investimento fatica a competere con i kabaadis che possono avviare un’attività con soli 1.000 dollari. Inoltre i venditori restano convinti che sia più conveniente smaltire i rifiuti elettronici con i kabaadis che li raccolgono davanti alla porta di casa e li pagano subito in contanti. Questo ha permesso al settore non organizzato di prosperare, grazie anche alla mancanza di controllo e a scappatoie nel quadro normativo. Moradabad nell’Uttar Pradesh è verosimilmente il più grande e fiorente centro di raccolta non ufficiale per i rifiuti elettronici, insieme a Seelampur a Nuova Delhi e Dharavi a Mumbai. Non c’è però un dato ufficiale uniforme sulla quantità e sugli introiti delle transazioni in questi centri. Nonostante la nascita di settori organizzati nel riciclo e nell’estrazione urbana, i kabaadis non sembra che scompariranno a breve termine. Così come i siti web di e-commerce non causano la chiusura di tutti i negozi fisici.
In India la maggior parte degli operatori del settore organizzato è anche provata dalla scarsità di materie prime, tanto che alcuni riacquistano persino dai kabaadis. Il settore non organizzato ha un vantaggio operativo legato al costo del lavoro dato che non rispetta i salari minimi e si avvale di manodopera semi-specializzata o del tutto non specializzata tra cui un allarmante numero di bambini, stimato nella sconvolgente cifra di 400.000 unità. I kabaadis generalmente dissaldano i circuiti stampati scaldandoli, e poi li immergono in cianuro e altre sostanze chimiche dannose per estrarre oro e altri metalli: ognuno di questi processi è potenzialmente letale. Al riguardo l’International Labour Organisation ha ricordato che l’India, insieme al Brasile e al Messico, dovrà affrontare enormi danni ambientali e sanitari se il riciclo dei rifiuti elettronici verrà lasciato al settore non organizzato. Scappatoie legali in India Molti dei problemi dell’industria possono essere ricondotti a una legislazione inadeguata, attualmente regolamentata dalle E-waste (Management and Handling) Rules del 2011. Il pezzo forte di questa normativa è il concetto di responsabilità estesa del produttore (EPR), che assegna la responsabilità principale della gestione dei rifiuti elettronici al produttore. Come previsto dalle E-waste Management Rules, aggiornate nell’ottobre del 2016, i produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche devono facilitare la loro raccolta e restituzione a smontatori o riciclatori autorizzati. Il 22 maggio del 2018, mentre emanava il suo ordine provvisorio, l’Alta Corte di Delhi ha chiesto all’Union Ministry of Environment, Forest and Climate Change (MOEF&CC) “di ideare un sistema adeguato per inventariare i rifiuti elettronici e di pianificare una strategia per l’adeguata gestione dei rifiuti elettronici entro un tempo stabilito”. Il nemico interno Persino i grandi produttori e i riciclatori autorizzati in India danno in appalto, a quanto si dice, i loro rifiuti elettronici al settore informale per risparmiare denaro. I grandi produttori incontrano alcune difficoltà nel raccogliere rifiuti elettronici per raggiungere i loro obiettivi perché i consumatori di massa tendono a mettere all’asta i loro rifiuti elettronici nel settore non organizzato perché rende più denaro. I produttori in India abitualmente trasgrediscono le regole dell’EPR non avendo sufficienti centri di raccolta e non registrando in maniera trasparente i dati sulla raccolta. C’è chi afferma persino che le aziende che operano nel settore del riciclo siano choosy riguardo ai rifiuti che raccolgono, spesso selezionando smartphone, laptop e tablet che sono redditizi, e ignorando lavatrici e frigoriferi che non risultano altrettanto interessanti.
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Plastica:
il riciclo entra in corsia
Intervista a Susanne Backer
Arriva dalla Danimarca il primo studio pilota per riciclare gli imballaggi in plastica anche in ospedale. Susanne Backer, la responsabile del progetto portato avanti nella struttura sanitaria di Aarhus ce ne descrive i risultati. di Chiara De Carli
Project Manager di comprovata esperienza, Susanne Backer ha una storia professionale specializzata nel settore dei servizi ambientali. Dal 2016 è responsabile del progetto in Economia circolare dell’Ospedale Universitario di Aarhus in Danimarca.
Se nella routine quotidiana con piccoli gesti si può ridurre l’impatto ambientale della plastica, ci sono alcuni settori, come quello della medicina, in cui è davvero difficile. Nel comparto sanitario, infatti, l’85% dei presidi usati è costituito da plastica usa e getta, fondamentale per assicurare gli standard igienico sanitari richiesti a garanzia della loro sicurezza ed efficienza. Nelle corsie ospedaliere la plastica ha fatto il suo ingresso attorno agli anni ’70 sostituendo poco alla volta i presidi esistenti di metallo e di vetro, oggetti che per essere utilizzati venivano sottoposti a costosi processi di sterilizzazione. Il suo avvento ha permesso di ottenere una serie di benefici, tra cui l’ottimizzazione del tempo di lavoro del personale sanitario, la riduzione dei costi e soprattutto la diminuzione dell’incidenza delle infezioni nosocomiali. Una vera e propria rivoluzione, dunque, che ha migliorato il modo di lavorare senza, tuttavia, considerarne le conseguenze ambientali. Oggigiorno, infatti, la maggior parte della plastica che entra in ospedale finisce ancora nel bidone della raccolta indifferenziata. Questo perché i rifiuti ospedalieri sono regolamentati da severe norme (come la direttiva 2008/98/CE, in Italia il DPR 254 / 2003 e D. Lgs. 152/2006 e s.m.i, ndr) le quali non ne permettono lo smistamento, a causa dell’alto rischio di contaminazione. In realtà, parte della plastica destinata agli inceneritori potrebbe essere recuperata, in quanto pulita e riciclabile. È ciò che ha mostrato uno studio pilota iniziato nel 2016, in Danimarca. La ricerca è stata portata avanti nell’ospedale universitario di Aarhus, in collaborazione con l’associazione Healthcare Plastic Recycling Council (HPRC), dove è stato incrementato il riciclo e si
sono cercate nuove soluzioni, al fine di aumentare l’economia circolare. A raccontarlo è Susanne Backer, Project Manager in Circular Economy della struttura, nella quale ogni anno si producono circa 3.200 tonnellate di rifiuti a fronte di 1.150 posto letto e 10.200 dipendenti. “Nel 2017 il 16% della spazzatura prodotta dal nostro ospedale è stato riciclato, mentre l’83% inviato agli inceneritori, l’1% in discarica. Il nostro obiettivo consiste nel riciclare il 50% dei rifiuti entro il 2024, riducendo così il quantitativo inviato agli inceneritori al 49%. In particolare, vogliamo incrementare l’economia circolare. L’iter da perseguire è molto complicato, in quanto dobbiamo sviluppare un modello con criteri da far rispettare alle figure coinvolte in questo settore.” Cosa avete riscontrato dal vostro studio pilota? “Abbiamo svolto un piccolo test, esaminando un campione di 500 kg di rifiuti solidi. Per fare ciò abbiamo chiesto agli operatori sanitari di separare la plastica dal resto e depositarla all’interno di contenitori dedicati. Una volta smistata, abbiamo constatato come 90 kg fossero costituiti dall’imballaggio pulito, proveniente da 162 fornitori diversi. Successivamente la plastica raccolta è stata analizzata, verificandone la tipologia di polimeri di cui era composta. Sicuramente 500 kg non è un campione molto ampio, ma in questo modo abbiamo potuto apprendere che il 18% dei rifiuti solidi prodotti è costituito da imballaggi in plastica pulita. In totale su 3.200 tonnellate di rifiuti si stima che 300 tonnellate siano imballaggi di plastica.”
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La plastica ospedaliera è un problema comune negli ospedali di tutto il mondo, infatti plastica monouso, a doppio involucro e plastica complessa finiscono ancora nell’indifferenziata
credit: Michael Harder
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Giornalista freelance, Chiara De Carli scrive di ambiente e di salute. Negli anni ha collaborato con diverse testate giornalistiche tra cui Il Giorno e TeleLombardia, trattando temi quali ecomafia e consumo del suolo.
Aarhus University Hospital, www.en.auh.dk Plastics Recyclers Europe, www.plasticsrecyclers.eu
Quale tipo di imballaggio è il più diffuso? “Da questo test è emerso come il più ampio campione di plastica fosse dato dalle buste apribili, questo perché in ospedale alcuni presidi debbano essere sterilizzati e consegnati all’interno di queste buste. Questo tipo di imballaggio è costituito da polimeri differenti che ne rendono difficile la riciclabilità. Per questo per noi è di fondamentale importanza collaborare sia con il dipartimento che si occupa degli appalti sia con i fornitori in modo da richiedere requisiti precisi sulla riciclabilità per la partecipazione alle gare. Solo cambiando la domanda d’acquisto degli ospedali potremo indurre a modificare il design della plastica, per ridurla o almeno per renderla riciclabile.”
Tutto questo ne rende difficile il suo riciclo. La nostra analisi ha seguito le linee guida scritte dalla ‘Plastics Recyclers Europe’, ente formatosi nel 1996 per promuovere il riciclo dalla plastica nell’Unione europea. Questi criteri (vedi box) li abbiamo anche trasformati in parametri minimi competitivi per l’accesso a una gara d’appalto svoltasi recentemente per la fornitura di flaconi di soluzione corporea a tutti gli ospedali danesi. Nessuno dei partecipanti ha ottenuto il 50% del punteggio minimo richiesto in relazione alla riciclabilità che pesava solo il 5% nella valutazione totale. Tuttavia, essendo la concorrenza molto forte, i punti guadagnati con essa sono stati determinanti per decretare la scelta del fornitore.”
Come siete riusciti a coinvolgere i fornitori nel vostro progetto? “I dati ricavati dalla nostra analisi sono stati inseriti in un database. In seguito, abbiamo stilato una lista con i 5 fornitori più frequenti che poi insieme ad altri rappresentati sono stati invitati a un incontro durante il quale abbiamo presentato loro le nostre richieste e obiettivi. Li abbiamo chiamati a collaborare a un caso pilota per trovare soluzioni migliori. Insieme abbiamo analizzato uno degli imballaggi più semplici presente in ospedale, ossia i flaconi contenenti soluzioni per l’idratazione corporea (es. soluzione fisiologica, glucosata ecc.). Riciclare questi flaconi presenta una serie di difficoltà. Prima di tutto le bottiglie dovrebbero essere realizzate con un solo polimero e possibilmente in polipropilene (PP) e la plastica utilizzata dovrebbe essere vergine. La maggior parte di questi flaconi, invece, sono costituiti da più polimeri e inoltre presentano un’etichetta incollata e un tappo costituito da una membrana di gomma.
Quali sono le strategie per ridurre il packaging? “Il modo più efficiente è diminuirne peso e volume. Se così si facesse si risparmierebbero soldi e risorse. Limitando il packaging inoltre si riduce il lavoro dello staff ospedaliero, guadagnando tempo prezioso da dedicare ai pazienti. Una seconda strategia consiste nell’usare plastiche riciclabili dove possibile, come nel secondo e nel terzo strato delle buste di plastica (il primo strato deve essere di plastica nuova per mantenere alto lo standard di sicurezza, ndr). Come ultima possibilità rimane il riciclaggio. Se non possiamo ridurlo o riusarlo, possiamo forse riciclarlo, ma per rendere questo possibile abbiamo bisogno di stabilire dei criteri da inserire nei requisiti per le gare d’appalto. I polimeri riciclabili sono PE, PET e PP ed è necessario che i nostri fornitori marchino la plastica con il simbolo internazionale del riciclaggio, oltre a ridurre il più possibile l’uso di materiali misti. Anche la
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Un caso pilota: i flaconi •• Il 95% della confezione totale deve essere costituito da un solo polimero. •• Il cappuccio/capsula deve essere in HDPE, LDPE o PP. Qualsiasi rivestimento, guarnizione o valvola deve essere costituito da HDPE, LDPE, PP o PE + EVA. •• L’anello antimanomissione (tamper ring) deve essere costituito da PP, PE, EPS o OPP e avere una densità inferiore a 1 g/cm3. •• L’etichetta deve essere composta da PP, HDPE o LDPE . La colla deve essere solubile in acqua a meno di 80˚C. L’etichetta deve essere stampata con laser e con inchiostro non tossico sulla base delle linee guida EUPIA.
credit: Michael Harder
Sulla base delle linee guida “Plastic Recyclers Europe”, l’ospedale universitario di Aarhus ha individuato alcuni requisiti minimi necessari per accedere alle gare d’appalto in tutti gli ospedali danesi per la fornitura di flaconi contenenti soluzioni per l’idratazione corporea. •• Le bottiglie devono avere una chiara marcatura che indichi come riciclare i polimeri utilizzati usando i 7 simboli di riciclaggio internazionali. Si preferisce la marcatura conforme alla Raccomandazione CEN WI 261 070, ma si accetta la marcatura conforme alla decisione della Commissione UE 97/129/CE.
Sopra: Un’infermiera dell’AUH mentre sta per indossare dei guanti sterili contenuti nell’imballaggio a doppio involucro, il più diffuso nella plastica analizzata
credit: Michael Harder
A sinistra: Dallo studio è emerso come uno dei reparti in cui si consuma più plastica sia la sala operatoria
combinazione carta-plastica rende le cose molto più complicate. Purtroppo siamo ancora agli inizi. C’è bisogno di tempo, almeno 10 anni.” Quali difficoltà state incontrando? “Il problema della plastica medica è costituito dal fatto che il prodotto finito deve rispettare delle procedure specifiche e degli standard molto elevati. Ciò significa che ci vogliono almeno tre anni per l’approvazione di una qualsiasi caratteristica del design. Occorre tempo e dialogo costante per ottenere dei risultati. Inoltre, i fornitori di dispositivi medico-sanitari vendono su scala mondiale: ciò significa che i cambiamenti che apportano devono essere rilevanti per l’intero mercato globale.”
Come reagiscono le aziende che raccolgono i rifiuti? “Collaboriamo anche con le aziende di raccolta rifiuti, abbiamo dedicato loro del tempo per far comprendere che la plastica che esce dall’ospedale è sicura. Spesso infatti le imprese sono prevenute verso i rifiuti ospedalieri ritenendo che vi sia qualcosa di contaminato all’interno dei sacchi della spazzatura.” Avete contatti con i centri ospedalieri di altri paesi europei? “Siamo in dialogo con alcune cliniche del nord Europa tra cui Norvegia, Finlandia, Svezia, Islanda, Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio; purtroppo non ancora con gli altri paesi membri dell’Unione europea.”
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C’è del buono nella CO2 (basta saperla prendere) Intervista a Fabrizio Pirri di Giorgia Marino
Non basta ridurre le emissioni di carbonio, ecco come al Centro per le tecnologie future sostenibili di Torino si studia anche come catturare, recuperare e valorizzare la CO2 . Fabrizio Pirri, fisico della materia, direttore del Centro per le tecnologie future sostenibili di Torino.
Centro per le tecnologie future sostenibili, www.iit.it/it/component/ content/article/542club-alpino-italianoenvironment-protection
A Torino lo chiamano l’Innovation Mile, il “miglio dell’innovazione”. È un triangolo di città, fra il Po e la Dora Riparia, ad alto tasso tecnologico. Alle sedi del Politecnico, all’Istituto Boella, alle Officine Grandi Riparazioni, ora si aggiunge il nuovo Centro per le tecnologie future sostenibili dell’IIT, inaugurato a ottobre negli spazi dell’hub di imprese green Environment Park. Un grande laboratorio open-space di oltre1.000 metri quadrati sul modello dei centri di ricerca internazionali più all’avanguardia. Con tavoli e postazioni che si guardano e interagiscono, per favorire l’approccio interdisciplinare e la sinergia di competenze. Tutti, però, con lo sguardo rivolto verso un unico macro-obiettivo: la sostenibilità del modello economico futuro. Una sostenibilità che passa, necessariamente, per la riduzione delle emissioni di carbonio, ma anche per la cattura, il recupero e la valorizzazione della CO2. Almeno fino a quando (e sarà ancora per molto tempo, come ha ribadito l’ultimo rapporto World Energy Outlook dell’Agenzia internazionale dell’energia) le attività umane si baseranno principalmente su processi di combustione.
Ne abbiamo parlato con Fabrizio Pirri, fisico della materia e direttore del nuovo ramo torinese dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Come nasce il Centro per le tecnologie future sostenibili? “Nel 2015 l’IIT, Istituto italiano di tecnologia di Genova, era in fase di ristrutturazione del suo piano scientifico, come avviene ogni cinque anni. Si tratta di un reindirizzamento e aggiornamento dei progetti di ricerca in base alle nuove esigenze emerse a livello globale. Visto che Torino è molto fertile nel campo della chimica verde e dell’economia circolare, ho proposto di reindirizzare il centro che già esisteva su questi temi. Contemporaneamente, l’Environment Park ci ha offerto gli spazi per costruire dei nuovi laboratori, più adatti alle nostre esigenze. Cosi, insieme a Guido Saracco, oggi Rettore del Politecnico di Torino, abbiamo progettato gli spazi e reclutato i ricercatori: 27 in tutto, a cui si aggiungono 18 dottorandi, oltre alle collaborazioni con i ricercatori affiliati al Politecnico.” Quali, dunque, i filoni di ricerca a cui vi state dedicando? “Il tema della sostenibilità è qui declinato in tre filoni: la riduzione della CO2 antropica; l’efficienza di risorse ed energia; l’economia circolare, che guarda alla CO2 come scarto industriale da riconvertire in materia prima. Per raggiungere questi obiettivi, i nostri ricercatori lavorano da un lato allo sviluppo di materiali nano-strutturati per la sostenibilità, dall’altro allo studio di processi per il recupero e la trasformazione della CO2 in combustibili (come il metano) o materiali polimerici, preferibilmente biodegradabili.
World Per quanto riguarda la ricerca sui materiali inorganici nano-strutturati, ne stiamo studiando alcune tipologie adatte alla catalisi della CO2 e al suo “intrappolamento” in uscita dai processi industriali.” Quali materiali per esempio? E come si fa a rendere conveniente questo processo? “Si stanno testando vari ossidi metallici, come l’ossido di rame, di stagno, di zinco. Per innescare la reazione con la CO2 è necessario fornire energia,
Giorgia Marino – giornalista freelance e web editor – scrive di cultura, ambiente e innovazione. In passato direttore del magazine Greenews.info oggi lavora per diverse testate tra cui La Stampa.
World Energy Outlook, www.iea.org/weo
meglio ovviamente se da fonti rinnovabili come il fotovoltaico. Scopo della ricerca e dei test condotti è ottenere dei materiali reagenti che richiedano meno energia possibile, in modo da avere un saldo positivo. Quindi, da un lato si cerca di diminuire l’energia necessaria a innescare la catalisi, dall’altro di ottimizzare l’area interessata alla reazione, così da risparmiare materiale. Stiamo inoltre testando i tempi di vita degli ossidi utilizzati, che in ogni caso, una volta che non siano più utili per la catalisi, potranno essere recuperati per altri usi senza impattare sull’ambiente.” C’è poi la questione dello stoccaggio di energia, fondamentale per il futuro sviluppo delle fonti rinnovabili. Anche su questo tema si focalizza il vostro studio sui materiali inorganici… “Infatti. Le batterie oggi in uso si basano su metalli rari e inquinanti, come il litio: puntare, per esempio, a una crescita esponenziale della mobilità elettrica con questo tipo di batterie non avrebbe senso dal punto di vista della sostenibilità. Il nostro obiettivo, allora, è la messa a punto di materiali meno impattanti e meno costosi, che
possano costituire un’alternativa alle batterie odierne. Si tratta dei cosiddetti supercapacitori, spesso a base di carbonio, come il grafene.” In un secondo laboratorio ancora in costruzione vi occuperete invece di synthetic biology… “Sì, anche in questo caso siamo nell’ambito dei processi di valorizzazione della CO2. Si tratta di sintetizzare batteri analoghi a quelli che, ai primordi della vita, produssero l’atmosfera terrestre: in grado, cioè, di digerire l’anidride carbonica e restituire metano e polimeri. In pratica, si costruiranno degli impianti in cui introdurre flussi di CO2 per ricavarne materie prime di valore da reimmettere nel ciclo produttivo.” In cosa consiste il progetto ReCode, a cui state lavorando con il sostegno dell’Unione europea? “Il focus del progetto è il recupero della CO2 rilasciata durante la produzione del cemento e la sua trasformazione in additivi che aumentino le prestazioni del cemento stesso. L’assunto da cui si parte è elementare: una buona parte dei materiali solidi è composta da carbonati (derivati dall’acido carbonico). Scopo del progetto è quindi sequestrare l’anidride carbonica prima che venga immessa in atmosfera e utilizzarla per la sintesi dei carbonati da aggiungere al cemento. I cementifici sono tra i maggiori produttori di CO2 del settore industriale: cominciare da qui ha dunque un valore emblematico. Per ora il progetto è in fase di test nei laboratori di Torino, ma stiamo già lavorando all’installazione di un impianto pilota nel cementificio Titan di Atene, che permetterà di verificare l’efficacia del processo e sarà il primo passo per una successiva industrializzazione. Il reattore si troverà proprio accanto allo stabilimento così che la CO2 in uscita possa essere subito trasformata in carbonato e riutilizzata in loco dallo stesso cementificio, in un sistema a km zero. Idealmente, un reattore di questo tipo potrebbe essere utilizzato non solo per i cementifici, ma per qualsiasi processo industriale.” Il direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia Fatih Birol, commentando l’ultimo rapporto annuale World Energy Outlook, ha dichiarato che le fonti rinnovabili da sole non bastano a raggiungere gli obiettivi sul clima: dobbiamo diventare più efficienti nella “cattura, stoccaggio e utilizzo del carbonio”. Cosa ne pensa? “Non posso che essere d’accordo. La grossa fetta di emissioni prodotte dai processi industriali non è azzerabile. L’unica chance quindi è bloccare la CO2 in uscita dai processi industriali e impedire che venga rilasciata in ambiente. La soluzione ottimale in questo momento è arrivare a un menù misto equilibrato di fonti per soddisfare il fabbisogno energetico globale. E imparare a recuperare, rimettere in ciclo e valorizzare il rifiuto della combustione, che comunque ci sarà sempre.”
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Combattere la plastica
usa-e-getta
Le grandi marche reclutano piccoli innovatori nella battaglia contro la plastica usa-e-getta. di Carol J. Clouse
Carol J. Clouse è una giornalista freelance residente a Brooklyn specializzata in green economy, imprenditoria sociale e investimenti sostenibili. Scrive su The Guardian, HuffPost, Barron’s, The Wall Street Journal, ImpactAlpha e Financial Advisor.
La Nestlé produce 1,7 milioni di tonnellate di plastica l’anno. La Danimer Scientific, impresa di biotecnologie con 101 dipendenti situata nella sonnolenta cittadina di Bainbridge in Georgia, sembrerebbe un partner improbabile per la multinazionale svizzera che è la più grande azienda alimentare al mondo, ma è proprio quello che è successo di recente alla Danimer. A gennaio la Nestlé ha ufficialmente arruolato questa piccola azienda produttrice di polimeri biodegradabili e compostabili per affidarle la produzione di una bottiglia che non sia fatta di plastica derivata dal petrolio. Questo colosso aziendale, che registra una capitalizzazione di mercato di oltre 283 miliardi di dollari, vende acqua in bottiglia in tutto il mondo, comprese
le marche Poland Springs e Zephyrhills negli Stati Uniti. E le bottiglie di plastica nelle quali viene commercializzata sono diventate una piaga ambientale e un problema di pubbliche relazioni. La Nestlé è una tra i numerosi giganti che si stanno attrezzando per combattere su tutti i fronti la plastica usa-e-getta. Tutti i nomi più noti nel settore del cibo e delle bevande, dei prodotti per la casa e per la salute, della bellezza e cura della persona si sono posti l’ambizioso obiettivo di rendere i propri imballaggi completamente riciclabili, riutilizzabili e compostabili entro il 2025. Anche se questi gruppi multinazionali sono in grado di creare nuove tecnologie, ciò non fa propriamente parte del loro core business, e la burocrazia che caratterizza le aziende complesse
World può ritardare il processo di Ricerca & Sviluppo. Per questa ragione alcuni di questi colossi si stanno rivolgendo a imprenditori e innovatori che offrono materiali alternativi, tecnologie avanzate di riciclo e imballaggi utilizzabili a circuito chiuso.
Matthew Gollop/Pixabay
La Danimer sta riadattando un ex stabilimento per la fermentazione delle alghe nel Kentucky, e mira ad avviare le spedizioni commerciali per altri clienti di oggetti compostabili per la casa quali le cannucce entro la fine dell’anno. L’azienda spera di immettere sul mercato entro il 2021 la prossima generazione di sacchetti di patatine della Pepsi compostabili in casa. I marchi mondiali hanno influenza sul mercato e dimensioni sufficienti a trasformare letteralmente i consumi: la Coca-Cola per esempio controlla quasi il 50% del mercato mondiale delle bibite gasate. E la posta in gioco per queste aziende è alta: da un po’ di tempo subiscono pressioni da parte dei gruppi ambientalisti che chiedono loro di ridurre la dipendenza dagli imballaggi plastici monouso. Con la crescita dei divieti da parte dei governi dell’utilizzo di borse di plastica, cannucce e altri articoli usa-e-getta, e considerato che la consapevolezza dei consumatori sta aumentando vertiginosamente, le aziende produttrici di beni di largo consumo stanno diventando il volto dell’emergenza della plastica negli oceani. Nell’autunno del 2018 il movimento Break Free From Plastic ha analizzato circa 200.000 parti di rifiuti in plastica raccolti sulle spiagge di 42 paesi, riscontrando che la maggiore percentuale di immondizia “di marca” proveniva dalle seguenti dieci aziende: Coca-Cola, PepsiCo, Nestlé, Danone, Mondelēz International, Procter & Gamble, Unilever, Perfetti van Melle, Mars e ColgatePalmolive. Non è di certo una top10 alla quale aspirare come azienda. “Per quanto riguarda il problema della plastica, la sensazione è di essere prossimi a una svolta decisiva”, dichiara Graham Forbes, tra i responsabili dei progetti globali di Greenpace, una delle organizzazioni che fa parte del movimento Break Free. “Per gli ultimi 30 o 40 anni i grandi marchi hanno insistito sulla storia che poiché i loro prodotti sono riciclabili, allora sono i consumatori che possono occuparsi dei rifiuti. Data la crescente consapevolezza dell’opinione pubblica le aziende
EKM-Mittelsachsen/Pixabay
“Le aziende di dimensioni ridotte possono essere più agili e accelerare il processo attraverso il quale la tecnologia diventa un prodotto utilizzabile dalla multinazionale” dichiara Mike Otworth, amministratore delegato di Innventure, specializzata nell’identificazione e commercializzazione di tecnologie altamente innovative. Il portfolio di aziende di Innventure comprende la PureCycle Technologies – partner di Nestlé dallo scorso marzo – un’innovativa startup per il riciclaggio della plastica guidata da Mike Otworth.
– in particolare le grandi marche – stanno cambiando atteggiamento al proposito”. Forse abbiamo raggiunto il punto in cui non hanno più alternative. I paesi in via di sviluppo erano già privi di infrastrutture per il riciclo, quando nel gennaio 2018 la Cina ha smesso di accettare i rifiuti in plastica dai paesi industrializzati, mettendo in crisi l’intera industria del riciclaggio. Secondo l’organizzazione no-profit Plastic Oceans International, gli esseri umani continuano però a produrre circa 300 milioni di tonnellate di plastica ogni anno, la metà della quale monouso. E più di 8 milioni di tonnellate l’anno finiscono nei mari. Lavorare alla trasformazione L’universo plastic-free è in espansione da un po’ di tempo e sta dando rapidamente vita a startup e nuovi prodotti. Per esempio, il numero di prodotti compostabili certificati negli Stati Uniti è aumentato dell’80% negli ultimi 3 anni e mezzo salendo a 9.000, secondo i dati dell’ente di certificazione Biodegradable Products Institute. Finora però le aziende che offrono alternative alla plastica usa-e-getta hanno rifornito principalmente mercati di nicchia, quali marchi di prodotti ecocompatibili e ristoranti, bar e negozi sensibili al tema ambientale. L’ingresso sul mercato dei grandi marchi è destinato a trasformare questo aspetto. Offrire i propri servizi a nuovi, potenti partner potrebbe però trasformare alcuni di questi protagonisti di nicchia in veri sabotatori? “Il numero di persone con le quali stiamo lavorando e ci stiamo confrontando è cresciuto enormemente negli ultimi due o tre anni” afferma Richardi Ivey, responsabile marketing della Danimer, aggiungendo che l’azienda dialoga non solo con le multinazionali ma anche con rivenditori
Break Free from Plastic, www.breakfree fromplastic.org Plastic Oceans International, https://plasticoceans.org TerraCycle, www.terracycle.com/ en-US
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Hans Braxmeier/Pixabay
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Fondazione Ellen MacArthur, New Plastic Economy Global Commitment; www.ellenmacarthur foundation.org/news/ spring-2019-report
online e negozi di alimentari, e con start-up che stanno creando prodotti propri. “Ogni giorno riceviamo cinque o sei richieste. Tre anni fa la media era probabilmente di una o due.” La crescita prevista dell’azienda ha spinto la società Advantage Capital a investire nella Danimer 6,5 milioni di dollari, cosa che la aiuterà ad aumentare la propria produttività e a “far crescere significativamente” la propria forza lavoro nello stabilimento di Bainbridge nei prossimi anni, anche se l’azienda non ha specificato il numero di posti di lavoro che pensa di creare. Ivey sostiene che il processo di sviluppo, sperimentazione e approvazione della nuova bottiglia durerà probabilmente alcuni anni. PureCycle riciclerà il tipo di plastica che si trova nei tappi delle bottiglie della Nestlé, utilizzando una tecnologia sviluppata in un laboratorio della Procter&Gamble. John Layman, ingegnere macromolecolare della P&G che lavora anche come chief technology officer alla PureCycle, ha inventato un sistema di purificazione che separa colori, odori e altri contaminanti dai rifiuti in polipropilene, trasformandoli in un materiale abbastanza pulito da poter essere utilizzato in bottiglie da cui bere. Se estesa a un mercato più ampio, questa tecnologia di cui la Innventure, capogruppo della PureCycle, ha acquisito licenza dalla P&G, potrebbe aumentare considerevolmente il tasso di riciclo del polipropilene, che è utilizzato non solo negli imballaggi di cibo e bibite, ma anche nell’elettronica, negli interni delle automobili e in molti altri prodotti. Infatti poiché impiegando i metodi tradizionali di riciclo questo tipo di plastica presenta poi un cattivo odore e un aspetto orribile, negli Stati Uniti ne viene riciclato meno dell’1%, mentre si ricicla il 20% delle bottiglie di plastica, che sono prodotte in polietilene teraftalato o in PET. La PureCycle punta a inaugurare il suo primo
impianto commerciale nel sud dell’Ohio all’inizio del 2021. La prima fase dell’operazione avrà inizio nel corso di quest’anno. P&G e Nestlé sono anche investitori e fondatori del progetto Loop di TerraCycle, lanciato a gennaio al Forum economico mondiale a Davos, in Svizzera. Loop utilizzerà un “modello lattaio”: i prodotti verranno consegnati in imballaggi di alta qualità che potranno essere riconsegnati e riutilizzati più e più volte. Tra gli altri partecipanti al progetto Loop vi sono Pepsi, Unilever, Mars, Clorox, Coca-Cola, Mondelēz, Danone e un’altra dozzina di marchi minori. Obiettivo di TerraCycle è far partire progetti pilota di Loop a Parigi, New York, nel New Jersey e in Pennsylvania a partire da maggio. La bellezza e la bottiglia di carta che resiste alla doccia Chi acquista il nuovo shampoo di L’Oréal Seed Phytonutrients sta già utilizzando un prodotto contenuto in una bottiglia di carta resistente all’acqua. Ideato da Shane Wolf, manager di L’Oréal, questo marchio per la cura naturale dei capelli e della pelle è stato lanciato un anno fa e finanziato dalla conglomerata francese, la più grande azienda cosmetica del mondo con un fatturato di 30,1 miliardi di dollari nel 2018. Opera però come entità separata basata a Doylestown in Pennsylvania, la comunità rurale in cui abita Shane Wolf, e i cui agricoltori forniscono gli ingredienti biologici utilizzati dal marchio. La bottiglia a prova di doccia è prodotta da Ecologic, una piccola azienda di imballaggi sostenibili fondata nel 2008 dall’imprenditrice Julie Corbett a Manteca, in California. Prima di Seed, Ecologic ha rifornito con successo Seventh Generation e alcuni altri piccoli marchi, anche se di recente ha registrato un colossale insuccesso con una bottiglia per il vino in carta. Corbett ha
World dichiarato che quando Wolf la contattò, il suo team stava lavorando a una nuova versione della bottiglia che però non era ancora pronta, e per la quale non avevano ancora trovato nuovi clienti. “Stavamo per andare in bancarotta, e io soffrivo di un serio disturbo post traumatico da stress”, ha raccontato Julie Corbett. “Così quando Shane mi ha contattato ho risposto di no: non volevo un altro fallimento.”
Non ci fermeremo fino a che non avremo trovato un modo di eliminare del tutto la plastica.
Shane Wolf però non accettò il rifiuto: insieme progettarono una bottiglia composta da due pezzi a incastro, interamente compostabile e senza utilizzare colla. La bottiglia è fatta di materiali riciclati prodotti dalle scatole trovate nei centri di distribuzione L’Oréal. All’interno vi è un rivestimento in plastica molto sottile, anch’esso prodotto in materiale post-consumo, che contiene il sapone, lo shampoo o il balsamo liquidi. La prima versione delle bottiglie conteneva il 60% di plastica in meno rispetto a una bottiglia di shampoo standard. “Ho dato alla mia squadra un anno di tempo per ridurre la quantità di plastica del 70%, e ci sono riusciti in 6 mesi”, ha dichiarato Wolf. “Non ci fermeremo fino a che non avremo trovato un modo di eliminare del tutto la plastica.” Si prevede di estendere il progetto, sia all’interno di L’Oréal che oltre. Wolf, che gestisce i marchi Redken, Pureology e Mizani della gamma professionale per capelli di L’Oréal, ha dichiarato che l’azienda convertirà altri marchi al design della bottiglia Seed l’anno prossimo, iniziando con uno dei tre di sua gestione. Allo stesso tempo Corbett sta lavorando per trovare altri clienti per la bottiglia. L’Oréal non è l’unico produttore di cosmetici che si sta orientando al packaging sostenibile. A dicembre la casa di moda Chanel ha annunciato un investimento nella start-up finlandese Sulapac. Co-fondata da due biochimici, Suvi Haimi e Laura Kyllönen, Sulapac produce imballaggi con un materiale biodegradabile brevettato, prodotto da trucioli in legno e leganti naturali. Prendersi una vacanza dalla plastica Anche in altri campi commerciali si sta lavorando per eliminare la plastica usa-e-getta. Nel primo quadrimestre del 2019, Regent Seven Seas Cruises e Oceana Cruises sono diventate le prime compagnie di crociera ad annunciare l’eliminazione delle bottiglie di plastica su tutte le loro navi. Le sostituiranno con bottiglie in vetro riutilizzabile contenenti acqua filtrata attraverso un sistema progettato dalla Vero Water, con sede a Miami. La Vero Water è nata nel 2011, offrendo a ristoranti prestigiosi acqua filtrata a un costo inferiore rispetto a quello della spedizione di acqua in bottiglia. Diventata rapidamente popolare presso hotel e resort, recentemente la Vero Water ha realizzato che il fattore ambientale è diventato
un fattor e primario di motivazione negli acquisti, in particolar modo per le strutture situate sulle spiagge. “Si sono accorti che per chi gestisce un hotel o un resort su una spiaggia incontaminata dei Caraibi, i mucchi di immondizia galleggiante in riva al mare sono un deterrente per gli affari” dichiara David Deshe, fondatore e presidente di Vero Water. Deshe afferma che analizzando gli acquisti di bottiglie in plastica effettuati in passato dai resort, Vero ha osservato che passando a questo tipo di servizio molti hanno eliminato dal proprio flusso di rifiuti tra le 300.000 e le 500.000 bottiglie all’anno. Tra i clienti di Vero Hyatt, Mariott e altri operatori mondiali; inoltre l’azienda sta lavorando con il gruppo spagnolo Iberostar per eliminare completamente le bottiglie di plastica dalle loro proprietà entro la fine dell’anno. “Nei ristoranti e nelle strutture ricettive, l’acqua in bottiglia ha i giorni contati”, conclude Deshe. Un’impresa davvero difficile La strada per eliminare la plastica per coloro che non sono nei top10 degli inquinatori sarà molto più lunga e difficile. La plastica è profondamente radicata nella società e nei business plan. Nel mondo ogni minuto vengono acquistate un milione di bottiglie di plastica, circa 20.000 al secondo, secondo l’ente di ricerca di mercato Euromonitor International. Anche con tutte le migliori intenzioni, raggiungere l’obiettivo del 2025 costituirà una sfida enorme. “Siamo felici di lavorare con persone così motivate”, ha dichiarato Ivey della Danimer. “Speriamo davvero che ce la possano fare, ma è sicuramente un’impresa difficile.” La Danimer ha lavorato per alcuni anni con la Pepsi alla creazione di un pacchetto per le patatine compostabile, e l’azienda ha appena lanciato una versione “industriale compostabile” per la sua marca di patatine Artesanas in Cile. Questo tipo di imballaggio ha bisogno di un programma di raccolta che consegni il rifiuto a un impianto di compostaggio industriale in cui vi siano il calore e l’umidità necessari affinché il materiale si decomponga. Se il sacchetto della Pepsi deve diventare effettivamente compost, occorre che i consumatori in Cile la buttino in contenitori speciali che si trovano solo in alcuni negozi Walmart. I critici sostengono che le informazioni inadeguate sulle etichette e la mancanza di infrastrutture fanno sì che molti pacchetti compostabili finiscono nei normali bidoni dell’immondizia. “Per risolvere completamente il problema è necessario che vi siano le strutture necessarie alla gestione di questi materiali”, riconosce Ivey. “E questo richiederà l’impegno di tutti, dalle aziende ai consumatori ai governi.” Il 13 marzo più di 350 aziende, governi e altre organizzazioni hanno firmato il New Plastic Economy Global Commitment della Fondazione Ellen MacArthur per eliminare la plastica usa-egetta entro il 2025.
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Un barattolino sostenibile e circolare A distanza di tre anni Sammontana – prima azienda italiana del gelato – ha rinnovato l’accordo volontario con il ministero dell’Ambiente con l’obiettivo non solo di ridurre l’impatto ambientale dei processi aziendali, ma di migliorarne la circolarità. di Ilaria Nicoletta Brambilla
Sammontana è la prima azienda italiana del gelato e leader nel settore della pasticceria surgelata, con quattro stabilimenti produttivi e oltre 380 milioni di euro di fatturato (dato 2018). Nel 2016, per prima nel settore, ha deciso di siglare con il ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare un accordo volontario con l’obiettivo di perseguire un approccio di gestione ambientale integrato. Il percorso è partito con l’analisi della carbon footprint dell’intero ciclo di vita (Lca) del prodotto più rappresentativo, il Barattolino, grazie alla collaborazione con il Consorzio Universitario di Ricerca Applicata (C.U.R.A.) dell’Università degli Studi di Padova, ed è poi proseguito con la linea di sorbetti Fruttiamo e con quella dei prodotti dairy-free Amando.
Di recente questo accordo è stato rinnovato e ampliato comprendendo oltre alla compensazione dell’impronta di carbonio e alla riduzione dell’impatto ambientale dei processi aziendali, anche lo sviluppo di un modello di economia circolare con l’obiettivo di miglioramento della propria circolarità. A fini di valutazione della carbon footprint della linea Barattolino Sammontana in ottica di ciclo di vita, sono stati considerati processi quali la produzione delle materie prime e i pretrattamenti (che pesano per il 48,75%), la produzione delle componenti packaging (14,1%), la produzione degli alimenti oggetto di studio – con i processi interni allo stabilimento e considerando tutti i flussi di materia ed energia in ingresso e in uscita dal sistema analizzato – e la distribuzione dei prodotti finiti con lo smaltimento di rifiuti originati dal disimballaggio dei prodotti (rispettivamente 13,28 e 14,43%), i consumi di energia dei punti vendita, la fase di utilizzo dei prodotti e il fine vita dei prodotti (9,44% in totale). Sono quindi state messe a punto delle strategie per la riduzione delle emissioni per ciascuna delle attività del ciclo di vita che hanno comportato, tra l’altro, l’installazione di un cogeneratore nella fabbrica di Empoli, un miglioramento della fase distributiva con
World fine di ridurre l’impronta ambientale delle proprie attività attraverso una maggiore circolarità, il consorzio C.U.R.A. ha costruito un modello che potesse essere adattato alle esigenze di Sammontana, partendo da quello elaborato dalla Ellen MacArthur Foundation per il ciclo tecnologico e aggiungendo un focus sul ciclo biologico in riferimento alla parte edibile. I risultati ottenuti sono stati poi analizzati anche alla luce di quanto emerso dagli studi di ciclo di vita condotti dall’azienda. Questo modello integrato ha consentito di identificare un indice di circolarità a livello aziendale di oltre l’80% sul ciclo tecnologico e del 50% sul ciclo biologico. Ha inoltre portato all’individuazione delle possibili aree di intervento per un miglioramento progressivo con l’obiettivo di mantenere il ciclo tecnologico in linea con le future normative Ue in materia di packaging circolare.
“Barattolino Scuola Missione Green – Un Sogno per Domani”, https://missionegreen. sammontana.it/ progettoscuola
un upgrade del parco mezzi, lo sviluppo di nuove ricette che prevedono la sostituzione del latte vaccino con latte di mandorla (in questo caso specifico della linea Amando è stata ottenuta una riduzione media dei potenziali impatti sui cambiamenti climatici rispetto al prodotto standard del 27%), l’uso di banchi frigo a minore consumo energetico e realizzati secondo un principio di ecodesign, l’alleggerimento e sostituzione del packaging ora riciclabile al 99,5%. Di fondamentale importanza è stato il coinvolgimento della filiera, grazie alla somministrazione di un questionario sulla sostenibilità ai fornitori di materie prime e di imballaggi, con i quali Sammontana sta collaborando per ridurre l’impatto ambientale dell’intera filiera. I dati del 2018 hanno registrato che la gamma Barattolino ha generato un impatto di CO2eq inferiore del 1,9% rispetto a quanto emesso nel 2017 e inferiore del 5,3% rispetto al 2015. Ciò che non può essere evitato, viene compensato. Il programma di Sammontana ha previsto l’acquisto ed il ritiro di Carbon Credit verificati per ogni tonnellata di CO2eq associata alle linee prodotto Barattolino e Fruttiamo, per un totale di 21.975 CO2 tonnellate equivalenti nel solo 2018. Sono due i progetti nei quali Sammontana ha investito per la compensazione delle emissioni: la realizzazione e gestione di un parco eolico in Rajasthan, India, e il progetto “Guanaré Forest Plantations” che consiste nella riforestazione di un’area di 21.291 ettari in Uruguay. Per consentire a Sammontana di avere linee guida operative al
Infine, un forte impegno è stato concentrato da Sammontana sul fronte dell’educazione e della sensibilizzazione ai temi ambientali. In primo luogo all’interno dell’azienda, creando dei gruppi di lavoro ambientali e formando i propri dipendenti verso la riduzione degli sprechi e dei principi della circolarità. In secondo luogo, dando vita a partire dal 2017 al progetto “Barattolino Scuola Missione Green – Un Sogno per Domani” per promuovere nelle scuole primarie di tutta Italia e nelle famiglie degli alunni stili di vita e consumi più green e supportare economicamente il miglior progetto di sostenibilità ideato dai bambini.
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Bellezza ecologica di Elisa Poggiali
Elisa Poggiali, ingegnere, membro del database 100esperte.it nei settori STEM, scrive di energie rinnovabili, risparmio, economia circolare, innovazione, comunicazione per la sostenibilità, sistemi di gestione e certificazioni.
Biomimetica e bioeconomia circolare, sono queste le direttrici lungo le quali sta accelerando l’innovazione cosmetica. A livello internazionale e in Italia, che da tempo rappresenta una bella fetta (60%) del mercato cosmetico al mondo, le attività di ricerca e sviluppo del settore sono volte a individuare i migliori ingredienti ed estratti, provenienti anche dagli scarti di altre produzioni, per garantire da un lato la massima efficacia e tollerabilità e dall’altro minori costi di produzione e ridotti impatti. Ma tutto ciò non è sufficiente per definire un prodotto cosmetico a basso impatto ambientale: la concreta sostenibilità dei processi e dei prodotti si ottiene solo dopo che ne è stato valutato l’intero ciclo di vita, individuando punti critici e possibili soluzioni. Lo spiega bene Susanne Kaufmann, fondatrice dell’omonimo brand di skin-care austriaco: bisogna occuparsi della provenienza degli ingredienti,
Eco-beauty: dal biologico al biomimetico e recuperando materia buona dagli scarti. Ma non basta. controllare come vengono coltivati, lavorati e cosa succede quando sciacquandoli li rimuoviamo dalla nostra pelle. E ancora, occorre fare attenzione al packaging – fornitori, materiali (riciclati, riciclabili, recuperabili, compostabili), trasporto – che rappresenta da solo dal 10 al 40% dell’impatto di ogni singola categoria di prodotto. Si tratta di tendenze che seguono l’interesse del consumatore sempre più consapevole e attento a scegliere prodotti efficaci, sicuri e ben tollerati dall’organismo e che non siano dannosi per l’ambiente. Dalla cosmesi biologica a quella biomimetica La ricerca e sviluppo in ambito cosmetico oggi si sta spingendo verso nuove formulazioni, che vanno oltre il biologico, con ingredienti utili, riconosciuti dall’organismo e in perfetta affinità con esso. Sostanze – si dice – che biomimano l’organismo. Si tratta, in larga parte, di peptidi di origine naturale o riprodotti in laboratorio,
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100esperte, https://100esperte.it
che replicano/mimano l’azione delle proteine naturali dell’organismo, attivando particolari vie metaboliche e che per questo sono efficaci e ben tollerate. Il marchio francese Etat pur è stato il primo a presentare oltre 40 cosmetici definiti biomimetici, detergenti o idratanti, illuminanti o anti età prodotti dalla Dipta, il centro di ricerche e produzione di marche quali Bioderma e Institut Esthederm. Secondo quanto affermato sul loro sito web, il 98% della composizione dei prodotti Etat pur è identica a quella cutanea con cui sono in grado di fondersi, senza perdere in efficacia. È invece tutto italiano il marchio biomimetico Ybiok nato da 3B Italia, azienda di Verona la cui fondatrice e Ceo Elisabetta Celino, ci spiega: “È una piccola rivoluzione: le formulazioni in totale mimesi con il nostro sistema cutaneo garantiscono
un effetto ‘riconoscimento immediato’, un’ottimale veicolazione dei principi attivi, un assorbimento rapido e una tollerabilità altissima”. E non solo, precisa: “Un altro vantaggio importante è la possibilità di utilizzare un solo prodotto per tutte le zone del viso, compresa la delicata zona del contorno occhi”. I prodotti biomimetici non sono necessariamente certificati biologici, né tutti naturali (organici o inorganici senza trasformazioni chimiche) e neppure tutti di origine naturale (con trasformazioni di laboratorio), anche perché non sempre ciò che deriva dalla natura è sinonimo di assoluta tolleranza e sicurezza, né di efficacia del prodotto. Allo stesso tempo l’uso di un componente naturale piuttosto che chimico non dà garanzie relativamente alla sostenibilità, per esempio, sui consumi idrici, su quelli energetici necessari per l’estrazione o sulla persistenza nell’ambiente a fine vita. È anche per questo che l’analisi del ciclo di vita assume un ruolo cruciale per una valutazione completa e oggettiva. Certo è che l’uso di sostanze di derivazione petrolchimica, allergizzanti o con una seppur minima tossicità non può essere ammesso, anche solo in linea di principio, in prodotti che si configurano come “in perfetta affinità” con parti del nostro corpo. Bioeconomia circolare cosmetica: dagli scarti vegetali risorse preziose Un altro fronte di sviluppo della cosmetica riguarda la ricerca di principi attivi – antiossidanti, idratanti, antinfiammatori, nutrienti, leviganti, sbiancanti o
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olii essenziali – presenti negli scarti provenienti dai comparti agricolo e agroalimentare. In diversi casi lo scarto ha addirittura una concentrazione e disponibilità di principio attivo anche maggiore rispetto al non-scarto. Sono quantità significative e hanno costi e impatti di smaltimento molto alti; nella cosmetica trovano un settore promettente perché fonti di sostanze di qualità e a bassissimo costo. Secondo il Gruppo Ricicla Di.Pro.Ve (Dipartimento produzione vegetale, Facoltà di Agraria) dell’Università di Milano in Italia ogni anno si producono 12 milioni di tonnellate di scarti da industria agroalimentare; di questi, la frazione organica arriva a 9 milioni. L’estrazione di biomolecole e principi attivi da questi scarti abbinata alla successiva produzione di bioenergia e di fertilizzanti potrebbe portare, almeno in teoria, a un recupero totale di queste materie. In alcuni processi lo scarto, dopo l’estrazione, è davvero ridotto e il quantitativo da smaltire minimo.
Arterra Bioscience è un’azienda biotech con sede a Napoli che già da diversi anni produce principi attivi utilizzabili in cosmetica derivanti da vinacce, da acque di vegetazione dalla spremitura delle olive e da bucce di pomodori. L’azienda ha creato una joint venture – Vitalab – con Intercos, colosso mondiale della produzione in conto terzi di makeup e skin-care. Sia tramite i loro prodotti sia tramite vendita diretta ai brand a opera di Vitalab, l’azienda è presente in brand sia nella fascia del prestigio, come La Prairie, Chanel, Chantecaille, Eisenberg, Estée Lauder, sia nelle fasce intermedie come Douglas, Kiko e altri. “Abbiamo sul mercato cinque principi attivi derivanti da scarti della filiera agroalimentare, ognuno con una diversa composizione chimica e sottoposti a diverse procedure di estrazione – spiega Gabriella Colucci la fondatrice e AD di Arterra Bioscience e Vitalab – se uno è un ottimo idratante, un altro ha una funzione di antirughe per la sua azione sulla produzione di collagene, elastina e altri componenti della matrice del derma”. Generalmente lo scarto è caratterizzato da una elevata concentrazione di determinate molecole bioattive, è più vantaggioso in termini economici ed estremamente più biosostenibile rispetto a fonti non-di scarto. Per esempio l’acqua di vegetazione derivante dalla spremitura delle olive ha un’altissima concentrazione di polifenoli, molecole dall’elevatissima azione antiossidante, superiore a quella presente nell’olio di oliva alimentare o a uso cosmetico. “Lo scarto – precisa Gabriella Colucci – può essere di natura sia agricola sia agroalimentare, ma la cosmetica non ama la chimica per cui gli scarti farmaceutici o di altri settori industriali trovano difficile applicazione”. È più recente l’esperienza di Dermosfera, azienda italiana nel settore dell’estetica professionale che dal 2017 realizza, in collaborazione con uno spin-off dell’Università di Bologna, la linea cosmetica Rhea che utilizza scarti alimentari come l’estratto di pomodoro e l’estratto di rucola. “Questi sottoprodotti – racconta l’ideatore e responsabile ricerca e sviluppo del marchio Rhea, Gianmarco Alfonso – sono recuperati dai residui e dall’invenduto del mercato rionale di Bologna in un approccio a km zero, dove i produttori sono piccole aziende locali che coltivano secondo un modello certificato biologico o quantomeno con un approccio non di natura intensiva”. Nella linea Rhea è stato messo a punto un processo di estrazione a base ultrasonica per vibrazione molecolare e non basato su solventi chimici. “A conclusione di questo particolare processo – aggiunge Gianmarco Alfonso – si ha un reimpiego delle materie agricole del 100%, senza spreco alcuno”. La lista degli scarti utilizzabili in cosmesi per le particolari proprietà dei principi attivi estraibili è in continua evoluzione e comprende anche le bucce degli agrumi, ricche di olii essenziali, gli scarti della raffinazione degli oli di riso, sesamo e girasole o dalla frutta secca – tutti ricchissimi di
World antiossidanti. Lo scarto della raffinazione dell’olio di riso (l’olio di crusca di riso) è utilizzato già dal 2004 da Venice Cosmetica, laboratorio cosmetico nato nel 1976. “Numerosi studi – afferma Roberta Destro, uno dei soci dell’azienda – confermano l’importanza dell’olio di riso come base nei cosmetici: il gammaorizanolo in esso contenuto è un filtro solare naturale che dovrebbe essere sempre impiegato nelle creme da giorno antietà per combattere i radicali liberi. Inoltre la linea Venice Cosmetica contiene estratti dal mais, dal girasole e acido ialuronico”. La cosmetica eco
Il governo italiano […] ha legiferato, al pari di altri paesi in Europa e degli Stati Uniti, vietando dal 2020 l’impiego di microplastiche nei prodotti cosmetici.
Oggi quando si parla di sostenibilità, come precisa Elisabetta Celino di Ybiok, “la tendenza è proporre al consumatore non solo prodotti rispettosi della pelle ed efficaci: le stesse multinazionali hanno la necessità di presentare una filosofia produttiva coerente al messaggio dei prodotti”. Lo sostiene anche Umberto Borellini, farmacologo e cosmetologo, docente presso vari atenei tra cui l’Università di Pavia e di Tor Vergata a Roma. “Ho iniziato a utilizzare scarti della pesca 30 anni fa per ottenere chitosani estratti dal guscio dei crostacei; se, quando formulo, si utilizzano sostanze dallo scarto per ottenere prodotti ugualmente efficaci, ne sono felice e il consumatore anche, ma non basta. Nel settore cosmetico – aggiunge Borellini – devono trovarsi applicazioni ancora più ambiziose: il sostegno a produzioni etiche provenienti dei paesi in via di sviluppo, un packaging del tutto compostabile e, soprattutto, bandire le microplastiche nei cosmetici”. Anche lui, in accordo con Susanne Kaufmann, punta l’attenzione a seguire tutto il ciclo di vita del prodotto. Ciò che utilizziamo e laviamo via non sempre è biodegradabile (e in tempi brevi) e può essere dannoso a forti concentrazioni soprattutto per gli ecosistemi acquatici. I prodotti peggiori in
questo senso sono i filtri e i parabeni delle creme solari e le microplastiche dei prodotti esfolianti e dei dentifrici. Per quest’ultime però il governo italiano si è mosso e ha legiferato, al pari di altri paesi in Europa e degli Stati Uniti, vietando dal 2020 l’impiego di microplastiche nei prodotti cosmetici. Del resto le soluzioni già ci sono: bioplastiche derivanti da scarti vegetali in creme e prodotti per lo scrub con la stessa identica funzione ed efficacia delle microplastiche non vegetali. “Altre valide alternative per gli scrub sono la zeolite, i gusci di nocciola tritati e il glucomannano derivante dalla fibra alimentare”, precisa Borellini. L’applicazione dell’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, Lca) alla filiera cosmetica è oggi il modo più efficace per valutare e comparare tutti questi aspetti e tutte le soluzioni, e ricavare un buon prodotto a minor costo e minori impatti possibili. Unifarco è stata la prima azienda cosmetica a ottenere l’Epd (Environmental Product Declaration, Dichiarazione ambientale del prodotto) a seguito di una valutazione di ciclo di vita in linea con prestabilite Pcr (Product Category Rules). Le valutazioni hanno considerato tutti gli aspetti e le ricadute ambientali di ogni fase di processo: dal reperimento delle materie prime e di quelle recuperabili, ai fornitori, ai consumi e impatti di produzione e trasporto, al packaging e allo smaltimento, fino all’immissione – durante l’uso del prodotto – nell’ambiente, dandone conto in una dichiarazione finale. Solo così si avrà una cosmesi che non fa male all’ambiente, eco o green che dir si voglia, che si aggiunga alla ricerca del momento sui prodotti a partire dagli ingredienti, come nella biomimesi o nel riuso degli scarti, per garantire sempre più efficacia e tollerabilità degli ingredienti e minori costi ma, anche, grazie all’Lca, minori impatti a tutto campo.
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Progetto RETRACE di Silvia Barbero e Amina Pereno Silvia Barbero è professore associato presso il Politecnico di Torino. È docente dei corsi in Requisiti ambientali del prodotto e in Design sistemico ed è coordinatrice di progetti europei e nazionali sull’approccio sistemico e l’economia circolare. Amina Pereno è research fellow presso il Politecnico di Torino, dove porta avanti ricerche nel campo del Design sistemico applicato ai sistemi industriali, con particolare attenzione al campo sanitario. È co-docente del corso in Requisiti ambientali del prodotto.
Una visione sistemica per politiche circolari L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile riconosce l’economia circolare come il modello economico e produttivo a cui puntare per garantire la sostenibilità dei nostri sistemi economici. L’urgenza di uno sforzo collettivo per attuare questo cambio di paradigma è riconosciuta a livello globale, ma i passi da compiere per avviare un cambiamento concreto devono rispondere alle specificità di ogni territorio. “La transizione verso un nuovo modello economico che integri tutti i pilastri della sostenibilità ambientale dovrebbe essere al centro della nostra attenzione. Tutti i livelli (globale, europeo, nazionale, regionale, locale e municipale) e tutte le parti interessate (tra cui attori pubblici e privati, settore finanziario, società civile, università) dovrebbero prendere parte attivamente al cambiamento del sistema”. Con queste parole durante il primo evento internazionale del progetto RETRACE (A Systemic Approach for Regions Transitioning towards a Circular Economy), Janez Potočnik – ex commissario europeo e attuale co-presidente dell’International Resource Panel dell’Unep – ha sottolineato la necessità di un’azione di governance multilivello sul tema dell’economia circolare. Il senso del programma Interreg Europe, di cui RETRACE fa parte, è proprio quello di costruire politiche locali e regionali innovative attraverso un confronto a livello europeo, obiettivo che risponde all’esigenza di una visione comunitaria e al contempo locale sul tema dell’economia circolare. Avviato nel 2016, RETRACE è un progetto Interreg Europe di quattro anni coordinato dal Politecnico di Torino. Coinvolti i partner scientifici e le amministrazioni regionali di 5 paesi europei: Italia (Piemonte), Spagna (Paesi Baschi), Francia (Nuova Aquitania), Romania (regione Nord-Est) e Slovenia. L’obiettivo è sperimentare la metodologia
del design sistemico per analizzare i territori coinvolti e contribuire a modificare le strategie politiche delle regioni partner in direzione di una nuova economia circolare. Il progetto, pertanto, lavora a livello interregionale e inter-settoriale per promuovere un cambio di direzione in termini di policy. Sebbene l’ambito d’azione possa sembrare macroscopico, RETRACE punta a rimuovere gli ostacoli normativi, burocratici e culturali che gli innovatori devono affrontare nel momento in cui mettono in atto soluzioni circolari sul proprio territorio. La progettazione è proprio l’elemento metodologico innovativo del progetto. Anche se siamo abituati ad associare il design alla creazione di prodotti, servizi o esperienze d’uso, in realtà ma gli strumenti del design, uniti al systems thinking, permettono anche di affrontare efficacemente problemi complessi in termini di scala e di complessità socio-tecnologica. Così, nel progetto RETRACE, il design sistemico incontra il policy making per mettere a sistema le potenzialità e le buone pratiche territoriali, consentendo alle regioni di acquisire conoscenze e strumenti per valorizzare questo potenziale. Il punto di partenza è il “rilievo olistico”, un’analisi approfondita dei sistemi esistenti che permette di mappare i punti di forza e le criticità su cui impostare il progetto del nuovo sistema. In questo caso, il rilievo dei territori coinvolti ha analizzato i dati geografici, demografici, economici, culturali e urbanistici delle regioni, per poi prendere in considerazione i principali settori economicoproduttivi del territorio. L’analisi dei flussi di input e output di risorse materiali ed energetiche è un altro elemento fondamentale per iniziare a creare connessioni produttive tra settori diversi. Nel complesso, il rilievo olistico ha contribuito a definire le potenzialità dei territori, ma soprattutto i policy gap che rendono difficile lo sviluppo di processi circolari.
Screenshot tratti da: RETRACE project Interreg Europe – canale Youtube
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Progetto RETRACE, www.interregeurope.eu/ retrace La metodologia, le buone pratiche e i risultati del progetto RETRACE sono raccontati in una collana di tre volumi, scaricabili gratuitamente. Systemic Design Method Guide for Policymaking: A Circular Europe on the Way, www.ilgiornaledellarte. com/allegati/ FILE20180417190546704 Good Practices Guide: Systemic Approaches for a Circular Economy, www.ilgiornaledellarte. com/allegati/ FILE20181005190857132 Policy Road Map. A Systemic Approach For Circular Regions, www.ilgiornaledellarte. com/allegati/ FILE20181005190949883
Una volta definite le peculiarità e le lacune di ogni territorio, il passaggio alla proposta di nuove policy avviene partendo dalle realtà che sono già state in grado di superare le barriere legislative e valorizzare le risorse locali in ottica circolare. Per questo i partner e gli stakeholder hanno partecipato a sette visite sul campo nelle regioni coinvolte e in Olanda e Scozia, aree trainanti per l’innovazione verso l’economia circolare. Le migliori 30 good practices europee sono state analizzate per capire come questi casi virtuosi possano essere incentivati e replicati attraverso strategie politiche mirate. Infine per ogni regione coinvolta è stato elaborato un Piano d’Azione regionale, definito dall’Interreg Europe come “un documento che fornisce dettagli sulle modalità di attuazione degli insegnamenti appresi nell’esperienza di cooperazione per migliorare gli strumenti politici regionali”. Nel Piano sono descritte “le azioni da realizzare, le tempistiche di attuazione, gli attori coinvolti, i costi e le possibili fonti di finanziamento”. In pratica si tratta di un piano concordato e firmato dalle autorità regionali in cui sono indicate diverse azioni politiche che, nel breve periodo e concretamente, puntano a incentivare la sperimentazione e l’implementazione di attività di business e di ricerca industriale sull’economia circolare. Per questo motivo, tutti i Piani d’Azione regionale agiscono sullo strumento Erdf – European Regional Development Fund – nato per rafforzare la coesione tra le regioni europee investendo sulla ricerca e sull’innovazione nei settori d’eccellenza di ogni regione. Attualmente, l’Erdf prevede l’allocazione di parte dei fondi su progetti che muovono verso una low-carbon economy. Introdurre nuove politiche mirate all’economia circolare nella gestione di questo importante strumento segna un passo fondamentale. Il concetto di circolarità, a livello politico, implica l’agire sull’attuale
visione verticale degli ambiti di innovazione per rendere possibili collaborazioni trasversali, che trascendono i settori industriali e affrontano simultaneamente tematiche differenti. Nonostante la collaborazione all’interno del progetto RETRACE abbia evidenziato l’esistenza di gap comuni alle cinque regioni partner, l’unicità di ogni Piano d’Azione regionale è un aspetto fondamentale proprio perché è unico il percorso di ogni regione verso l’economia circolare. Le Smart Specialisation Strategies sono strumenti di policy nati da questo presupposto di unicità, con l’obiettivo di migliorare l’efficacia delle politiche pubbliche per la ricerca e l’innovazione, rendendo gli investimenti comunitari, nazionali e regionali coerenti con il potenziale di innovazione di ogni regione. I Piani d’Azione elaborati in RETRACE si inseriscono nelle Smart Specialisation Strategies delle regioni partner per promuovere azioni rivolte ai settori più innovativi e competitivi di ogni territorio. In questo modo è possibile orientare gli strumenti esistenti verso un’innovazione di tipo circolare, agendo non solo sul piano regionale ma anche nazionale e comunitario. Oggi anche se i Piani d’Azione regionale sono in fase di attuazione, il progetto non si è esaurito con la loro elaborazione ma mira a implementare e monitorare le azioni per capire se – e come – possano effettivamente favorire la transizione verso l’economia circolare. Come in ogni percorso di design, la soluzione attuata non è mai il punto di arrivo, ma una tappa intermedia che apre a nuove direzioni di ricerca e di progettazione verso un’innovazione intelligente, sostenibile e circolare.
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LCA, uno strumento indispensabile
Intervista a Marcus Wendin
Foto di Pontus Johansson
Le valutazioni del ciclo di vita (Life Cycle Assassment, LCA) sono molto più della valutazione dei singoli prodotti.
di Irene Baños Ruiz
Stratega ambientale specializzato in progettazione ecologica, Marcus Wendin utilizza il metodo LCA dal 1998, quando ha iniziato a lavorare per Volvo Technology. Dal 2003 gestisce la sua azienda, Miljögiraff, che aiuta le imprese a comprendere l’impatto ambientale dei loro prodotti dal punto di vista del ciclo di vita e a sviluppare alternative sostenibili.
Miljögiraff, www.miljogiraff.se
“Se vogliamo utilizzare un prodotto in un’economia circolare dobbiamo tenerne conto sin dalla fase di progettazione.” Questo messaggio sta diventando una specie di mantra tra i professionisti coinvolti nella transizione verso un’economia circolare. In questo caso, la citazione proviene da Marcus Wendin, esperto di valutazioni del ciclo di vita (LCA) che utilizza questo metodo per le valutazioni ambientali dal 1998, quando ha cominciato a lavorare per Volvo Technology. Nel 2003 ha avviato la sua azienda, Miljögiraff, che offre consulenze al mondo del business sull’impatto ambientale dei prodotti dal punto di vista del ciclo di vita e su come sviluppare alternative sostenibili. Il termine LCA può suonare familiare a molti, ma pochi hanno un’esperienza sul campo paragonabile a quella di Wendin. Attraverso la sua esperienza fornisce esempi concreti di LCA citando casi di studio e spiega quali sono i passaggi più complicati nell’uso di questo metodo e, in breve, come aumentare la circolarità nella società. Per Wendin una delle chiavi per avere successo nella transizione consiste nel mettere in discussione le convenzioni assodate. Che tipo di clienti richiedono i vostri servizi di LCA? “Di solito abbiamo clienti dal mondo dell’industria che vogliono capire come ridurre l’impatto ambientale dei loro prodotti nell’arco del loro intero ciclo di vita. Per esempio vogliono sapere se sono possibili compromessi tra la fase di utilizzo e quella di produzione.
Uno dei casi più emblematici che abbiamo avuto riguarda un’azienda che produce ascensori. Gli ascensori mossi da cavi rappresentano la forma più comune di ascensore e per molti rimangono l’opzione preferita da un punto di vista ambientale, perché usano meno energia. Un cliente ci ha chiesto informazioni pratiche al riguardo, perché la sua azienda vendeva un ascensore che funzionava a pressione idraulica, che muove l’ascensore al posto dei cavi, consumando maggiore energia. Ma il compromesso qui è che questo tipo di ascensore richiede molto meno materiale per essere prodotto, perché, per esempio, non necessita dei contrappesi di un ascensore a cavi. Quindi se si paragonano un ascensore a cavo e uno idraulico nell’arco del ciclo di vita di un edificio, diciamo 80 anni, si arriva alla conclusione che l’impatto ambientale dell’ascensore idraulico è effettivamente la metà rispetto all’altro.” Che effetto ha avuto questa conclusione sull’azienda? “È stato molto significativo per l’azienda che era piuttosto piccola e ora ha raddoppiato la sua dimensione. Inoltre il risultato del nostro studio ha cambiato anche lo standard di settore per gli ascensori, come anche le normative per gli edifici e la direttiva Ecodesign del Parlamento europeo.” Quindi quali sono gli elementi principali a cui dovete prestare attenzione per una LCA di successo? “La prima cosa consiste nel concentrarsi
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PIRO4D/Pixabay
tutti siano concordi sulla finalità e la dimensione prima di cominciare a raccogliere dati. Questo richiede una tale quantità di tempo che si rischia di dedicare troppo tempo ai dettagli meno significativi. Quindi raccomanderei che chiunque esegua una LCA faccia prima una stima rapida e generica, e poi, quando sa esattamente cosa sta per studiare, approfondisca l’aspetto relativo ai dati.”
Irene Baños Ruiz è una giornalista freelance che si occupa di temi ambientali. Attualmente vive a Bonn, in Germania, dove collabora regolarmente con Deutsche Welle.
sull’unità funzionale per creare un modello che sia significativo per la comparazione. Bisogna sapere che tipo di funzione o servizio offre il prodotto e quale sarebbe l’alternativa a questo prodotto. In particolare all’inizio, si corre il rischio di concentrarsi troppo sull’inventario dei dati. È meglio dedicare più tempo alla comprensione della finalità e della dimensione del sistema. In principio è meglio rappresentare il proprio sistema in maniera più generica e assicurarsi che
Ci può parlare di qualche risultato che vi ha sorpresi? “Certamente. L’appendiabiti rappresenta un ottimo esempio. Abbiamo avuto l’opportunità di aiutare un cliente che produce appendiabiti usando come materia prima la carta. All’inizio, ovviamente, il cliente pensava che questo sarebbe stato un appendiabiti migliore dal punto di vista ambientale rispetto a quelli in plastica fatti di polistirene, che sono quelli più usati. Quindi abbiamo fatto la comparazione. La prima cosa che abbiamo notato è stata che i particolari in acciaio dell’appendiabiti erano molto importanti; l’utilizzo di acciaio riciclato è altamente raccomandato. Quando abbiamo comparato plastica e carta, siamo giunti alla conclusione che l’appendiabiti di plastica sarebbe stato riciclato adeguatamente nell’ambito di un modello economico circolare, e che non avremmo mai comprato materiali vergini. È emerso che per produrre appendiabiti è effettivamente meglio riciclare la plastica piuttosto che usare carta vergine. Questo è stato molto interessante. Ci ha rivelato un principio generale riguardo ai prodotti fatti di plastica: è molto importante creare un sistema che ricicli tutti i prodotti di plastica, e non solo gli imballaggi. Sicuramente l’economia circolare può giocare un ruolo molto importante in tal senso.” Questo significa che per le LCA scegliete uno scenario ideale in cui i materiali vengono riciclati?
Valutazione d’impatto del ciclo di vita (LCIA) di 80 anni di servizio di ascensori (Nella media delle installazioni di ascensori svedesi): metodo ReCiPe Endpoint, modello di sistema Ecoinvent Allocation Default 16.000
Ascensore idraulico
14.000
Ascensore a cavo
12.000 10.000 8.000 6.000 4.000 2.000 0
TOTALE
MATERIE PRIME
PREINSTALLAZIONE ASSEMBLAGGIO
UTILIZZO
MANUTENZIONE
FINE VITA
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Hans Braxmeier/Pixabay
Credo, per esempio, che la legislazione a volte possa impedirci di pensare fuori dagli schemi e dalle convenzioni.”
L’economia circolare è fantastica, perché cambia il punto di vista dal quale pensiamo ai prodotti.
“Noi creiamo effettivamente diversi scenari che comprendono l’incenerimento e il riciclo municipale, tra le altre cose. È molto importante sapere se il prodotto prevede un fine vita controllato o no. Nel caso degli appendiabiti, si trattava di un negozio di abbigliamento, quindi lo scenario di fine vita era controllato. In questo caso è quasi sempre più efficiente l’utilizzo di plastica riciclata, ma se non c’è uno scenario controllato è meglio utilizzare un prodotto che non ha un impatto climatico così alto quando lo si manda all’incenerimento. E cioè l’appendiabiti di carta. È importante concentrarsi sui grandi flussi di cose. Per esempio i negozi utilizzano approssimativamente 500 milioni di appendiabiti all’anno, ma gli utilizzatori finali non ne usano così tanti. Quindi nel caso degli appendiabiti è più importante considerare il loro utilizzo nei negozi. Questo vale per molti prodotti: è importante concentrarsi sui grandi flussi.” Quali sono i principali cambiamenti necessari per avere prodotti più sostenibili? “In 20 anni passati a eseguire LCA, ho notato che, in generale, se vogliamo attuare un cambiamento dovremmo concentrarci sul comportamento sociale o normativo. Siamo spesso bloccati mentalmente e pensiamo che il modo in cui vanno le cose sia quello in cui devono andare. Tendiamo a non chiederci perché le cose vanno come vanno.
A che tipo di legislazione si riferisce? “Riprendiamo il caso dell’ascensore, per esempio. Dato che la maggior parte delle persone pensa che gli ascensori mossi da cavi siano i migliori, questa convinzione viene inserita nei criteri prescritti, così quando si costruisce una casa con un ascensore, è stabilito già dall’inizio che un ascensore con i cavi sia quello che richiede meno energia, mentre ciò non è vero dal punto di vista del ciclo di vita. Bisogna veramente chiedersi come un sistema è organizzato per arrivare a una conclusione. Un altro esempio può essere quello dei prodotti medicali. Se volessimo ridurre o riciclare del materiale che è stato in un ospedale, spesso scopriremmo che è addirittura vietato. Dobbiamo mettere in discussione queste convenzioni sociali, perché molto spesso è effettivamente possibile riciclare del materiale o addirittura riutilizzare un componente senza aumentare il rischio di problemi igienici. Per esempio, le sacche per il sangue sono di solito fatte di plastiche PVC, il che va benissimo, ha salvato molte vite. Però adesso è possibile creare plastiche di gran lunga migliori del PVC senza, per esempio, sostanze che servono ad ammorbidire il PVC, ma che possono causare disfunzioni ormonali. La maggior parte delle persone pensa che non si possa abbandonare il PVC, ma se mettiamo in discussione questa idea potremmo trovare soluzioni che sono decisamente migliori per il paziente. Potremmo ridurre il rischio, tra gli altri, di tumori o di problemi inerenti alla fertilità.” Quindi eseguire una LCA è qualcosa che va molto oltre la valutazione di singoli prodotti… “Quando eseguiamo una LCA dobbiamo mettere in discussione la legislazione vigente e supporre che le cose potrebbero essere diverse. L’economia circolare è fantastica, perché cambia il punto di vista dal quale pensiamo ai prodotti. La LCA può essere uno strumento per confermare se l’economia circolare sia davvero l’opzione più favorevole. Ma dobbiamo essere pronti a rendere l’economia circolare un po’ più complicata di quanto lo sia ora. Tendiamo a pensare che i materiali siano riciclabili all’infinito e che i prodotti possano rimanere uguali a loro stessi anche se li usiamo centinaia di volte. Se vogliamo utilizzare un prodotto in un’economia circolare dobbiamo tenerne conto sin dalla fase di progettazione. La pressione normativa è molto importante e, quando si tratta di economia circolare, penso che si debba spingere le persone a mettere in discussione il ‘copione sociale delle cose’. Dalla mia esperienza vedo che le aziende che sono state più innovative e per prime hanno adottato modelli circolari, non solo hanno prodotto minori impatti ambientali ma hanno anche ottenuto migliori risultati.”
Sarah Richter/Pixabay
Packaging innovativo e sostenibile Realizzare imballaggi con minor impatto ambientale. È l’obiettivo del Bando del Conai – Consorzio Nazionale Imballaggi – per premiare le aziende che hanno immesso sul mercato packaging sostenibili. a cura della redazione
Eco Tool Conai per l’analisi LCA semplificata, www.ecotoolconai.org
Far conoscere e valorizzare i packaging più innovativi e sostenibili per l’ambiente, alla ricerca delle soluzioni a minore impatto ambientale. Considerando che ridurre gli impatti sull’ambiente degli imballaggi vuol dire non solo intervenire sulla quantità delle materie utilizzate ma considerare l’intero ciclo di vita dell’imballaggio stesso, compresi i processi di produzione, il loro utilizzo e la gestione del fine vita. Con questi obiettivi il Conai – il consorzio italiano che si occupa del recupero e riciclo dei materiali di imballaggio – ha indetto il “Bando Conai per la prevenzione – Valorizzare la sostenibilità ambientale degli imballaggi”, iniziativa promossa con il patrocinio del ministero dell’Ambiente. Potranno partecipare le aziende aderenti al consorzio che nel biennio 2017-2018 hanno immesso sul mercato soluzioni di packaging in un’ottica di innovazione e sostenibilità ambientale, agendo su almeno una delle seguenti leve: riutilizzo, facilitazione delle attività di riciclo, risparmio di materia prima, utilizzo di materie provenienti da riciclo, ottimizzazione della logistica, semplificazione del sistema imballo e ottimizzazione dei processi produttivi. Sarà possibile presentare sia nuovi packaging sia innovazioni di packaging a patto che le nuove soluzioni abbiano un impatto ambientale inferiore rispetto agli imballaggi più frequentemente utilizzati per la stessa applicazione sul mercato italiano. “La transizione verso l’economia circolare è in grado di offrire notevoli vantaggi economici e competitivi alle aziende, ma ha la necessità di rivedere gli attuali modelli di business e, in particolare, i processi di progettazione e
produzione dei prodotti. Questo dovrebbe portare a un modo sostanzialmente diverso di fare e di utilizzare le risorse.” ha dichiarato Giorgio Quagliuolo, presidente di Conai. “Per questa ragione, attraverso il bando, quest’anno abbiamo deciso di aumentare le risorse economiche per premiare gli sforzi di ricerca e sviluppo delle aziende consorziate, siano esse produttrici o utilizzatrici di imballaggi.” Infatti quest’anno il montepremi disponibile sarà pari a 500.000 euro: 410.000 euro andranno – in base ai punteggi ottenuti – ai casi virtuosi presentati. Saranno poi assegnati nove super premi: sei ai packaging più sostenibili per ogni filiera di materiale da imballaggio, ovvero acciaio, alluminio, carta, legno, plastica e vetro. Altri tre super premi andranno ai casi virtuosi in grado di promuovere l’economia circolare attraverso l’attivazione di una o più leve di prevenzione tra il riutilizzo, la facilitazione attività di riciclo e l’utilizzo di materia prima seconda. Le proposte saranno analizzate attraverso lo strumento Eco Tool di Conai, che permette di effettuare un’analisi LCA semplificata, calcolando gli effetti delle azioni di prevenzione attuate dalle aziende in termini di risparmio energetico, idrico e di riduzione delle emissioni di CO2. Anche quest’anno l’Eco Tool Conai e l’analisi dei casi saranno sottoposti alla validazione da parte di DNV GL, ente di certificazione internazionale. Nell’edizione del Bando Conai 2018 sono stati presentati 103 progetti virtuosi provenienti da 73 aziende che hanno conseguito una riduzione media del 24% dell’impatto ambientale degli imballaggi in termini di emissioni di CO2 in atmosfera, di consumi di energia e di consumi di acqua.
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materiarinnovabile 27. 2019
Startup
Nome: Settore:
3SIXTY: le bottigliette di plastica diventano biancheria 3SIXTY Nuovi prodotti da plastica riciclata
Plus:
Gamma di prodotti per il settore dell’ospitalità realizzati con plastica riciclata
Caratteristiche:
I prodotti 3SIXTY sono composti all’80% da cotone e al 20% da filati in plastica riciclata, con prestazioni identiche alle spugne e ai piumoni tradizionali
1. Etichetta tessile indipendente internazionale che certifica che i prodotti di consumo e i semilavorati a tutti i livelli della catena tessile siano realizzati senza sostanze nocive e fabbricati utilizzando processi ecocompatibili e in condizioni di lavoro sicure e socialmente responsabili.
di Antonella Ilaria Totaro
Dodici bottiglie di plastica per fare un asciugamano, venti per un accappatoio, centoventi per un piumone. Nata in Irlanda, 3SIXTY produce asciugamani e piumini da letto realizzati all’80% in cotone e al 20% con filati in plastica riciclata. Prodotti che al tatto e per prestazioni sono del tutto equivalenti alla normale biancheria in cotone. I prodotti 3SITXY hanno ufficialmente debuttato sul mercato a dicembre 2018. L’azienda si avvale di partner per la produzione di filati da plastica riciclata che poi vengono uniti a filati di cotone e lavorati in Pakistan da un produttore certificato Made in Green da OEKO-TEX.1
“3SIXTY offre agli hotel un modo semplice e tangibile per dimostrare il proprio impegno per l’ambiente con prodotti che hanno un minore impatto rispetto a quanto usato oggi e per comunicare un messaggio forte agli ospiti” racconta Colm Walsh, fondatore di 3SIXTY, al quale l’idea è venuta guardando i suoi figli raccogliere rifiuti in spiaggia.
3sixtyhome.co/shop
3SIXTY ha scelto come target specifico gli alberghi con la convinzione che il settore dell’ospitalità, essendo un grande utilizzatore di prodotti tessili, possa dare una considerevole spinta al riciclo della plastica. Infatti, secondo i calcoli della startup irlandese, in un anno un albergo medio di 100 camere, usando i prodotti 3SIXTY arriverebbe a riciclare oltre 86.000 bottiglie di plastica. Numeri che hanno convinto una delle più grandi catene alberghiere irlandesi a scommettere sull’azienda.
Startup
Startup
Nome: Settore:
Piñatex: il tessuto ottenuto dalle foglie di ananas Piñatex by Ananas Anam Nuovi materiali
Plus:
Pensato come alternativa a prodotti in pelle e a base sintetica, Piñatex permette agli agricoltori delle Filippine di avere un nuovo flusso di entrate senza un ulteriore uso di suolo e acqua
Caratteristiche:
Tessuto non tessuto leggero e versatile, nato come sottoprodotto della produzione di ananas nelle Filippine
di Antonella Ilaria Totaro
“Per favore non chiamatela pelle.” Carmen Hijosa, AD di Ananas Anam, lo precisa subito. Dopo 15 anni passati nel mondo della produzione e del design della pelle e un periodo di ricerca nelle Filippine, la spagnola Carmen Hijosa ha scommesso sulle potenzialità dell’ananas tanto da tornare sui banchi universitari e conseguire un dottorato di ricerca in Textiles nel 2014 – all’età di 62 anni – al Royal College of Art di Londra.
www.ananas-anam.com
Nasce così Piñatex, un tessuto non tessuto prodotto dalle foglie dell’ananas, un
materiale brevettato che nasce nelle Filippine come sottoprodotto dell’industria agricola. Le foglie della pianta dell’ananas, non del frutto, sono raccolte da cooperative di agricoltori e trattate per estrarne le fibre con cui si produce un substrato formato da fibre naturali e fibre di acido polilattico (PLA). Il substrato è poi inviato in Spagna, dove la lavorazione è ultimata con l’aggiunta di una resina sintetica di rivestimento e di pigmenti coloranti. Sono necessarie 480 foglie di ananas per produrre un metro di Piñatex ma nessun nuovo albero. Non utilizzando terreno, acqua e pesticidi oltre a quelli già utilizzati per la coltivazione dell’ananas, Piñatex vuole essere un’alternativa sostenibile ai prodotti in pelle o sintetici nel settore della moda e dell’arredamento di interni. L’azienda Ananas Anam ha sede a Londra e si rivolge a un mercato B2B. La ricerca per migliorare il materiale è tuttora in corso: da un lato l’obiettivo è creare una resina biobased che renda il prodotto 100% biodegradabile, dall’altro si vuole rendere il materiale resistente al punto da essere usato anche nel settore automotive.
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materiarinnovabile 27. 2019
Startup
Nome: Settore: Plus:
Certificare la plastica riciclata con Flustix Flustix Nuove certificazioni Flustix è un’etichetta indipendente per coloro che vogliono certificare il proprio impegno nella riduzione della plastica usata nei prodotti e comunicarlo chiaramente ai propri clienti
Caratteristiche:
Marchio di garanzia che certifica prodotti totalmente o parzialmente privi di plastica o in plastica riciclata
di Antonella Ilaria Totaro
La crescente attenzione dei consumatori verso le plastiche ha portato alla nascita nel 2016 di Flustix, azienda tedesca indipendente che certifica prodotti e imballaggi senza plastica o in plastica riciclata. La certificazione Flustix è il primo marchio di questo genere, registrato come European Union
https://flustix.com
Certification Mark dall’ Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) e dal German Patent and Trade Mark Office. Esistono oggi quattro diversi marchi Flustix: uno che certifica prodotti privi di plastica anche nel packaging come giocattoli e mobili; il secondo per prodotti privi di plastica che per ragioni igieniche devono essere imballati in plastica come gli apparecchi sanitari; il terzo – ideato per alimenti e bevande – per imballaggi senza plastiche; l’ultimo per prodotti senza microplastiche, etichetta pensata per cosmetici e articoli sanitari che non contengono microsfere e microplastiche. Le aziende interessate possono inviare campioni dei propri prodotti a Flustix che, avvalendosi di Wessling come laboratorio partner per i test e di RAL come partner per le licenze, certifica o meno gli articoli plastic free. Novità degli ultimi mesi è l’etichetta Flustix Recycled che certifica i prodotti in plastica riciclata, e in quale percentuale lo sono, in collaborazione con Din Certco, azienda con 30 anni di esperienza nell’analisi dei processi di produzione. Il marchio di certificazione deve essere rinnovato e riconfermato ogni anno per garantire la conformità nel tempo con lo standard Flustix che è regolarmente implementato da un comitato indipendente composto da attivisti, ambientalisti e innovatori sostenibili. “Con questa etichetta vogliamo essere una guida chiara per i consumatori e permettere a tutti di contribuire alla protezione dell’ambiente” racconta Malte Biss, fondatore di Flustix, nome nato dalla contrazione di free of plastics.
Startup
Startup
Nome: Settore: Plus:
Gioielli da argento sovraciclato con Floios Floios Jewelry Oggetti da materiali riciclati I piccoli oggetti prodotti da Floios Jewelry sono pezzi unici, le cui materie prime sono tracciabili, provenienti dai boschi della Slovenia e dal riciclo di pellicole fotografiche e di lastre per raggi X
Caratteristiche:
Gioielli di design basati sulle forme della natura ricoperti da argento sovraciclato
di Antonella Ilaria Totaro
Quercia, edera, cipresso, orchidea: sono alcune delle piante e degli alberi da cui nascono i gioielli ricoperti in argento riciclato realizzati da Floios Jewelry, uno studio di design con sede a Lubiana, in Slovenia. La particolarità dei gioielli Floios è che la patina d’argento racchiude realmente al proprio interno fiori, foglie o rametti. Questi elementi naturali sono, poi, ricoperti da argento riciclato proveniente da vecchie pellicole per fotografia e lastre per raggi X cestinate. L’intuizione di utilizzare per la produzione
www.floiosjewelry.com
dei gioielli argento tracciabile e sovraciclato – il processo moderno di riciclo dei film a raggi X è estremamente efficiente con il recupero di oltre il 99,9% di argento – è di Tina Kosak, fondatrice e responsabile di Floios. Kosak ha avuto l’idea di partire dalla natura, dalle foglie e dalle piante come base per realizzare piccoli oggetti di design da indossare. Ogni oggetto è accompagnato da precise informazioni sulla pianta scelta. Ogni pezzo ha una storia unica con la data e la posizione esatta dove è stata raccolta la foglia, la corteccia, il rametto centrale. I gioielli artigianali e minimalisti di Floios sono realizzati in piccole serie, molti pezzi sono unici o fatti su misura. È possibile ordinare il proprio oggetto personalizzato online scegliendo il tipo di foglia o fiore alla base. Floios Jewelry attraverso una tradizionale tecnica artigianale immerge la pianta nell’argento facendo attenzione a non alterarne la forma in questo processo. Entro tre settimane dall’ordine il gioiello viene consegnato a casa in un confanetto in legno anche questo realizzato con materie prime tracciate.
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materiarinnovabile 27. 2019
Rubriche Circular by law
Clima: gli esperti Onu invitano ad azioni decise Francesco Petrucci in collaborazione con Rivista “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” e Osservatorio di normativa ambientale su www.reteambiente.it
Global Environment Outlook, www.unenvironment. org/resources/globalenvironment-outlook-6
Non c’è da essere ottimisti sul futuro della Terra se guardiamo al Sesto Rapporto degli esperti dell’Onu sullo stato del pianeta (Global Environment Outlook – GEO-6) presentato il 13 marzo 2019. Il rapporto, cui hanno lavorato 250 scienziati di 70 paesi, è incentrato sul tema “pianeta sano, persone sane”. Molti i temi oggetto dell’analisi scientifica degli esperti Onu: dall’inquinamento atmosferico (che insieme a quello delle acque costa quasi 9 milioni di morti l’anno) al degrado del suolo, dagli sprechi alimentari ai rifiuti plastici (8 milioni di tonnellate finiscono in mare ogni anno). Le conclusioni prefigurano uno scenario al 2050 devastante per il pianeta e i suoi abitanti se non ci sarà un immediato cambio di rotta. Certamente l’Unione europea è stata in prima linea nella lotta al cambiamento climatico, specie negli ultimi anni. Gli sforzi europei però non sono sufficienti: lo ha già detto il Parlamento europeo, lo ha ribadito il Consiglio Ue il 22 marzo 2019 sottolineando l’importanza della presentazione entro il 2020 da parte della Commissione di una strategia a lungo termine che abbia come obiettivo il saldo netto di zero emissioni al 2050, come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015. Una mano al clima la daranno sicuramente le nuove norme sul contenimento delle emissioni di automobili e furgoni approvate in via definitiva dal Parlamento europeo il 27 marzo 2019. Entro il 2030 l’obiettivo è ridurre del 37,5% le emissioni delle auto nuove (rispetto ai livelli del 2021) mentre per i nuovi furgoni l’obiettivo è del 31%. I produttori di veicoli le cui emissioni supereranno i limiti dovranno pagare una indennità. Intanto, nella lotta alla plastica nei mari l’Unione ha fatto la sua parte approvando in via definitiva la nuova direttiva sulla plastica monouso. Dopo il voto del Parlamento del 27 marzo 2019 manca solo il voto formale del Consiglio Ue e il testo poi sarà pubblicato nella Gazzetta ufficiale europea ed entrerà in vigore. Ambiziosi gli obiettivi previsti: dal 2021 via dal mercato piatti, posate, cannucce e cotton fioc di plastica monouso; entro il 2029 dovrà essere raccolto il 90% delle bottiglie di plastica, mentre per un’altra serie di prodotti gli Stati membri devono prevedere strumenti per ridurne il consumo. La riduzione delle bottiglie di plastica è anche uno degli obiettivi della proposta di direttiva
sull’acqua potabile approvata dal Parlamento europeo il 28 marzo 2019. Ora si apriranno i negoziati col Consiglio Ue per arrivare a un testo comune. Nel testo approvato dal Parlamento sono introdotti limiti massimi più severi per alcuni inquinanti come il piombo e i batteri nocivi. Inoltre è stato sancito il principio dell’accesso universale all’acqua: gli Stati membri dovranno istituire fontane gratuite e spingere bar e ristoranti a fornire acqua di rubinetto gratis o a poco prezzo ai clienti. Queste azioni, unite all’obbligo di informare meglio il cittadino sulla sicurezza dell’acqua potabile puntano a ridurre il consumo di acqua in bottiglia e quindi della plastica. Inoltre a marzo è arrivato dal Parlamento Ue il via libera definitivo anche alla proposta di regolamento e alla proposta di direttiva sul mercato dell’energia insieme alle proposte di regolamento sulla protezione dai rischi di blackout e sulla cooperazione tra i regolatori del mercato dell’energia dei vari Stati membri. Si completa così il gruppo di 8 provvedimenti del pacchetto “Energia pulita per tutti gli europei” lanciato dalla Commissione a novembre 2016. Sono già in vigore gli altri 4 provvedimenti sulle energie rinnovabili, l’efficienza energetica, la governance dell’energia e l’efficienza energetica in edilizia. Via libera dal Parlamento Ue il 27 marzo 2019 anche al regolamento che faciliterà la circolazione nel mercato europeo dei fertilizzanti ottenuti da materiali organici o riciclati. Per quanto riguarda la certificazione dei prodotti, a partire dal 1° marzo 2020 i server e i prodotti di archiviazione on line di dati dovranno essere costruiti secondo le nuove regole di ecoprogettazione del regolamento 2019/424/Ue, mentre dal 1° marzo 2021 scatteranno le nuove etichette per gli elettrodomestici (spariscono i “+++” e si ritorna alla vecchia classificazione da “A” a “G”), in attuazione del regolamento 2017/1369/Ue. Infine la Commissione europea ha deciso di rendere meno rigidi alcuni criteri per l’ottenimento del marchio Ecolabel Ue per i detersivi per i piatti, per le lavastoviglie e per le lavatrici (decisione 2019/418/Ue).
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