progettare la sostenibilitĂ
Marie-Hélène Contal e Jana Revedin
Progettare LA SOSTENIbilità i maestri di una nuova architettura Titolo originale
Sustainable Design
Towards a New Ethic in Architecture and Town Planning Marie-Hélène Contal e Jana Revedin © 2009 Birkhäuser Verlag AG, P.O. Box 133, 4010 Basel, Swizerland Progetto grafico: Nadine Rinderer, Basel Edizione italiana a cura di Marco Moro Traduzione: Antonella Cesarini Realizzazione editoriale Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it © 2009, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax 02 45487333 ISBN 978-88-96238-25-7 Finito di stampare nel mese di novembre 2009 presso Arti Grafiche del Liri – Isola del Liri (Fr) Stampato in Italia - Printed in Italy
I SITI DI EDIZIONI AMBIENTE: www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.verdenero.it
Mari e -H Ê l è n e Co nta l Prefazioni di Thomas Herzog e Benno Albrecht Jana R eve d i n
progettare la sostenibilitĂ i maestri di una nuova architettura
sommario Global Award for Sustainable Architecture
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Architetture per la sostenibilità di benno albrecht
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prefazione di thomas herzog
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daLL’AVANGUArdia alla sostenibilità di jana revedin
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vincitori del Global Award for Sustainable Architecture 2007
Stefan Behnisch, stoccarda, germania
20
— Terrence Donnelly Centre per la ricerca cellulare e biomolecolare (tdccbr), toronto, canada
24
— Allston Science Complex, università di harvard, Cambridge, Massachusetts, USA
28
— IBN Institute for Forestry and Nature Research, Wageningen, paesi bassi
Balkrishna Doshi, Ahmedabad, India
30
34
— Sangath, uffici della fondazione VĀSTU-SHILPĀ e Studio dell'architetto, Ahmedabad, India
38
— Aranya, progetto di edilizia popolare, madhya pradesh, Indore, India
44
— Indian Institute of Management, Bangalore, India
50
Françoise-Hélène Jourda, Parigi, Francia
52
— giardino botanico, Bordeaux, Francia
56
— mercato coperto e spazi circostanti Place du 8 mai 1945, Lione, Francia
62
Hermann Kaufmann, Schwarzach, Austria
66
— centro civico di ludesch, vorarlberg, Austria
70
— rifugio olperer, finkelberg, tirolo, Austria
76
— complesso residenziale allmeintalweg, ludesch, austria
82
Wang Shu, Hangzhou, Cina
86
— accademia cinese delle arti, campus di xiangshan hangzhou, Zhejiang, Cina — cinque case sparse, parco del Mingzhou, Ningbo, Cina
90 96
vincitori del Global Award for Sustainable Architecture 2008
Fabrizio Caròla, Napoli, Italia
102
— Hotel Kambary, Bandiagara, Mali
106
— centro regionale per la medicina tradizionale, Bandiagara, Mali
110
— centro culturale e sociale, Bandiagara, Mali
114
Elemental, Alejandro aravena, Santiago del Cile
118
— recupero di una baraccopoli per 100 famiglie, Iquique, Cile
122
— complesso residenziale “LO ESPEJO”, Santiago del Cile
128
— ristrutturazione residenziale del quartiere renca, Santiago del Cile
132
Rural Studio, andrew freeaR, Newbern, Alabama, USA
134
— stazione dei vigili del fuoco e centro comunitario, Newbern, Alabama, USA
138
— centro giovanile, Akron, Alabama, USA
144
— centro sociale e cappella, mason's bend, contea di Hale, Alabama, USA
146
— chiesa battista di antioch, contea di perry, Alabama, USA
148
Philippe Samyn, Bruxelles, Belgio
150
— copertura della stazione ferroviaria, lovanio, Belgio
154
— stazione dei vigili del fuoco, Houten Business Park, Houten, paesi bassi
162
Carin Smuts, Città del capo, sudafrica
166
— centro dawid klaaste, Laingsburg, Karoo, SudAfrica
170
— Guga S’thebe – Arts, Culture and Heritage Village, Città del capo, SudAfrica
176
— scuola elementare di Wesbank, Wesbank, SudAfrica
178
appendice
182
gli autori
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i vincitori
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referenze iconografiche
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La crisi energetica ed ecologica colpisce tutte le società nello stesso tempo. Una rottura degli equilibri così simultanea e globale non si era ancora verificata nel mondo moderno. Le sfide maggiori si concentrano soprattutto sulle città e sull’habitat. Questi sono i veri “laboratori” di un futuro sostenibile, dove si sperimentano le grandi trasformazioni che si rendono ormai necessarie. Dal Cile alla Finlandia, dagli Stati Uniti alla Cina, un’avanguardia di architetti si è data nuovi obiettivi: costruire la nostra civiltà globale sulla base di nuovi rapporti tra i sistemi umani e le risorse naturali. In Occidente, nuove idee stanno cambiando il volto di numerosi settori della società e dell’economia. Le energie e i materiali sono l’oggetto di una rivoluzione industriale a cui gli architetti stanno aprendo la strada. Una nuova narrazione collettiva sta per prendere forma. L’architettura la rende visibile. A sud, la crisi sta modificando le equazioni dello sviluppo: tecniche e società, infrastrutture e progresso, città ed equità... L’urgenza spinge a innovazioni spesso più radicali di quelle che si attuano nel mondo industrializzato e ciò sembra preludere a un inedito rapporto tra nord e sud. Una nuova scena dell’architettura sta emergendo. Al design mondializzato della fine del XX secolo, si sostituisce l’universalità di un’architettura che, dalle radici più profonde di ogni diverso territorio, è testimone di una nuova direzione della ricerca. Il Global Award for Sustainable Architecture è stato indetto per stimolare il dibattito mondiale sull’architettura. Innovazione e trasmissione è il suo motto. Ogni anno viene assegnato a cinque architetti che condividono l’etica dello sviluppo sostenibile e ne traggono un approccio al progetto innovativo e accurato, in Occidente come nei paesi emergenti, nelle città più sviluppate come nei contesti più disagiati. Il Global Award for Sustainable Architecture intende consolidare la comunità formata da questi architetti di grande talento, farne conoscere la filosofia progettuale e stimolare l’interscambio di esperienze tra nord e sud. Ringrazio i membri del comitato scientifico, Marie-Hélène Contal (CAPA, Cité de l'Architecture et du Patrimoine), Christophe Pourtois (CIVA, Centre International pour la Ville, l’Architettoure et le Paysage), Peter Cachola-Schmal (DAM, Deutsches Architekturmuseum), Benno Albrecht (Università IUAV di Venezia), Spela Hudnik (IABL, International Architetture Biennale Ljubljana) e Kristiina Nivari (MFA, Museuma of Finish Architecture) per il prezioso lavoro svolto. Grazie a loro, i laureati del Global Award stanno diventando una famiglia, mondiale. Jana Revedin Fondatrice e curatrice del Global Award for Sustainable Architecture
GLOBAL AWARD FOR SUSTAINABLE ARCHITECTURE GRAND PRIX INTERNATIONAL D´ARCHITECTURE DURABLE C O L L E C T I O N M A N I F E S T E D ´ A R C H I T E C T U R E D U X X I É M E S I E C L E E N S E I N E AVA L T M
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Architetture per la sostenibilità Prof. arch. Benno Albrecht, Università IUAV di Venezia Il libro curato da Marie-Hélène Contal e Jana Revedin raccoglie i risultati di un efficace lavoro di molte persone. L’occasione per far riunire attorno a un tavolo diversi esperti è stata offerta dalla commissione indetta per il Premio Global Award for Sustainable Architecture. 1 La commissione era formata da Christophe Pourtois, del CIVA Centre International pour la ville, l’architecture et le paysage Brussels, Peter Cachola-Schmal, del DAM Deutsches Architekturmuseum di Francoforte, Spela Hudnik, del IABL International Architecture Biennale of Ljubljana, Kristiina Nivari, del MFA Museum of Finnish Architecture Helsinki, il sottoscritto Benno Albrecht, dell’Università IUAV di Venezia, oltre che dalle due curatrici del libro. Il Global Award for Sustainable Architecture non è un premio che vuole sancire nuovi Nobel o presunte gerarchie, bensì un’iniziativa che mira a far emergere un dibattito diffuso, e forse confuso, ma molto sentito: quello del risparmio delle risorse in architettura. Il compito della commissione era di selezionare ogni anno cinque architetti che potessero rappresentare il corso del dibattito sulla sostenibilità in architettura: un compito più di “educazione” che di “espressione” di un giudizio di valore. All’eurocentrismo dei componenti della commissione si è voluto far fronte con l’obbligo di scegliere almeno due architetti extra europei per sessione. Il libro presenta la rassegna dei dieci architetti selezionati nelle prime due tornate del premio. È un gruppo eterogeneo che, visto da distante, può indurre a dubbi e confusioni sul perché sono riuniti all’interno di uno stesso lemma caratteri ed espressioni tanto diverse. Ben sappiamo che ogni tassonomia e classificazione è fin troppo facile da criticare. Bisogna allora chiarire che questa non è una passerella o una rassegna. Attraverso i dieci personaggi e grazie alle diverse storie e strategie progettuali volevamo rispondere a un obiettivo, quello di sfatare il mito che tutta la buona architettura è sostenibile e mettere in discussione i difensori della tradizione da un lato e i propagandisti della “novità a tutti i costi” dall’altro. Non è vero che tutta la “buona architettura” è sostenibile, perché difficile è definire il termine “buona”, che in realtà oggigiorno spesso si riduce all’architettura più pubblicizzata e alla moda. Questo viene spesso detto con superficiale arroganza, da inopportuni kibitzer 2 culturali che commentano senza mai esporsi. Se ciò fosse vero non ci troveremmo nella situazione attuale, esisterebbero modelli concettuali a cui riferirsi. Bisogna invece dimostrare le potenzialità del dibattito sulla responsabilità dell’uso delle risorse. Sappiamo che il lavoro da svolgere è ancora molto, sappiamo che le possibilità di sviluppo della disciplina sono vaste, sappiamo però che la strada è quella giusta, sappiamo che ancora dobbiamo combattere contro sedicenti difensori della ipotetica “tradizione architettonica”, che spesso sono spensierati e non-responsabili progettisti dilettanti. Ogni oggetto fisico o organismo che a causa della sua azione e della sua esistenza deteriora il proprio ambiente fisico, distrugge se stesso. La sua azione sull’ambiente deve essere di lunga durata e permettere, durevolmente, la coesistenza d’altri abitanti nello stesso ambiente. La ricerca di un tempo “durevole” è uno dei presupposti della sostenibilità. La riproducibilità delle risorse è detta in francese durabilité, che meglio descrive, rispetto al termine sostenibilità, il rapporto di tempo e uso di una risorsa, e non a caso il termine “architettura sostenibile” è tradotto in architecture durable. Ben sappiamo che una differente concezione dei tempi delle trasformazioni implica differenti strumenti di progetto e di giudizio. È il tempo lungo, la lunga durata, quello che descrive le trasformazioni dell’ambiente. Oggi si avverte una collisione tra il tempo lungo della natura e il tempo breve degli uomini e della loro capacità di previsione. I tempi della storia e quelli biologico-ambientali tendono ad accostarsi concettualmente perché è proprio dalla comprensione dalle interazioni tra eventi umani e trasformazioni ecologiche che dobbiamo partire per poter costruire un futuro cosciente degli errori e delle potenzialità del passato. La crisi ambientale odierna ha delle ragioni e delle origini nel comportamento umano che forse è possibile ancora correggere, in questo senso si misura la valenza di “nuova etica” delle proposte della sostenibilità. 9
È la difficile condizione dell’architetto, dibattuto tra essere “uomo creatore” ma allo stesso tempo anche “uomo distruttore” che avvalla le trasformazioni del territorio. Altro punto di vista potrebbe essere quello di affermare che sempre in tutta la storia dell’architettura il rapporto tra costruzione umana e ambiente, clima ed energia, sia stato argomento normativo e fondante. Questo è riduttivo e non centra il nocciolo del problema. Ovviamente l’architettura ha sempre avuto a che fare con l’ambiente circostante, con le condizioni fisiche e climatiche in cui si inserisce e con la loro trasformazione. L’architettura della sostenibilità considera la possibilità che un intervento architettonico non muti, o meglio che può contribuire a migliorare, lo stato ambientale preesistente. Il quesito che abbiamo davanti è se questa è una contraddizione oppure una chance da praticare: se l’architettura sostenibile sia possibile in un quadro di coscienza ecologica diffusa, o se sia solo sinonimo di conservatorismo, ambientale o culturale; se la difesa a oltranza dei luoghi dall’invasione delle trasformazioni dettate dall’ideologia del progresso è l’unica alternativa alla dissipazione di energie; se le politiche della sostenibilità implicano la ricerca di trasformazioni adeguate, e in quanto tali siano una mera illusione o una mistificazione ideologica; se sia possibile una architettura sostenibile in questo tipo di società con questo modo di distribuzione dei guadagni e delle risorse; se il successo delle politiche della sostenibilità in ambito pubblico è legato alla tattica di certa industria che può essere descritta con le crude e texane parole di Lyndon Johnson: “Meglio averli dentro la tenda che piscino fuori, piuttosto che fuori a pisciare dentro la tenda”. L’architettura e il disegno urbano sostenibile sono priorità evidenziate nei documenti della Unione Europea. 3 Esistono molteplici definizioni di architettura e di disegno urbano sostenibile, ma ci atterremo a quella espressa dall’Unione Europea prendendo a punto di riferimento per contenuti e programmi il testo “Verso una strategia tematica sull’ambiente urbano”. L’obiettivo è quello di “Migliorare la qualità e le prestazioni ambientali delle aree urbane e assicurare agli abitanti delle città europee un ambiente di vita sano, rafforzando il contributo ambientale allo sviluppo urbano sostenibile e tenendo conto nel contempo dei connessi aspetti economici e sociali”. 4 Il testo tratta di gestione urbana sostenibile, trasporto urbano sostenibile, architettura sostenibile, progettazione urbana sostenibile. Per architettura sostenibile s’intende 5 un processo, un modo di collaborare di tutti i soggetti interessati al raggiungimento di un ambiente urbano e architettonico che soddisfa quattro risultati: di comfort, di risparmio d’energia, di uso delle risorse locali e di durabilità. 1. Un progetto che rispetti requisiti d’ordine funzionale e di comfort e perciò sia “gradevole, durevole, funzionale, accessibile, comodo e sano in cui vivere e svolgere attività, in grado di migliorare il benessere di chiunque entri in contatto con tale ambiente”. 2. Un progetto che porti attenzione all’uso e allo spreco di risorse, di energia, di materiali e di acqua e che sia in grado di “favorire l’uso di fonti di energia rinnovabili e che richieda poca energia esterna grazie allo sfruttamento delle acque meteoriche e di falda, al corretto trattamento delle acque di scarico e all’impiego di materiali compatibili con l’ambiente che si possano riciclare e riutilizzare facilmente, che non contengano sostanze pericolose e che si possano smaltire in sicurezza”. La novità è rappresentata dalla forte sottolineatura della necessità della messa in campo delle problematiche legate alla coscienza dei limiti che ha pervaso la cultura ecologista e che è da ripercuotere anche nella cultura architettonica. 3. Un progetto che sia rispettoso “dell’ambiente circostante e della cultura e dei patrimoni locali”. Questo punto che spesso viene dato per scontato in realtà si porta dietro una tremenda mole di significati, di conseguenze e anche di nuove possibilità. È la proposta di valorizzare il regionalismo architettonico nell’epoca della globalizzazione. 4. Un progetto che sia “competitivo in termini di costi, soprattutto in una prospettiva a lungo termine (si pensi ad esempio ai costi di manutenzione, alla durabilità e ai prezzi di rivendita)”. È la definizione di una nuova scala temporale da immettere nel processo di progettazione. Il termine più adatto per definire questi risultati attesi è quello di architettura per la sostenibilità, 6 e non della sostenibilità o sostenibile. In questo modo diventa visibile un tendere verso, una evidenziazione di un processo, una volontà di adottare schemi concettuali dinamici e flessibili. 10
L’architettura per la sostenibilità studia, interpreta e definisce le trasformazioni del territorio compatibili con la dimensione biofisica dei sistemi socio-economici. Questo implica un processo di convergenza multidisciplinare e sistemica. L’architettura per la sostenibilità si propone di progettare nuovi paesaggi ed edifici e di intervenire in quelli esistenti, analizzando le relazioni tra sistemi artificiali, naturali e sociali in modo da definire le migliori strategie per gestire le future trasformazioni del territorio. È inquadrata all’interno dei complessi contesti dell’innovazione tecnologica e dell’internazionalizzazione dei mercati, dei componenti, delle prestazioni d’impresa e dei servizi professionali. L’architettura per la sostenibilità è un concetto totalizzante e complesso che analizza le implicazioni civiche, culturali e tecniche della progettazione al fine di produrre nuove trasformazioni del territorio che siano sostenibili con il consumo delle risorse. L’architettura per la sostenibilità è conoscenza dei limiti d’uso delle risorse fisiche, ambientali e tecnologiche disponibili ed è coscienza delle questioni relative all’energetica dell’edificio concepita come capacità di controllo dei procedimenti costruttivi e delle tecnologie che devono essere utilizzati nell’arco della vita di un manufatto architettonico, dalla sua concezione alla sua costruzione, dal suo uso alla sua manutenzione, dalla sua demolizione al suo riuso. L’architettura per la sostenibilità non è un ricettario di buone maniere, ma una nuova consapevolezza in merito alla valenza civica, tecnica e culturale del progetto di architettura. La coscienza della sostenibilità delle trasformazioni del territorio è forse l’unica possibilità oggi offerta alla ricerca architettonica per riacquisire o acquisire un pregnante ruolo civico. Una città o un territorio sono bene comune della collettività che lo abita. La scena fisica, l’aspetto e la forma di questo territorio, è più durevole del corpo sociale che lo ha creato o che oggi lo abita. Le trasformazioni che hanno colpito il pianeta, soprattutto dal dopoguerra in avanti, vanno corrette e ricondotte a un disegno unitario. Questo è il compito che ci viene affidato dalla generazione precedente, che ha prodotto una gigantesca quantità edilizia senza però produrre i mezzi mentali e culturali per controllarla. L’apparenza fisica del territorio, che è il risultato tangibile di questo lavoro, deve essere capita, compresa e interpretata. Il solo mezzo per controllare le scelte di trasformazione di un territorio è il progetto di architettura; architettura il cui vero ruolo è quello di essere interprete e portatrice di volontà comuni e condivise. L’architettura deve rispondere a nuove esigenze date da una società multi-culturale, deve difendere le tradizioni consolidate ora poste in discussione proprio dalle nuove caratteristiche globali e omogeneizzanti della società tecnologica-scientifica-industriale, deve assolvere e garantire nuovi diritti – il “diritto al sole”, all’uso dell’energia, alla salute, alla partecipazione democratica in generale – e determinare nuovi e diversi standard di vita, di salubrità, di comfort all’interno dei diversi parametri di tempo e di spazio dettati dalla globalizzazione delle informazioni e delle merci, dalla velocità degli spostamenti e dal generalizzarsi e stratificarsi di culture diverse e nello stesso luogo e nello stesso tempo. Le sfide dell’oggi sono determinate dal vigoroso contrasto tra le diverse parti del mondo globalizzato dove è difficile trovare la propria collocazione, dalla diversa composizione della popolazione, dalla perdita di senso degli spazi pubblici e dalla riduzione di quelli naturali, dall’inquinamento e dal traffico, dai nuovi standard necessari a garantire una vita salubre, dalla inefficacia e inconsistenza delle previsioni pubbliche e dalla scarsezza dei bilanci comunali. Chi affronterà queste problematiche con gli arnesi mentali e amministrativi adeguati potrà ottenere nuovi e rinnovati luoghi per vivere con maggiore soddisfazione e garanzia per la propria vita e per quella dei propri figli. Si configura una disciplina che affronta molteplici e complesse variabili attraverso una concezione sistemica della progettazione che supera, o deve superare, le barriere classiche date dalla cultura legata alla concezione meccanicistica della crescita economica. È doveroso superare concezioni formali e stilistiche nella direzione di una visione integrata e a livelli multipli della disciplina progettuale. La sostenibilità è una nuova e audace visione del futuro e in quanto previsione del futuro è progetto. All’interno di questo progetto complessivo si colloca il progetto – parziale – della riformulazione della morfologia urbana ereditata dall’epoca degli sprechi (di energie intrinseche, di territorio), precedente la comprensione dei limiti dello sviluppo della società tecnologica industriale. L’obiettivo è la gestione, lo sviluppo e il disegno urbano sostenibile. 11
Il paradigma della sostenibilità in campo architettonico può essere percorso ponendo, come riferimento della pratica progettuale, le ripercussioni che ogni trasformazione comporta sul quadro naturale dove s’inserisce. Questa scelta etica e culturale apre il campo della ricerca a nuovi scenari e permette di immettere, all’interno del dibattito sulla consapevolezza delle trasformazioni, argomenti e ricerche oggi dimenticate, non percorse e al di fuori delle facili attrazioni dell’effimero mondo della moda architettonica contemporanea, e che possono essere misurate e quantificate. È l’occasione di riflettere su quanto è stato fatto e su quanto ancora c’è da fare e da ricercare. Oggi abbiamo fatto nostro quanto espresso da Antoine de SaintExupéry, autore e aviatore amato e citato da Le Corbusier, in Vol de nuit: “Nella vita, non ci sono soluzioni. Ci sono forze in cammino: bisogna crearle e le soluzioni vengono dopo …”. 7 Le forze sono nuove, nuovo è l’argomento degli studi ma nuove anche sono le prospettive, il premio GA va in questa direzione. La scienza dell’architetto sostenibile deve allora allargarsi, ibridarsi, espandersi dai confini strettamente disciplinari per diventare manifesto di un rinnovato atteggiamento etico. La scienza dell’architetto sostenibile è destinata a capire piuttosto che a spiegare, a studiare piuttosto che a conoscere e a ricercare anziché trovare verità e se la concezione del futuro non è più finalistica, quella del passato deve essere operativa. Ogni progetto “sostenibile” di trasformazione non può prescindere da una considerazione sul valore intrinseco del passato. “Lo sguardo proiettato nel futuro è lo stesso sguardo che risveglia il passato e scopre il senso della realtà nel presente”. 8 La tradizione e la storia sedimentata in un luogo rappresentano l’energia intrinseca di un territorio: sono l’investimento delle generazioni passate da salvaguardare, da far fruttare nel presente, e la premessa necessaria per ogni ipotesi di trasformazione futura. La vitalità di una tradizione non è mai evidente, ma essa può diventare vitale per noi solo grazie alla nostra capacità di interpretare, scoprire e svelare. Tutte le “diversità” biologiche, di conoscenza, dell’abitare, del diverso modo di stare sulla Terra e di rapportarsi con questa, sono valori da conservare. Sono diversità che poggiano su un’unità concettuale che ha prodotto diversità parziali. 9 L’unità della cultura tecnica mondiale, la diversità delle sue manifestazioni, non può esser barattata con improbabili stili personali o di seconda mano. Forse è possibile preservare questa unità senza rinunciare alla varietà di questo pittoresco mondo. La situazione in cui ci troviamo ricorda quella di un adagio di Catherine Bauer Wurster: “Tutte le proposte nuove passano per la stessa trafila coi sapientoni: prima si dice che la cosa è impossibile. Poi, quando è sulla soglia del successo, la si accusa di essere contro le Sacre Scritture. Infine, quando ha scavalcato l’ostacolo ed è onorata per la sua utilità generale, gli esperti chiariscono che loro l’avevano sempre detto”. Mi pare che i dieci architetti presentati nel libro lo dimostrino. Benno Albrecht
1 Ideato da Jana Revedin e promosso dalla Cité de l´Architecture et du Patrimoine, Conseil Général des Yvelines e EPAMSA. 2 La parola yiddish kibitzer si riferisce, soprattutto nel gioco degli scacchi, a una persona che guarda una partita e la commenta inopportunamente. 3 Tratto da: Bruxelles, 11.\2.2004, com(2004)60 definitivo, Comunicazione della commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Verso una strategia tematica sull’ambiente urbano. 4 Verso una strategia tematica sull’ambiente urbano (2004), pag. 5. 5 Verso una strategia tematica sull’ambiente urbano (2004), pag 46. Nel testo compare la parola “edilizia sostenibile” che la traduzione in italiano trasforma “edilizia” in un dispregiativo di architettura, per questo ho sostituito il termine. 6 Tratto dai documenti elaborati nell’Ateneo IUAV, Facoltà di Architettura, Laurea Magistrale in Architettura per la Sostenibilità. 7 Antoine de Saint-Exupéry, Opere, 2000 Milano, Bompiani, pag. 196. 8 Enzo Paci, Diario fenomenologico, 1961, Milano, Il Saggiatore, pag. 23. 9 Questo tema è stato trattato in Leonardo Benevolo, Benno Albrecht, Le origini dell’architettura, 2002, Bari, Laterza.
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PREFAZIONE di Thomas Herzog “Sostenibilità” è un termine che abbraccia un ampio spettro di problemi: la scelta e la produzione dei materiali, la quantità di energia necessaria per trasportarli e rifinirli, i processi costruttivi, il loro indice di efficienza termica, la quantità di energia necessaria a mantenerli in buono stato, i processi di manutenzione, la durabilità, la flessibilità d’uso, l’adattabilità a nuove tecnologie nell’approvvigionamento, i settori dello smaltimento e quello delle telecomunicazioni, la sostenibilità delle demolizioni e della possibile riedificazione, le possibilità di riconversione e riciclo; ma naturalmente e soprattutto l’impiego dell’energia solare per il riscaldamento, il raffrescamento, l’illuminazione naturale e la produzione di elettricità. Ritengo tuttavia che una autonomia energetica completa sia necessaria soltanto in casi eccezionali. La quantità di radiazioni che questo pianeta riceve dal sole è di molto superiore all’energia di cui l’umanità avrà mai bisogno. Il problema è come sfruttare un tale potenziale. È un dato di fatto che la quantità di energia consumata per soddisfare le necessità termiche di un edificio è già un quarto o un quinto di quella che serviva solo pochi anni fa. Oggi, dovremmo generalizzare questi risultati, invece di flirtare con i cosiddetti “edifici a energia zero”. In definitiva, non si tratta di una disciplina olimpica ma di considerare l’argomento nel suo insieme e di risparmiare energia in modo significativo o di usare quella solare. Perciò dovremmo applicare lo stesso modo in cui consideriamo l’energia per un singolo edificio a tutti i paesi e a tutte le città e assumere un approccio simile a quello usato quando si tratta di un singolo edificio: notare tutti i fattori rilevanti, capire in che modo interagiscono ed elaborare nuovi modelli che possano essere integrati nel sistema già esistente. Mi preme soprattutto mettere in guardia contro l’idea che esista una formula da seguire. In effetti le città condividono alcuni fenomeni di base, ma le loro caratteristiche e i loro rapporti interni variano molto. In qualsiasi città ciò riguarda gli edifici, ma anche il traffico generato dal piano urbanistico, i sistemi di approvvigionamento e smaltimento, le potenziali fonti di energia, le alternative per cambiare lo status quo e molto altro ancora. Sono convinto che gli architetti abbiano un ruolo fondamentale da svolgere nel complesso campo della crisi ecologica mondiale, perché ciò riguarda direttamente le loro responsabilità professionali. A conti fatti, per costruire e far funzionare gli edifici, almeno in Europa Centrale, viene usato il 40 per cento di energia primaria. Poi vengono usate delle quantità supplementari di energia fossile in conseguenza delle misure urbanistiche. 1
1 Da una conversazione con Francesca Sartogo.
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“La Modernità si manifesta, come avviene in Loos o Le Corbusier, attraverso il profondo legame con la storia, con la tradizione [...] e rapporto con la città, rapporto questo inteso nel senso che ogni proposta progressiva, ogni invenzione, non può che misurarsi con la città costruita”. 1
DALL’AVANGUARDIA ALLA SOSTENIBILITÀ di Jana Revedin
Bruno Taut, Padiglione di vetro, Esposizione del Werkbund, Colonia, 1914.
Se si considera il fatto che nei prossimi vent’anni bisognerà dare un alloggio dignitoso a due miliardi di persone, non si può che concludere che l’architettura è una professione dal futuro promettente. E se si considera che l’espansione di nuovi mercati – e dei relativi impatti sull’ambiente – continua malgrado la scarsità di risorse energetiche, c’è bisogno, come avvenne all’inizio del Novecento, epoca di grandi riforme, di una visione olistica dell’architettura e della società capace di collegare il know-how tecnico e sociale all’impegno politico. L’esposizione mediatica dell’architettura negli ultimi decenni ha dimostrato quanto la professione, così come il pubblico, si siano allontanati dall’idea di architettura come habitat. La funzione degli edifici si è sempre più identificata con una strategia commerciale, con la promozione di eventi, come richiamo turistico, o con l’identità dei grandi marchi. Edifici trattati e visitati come scenografie, forse occasionalmente sperimentati, ma quasi mai, visti gli enormi costi di gestione, veramente vissuti con continuità. Allarmanti dati ambientali, prezzi delle risorse energetiche in vertiginosa ascesa e la crisi economica mondiale causata da investimenti irresponsabili esigono che gli architetti si trasformino in interpreti di nuovi paradigmi. In futuro, ogni individuo, ogni famiglia, ogni coppia anziana, ogni madre single, dovrà prepararsi a investire di più per un habitat stabile o migliore, per un approvvigionamento sostenibile di energia, per l’acqua potabile e per mezzi di trasporto ecologici. Noi progettisti dobbiamo ripensare radicalmente l’architettura. I costi di “energia grigia” incorporati nelle infrastrutture, il consumo di suolo, i costi di trasporto dei materiali non disponibili sul posto, la possibilità di riutilizzo di un edificio o i costi della sua dismissione, fanno parte del bilancio energetico quanto il consumo annuale per il riscaldamento e il raffrescamento. La densificazione delle città, la rispettosa valorizzazione dell’esistente diventerà un tema centrale del XXI secolo, assieme all’integrazione culturale e alla definizione di spazi di vita e di lavoro flessibili, che tentano di dare una risposta ai problemi delle migrazioni globali. Allo stesso tempo dobbiamo ritornare alle nostre radici di artigiani, esperti nell’applicazione sobria e ingegnosa della statica, delle proporzioni, delle tecnologie costruttive e del design integrato. Nel corso della millenaria storia dei nostri insediamenti le caratteristiche dei luoghi sono state attentamente studiate e tradotte in modalità di costruzione degli edifici e delle città. Le tecniche tradizionali per l’impiego dell’energia solare ed eolica, il potenziale di riscaldamento e raffrescamento dell’energia geotermica, la gravità, l’energia dell’acqua e della luce devono tornare a occupare uno spazio nell’insegnamento e nell’esercizio dell’architettura ed essere ottimizzate attraverso l’uso di approcci innovativi e adeguati alle condizioni locali.
ARCHITETTO, NATO NEL 1960 Nella società opulenta degli anni Ottanta, nelle capitali mondiali del design “made in...”, con un po’ di fortuna era ancora possibile accedere agli insegnamenti di maestri che continuavano a considerarsi con umiltà dei costruttori di città, e non delle “vedettes”. “Un architetto è un muratore che ha imparato il latino”: così Adolf Loos sintetizzava, all’inizio del Novecento, la sua visione dell’etica professionale; tre quarti di secolo dopo si poteva ancora imparare a rispettare, addirittura ad amare, il luogo, i materiali, le tecniche, il cantiere e i tanti uomini che rendono ogni progetto possibile. Si studiava – cosa già allora quasi sacrilega – la tradizione di una spe-
1 Rosaldo Bonicalzi, introduzione ad Aldo Rossi, Scritti scelti sull’architettura e la città: 1956-1972, Milano, Clup, 1975.
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cifica cultura architettonica, l’architettura della città europea 2 e se ne ricercavano i legami con gli aspetti sociali, sociologici e critici. Ci si fidava soltanto dei “veri” maestri dell’avanguardia. 3 In quel momento né l’architettura né la haute couture avevano ancora bisogno di riviste patinate. I primi modelli di Yves Saint Laurent furono disegnati perché i suoi studenti della Rive gauche li indossassero per strada, mentre Aldo Rossi scriveva: “L’architettura [...] sintetizza l’intera sfera civile e politica di un’epoca, quando essa è estremamente razionale, comprensibile e trasmissibile: in altre parole, quando può essere considerata uno stile”. 4 L’architettura era un atto di volontà politica, un rischio, una dichiarazione. “Chi, in ultima istanza, sceglie l’immagine di una città? La città stessa, ma sempre e solo attraverso le sue istituzioni politiche [...] Atene, Roma, Parigi sono anche la forma della loro politica, i segni di una volontà”. 5 Ma si trattava, come già detto, di felici eccezioni. Chi negli anni Ottanta, all’epilogo del millennio, ha vissuto da progettista la transizione dai più controllabili mercati dell’era industriale alla società globale della conoscenza e dei consumi, si è potuto rendere conto delle contraddizioni insite in questo modello. Poteva capitare, ad esempio, di vedere preziosi marmi italiani posati in edifici direzionali a Orlando, Texas, con fughe di cemento larghe due centimetri che vanificavano sia l’accuratezza con cui le lastre erano state tagliate che l’effetto d’insieme, e quindi il senso stesso dell’impiego di tale materiale. Altrove si potevano vedere strutture grottescamente sovradimensionate per amore del “business as usual”, della paura di affrontare nuove tecnologie o la conoscenza di nuove normative: in una residenza a Milano, delle capriate portanti in legno potevano avere la stessa robustezza – e il costo – di un ponte militare. Imperava una cultura dell’assenza del limite e dell’indifferenza rispetto all’innovazione che entra in crisi quando le risorse, materiali e finanziarie, mostrano con evidenza, rispettivamente, di non essere affatto infinite e di essere quantomeno molto instabili.
UNA PROFESSIONE ALL’INIZIO DEL NUOVO MILLENNIO
Ludwig Mies van der Rohe, La casa di campagna in acciaio e mattoni, 1924. Carin Smuts, Centro civico, Città del Capo, 2008.
Anche se, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, nel nuovo millennio il mondo sembra essere diventato più piccolo e più comprensibile, in realtà esso è diventato più povero, più affollato e sempre più disperato. Non si tratta più di ricchezza o benessere. Dobbiamo parlare di risorse energetiche limitate, di condizioni di vita minime per miliardi di senzatetto, di epidemie e di disastri naturali. Oggi, come progettisti non ci possiamo più permettere di eludere la necessità di orientare le scelte della committenza verso tecniche costruttive e programmi funzionali durevoli, integrati e attentamente pianificati. Realizzare edifici a energia zero, a zero emissioni di anidride carbonica, adatti a un’economia low cost è una strada obbligata, non un’opzione culturale. Nel frattempo lo star system dell’architettura continua la sua danza con il diavolo, conquistando i nuovi mercati con trionfante vanità. Costosi templi del prestigio, che sfidano le leggi di gravità e ignorano l’energia del sole, del vento o della terra, dominano l’architettura in provetta delle città che si estendono incontrollate nelle aree di recente sviluppo economico del sud e dell’est del mondo. Habitat naturali insostituibili cedono il passo a resort d’autore, mondi illusori per giramondo che consumano ciecamente e hanno tempo da perdere. Come se l’ispirazione e la speranza ci parlassero dalle pagine di testi, dagli edifici tanto ben studiati, come se le problematiche e le responsabilità schiaccianti della professione dell’architetto ne traessero una nuova fiducia, si torna a pensare alle fe2
L’architettura della città di Aldo Rossi (Padova, Marsilio, 1966) è diventato un bestseller internazionale. Rossi analizza la struttura storica della città europea, introducendo la sua idea di locus e di “ecologia urbana”. Nei successivi Scritti scelti (op. cit., 1975) descrive dettagliatamente il pensiero dei padri dell’avanguardia: Behrens, Mies van der Rohe, Loos e Le Corbusier. 3 Jana Revedin, Il concetto di spazio aperto della modernità (tesi di laurea, Politecnico di Milano, 1991) analizza gli sforzi delle avanguardie per migliorare la qualità della vita delle classi sociali svantaggiate attraverso una pianificazione spaziale economica, flessibile e igienica delle aree verdi urbane. La sua tesi di dottorato, Monumenti e modernità: elementi della costruzione della nuova città (Venezia, 2000) trova le radici del razionalismo moderno della “città nuova” dell’epoca delle riforme – con le sue tipologie, la sua morfologia e proporzione – nell’espressionismo dalle forme “organiche” del paesaggio naturale. 4 Aldo Rossi, “L´individualità dei fatti urbani. L’architettura” in L’architettura della città, Marsilio Venezia 1966, p. 156. 5 Aldo Rossi, “La politica come scelta” in L’architettura della città, Marsilio Venezia 1966, p. 226.
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lici riforme risultanti da una crisi non troppo remota: anche un secolo fa un piccolo gruppo di progettisti d’avanguardia trasformava la decadente figura dell’architettoartista fin de siècle in quella di un artigiano senza fronzoli, un urbanista socialmente responsabile e un designer industriale innovativo e attento agli aspetti economici.
GUARDANDO INDIETRO: IL PROGETTISTA ALL’EPOCA DELLE RIFORME L’epoca dell’industrializzazione portò con sé nuove sfide, nuovi programmi e nuove qualità progettuali. Si sperimentarono con entusiasmo nuovi materiali; il Padiglione di vetro 6, di Bruno Taut, la Casa di campagna di Mies van der Rohe in acciaio e mattoni, 7 gli stabilimenti industriali e i primi alloggi e insediamenti prefabbricati industrialmente di Behrens e Gropius, 8 la Torre Einstein di Mendelsohn 9 furono pietre miliari di una scuola d’avanguardia nella nuova costruzione, contraddistinta da un proprio linguaggio formale. “La sfida consiste nel trovare attraverso il mezzo artistico forme che corrispondano alla macchina e alla produzione di massa”, 10 scriveva Behrens nel 1907, e scorgeva un’analogia con il mondo della tecnologia nella “ripetizione seriale e nel rispetto per la struttura interna, attorno alla quale si disegna l’involucro”. 11 Walter Gropius, Quartiere Törten, Dessau, 1927. Alejandro Aravena, Renca 3, Santiago del Cile, 2008.
Di conseguenza l’edilizia residenziale, gli edifici pubblici e la prefabbricazione industriale diventarono i temi di punta dell’epoca. Il Bauhaus e i suoi entusiasti giovani insegnanti liberarono la classe lavoratrice sfruttata dalle loro case popolari antigieniche, crearono città giardino piene di aria e di sole, orti urbani autosufficienti nei rigogliosi parchi pubblici, “case espandibili” in prefabbricati “a secco” e proposti a prezzo di costo, 12 sistemi di trasporto pubblico in viali verdi e ben strutturati, asili nido colorati e pieni di luce, cinema, scuole, sale da concerto. Il criterio ispiratore era quello dell’economia: spazi pubblici facili da gestire e da curare, distanze brevi, materiali prodotti in loco, autosufficienza nell’uso degli spazi verdi. Allo stesso tempo gli edifici dovevano piacere, generare un senso di identità, creare un legame affettivo. I quartieri popolari tedeschi di Hellerau, Dammerstock, Onkel-Toms-Hütte, Hufeisensiedlung, Törten, Niddaaue, Weißenhof e Werkbund forse non erano sempre aggiornati dal punto di vista tecnologico ma ancora oggi mantengono il successo di sempre e sono tuttora luoghi richiesti, da cui i residenti si trasferiscono raramente. All’epoca si discuteva di quali dovessero essere i requisiti dimensionali e di qualità edilizia minimi dell’alloggio, così come della sua accessibilità economica, al fine di garantire un tenore di vita accettabile; si analizzavano i processi industriali e si elaborò in modo embrionale il concetto di energia grigia. Materiali, produzione, situazione occupazionale, logistica e finanziamenti furono inseriti nel calcolo dei costi totali. Mentre Walter Gropius perseguiva con passione la “meccanizzazione della produzio6 Il Padiglione di vetro (Glashaus) realizzato per l’esposizione del Werkbund del 1914 a Colonia, mostrava le stupefacenti possibilità progettuali e strutturali dei nuovi sviluppi dell’industria vetraria. 7 Nella casa di campagna di Mies la struttura era costituita da un reticolo di pilastri di acciaio che dava la possibilità di usufruire di una pianta libera, unendo flessibilità funzionale, uso di materiali durevoli e disponibili localmente e un intelligente sfruttamento dell’illuminazione naturale grazie ad aperture strategicamente collocate. 8 La fabbrica di turbine AEG, costruita nel 1909, è considerata una pietra miliare per la sua pianta razionale, per l’impiego dei materiali e per l’ottimizzazione della luce naturale. Questa economia dei materiali è stata ulteriormente sviluppata da Walter Gropius e Adolf Meyer, allievi di Behrens, nei loro progetti per officine Fagus ad Alfeld (1911-1925) e nell’edificio per l’esposizione del Werkbund del 1914 a Colonia, che “rompeva” la composizione “classicista” di Behrens in una somma di singoli elementi, ognuno definito per svolgere una specifica funzione. Il loro obiettivo sociale era quello di mettere a punto metodi di produzione industrializzati e a basso costo per l’edilizia. 9 La Torre Einstein di Erich Mendelsohn, a Potsdam (1917-1924), progettata come una rivoluzionaria costruzione in cemento ma successivamente realizzata per ragioni di sicurezza in mattoni, fu il laboratorio per nuove concezioni spaziali e strutturali. Mendelsohn iniziò quindi a costruire una serie di grandi magazzini, complessi abitativi, cinema e alberghi in tutta la Germania – e, più tardi, in Israele – che sfruttavano la flessibilità planimetrica consentita dall’impiego di cemento armato, acciaio e vetro. 10 Peter Behrens, “Kunst in der Technik”, in Berliner Tageblatt, 29 agosto 1907. 11 Peter Behrens, “Über Ästhetik in der Industrie”, in AEG Zeitung, anno 11, n. 12, giugno 1909, pp. 5-7. Cfr. anche Tilmann Buddensieg, Industriekultur: Peter Behrens and AEG, 1907-1914, Cambridge MA, MIT Press, 1984. 12 Nel 1931-1932 a Berlino, con il patrocinio dell'associazione degli industriali, si svolse un concorso dal titolo Das wachsendes Haus der Zukunft (“La ‘casa che cresce’ del futuro”). Scorrendo l’elenco dei partecipanti vi si ritrova l’élite della giovane avanguardia: Gropius, Taut, Mendelsohn, Migge, Olbrich, Scharoun, Häring e l’ideatore del concorso, Martin Wagner. Furono proposti prototipi prefabbricati industrialmente con materiali innovativi secondo criteri ecologici ed economici, ideati come “scatole di montaggio” dalla planimetria estensibile (a partire da 25 m2).
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ne edilizia” con tecniche di assemblaggio a secco e a semisecco, come quella usata per i suoi edifici modello del quartiere di Weißenhof (anche di fronte alla critica, avanzata dai suoi stessi allievi, di realizzare dei villaggi di capanne) e condivideva con Martin Wagner l’opinione che la meccanizzazione era possibile soltanto per complessi urbani su vasta scala, 13 Bruno Taut considerava il problema come una questione di macroeconomia e si rivolgeva alla società e alla politica: “Nel 1926, quando a Britz si rese disponibile l’unità più piccola (47 metri quadrati), con un affitto di 45 Reichsmark al mese, anche noi, pieni di speranza, credemmo che le cose stessero per decollare. Ciò che decollò più di ogni altra cosa, però, fu il tasso d’interesse...”. 14 Repressi dal Nazismo, quei principi umani, sostenibili ed economici conobbero un euforico rinascimento durante gli anni Cinquanta, per dissolversi poi – nella corsa della ricostruzione del dopoguerra e nelle mani dei nuovi poteri “forti” – in un superficiale “stile internazionale”, un mero prodotto di consumo di massa. Allegre e colorate tipologie abitative, edifici pubblici multifunzionali e sobri, i monumenti della città democratica moderna affondavano nel fastbuild, la costruzione veloce del periodo postbellico e nel boom economico che seguì.
ARCHITETTO OGGI Le dinamiche demografiche e la consapevolezza del problema energetico, la creazione di ambienti in cui abitare e produrre all’interno della struttura urbana preesistente, la razionalizzazione delle infrastrutture e del processo di costruzione, la riduzione al minimo del consumo globale di energia e la progettazione integrata sono i temi che gli architetti si trovano oggi ad affrontare. Ma, come si è visto, non sono temi nuovi. Oggi, soggetti un tempo attivi in ambito locale, dalle scuole di architettura alle imprese, dai progettisti fino agli uffici tecnici delle amministrazioni pubbliche, si trovano a operare su un contesto globalizzato. Team di ricerca internazionali integrano competenze diverse, con ingegneri, sociologi e consulenti energetici. Non sempre così efficienti, non sempre a scala umana, ma è in questo modo che, mentre entriamo nell’era della conoscenza, emerge una nuova definizione della figura dell’architetto. Le biografie, la filosofia e i lavori dei dieci progettisti presentati in questo libro dimostrano che è possibile risolvere i problemi fondamentali e spesso drammatici del nostro tempo mediante approcci che possono anche sembrare – a una analisi superficiale – parziali e semplici, ma sono invece estremamente concreti. L’inafferrabile idea di perfezione rappresentata da una costruzione leggera, caratterizzata da consumo di energia primaria ridotto al minimo, dalla massima durevolezza e facilità di manutenzione e dalla maggiore flessibilità possibile, è una soluzione che nessuno è in grado di offrire. Ma è certamente possibile attuare una pianificazione intelligente delle strategie progettuali e degli investimenti che esse comportano, sulla base del risultato che ci si propone di ottenere e sulla scorta, ormai consolidata, di esperienze accumulate nel corso di decenni.
Adolf Loos, Haus Möller, Vienna, 1930. Hermann Kaufmann, Casa Dornbirn, 2007.
L’enorme divario tra nord e sud diviene evidente solo quando si mettono a confronto le diverse condizioni di vita e le situazioni economiche dell’Africa, della Cina, dell’America Latina e dell’Europa Centrale contemporanee. Mentre i paesi scandinavi e quelli dell’Europa del Nord hanno imparato da Adolf Loos, Alvar Aalto e Jean Prouvé che l’architettura e il design devono relazionarsi alle caratteristiche dei luoghi e dei materiali, essere facili da usare e durevoli, soltanto oggi i paesi mediterranei stanno riconoscendo, con riluttanza, di avere anch’essi inverni freddi ed estati calde. Le nazioni in via di sviluppo, così come molte economie emergenti, devono invece liberarsi dell’eredità in termini di cultura costruttiva lasciata dai loro antichi occupanti o da una sudditanza verso modelli “internazionali” del tutto inadeguati che ben poca attenzione prestano al clima o ai saperi locali, e trovare il modo di sviluppare una propria via verso un’architettura contemporanea e allo stesso tempo radicata. 13
Martin Wagner, “Groß-Siedlungen. Der Weg zur Rationalisierung des Wohnungsbaus” in Wohnungswirtschaft, 1926, pp. 81-114. 14 Bruno Taut, “Gegen den Strom”, in Wohnungswirtschaft, 1930, pp. 315-324.
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NEL NORD... “Il fatto è che tutti dobbiamo lavorare insieme per affrontare il futuro”, 15 spiega Hermann Kaufmann, architetto del Vorarlberg, in Austria, sottolineando il suo sostegno politico all’introduzione obbligatoria – anche nell’edilizia sociale – di requisiti di qualità ambientale e di label ecologici. “L’introduzione di questi standard ha indotto le imprese di costruzione a imparare rapidamente e a sviluppare le proprie capacità per poter applicare le nuove tecnologie”. Il concetto di sostenibilità ha inevitabilmente a che fare con uno stile di vita che si impone dei limiti. La scelta di materiali durevoli e tecnologie innovative possono essere i poli entro cui sviluppare una nuova definizione del Raumplan di Adolf Loos, ossia l’idea che ogni spazio debba avere la configurazione più razionale e libera possibile, adeguata alle diverse funzioni che svolge oggi e a quelle che potrebbe svolgere in futuro.
Heinrich Tessenow, concorso per un impianto balneare, Rügen, 1936. F.-H. Jourda, Mercato, Lione 2005.
“Noi architetti dobbiamo smetterla di voler costruire monumenti”, 16 continua l’architetto francese Françoise-Hélène Jourda, propugnando un ritorno a una maggiore umiltà nell’etica professionale. Dove la popolazione si riduce e le città si svuotano, il “meno” è perfettamente adeguato. Modelli architettonici semplici, realizzati con materiali locali, sono alla portata delle risorse delle pubbliche amministrazioni e, oltretutto, danno garanzia di non diventare troppo rapidamente obsoleti.
... E NEL SUD La situazione è molto diversa in un mondo di popolazioni in rapida crescita, di infrastrutture caotiche, di disastri naturali, epidemie e disoccupazione o povertà di massa. “La sostenibilità riguarda le persone. L’architettura dà alla gente la possibilità di acquisire il potere di capire chi è, di evolversi in modo consapevole e indipendente”. 17 L’affermazione di Carin Smuts nasce da un’esperienza di venticinque anni di lavoro nelle township del Sudafrica, dopo aver realizzato decine di strutture come lavanderie, mercati coperti, scuole, centri sociali e d’arte, tutti sviluppati in workshop interattivi e costruiti con la gente del posto, utilizzando materiali da costruzione reperibili sul luogo e assemblati con le più semplici tecniche costruttive. Per Alejandro Aravena, in Cile, i problemi di insediamento dei paesi in via di sviluppo (fornire un’abitazione adeguata a due miliardi di persone entro i prossimi vent’anni) rappresentano una semplice equazione matematica a cui va data una soluzione: costruire una città da un milione di abitanti a settimana per i prossimi vent’anni con un budget di 10.000 dollari a famiglia. 18 I suoi insediamenti razionali e a basso costo offrono un’alternativa concreta a chi vive negli slum, ma non solo; stimolano le persone a un coinvolgimento personale e diretto nella costruzione del proprio habitat, permettendo agli utenti di completare un processo costruttivo che l’architetto si limita a orientare qualitativamente e a innescare.
Wang Shu, mattoni riciclati posati come ai tempi della dinastia Ming, Xiangshan Campus, Hangzhou, 2008.
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In Cina, invece, Wang Shu sviluppa un percorso di ricerca lontano dal mainstream dell’imperante edilizia commerciale, insistendo sul disegno a mano per determinare le proporzioni e attribuendo grande importanza al lavoro in cantiere, dove offre a vecchi artigiani la possibilità di essere ancora parte attiva, e preziosa, della società: chilometri quadrati di mattoni e pietre di demolizione riciclati vengono posati, con cura, come già ai tempi della dinastia Ming. “Un muro in pietra è come una pianta. Deve poter crescere”. 19
15 In “Energiesparen und bauen: wer, wann, wo, und wie?”, conversazione con Eva Guttmann, Zuschnitt, n. 30, 2008. 16 Françoise-Hélène Jourda, intervista di Jana Revedin, Lione, giugno 2007. 17 Carin Smuts, intervista di Jana Revedin, Città del Capo, aprile 2008. 18 Alejandro Aravena, in Fulvio Irace, Casa per tutti. Abitare la città globale. Triennale di Milano, Milano, 2008. 19 Wang Shu, intervista di Jana Revedin, Hangzhou, maggio 2007.
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Stefan Behnisch  Stoccarda Germania
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Facciata principale del Terrence Donnelly Centre per la ricerca cellulare e biomolecolare (TDCCBR), Toronto, Canada.
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→ Stefan Behnisch
Stefan Behnisch è uno dei pionieri che hanno gettato le basi per avviare un dibattito sull’architettura sostenibile. O piuttosto, come l’architetto preferisce dire, “sull’architettura climatica e ambientale”. In Europa Behnisch ha realizzato edifici che sono già pietre miliari di questa nuova storia, come l’Institute for Forestry and Nature Research di Wageningen, nei Paesi Bassi. Stefan Behnisch è nato a Stoccarda nel 1957 ed è figlio di Günter Behnisch, figura importante dell’architettura tedesca. Dopo aver inizialmente intrapreso studi di filosofia ed economia, si iscrive alla facoltà di Architettura di Karlsruhe, in Germania. Nel 1987 si laurea e va a lavorare in California. Nel 1988, tornato a Stoccarda, entra a far parte dello studio Behnisch & Partners e, nel 1989, fonda uno studio dedicato alla ricerca nel campo dell’architettura climatica. Nel 1999 apre uno studio in California e oggi gran parte della sua attività si svolge in America. Dopo la realizzazione della sede della Genzyme, a Cambridge, Massachusetts, negli Stati Uniti Stefan Behnisch viene considerato un esperto nel settore, ancora sperimentale, della progettazione sostenibile. Da centocinquant’anni il successo di un architetto europeo all’estero non è mai un evento privo di significato. Tutte le grandi innovazioni dell’architettura occidentale hanno dovuto attraversare e riattraversare l’oceano, in nave e, più tardi, in aereo. Un tale percorso indica che Behnisch, a sua volta, ha stabilito un collegamento tra una “scena creativa” e una “società” pronta ad accoglierla. Agli inizi del XXI secolo la creatività è europea – la Germania è un centro di eccellenza per ciò che riguarda l’architettura sostenibile – e la società interessata, la committenza, è quella americana: la società della conoscenza, di cui la California è stata la fucina negli ultimi vent’anni. Tuttavia lo scambio non è mai a senso unico. Esportando le proprie idee, l’europeo Behnisch si è affermato in un mondo che gli ha certamente insegnato tanto quanto ha ricevuto e che gli ha permesso di sviluppare la propria visione. Troppo spesso ci si dimentica del ruolo dei grandi committenti, mentre essi sono l’avanguardia storica e danno agli architetti i programmi che consentono loro di verificare le proprie visioni del futuro. Peter Behrens sarebbe stato altrettanto fecondo se non avesse lavorato con i pionieri dell’industria? Allo stesso modo Stefan Behnisch ha voluto incontrare la parte più innovativa della società della conoscenza, in Europa prima e negli Stati Uniti poi, per entrare a far parte dell’ambiente in cui si inventa la società del XXI secolo.
IL GRAVE PROBLEMA DELL’ENERGIA Per Behnisch, in realtà, l’elemento distintivo dell’architettura sostenibile non è puramente quello ambientale: “Oggi parte delle difficoltà che incontriamo nell’affrontare gli squilibri degli ecosistemi derivano da una incompleta definizione del problema stesso”. Il dibattito su cosa significa il termine “sostenibile” non è chiuso, ed è possibile incontrare posizioni molto diverse espresse, ad esempio, dalla parte più avanzata dell’industria o dai sostenitori della decrescita. Seguendo l’esempio dei primi, Behnisch ritiene che, per il nostro futuro, la questione energetica sia anche più strategica e determinante della sfida ambientale. L’economia dell’energia deve essere cambiata e Behnisch, ex studente di economia, sa bene che cambiare l’energia vuol dire trasformare il mondo, in modo da imprimere un impulso ormai inevitabile a uno sviluppo nuovo, destinato a segnare un grande passo in avanti. In altre parole Stefan Behnisch possiede 22
l’“ottimismo determinato” di chi è convinto che la crisi ambientale non sia il Götterdämmerung – il “crepuscolo degli dèi” – ma piuttosto l’inizio di un ciclo storico che trasformerà gli obiettivi e le attività sociali dell’uomo. L’architettura deve dare forma alla società che sarà costruita sul nuovo patto energetico. Chi definirà le basi etiche, sociali ed economiche della città sostenibile? Behnisch suggerisce che, nel 2008 come del resto 100 anni fa, è attraverso la collaborazione con le avanguardie industriali del proprio tempo che tali problemi potranno essere risolti. In modo piuttosto semplice, perché la città sostenibile, come l’ormai scomparsa città industriale, sarà il motore dello sviluppo: “La tutela del nostro ambiente è considerata una necessità assoluta e un’occasione di potenziale sviluppo”. Stefan Behnisch ha alle spalle due decenni di attività. Durante i primi dieci anni ha perfezionato le proprie conoscenze e ha messo a punto un metodo con cui progettare edifici a basso consumo energetico e con una forte componente di condivisione e partecipazione sociale. Oggi Behnisch investe le proprie capacità in programmi, spesso molto raffinati, per industrie, centri di ricerca e università. Naturalmente il mondo non può ridursi a queste componenti, tuttavia è qui che si trovano secondo Behnisch gli “inventori” della società futura.
L’ERGONOMIA DEL MONDO IMMATERIALE Nel 1992 Stefan Behnisch iniziò un’intensa collaborazione con la Transsolar Climate Engineering, una società di ricerca all’avanguardia nel settore delle nuove tecnologie energetiche. Lavorando in questa fucina della ricerca Behnisch ha saputo trasformare lo studio di suo padre, eccellente risorsa professionale, in un laboratorio dedicato all’architettura bioclimatica. Tale ricerca ha seguito un percorso insolito. Agli inizi degli anni Novanta l’approccio dei più all’architettura sostenibile avveniva attraverso la costruzione; si lavorava sui materiali, sulle pareti e sulle energie alternative, elaborando regole costruttive che, in qualche modo, costituiscono l’hardware dell’architettura sostenibile. Stefan Behnisch affronta la questione in una fase più avanzata del processo, quella dell’utilizzo, quando l’edificio accoglie coloro che vi abitano: “Dove possiamo risparmiare efficacemente energia e materiali? Senza dubbio sono coloro che utilizzano un edificio a poterne influenzare il valore ecologico attraverso i comportamenti e la richiesta di energia”. Vista sotto questa luce la sfida non riguarda tanto la realizzazione di un edificio quanto la cultura: l’architettura sostenibile è un’architettura che educa la gente, insegna loro le regole di condotta dell’era postpetrolifera e abilmente ne rimodula i comportamenti. Per definire questo software comportamentale, o piuttosto questo soft power, Behnisch parla di “comfort” e di “benessere”, perché ritiene che l’architettura sia una guida amichevole verso una società sostenibile. A questo proposito, continueremo la nostra analisi parlando del concetto di ospitalità di Behnisch, un termine che, nell’età classica, valutava la capacità dell’architettura di accogliere e guidare. Alla ricerca di una qualità contemporanea dell’accoglienza, Behnisch ha dovuto reindirizzare la sua attenzione dall’involucro materiale allo spazio interno. La ricerca non coinvolge tanto il sistema costruttivo quanto gli elementi che determinano l’atmosfera: clima, luce, aria, suono, colori e struttura. Tutti i progettisti che lavorano sul concetto di architettura sostenibile analizzano questi aspetti, ma Behnisch li approfondisce maggiormente e in modo diverso. Con la Transsolar realizza strumenti per misu-
rare e, in un secondo tempo, canalizzare quei flussi, come lo spettacolare camino solare per gli uffici della società assicuratrice LVA Deutsche Rentenversicherung di Lubecca, in Germania, o come i “lampadari” che catturano la luce nell’atrio della sede della Genzyme a Cambridge, Massachusetts. Behnisch e i suoi ingegneri del l’immateriale vogliono arrivare a gestire questi scambi (termici, solari, luminosi e così via) con la stessa sicurezza che hanno i suoi omologhi ecocostruttori quando progettano una struttura in legno e i relativi pannelli. Behnisch lavora con il vuoto, con lo spazio degli scambi. Prima dell’involucro costruisce un microclima. I progetti, sviluppati dall’interno, obbediscono a una dinamica centrifuga anziché all’“autorità della pianta” dell’epoca funzionalista. Non è il minore dei contributi di Behnisch, all’interno di un dibattito in cui altri raccomandano, al contrario, un funzionalismo verde ancor più rigido che nel passato.
suo soft power. Quei grandi vuoti vengono trattati in modo da offrire accoglienza in tutte le gradazioni: la soglia di ogni ufficio, i piccoli giardini interni e, naturalmente, l’elemento chiave, vale a dire l’ampiezza degli atri. Questa “urbanità interiore”, che secondo Behnisch è uno degli elementi dell’architettura ambientale, sembra spingersi ancora oltre nei progetti americani attualmente in corso: l’Harvard’s Allston Science Complex di Boston e il River Park di Pittsburgh.
Se riprendiamo il parallelo tra l’avanguardia del XX secolo e quella del XXI proposto da Jana Revedin, possiamo ricordare che il Movimento Moderno fu comportamentista: cercava di plasmare l’uomo attraverso spazi a dimensione umana. Dal Modulor di Le Corbusier alle tavole di Neufert, quell’ergonomia moderna si fondava sul dimensionamento dello spazio per ottimizzare il “funzionamento” del corpo umano in rapporto alla mentalità industriale del secolo. Cento anni più tardi le ricerche effettuate da figure come Behnisch creano un altro tipo di ergonomia: sono i flussi immateriali a essere dimensionati. Quelle proporzioni di aria o di luce creano un clima favorevole (ospitale e laborioso) all’ottimizzazione dell’intelletto umano, un obiettivo collegato all’industria della conoscenza. L’industria scientifica o quella del terziario non hanno tanto bisogno di corpi quanto di teste ben formate. L’“uomo nuovo” della società della conoscenza è un edonista responsabile, è egli stesso un ecosistema che vive all’interno di ecosistemi più vasti, protettivi e stimolanti: “Edifici che consentono all’individuo di personalizzare il proprio luogo di lavoro, di controllare individualmente il proprio ambiente”.
Ciò non significa necessariamente che gli involucri di Behnisch siano “muti”, al contrario. Le grandi strutture reticolari in vetro fanno interagire il mondo interno, spesso brulicante di vita, con l’esterno, attraverso una vera moltitudine di dettagli: una stanza sporgente, aperture disposte con grande varietà, schermature mobili. Questo è il risultato del metodo di progettazione “centrifugo” dell’architetto. Osservando le sue opere si potrebbe pensare all’architettura antiautoritaria fondata in Germania negli anni Settanta: sarebbe un eccellente riferimento per l’architettura sostenibile della società hi-tech.
Questi raffinati “sistemi ecourbanistici” non sono facilmente percepibili dall’esterno. L’involucro è diventato un sistema di scambi al punto di non essere più visibile. Le facciate sono di vetro, un materiale che possiede tutte le qualità richieste da Behnisch: è ecologico, facile da lavorare, programmabile e costituisce in se stesso un sistema di scambi (calore, luce, colori). Sulla facciata e sul tetto gli involucri di vetro di Behnisch non perdono mai il contatto con l’esterno; sono scanditi dai dispositivi (lucernari, schermature, collettori e frangisole) che interagiscono costantemente con gli elementi atmosferici e nulla può disturbare il ruolo attivo svolto dalla facciata. Si usa dire che un’opera architettonica, per essere compresa, deve essere vista di persona. Con le architetture di Behnisch, per poter capire in che modo gli spazi interagiscono con le variazioni del clima e le attività dell’uomo, bisogna anche viverli nel corso delle diverse stagioni.
UN’ARCHITETTURA DELL’ACCOGLIENZA Come le attività che ospita, l’architettura bioclimatica di Stefan Behnisch consuma più informazione che energia e tende verso una certa dematerializzazione. Se nel suo lavoro c’è una strutturazione degli spazi, può derivare più dal know-how architettonico di Behnisch & Partners che dalla volontà di Behnisch, perché la sua ricerca sullo spazio è quasi atettonica. Un progetto di Behnisch va letto in sezione piuttosto che in pianta, e senza dubbio è così che è stato concepito, perché è la sezione a permettere di dare forma al vuoto e di gestire gli scambi. E queste sezioni sono molto illuminanti perché rivelano i sistemi architettonici su vasta scala: l’atrio del Genzyme è una navata, la hall del LVA è la piazza vivace e luminosa di una piccola città (verticale), la suite dell’atrio del Wageningen Institute è una strada i cui passaggi sono attentamente gestiti. Nei grandi progetti Behnisch usa il calore e le lame di luce per mettere in atto il 23
→ Stefan Behnisch
TERRENCE DONNELLY CENTRE PER LA RICERCA CELLULARE E BIOMOLECOLARE (TDCCBR) TORONTO, CANADA, 2001-2005 Committente: Università di Toronto Progetto architettonico: Behnisch Architekten con architectsAlliance Progettazione strutturale: Yolles Partnership Ltd, Toronto Progettazione paesaggistica: Diana Gerrard Landscape Architecture Superficie totale dell’area: 20.750 m2
L’Università di Toronto e i suoi laboratori sono all’avanguardia nella ricerca sulla relazione tra geni e patologie. Il programma del nuovo centro è quello di garantire un collegamento tra la ricerca più avanzata e le applicazioni terapeutiche. I ricercatori vengono qui per sviluppare dei progetti in squadre multidisciplinari, in un ambiente che deve essere funzionale, flessibile e in grado di favorire una sinergia. Il progetto è stato realizzato in College Street, nella parte meridionale del campus di Toronto, all’estremità di uno stretto cul-desac che fungeva da parcheggio per due illustri istituzioni. Per risolvere il problema della scarsità di spazio del lotto è stato progettato un edificio alto e stretto, che si eleva al di sopra del quartiere in due blocchi successivi di oltre dodici piani che catturano la luce attraverso il loro rivestimento interamente in vetro. Al piano terra, che si appoggia all’edificio Rosebrugh, è stato realizzato un grande atrio. La vecchia facciata in mattoni costituisce la parete posteriore del cortile interno, curato come un giardino e scandito dalle colonne in cemento della struttura primaria. Oltre all’area destinata alla reception e agli ascensori, nell’atrio si trovano anche le sale destinate alle riunioni dei ricercatori e gli uffici amministrativi. L’insieme generale è gradevolmente illuminato da una copertura in vetro che mette in evidenza la sagoma del cornicione sulla vecchia muratura. I laboratori sono disposti su dodici piani. La configurazione varia, dagli uffici individuali ai moduli collettivi open space. Gli spazi aperti disposti da est a ovest sono totalmente accessibili alla luce naturale. A sud la maggior parte di essi si affaccia sui giardini interni, che sono disposti su tre piani e vengono utilizzati come spazi destinati alla conversazione e al relax. Sebbene questi “giardini d’inverno del terziario” non siano certamente le serre del XIX secolo, sono tuttavia ben visibili dall’esterno e contribuiscono a vivacizzare il rivestimento, ogni lato del quale è progettato per fornire un’illuminazione adeguata alla funzione che ospita. La parete meridionale, sul lato della strada, consiste di un doppio involucro in vetro opaco contenente i dispositivi che regolano il controllo termico e acustico. Le altre facciate, che danno accesso ai laboratori, appaiono più “protettive” grazie al rivestimento interno in vetro opaco o ceramica. Sulla facciata ovest, tuttavia, le attività interne sono ben visibili – e confortevoli – perché nelle grandi finestre in aggetto sono state inserite le scale e i ballatoi. Perciò questi elementi in vetro identificano nella struttura complessiva dei microcosmi attivi e colorati: microcosmi i cui abitanti possono essere 24
osservati fino alla loro unità individuale, indicata dalla rispettiva finestra e dal parapetto in vetro colorato. Queste variazioni di volume, texture e colore riescono a restituire corpo all’involucro di vetro – materiale che il XX secolo ha preferito spesso utilizzare nel modo più astratto – e anche a creare un luogo di lavoro leggibile e animato per tutti: la forma segue l’azione umana.
Facciata ovest del TDCCBR. Sul blocco superiore si può vedere chiaramente l’aggetto delle grandi finestre che racchiudono le scale interne di ogni unità.
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In alto: Il prospetto ovest del TDCCBR, con una sezione del piano terra con l’atrio e il collegamento all’edificio intermedio. Al centro: Il cortile interno è considerato come un giardino ed è illuminato da un lucernario. Questa soluzione permette di far arrivare la luce al blocco inferiore lungo tutta l’altezza del l’edificio (sei piani). In basso: Ballatoio nell’atrio superiore.
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Il fronte meridionale dell’edificio, con i giardini interni disposti su tre piani. Questi giardini d’inverno, molto ben illuminati, sono anche un ornamento per la facciata.
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ALLSTON SCIENCE COMPLEX UNIVERSITÀ DI HARVARD, CAMBRIDGE MASSACHUSETTS, USA, 2006-2010 Committente: Università di Harvard Progetto architettonico: Behnisch Architekten Consulente ambientale: Transsolar Climate Engineering Consulente per l’illuminazione: LichtLabor Bartenbach Progettazione impianti: Philippe Samyn
Un tipico e complesso schema centrifugo di campus, che deve funzionare come un organismo urbano, vale a dire in modo regolamentato e imprevedibile allo stesso tempo. Stefan Behnisch ha lavorato a questo progetto focalizzando alcuni elementi che risultano già evidenti nella fase di realizzazione del plastico. Il progetto è permeato dalla ricerca avanzata sull’illuminazione naturale e ovunque sono disseminati camini solari e facciate in vetro disposte in modo da rendere visibili gli spazi interni. È percepibile anche l’attenzione agli aspetti funzionali dei luoghi, dal modo in cui il progetto mescola uffici e laboratori, spazi destinati al lavoro e spazi in cui rilassarsi, usando la dimensione verticale per moltiplicare il numero dei percorsi pedonali e dei luoghi di riunione in cui si può “lavorare, incontrarsi, comunicare o semplicemente rilassarsi in un ambiente che non ha un uso prestabilito”.
In alto: Una sezione dell’edificio principale, tipico del lavoro di Stefan Behnisch sugli scambi termici e sull’ottimizzazione della luce naturale. A destra: Pianta del piano terra nella fase di studio.
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Modello dell’intervento in una fase preliminare di progettazione.
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IBN INSTITUTE FOR FORESTRY AND NATURE RESEARCH WAGENINGEN, Paesi bassi Committente: Ministero dell’Edilizia e dell’Agricoltura, Paesi Bassi Progetto architettonico: Behnisch Architekten Consulente energetico: Fraunhofer Institute for Building Physics, Stoccarda Superficie totale dell’area: 11.250 m2
Sebbene abbia solo dieci anni, l’IBN è considerato un “classico” della progettazione bioclimatica, e forse potrebbe essere già riletto da prospettive diverse. Per esempio quella dell’antimonumento: l’IBN combina un nuovo mondo di valori e di competenze con una tecnologia costruttiva che utilizza solo componenti in commercio – dando vita, nel 1998, a un’ecoarchitettura che non è né utopica né un lusso. Behnisch vi inserisce i suoi elementi chiave: l’articolazione di una struttura dinamica che filtra le energie con l’inerzia di un vuoto interno (in questo caso un atrio) che regola i flussi; una delicata regolazione dell’atmosfera attraverso la presenza di giardini interni, suddivisi in microclimi che contribuiscono al comfort ambientale e nello stesso tempo lo rappresentano visivamente; l’idea delle controfacciate, “deformate” dall’interno, che più che circoscrivere lo spazio organizzano gli scambi, avvolgendo più che rivelando: le pareti qui sono realizzate con comuni telai metallici e finestre industriali, i giardini d’inverno con serre orticole. La plasticità dello spazio è definita dai ponti di servizio modulari a doppio livello, distribuiti lungo gli atri e collegati mediante ballatoi. E poi compare la vita, quando questi sistemi aperti afferrano ogni minuscola possibilità e la trasformano in spazi e in modi di utilizzarli. Un ufficio si protende come una terrazza sopra lo stagno, con il legno del corrimano lucidato a olio piacevolmente profumato. Il resto della costruzione è usato per dare forma alle aree esterne.
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L’IBN visto da nord, con le sue facciate “standard�. In primo piano il bacino di ritenzione delle acque piovane. A sinistra: Una sezione longitudinale con un particolare degli atri interni.
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Planimetrie generali e prospetto dell’IBN.
Veduta interna di un atrio con il giardino. Sullo sfondo una facciata in vetro offre la veduta, dal laghetto interno, sulla campagna circostante.
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Le coperture sono state realizzate con componenti usati per le serre agricole; si possono vedere gli ingranaggi del sistema di apertura. A destra: Schema del sistema per la raccolta delle acque piovane sul tetto ricoperto di piante e nel bacino esterno.
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