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BIOECONOMIA
la chimica verde e la rinascita di un’eccellenza italiana
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BIOECONOMIA La chimica verde e la rinascita di un’eccellenza italiana Prefazione di Gunter Pauli con la collaborazione di Lorenzo D’Avino, Michele Falce, Francesco Ferrante, Giulia Gregori, Sofia Mannelli
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Beppe Croce, Stefano Ciafani, Luca Lazzeri bioeconomia la chimica verde e la rinascita di un’eccellenza italiana realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it
coordinamento redazionale: Paola Cristina Fraschini progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina: elaborazione GrafCo3 Milano
© 2015, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’Editore. ISBN 978-88-6627-143-7 Finito di stampare nel mese di febbraio 2015 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta certificata FSC
Volume realizzato con la collaborazione di CremonaFiere e presentato in occasione di BioEnergy Italy, Green Chemistry Conference and Exhibition e Food Waste Management Conference 2015 (www.cremonafiere.it).
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sommario
come agricoltura e industria possono indirizzare la società verso la sostenibilità di Gunter Pauli
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premessa
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1. le radici della bioeconomia
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2. chimica verde: energia e materia dalle piante
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3. bioprodotti e bioraffinerie: lo sviluppo mondiale
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4. splendori e miserie della chimica italiana
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5. la rinascita: le bioraffinerie italiane
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6. ripartire dal suolo
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7. chiusura dei cicli
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8. criteri di sostenibilità e bilanci ambientali a cura di Lorenzo D’Avino e Sofia Mannelli
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9. strategie e politiche a cura di Giulia Gregori e Francesco Ferrante
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il manifesto della chimica verde
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come agricoltura e industria possono indirizzare la società verso la sostenibilità
O l’economia diventa una bioeconomia o non avrà alcun futuro. Il nostro sistema di produzione e consumo dipende in modo eccessivo dalle materie prime di origine fossile e dalle loro trasformazioni chimiche. Dobbiamo rimpiazzarlo con un sistema basato su input rinnovabili: o biodegradabili, per poterli convertire in nutrienti dopo che sono stati utilizzati, o riciclabili al 100% per poterli riutilizzare senza che perdano valore. I principi che governano attualmente l’economia e il management non ci permettono di abbracciare una vera bioeconomia. La logica economica oggi impone di ricercare i costi più bassi, di massimizzare i volumi produttivi e di raggiungere economie di scala. Non è una strada che possiamo percorrere se vogliamo fondare la bioeconomia sui sistemi naturali. Non ci sono alberi che, dopo aver raggiunto i 10 metri di altezza, decidono di continuare a crescere fino a 100 metri. Il vento li abbatterebbe in un attimo.
dal taglio dei costi alla generazione di valore Per la bioeconomia è essenziale che la produzione e i consumi vengano rapportati ai tempi e ai luoghi, e che rispettino le capacità rigenerative degli ecosistemi in modo da soddisfare i bisogni fondamentali di acqua, cibo, riparo, salute, energia e occupazione. Questo può avvenire solo se ci si focalizza sulla generazione di valore, e non sulla ricerca di costi sempre più bassi. La vera forza della bioeconomia non sta quindi nella sostituzione di un’economia basata sulle energie e i materiali fossili con un’altra incentrata sulle rinnovabili, quanto piuttosto nella capacità di operare attraverso bioraffinerie che, sfruttando cicli di nutrienti ed energia, danno valore a tutto e non producono nessuno scarto.
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bioeconomia
cascate di nutrienti ed energia Ci rendiamo conto di rado di quante opportunità vadano perse a causa della focalizzazione sui costi e la riduzione degli impatti pericolosi. La Nestlé è il più grande trasformatore di caffè del mondo. Controlla il 22% del mercato al dettaglio, e per trasformare i chicchi in caffè solubile scarta ogni anno circa 3 milioni di tonnellate di bacche danneggiate, bucce e altre parti non solubili. In accordo con l’attuale logica economica, questa biomassa viene bruciata per generare energia e ridurre le emissioni (quando si decompone il caffè produce metano, mentre se viene bruciato si libera anidride carbonica, che è 21 volte meno dannosa per il clima). Sembrerebbe un caso da manuale di responsabilità sociale d’impresa, che in più taglia i costi e riduce gli scarti. La bioeconomia va oltre la semplice riduzione dei costi e la competizione sui prezzi. Quelle 3 milioni di tonnellate di scarto potrebbero essere usate come substrato per la coltivazione dei funghi. Si potrebbero così generare 1,5 milioni di tonnellate di alimenti ad alto contenuto proteico, mentre le 500.000 tonnellate di avanzi ricchi di aminoacidi sarebbero un ottimo mangime per animali. Non si tratta solo di produrre più cibo con qualcosa che non è più commestibile: si tratta anche di creare migliaia di posti di lavoro nelle aree rurali. Una sola azienda potrebbe crearne da 400 a 500.000. Anche se, nell’ambito dell’attuale logica economica, Nestlé potrebbe ribattere che i funghi non fanno parte del suo modello di business, è lecito chiedere quanto a lungo questa logica potrà ancora andare avanti in un mondo in cui un miliardo di persone è in cerca di un lavoro e almeno altrettante vanno a letto con lo stomaco vuoto.
benefici multipli Dato che la bioeconomia assegna un valore a ogni singolo componente, e non solo a quelli su cui si focalizzano le aziende, ha la capacità di generare più ricavi e più posti di lavoro, dando nel contempo risposta ai bisogni basilari di molte più persone. Si aprono opportunità non perché la bioeconomia sia meno costosa, ma perché può generare una molteplicità di flussi di cassa, di ricavi e di benefici per la società, molti di più rispetto a quelli che il mondo del business riuscirebbe normalmente a produrre. E questo vale non solo per rifiuti come i fondi e le bucce dei chicchi di caffè, ma anche per quelle materie prime a cui oggi non si dà alcun valore e che sono conosciute come “erbacce”. Novamont, azienda leader nel settore della biochimica, ha dimostrato il grande potenziale del cardo, una pianta normalmente considerata infestante, per giunta
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come agricoltura e industria possono indirizzare la società verso la sostenibilità
costoso da rimuovere. D’altro canto, la diffusione del cardo a causa dell’abbandono dei terreni agricoli offre una serie di opportunità a chi è pronto a coglierle andando al di là di ciò che è scontato. In questo caso, è il modello di business che ha dominato le nostre economie a essere scontato. Se ci limitiamo a considerare il cardo un’erbaccia, allora non potremo fare altro che valutarlo in termini di costo. Se invece siamo disposti a vedere in questa pianta perenne una fonte abbondante di fibre, oli e zuccheri allora l’approccio può essere del tutto differente. Quando Eni fu costretta a chiudere il suo impianto di Porto Torres, ormai non più competitivo sotto il profilo economico, per la Sardegna si trattò di una perdita secca. La dismissione di un impianto per il cracking costruito all’inizio degli anni ’60 è molto costosa. In pochi avrebbero immaginato che la bioeconomia avrebbe potuto avere un ruolo in un’operazione simile, eppure è esattamente quello che Catia Bastioli e il suo team Novamont sono riusciti a fare. La bioeconomia si concentra su risorse che possono essere lavorate usando infrastrutture già esistenti e sulla generazione di valore. Chi si sarebbe aspettato che, dopo soli tre anni da quando l’idea è stata presentata per la prima volta, sarebbe sorto un impianto che produce polimeri, elastomeri, lubrificanti, erbicidi e mangimi a partire da quella che è considerata un’“erbaccia”?
prima di tutto i mercati locali L’operazione di Novamont è significativa per dimensioni e per le sue implicazioni. È partita per la prima volta in sei località italiane, ma è probabile che nel futuro prossimo iniziative simili possano diffondersi in altri luoghi del mondo. Tuttavia, la cosa davvero interessante è che Novamont guida la corsa non perché ha cercato di primeggiare su scala globale, ma perché si è impegnata per avere un ruolo di primo piano nell’economia italiana.
i bioprocessi sono specie-specifici La seconda componente strategica della bioeconomia è il rispetto e la comprensione assoluti della diversità. Il gruppo chimico olandese Dsm segue le logiche della bioraffineria, ma ha adottato una strategia simile a quella dell’industria petrolchimica: ricerca le economie di scala. Mentre Novamont è pronta a ricavare il massimo valore da un ventaglio di prodotti derivati usando un sistema di raffinazione specifico per un’unica fonte, il cardo, Dsm punta a un approccio standardizzato nell’ambito del quale tutte le biomasse possono essere mescolate in una grande tinozza al cui interno un cocktail di enzimi separa le compo-
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1. le radici della bioeconomia
“Le leggi della fisica non sono negoziabili.” Michel Jarraud, segretario generale World Meteorological Organization
san romualdo e la biobased economy San Romualdo vive a cavallo dell’anno Mille. “Anacoreta e padre dei monaci Camaldolesi” come lo designa il Martirologio Romano, trascorre senza sosta tra eremi e abbazie. Comincia a vent’anni in seguito, pare, a un fatto di sangue che coinvolge il padre e un cugino. Essendo di nobile famiglia ravennate sceglie per primo monastero Sant’Apollinare in Classe. Ma presto lo abbandona per porsi sotto la guida spirituale di un eremita della laguna veneta, tale Marino. Da Venezia va in Catalogna, nell’abbazia di Sant Miquel de Cuixà. Torna dieci anni dopo a Ravenna nell’eremo di Pereo. Fonda forse il Monastero di Fonte Avellana nel Pesarese e poi un altro monastero a Verghereto, presso il monte Fumaiolo. Torna a Sant’Apollinare, per diventare abate su preghiera dell’imperatore Ottone III di Sassonia. Ma l’ambiente di Sant’Apollinare, così prossimo alla sede imperiale di Ravenna, mal gli si addice e dopo un anno fugge a Montecassino. Nel suo perpetuo movimento fonda un altro monastero e un cenobio a Sitria, in Umbria, alle falde del Monte Cucco. A Sitria prega e digiuna in compagnia di devoti, che ammaestra “tacente lingua et predicante vita” come informa in perfetta sintesi il suo biografo e conterraneo Pier Damiani. Sette anni dopo abbandona Sitria per le foreste del Casentino, dove istituisce la congregazione dei Camaldolesi, diramazione riformata dell’Ordine benedettino. Neppure Camaldoli lo trattiene e finisce i suoi giorni in solitudine a Valdicastro, nei pressi di Fabriano, non senza aver prima fondato una nuova abbazia. San Romualdo degli Onesti, sia per il suo cognome sia perché santo, era poco incline ai compromessi. A causa dei suoi continui richiami disciplinari e morali ai monaci, viene cacciato insieme ai suoi discepoli da Verghereto con “belluino furore” e a “vergate” (da cui, pare, il toponimo). Lo stesso Dante che non
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apprezzava l’eccesso di rigore dei camaldolesi, lo colloca un po’ controvoglia in Paradiso, nel cielo di Saturno, tra gli spiriti contemplativi, e in sua vece fa parlare Pier Damiani, che era seguace della regola di Romualdo, ma era pure cardinale, teologo e grande riformatore. Nella vita di questa spirito inquieto, che ha una parte importante nella nostra storia, si condensano le figure emblematiche dell’anno Mille, tra imperatori infanti, papi imberbi, antipapi, sogni di rifondazione, eremiti e grandi moralizzatori. Ottone III di Sassonia è eletto a tre anni re di Italia e di Germania. Il cugino di Ottone, Bruno di Carinzia, è eletto papa poco più che ventenne, per poi venir spodestato dall’antipapa Giovanni XVI, sostenuto dalla famiglia romana dei Crescenzi. Giovanni pagherà l’usurpazione sotto orribili torture. “Cuopron de’ manti loro i palafreni,/sì che due bestie van sott’una pelle” fa dire Dante a Pier Damiani nell’invettiva contro i cardinali del suo tempo.1 Romualdo, per lignaggio e cultura destinato a far parte di questa élite di cialtroni, fugge alla ricerca del silenzio dei boschi. Sogna forse di rifondare la Chiesa, dal basso, come Benedetto prima di lui e come Francesco dopo di lui. Costruisce e ricostruisce comunità, cerca discepoli, impartisce regole. Perché i boschi? Perché “il silenzio della foresta garantisce il loro quotidiano ascolto della Parola” annota un commentatore della regola camaldolese. Silenzio e ascolto. Ma non solo. L’albero è anche prima fonte di nutrimento, di energia, di materiali, di farmacopea. Ancora oggi, nell’Antica Farmacia di Camaldoli, i monaci offrono ai turisti un centinaio di prodotti naturali per la cosmesi, oli balsamici, rimedi podologici, distillati di erbe. Le piante garantiscono per secoli la piena autosufficienza della comunità monastica. il bosco polisenso dei camaldolesi “‘Pianterò, Egli dice, nel deserto, il cedro e il biancospino, il mirto, l’olivo, l’abete, l’olmo e il bosso’. Se dunque desideri di possedere di questi alberi in abbondanza o se brami di essere tra loro annoverato, tu chiunque sii, studiati di entrare nella quiete della solitudine... Tu dunque sarai un Cedro per la nobiltà della tua sincerità e della tua dignità; Biancospino per lo stimolo alla correzione a alla conversione; Mirto per la discreta sobrietà e temperanza; Olivo per la fecondità di opere di letizia, di pace e di misericordia; Abete per elevata meditazione e sapienza; Olmo per le opere di sostegno e pazienza; Bosso perché informato di umiltà e perseveranza.” Tratto dal Liber eremiticae regulae aditae a Rodulpho eximio doctore Biblioteca della città di Arezzo, cod. 333, sec XI Traduzione di Padre Salvatore Frigerio – SLM – Sopra il Livello del Mare, n. 11, 2003
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1. le radici della bioeconomia
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La Regola dei Camaldolesi, a cui dobbiamo il primo codice forestale della storia, ci rimanda alla straordinaria molteplicità di sensi e di funzioni della materia fondamentale di cui si occupa la bioeconomia: il mondo vegetale. Oggi le società occidentali riscoprono a modo loro l’importanza primaria del mondo vegetale per le loro economie. “Nel lungo periodo i combustibili fossili non saranno più disponibili a un prezzo vantaggioso e la biomassa sarà la fonte primaria di carbonio per l’economia globale”. Così si annuncia l’era della biobased economy nel linguaggio di una dirigente della Commissione europea.2 Siamo ovviamente lontani dalla spiritualità dei monasteri. Il mondo vegetale qui si riduce a un’astratta e informe risorsa, la “biomassa”, ampiamente disponibile sul pianeta e da sfruttare come fonte di energia e materie prime. Anche camaldolesi e francescani hanno fatto uso economico del bosco, ma non solo. Il loro rapporto col bosco era assai più complesso, coinvolgeva la sfera dell’utile e al tempo stesso della spiritualità, della poesia, della bellezza. Il bosco era il cosmo o l’intermediario del cosmo. Nel linguaggio riduttivo dei politici di Bruxelles, nel linguaggio degli imprenditori europei, che è poi il nostro linguaggio quotidiano, si annuncia un potenziale di opportunità, ma anche di rischi della prossima sfida. Nell’epoca di twitter c’è poco spazio per mistici ed eremiti. Ma, per quanto più laici di Romualdo, per entrare con successo nella bioeconomy, nel nostro rapporto col mondo vegetale non potremo trascurare la molteplicità di funzioni che esso assolve per la nostra vita. Non potremo fare a meno neppure della sorpresa, della poesia e del rispetto per un albero in fiore. Non potremo fare a meno di economie più solidali e di rapporti con le cose diversi dall’usa e getta. Se ridurremo tutto a “biomassa” la scommessa è già persa.
ma cos’è la bioeconomia? La bioeconomia riguarda “la produzione di risorse biologiche rinnovabili e la trasformazione di tali risorse e dei flussi di rifiuti in prodotti a valore aggiunto quali alimenti, mangimi, fibre, bioenergie, intermedi chimici e bioprodotti”. Così almeno è definita in documenti ufficiali dell’Unione europea, che ha creato anche un apposito sito per la bioeconomia.3 Chi ci offre queste risorse biologiche “rinnovabili”? Le piante innanzitutto, di ogni genere e tipo; ma anche gli animali, le alghe, gli organismi che vivono nel mare, i funghi, i batteri, i lieviti nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani. In breve, tutto ciò che si può ottenere da sistemi viventi in grado di riprodursi in tempi ragionevolmente brevi per la scala umana: giorni, mesi o anni. E quindi in grado di riprodurre in tempi brevi ciò che consumiamo. Si parla anche di “rifiuti”, altro termine interessante da indagare. Cos’è un ri-
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fiuto? Potremmo rispondere: tutto ciò che non è più utilizzabile. Ma sarebbe meglio dire: tutto ciò che non vogliamo più utilizzare o che non sappiamo ancora utilizzare. Se poi lo guardiamo dal punto di vista della legge, il concetto di rifiuto spesso è un capriccio nominalistico, fissato in qualche tabella ministeriale per complicare l’esistenza di contadini, industriali e amministratori locali. La tabella ministeriale stabilisce cosa è lecito e cosa non è lecito usare. Anzi spesso non lo dice oppure lo dice e poi lo nega in altro testo. E purtroppo non prevede l’innovazione. Tutto ciò che non è già in tabella crea spaesamento e confusione. Sicché alla fine, come spesso accade in Italia, ognuno fa un po’ quel che si faceva nella Casa delle Libertà. A ogni modo, indicando risorse rinnovabili e rifiuti come base dei prodotti di domani, si apre una straordinaria sfida economica ed ecologica. Le risorse della bioeconomia possono infatti offrire tre vantaggi cruciali: 1. sono potenzialmente non esauribili; 2. sono in genere molto meno inquinanti e meno tossiche dei loro omologhi fossili; 3. sono producibili sul territorio e possono quindi garantire maggiore autonomia energetica.
quanto chiediamo all’agricoltura e al mondo vegetale? Oggi la bioeconomia sta diventando un asse strategico dei principali paesi industrializzati. Nel 2012 l’Unione europea lancia “A Bioeconomy for Europe”, lo stesso anno l’amministrazione Obama lancia “The National Bioeconomy Blueprint”, mentre la Cina nel suo 12° Piano quinquennale identifica tra le sette industrie strategiche emergenti le biotecnologie, includendovi anche i bioprodotti. Anche l’Ocse propone un’agenda per la bioeconomia al 2030.4 Eppure a ben vedere tutto ciò non sembra una grande novità. Si tornerebbe a fare quello che le comunità umane hanno fatto per millenni fino all’avvento della chimica di sintesi: utilizzare la biomassa vegetale e animale come fonte primaria non solo per nutrirsi, ma anche per scaldarsi, vestirsi, curarsi, pulirsi, profumarsi o colorare. E soprattutto si tornerebbe a utilizzare quelli che oggi chiamiamo rifiuti ma che un tempo non erano rifiuti, perché tutto trovava impiego – dallo sterco delle vacche alla paglia di grano – o quantomeno tornava nel ciclo della fertilità del suolo. Cosa c’è di innovativo in un ritorno alle materie prime del passato? Il problema che a noi si pone e non si poneva ai nostri nonni, e tantomeno a San Romualdo, è che nel frattempo la Terra è diventata molto più piccola e fragile. La pressione della nostra specie sugli ecosistemi è arrivata al limite di tolleranza (e
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1. le radici della bioeconomia
in molti casi ha superato quel limite).5 Come si concilia il ritorno all’agricoltura come fonte di beni primari con la previsione di una popolazione di 9 miliardi di individui e di consumi di proteine in continua ascesa?6 Sono in grado gli ecosistemi terrestri di soddisfare questa crescita di aspettative senza subire alterazioni irreversibili? Questa oggi è la posta in gioco su un pianeta ormai malaticcio. Una sfida simile implica quantomeno un salto di efficienza nei flussi di materia e di energia, in modo da ridurre al minimo il consumo di risorse naturali e la produzione di scarti. È una sfida che non si risolve solo con la tecnologia e non si vince solo dal lato della produzione, ma anche e soprattutto dal lato dei consumi, ossia degli stili di vita delle persone e delle comunità urbane.
la lenta scoperta dell’ecologis La proposta della bioeconomia va iscritta nel lungo e accidentato percorso avviato circa 40 anni fa dalle società umane e dalle loro istituzioni politiche per tentare di articolare risposte alla distruzione dell’ambiente. O meglio, alla distruzione delle condizioni che rendono possibile la vita sul pianeta (sennò qualcuno pensa che siamo noi che vogliamo salvare il mondo, quando invece si tratta di salvare noi stessi). Possiamo datare il primo risveglio al 1972, l’anno del Summit sullo Sviluppo umano delle Nazioni Unite di Stoccolma e del saggio tabella 1.1 la bioeconomia nell’unione europea Settore
Fatturato annuo (miliardi di euro)
Occupati (migliaia)
Data source
Alimentare
965
4.400
CIAA
Agricoltura
381
12.000
COPA-COGECA, Eurostat
Carta e cellulosa
375
1.800
CEPI
Foresta legno
269
3.000
CEI-BOIS
Pesca e acquacoltura
32
500
EC***
Bioprodotti
50 (stima*)
150 (stima*)
USDA, Arthur D Little, Festel, McKinsey, CEFIC
Enzimi
0.8 (stima*)
5 (stima*)
Amfep, Novozymes, Danisco/Genencor, DSM
6**
150
EBB, eBio
2.078
22.005
Biocarburanti Totale
*stime 2009; **stima basata sulla produzione di 2.2 Mton di bioetanolo e 7.7 Mton di biodiesel ai prezzi medi Fonte: CE, A Bioeconomy for Europe Memo 12/97 – 2012.
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chi può sostituire la versatilità del petrolio? A ogni modo molti ritengono che siamo al tramonto della materia prima che ha dominato il mondo contemporaneo per un secolo e mezzo. Il petrolio dovrebbe essere abbandonato innanzitutto per il disastroso bilancio ambientale e sociale che sta provocando, non ultimo il suo contributo al surriscaldamento del pianeta. Ma questo non è ancora un motivo sufficiente per scuotere le politiche energetiche di Russia, Cina o America, come ci insegnano le nuove corse al fracking o ai giacimenti sotto la calotta polare artica. Può anche darsi che questi episodi siano solo i terribili colpi di coda di un declino. Negli anni ’50 il geofisico americano Marion King Hubbert, grande accademico che era stato per anni anche il direttore di ricerche della Shell in Texas, aveva previsto che in pochi decenni la produzione mondiale di petrolio avrebbe raggiunto il suo picco. Dopo di che sarebbe inevitabilmente calata, dato il progressivo esaurimento delle riserve stratificate nei giacimenti e il conseguente allungamento dei tempi e dei costi di estrazione. Si sprecano le previsioni sui tempi di esaurimento di questa straordinaria fonte di energia e di materie prime, ma il fatto indiscutibile è che la sua disponibilità diminuisce (e può diminuire anche per vicende politiche) mentre il consumo di energia cresce in maniera esponenziale in tutto il mondo. Nel decennio 2000-2010 il BP Statistical Report ci informa che i consumi energetici mondiali sono aumentati di oltre il 25%. Da qui la domanda: quando metteremo da parte il petrolio chi ci fornirà carburanti, calore, elettricità e basi per la chimica? Il metano? Il nucleare? L’idrogeno? Tra gli elementi e le molecole disponibili in natura per fornirci energia, solo l’idrogeno supera il metano, con un potere calorifico tre volte superiore (circa 144 Megajoule per kg). Da questo, nonché dalla sua pressoché infinita disponibilità, nasce il grande interesse per l’idrogeno come vettore energetico del futuro. Ma l’industria dell’idrogeno, a parte il rischio della sua elevata infiammabilità, non è ancora in grado di sostituire il potenziale di impiego dei prodotti fossili e ogni alternativa oggi a portata di mano risulta problematica e parziale. Tecnicamente una risposta alla crescente richiesta di catene di atomi di carbonio potrebbe venire dalle biomasse che però non potranno sostituire che in piccola parte gli immensi consumi mondiali e nazionali di petrolio. Il contributo delle biomasse al problema energetico non potrà che essere molto limitato, mentre su scala aziendale le bioenergie possono aprire una grande prospettiva per il settore agricolo a sua volta in crisi strutturale. In compenso le biomasse hanno una potenzialità che non hanno né l’idrogeno né il metano né il vento né il solare termodinamico: con queste cose si può fare energia, ma poco o niente di più. L’unica risorsa naturale che offre la varietà di applicazioni del petrolio, anzi mol-
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to più ampia del petrolio, è il mondo vegetale. Il mondo vegetale ci consente di ricorrere indirettamente a una fonte per noi pressoché inesauribile, l’energia solare. Nel periodo diurno questa energia è il motore che alimenta un’immensa fucina di materiali biologici disparati: zuccheri, fibre, oli, proteine e quant’altro.
luce, acqua e carbonio: le basi della vita Perché la biomassa è utilizzabile come fonte di materia e di energia? La reazione fondamentale alla base della catena trofica del mondo vivente è arcinota, ma non per questo meno stupefacente: 6 CO2 (anidride carbonica) + 6 H2O (acqua) + energia solare -> C6H12O6 (glucosio) + 6 O2 (ossigeno) È la reazione della fotosintesi clorofilliana, l’unico processo biologico in grado di trasformare, grazie all’energia luminosa, sostanze inorganiche come acqua e anidride carbonica in composti organici come il glucosio. Come sottoprodotto della reazione la pianta libera in atmosfera ossigeno dagli stomi delle sue foglie. La fotosintesi si svolge all’interno dei cloroplasti, minuscoli organuli composti da una pila di membrane che a loro volta racchiudono grappoli di pigmenti attorno a una molecola di clorofilla speciale, detta “a trappola”. L’energia della particella di luce viene trasmessa di molecola in molecola fino a raggiungere ed eccitare la molecola di clorofilla speciale. Inizia la fotosintesi: attraverso un raffinato sistema di molecole complesse (proteine, amminoacidi, ribonucleotidi) che si scambiano protoni ed elettroni liberati dall’eccitazione energetica, la pianta arriva a sintetizzare singoli atomi di carbonio, idrogeno e ossigeno nella semplice e raffinata struttura ad anello del glucosio, mattone energetico fondamentale per la sua crescita e riproduzione. La quantità di energia solare catturata dalla fotosintesi è immensa, dell’ordine dei 100 Terawatt (centomila miliardi di watt), che è circa sei volte quanto consuma attualmente la civiltà umana. Ma è comunque una minuscola frazione, un decimilionesimo, di tutta l’energia solare che arriva in un anno sulla Terra. Con la fotosintesi la pianta non si limita a catturare energia luminosa, ma anche carbonio per costruire i suoi composti organici. Le piante, è vero, sono anche sorgente di carbonio, che rilasciano sotto forma di CO2 tramite la respirazione cellulare (ciclo ossidativo). Ma il carbonio che rilasciano nell’ambiente è solo una parte di quello che catturano, perché un’altra parte viene sequestrata nella biomassa della pianta e lì può restarvi per anni o per secoli.
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Lo straordinario meccanismo della fotosintesi ci introduce in un mondo di processi diversi e assai più complessi di quelli della petrolchimica. A differenza dell’energia fossile, qui abbiamo a che fare con i meccanismi della biologia molecolare dove, in condizioni lontane dall’equilibrio, ossia in condizioni di turbolenza, avvengono reazioni particolari che sembrano sfuggire all’inevitabile degrado dei processi termodinamici. Reazioni che danno luogo alle “strutture dissipative”, come le ha definite il chimico-fisico russo Ilya Prigogine (amico tra l’altro di Georgescu-Roegen), e che sono alla base della vita.15 Strutture apparentemente caotiche, ma in realtà altamente organizzate su scala microscopica. Minime fluttuazioni in certe reazioni catalitiche, che avvengono nei sistemi lontani dall’equilibrio, anziché evolvere inesorabilmente verso l’equilibrio termico, ossia verso l’aumento di entropia, determinano strutture auto-organizzate a bassa entropia: dai più semplici “orologi molecolari” (“loop catalitici” di reazioni chimiche che, invece di esaurirsi dopo un certo lasso di tempo, tendono a reiterarsi con una precisione ciclica impressionante) fino alle basi del Dna. Quando definiamo “rinnovabili” le materie prime di origine biologica è proprio a causa di questa capacità di auto-organizzazione (e di auto-riproduzione) che hanno tutti i sistemi viventi in condizioni lontane dall’equilibrio, dai batteri alle piante superiori. Capacità che li distingue dai loro fratelli minerali.
metaboliti primari e secondari La chimica verde si basa su una ricchezza di molecole e composti notevolmente superiore a quella che possono offrirci gli idrocarburi derivati dal petrolio. A partire dai cosiddetti metaboliti, ossia dalle molecole prodotte dal metabolismo delle piante, attraverso sofisticati sistemi di demolizione e costruzione. Alcuni sono comuni a tutti gli esseri viventi: proteine, carboidrati, lipidi e acidi nucleici. Sono i metaboliti primari, ottenuti tramite la demolizione di quel glucosio che rappresenta il motore energetico principale della cellula e che la pianta costruisce da sé con la fotosintesi. Ma le piante producono anche una straordinaria quantità di altre molecole specializzate – i metaboliti secondari, noti anche come “princìpi attivi” – connesse alla vita di interrelazione con l’ambiente. Molecole che possono avere proprietà aromatiche, biocide, lenitive, che possono servire alla piante per attrarre, respingere, risanarsi o altro. Sono per esempio i terpeni (geraniolo, pinene, limonene, squalene), composti aromatici a elevata azione biocida; gli alcaloidi, come per esempio la caffeina e altre molecole note per la loro azione psicotropa, che hanno un’azione di regolazione della crescita e rappresentano una riserva di azoto per la pianta; i polifenoli (acido clorogenico, acido gallico e molti altri), che svolgono diverse fun-
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zioni protettive tra cui quella contro il rischio di ossidazione rappresentato dalla luce solare o, nel caso dei tannini, di difesa da infezioni fungine, ma possono anche essere pigmenti come i flavonoidi; i glucosidi (per esempio sulfossidi, linamarina, saponine, glucosinolati), che sono formati dall’unione di uno zucchero con altre sostanze organiche di vario tipo e possono svolgere diverse funzioni biologiche. I glucosinolati per esempio, composti che contengono zolfo e che conferiscono il sapore pungente alla senape, al rafano, alla rucola o al rapanello hanno la funzione di difesa della pianta dagli attacchi patogeni. I metaboliti secondari sono migliaia di molecole diverse e in continua evoluzione. Di parecchie ancora oggi si conoscono solo le principali proprietà. Se consideriamo che il germoplasma mondiale è formato da circa 400.000 specie vegetali e che solo 35.000 di queste sono state studiate dal National Cancer Institute americano possiamo davvero considerare avanzata una civiltà che non conosce nemmeno il 10% delle piante esistenti in natura?16 Le caratteristiche fisiologiche e biochimiche di una pianta variano notevolmente in base alle condizioni ambientali. Il tenore del principio attivo psicotropo della canapa, il Thc ovvero D9 tetraidrocannabinolo, molto apprezzato anche in campo terapeutico, varia sensibilmente in base alle condizioni di temperatura e stress idrico della pianta di canapa. E la canapa (Cannabis sativa) produce oltre 60 molecole della stessa famiglia del Thc – i cosiddetti cannabinoidi – tra cui anche un antagonista del Thc, il cannabidiolo (Cbd), ultimamente molto studiato e ricercato soprattutto sul mercato americano per le sue proprietà terapeutiche – per esempio per certi tipi di tumore o per la schizofrenia – col vantabella 2.2 i costituenti identificati della canapa Famiglia Cannabinoidi (C21 terpenofenoli) Terpenoidi Idrocarburi Composti azotati Flavonoidi
Quantità > 60 140 50 > 70 23
Acidi grassi
33
Fenoli non cannabinoidi
34
Alcoli Aldeidi
7 12
Chetoni
13
Acidi
21
Fonte: Rudolf Brenneisen, Chemistry and Analysis of Phytocannabinoids and Other Cannabis Constituents, 2007.
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taggio di non avere gli effetti psicotropi del Thc.17 I cannabinoidi a loro volta sono solo una piccola parte degli oltre 480 composti chimici finora identificati contenuti in una pianta di canapa (vedi tabella 2.2). La pianta, per continuare a produrre principi attivi, deve crescere in un ambiente favorevole per clima e natura del suolo. Una pianta al di fuori del proprio habitat perde quasi completamente la capacità di sintetizzare metaboliti secondari, così l’aconito (Aconitum napellus), come altre droghe molto tossiche nei paesi mediterranei, perde parte della propria pericolosità se cresce in paesi freddi. Non solo il suolo o l’habitat, ma anche la relazione “sociale”, anche la composizione specifica dell’associazione vegetale di cui la pianta fa parte può determinare un effetto positivo o negativo sul suo contenuto in principi attivi. Da questo straordinario complesso di molecole e materiali offerti dal mondo vegetale la chimica verde può ottenere un’enorme varietà di prodotti: coloranti, solventi, tensioattivi, fibre tessili, gomme, lubrificanti e oli tecnici, bioplastiche, cosmetici, farmaci e fitofarmaci. E naturalmente materie prime energetiche: biocarburanti e biocombustibili solidi, liquidi e gassosi.
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note 1. http://www.reliableplant.com/Read/25474/Ford-soy-oil-automotive-parts. 2. Anastas P. T., Warner J. C., Green Chemistry: Theory and Practice, Oxford University Press, New York 1998. 3. Eschilo, Prometeo incatenato, Mondadori 2006. 4. Aldo Gaudiano, Storia della chimica e della farmacia in Italia dalle più lontane origini ai primi anni del Duemila, Aracne editrice 2008. 5. Aldo Gaudiano, ibidem. 6. Le figurine Liebig si continuarono a stampare dal 1872 fino al 1974 in 1.871 serie e funziona tuttora un vivace mercato di collezionisti; vedi www.liebig.it. 7. Vedi capitolo 1, nota 18. 8. Standard Oil, prima che fosse costretta dall’antitrust nel 1911 a spezzettarsi in 34 compagnie autonome, arrivò a controllare due terzi del mercato petrolifero americano e il 2,5% dell’intero prodotto lordo del paese, record insuperato per una compagnia privata. JD Rockefeller fu il primo uomo dell’era contemporanea ad accumulare un patrimonio superiore al miliardo di dollari, patrimonio che la rivista Forbes ha attualizzato nel 2007 a circa 330 miliardi, cifra che ridicolizza il primato dei 53 miliardi di Bill Gates. 9. Arthur Van Vlissingen, “Automobiles and Soybean”, intervista Henry Ford, in The Rotarian, settembre 1933. 10. “New Billion-Dollar Crop” in Popular Mechanics Magazine, febbraio 1938. 11. William Jay Hale, The Farm Chemurgic: Farmward The Star of Destiny Lights Our Way, University of California, The Stratford company, 1934. 12. Giorgio Nebbia, “Carver e la chemiurgia”, da GeorgofiliInfo 27 aprile 2011; www. georgofili.info. 13. R. J. Palmer, “Polyamides, Plastics”, Encyclopedia Of Polymer Science and Technology 2001; doi:10.1002/0471440264.pst251. 14. Sticklen, M. (2013), “Co-Production of High-Value Recombinant Biobased Matter in Bioenergy Crops for Expediting the Cellulosic Biofuels Agenda”, Advances in Crop Science and Technology; http://dx.doi.org/10.4172/2329-8863.1000e101. 15. Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, La nuova alleanza – Metamorfosi della scienza, Giulio Einaudi editore, 1981. 16. Saito K., Pythochemical genomics for manipulation of plant secondary products EPOBIO Workshop2, Atene 15-17 maggio 2007. 17. Vedi capitolo 6.
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“Ho inteso varie volte giustificare lo sviluppo preso dalle ricerche scientifiche presso altre grandi nazioni col fatto che in tali nazioni l’industria, essendo più ricca che da noi, può permettersi di finanziare abbondantemente le ricerche. Ma ci si potrebbe forse domandare se il ragionamento non possa essere rovesciato, e se non si debba invece attribuire la floridezza dell’industria in alcune grandi nazioni, in parte almeno, al fatto che quegli industriali hanno avuto il tempestivo coraggio di finanziare le ricerche da cui le loro rispettive industrie hanno tratto vitali elementi di prosperità”. Guglielmo Marconi, 1929 Le parole di Guglielmo Marconi, il luminare italiano insignito col Nobel per la fisica nel 1909, descrivono bene i motivi che sono alla base del declino della chimica tradizionale in Italia. Una crisi causata dall’assenza di politiche industriali da parte dei governi che si sono succeduti negli ultimi 25 anni, che non hanno voluto governare la transizione verso un nuovo modello di sviluppo fondato sull’innovazione di processo e di prodotto. Ma anche dall’incapacità dei principali gruppi industriali del settore, che hanno preferito continuare con produzioni pensate nel secolo scorso senza puntare sulla ricerca e sul suo sviluppo industriale. Una gravissima mancanza in un periodo storico in cui la globalizzazione cominciava a spostare le produzioni di base in altri continenti, dove i costi erano di gran lunga inferiori a quelli praticati nei paesi industrializzati, grazie soprattutto al mancato rispetto delle normative ambientali e sociali. Uno spostamento di cui hanno beneficiato prima i paesi di Cindia (il neologismo dei primi anni 2000 con cui veniva rappresentato il crescente protagonismo economico e industriale di Cina e India) e poi quelli Brics (acronimo coniato qualche anno fa per rappresentare tutti i più importanti paesi con economie emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).
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Di fatto in Italia si è consumato un vero e proprio omicidio/suicidio industriale che, in assenza di politiche lungimiranti, ha trasformato la chimica italiana dalla fiaccola degli anni ’60, quella che poteva vantare addirittura un premio Nobel, all’attuale lumicino sul punto di spegnersi.
le esperienze avanzate di chimica verde in italia La crisi generalizzata della chimica italiana è stata contrastata con grandi difficoltà ma anche con grande coraggio da alcune importanti realtà imprenditoriali, pronte a sfidare il declino del settore. Si tratta di quelle aziende italiane che, seguendo il ragionamento di Guglielmo Marconi espresso nel 1929 riportato all’inizio di questo capitolo o le intuizioni di Raul Gardini 60 anni dopo, hanno puntato sulla ricerca per rendere possibili oggi produzioni che sembravano impensabili fino a qualche anno fa. E hanno reso possibile la nuova frontiera della chimica verde made in Italy, tra le più innovative della bioeconomia su scala globale. Negli ultimi anni, sulle cronache nazionali e locali dei media italiani si è parlato molto del declino evidente della chimica, dell’ennesimo impianto che chiudeva e del rischio effetto domino che la chiusura di un impianto in una parte del paese poteva procurare ad altri della stessa filiera anche in territori distanti. Non hanno avuto purtroppo la stessa fortuna mediatica le importanti esperienze di chimica verde concretizzatesi nello sviluppo industriale di brevetti, frutto di un lungo lavoro in laboratorio, nella realizzazione di nuovi siti chimici green che hanno sostituito impianti di vecchia generazione già dismessi o nella riconversione di cicli produttivi ancora attivi ma ormai obsoleti. Si tratta di quelle bioraffinerie costruite da aziende come Novamont, Mossi&Ghisolfi o Versalis, che ormai sono meta usuale del turismo aziendale da tutto il mondo per le importanti innovazioni tecnologiche messe in campo. le bioplastiche di novamont La prima esperienza consolidata di chimica verde in Italia è stata quella di Novamont, l’azienda di Novara nata nel 1989 dalla scuola di Scienza dei Materiali della Montedison. Tutta la storia di questa giovane azienda italiana è caratterizzata da importanti investimenti nella ricerca: stando a quanto riportato dal profilo aziendale di Novamont un dipendente su cinque è impegnato nei centri di Novara, Terni e Piana di Monte Verna (Ce) in attività di ricerca e sviluppo, settore nel quale nel 2013 è stato investito oltre il 6% del fatturato. Grazie a questa politica fortemente orientata sull’innovazione, Novamont ha prodotto nella sua storia, neanche trentennale, oltre 1.000 brevetti.
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Il lavoro dei ricercatori che avevano esplorato le nuove frontiere della nuova chimica integrata con l’agricoltura e l’ambiente immaginate da Raul Gardini (di cui si è scritto al capitolo 4) hanno portato Novamont per esempio a brevettare e a produrre bioplastiche basate su componenti vegetali (amido di mais non geneticamente modificato coltivato in Europa, oli vegetali, cellulosa ecc.) e su polimeri biodegradabili, totalmente o parzialmente di origine rinnovabile. Nasceva così il Mater-Bi®, la plastica biodegradabile e compostabile diventata oggi di uso comune, in Italia e nel mondo, grazie alle sue diverse applicazioni: dagli shopper per la spesa ai sacchetti per la raccolta differenziata degli scarti alimentari domestici, passando per le posate e le stoviglie o i teli per la pacciamatura in agricoltura. Ma anche l’Origo-Bi, il poliestere prodotto da oli vegetali, che costituisce uno dei componenti per la produzione delle bioplastiche dell’azienda di Novara. Questa bioplastica ha conosciuto negli anni una continua evoluzione che ne ha migliorato le performance ambientali e viene prodotta a Terni, nella prima bioraffineria realizzata nel nostro paese. In Umbria è stata costruita anche una filiera agricola di supporto alla bioraffineria grazie a un accordo concluso con Coldiretti, la confederazione nazionale dei coltivatori diretti. Sempre con Coldiretti, attraverso la joint venture Sincro, Novamont ha avviato anche la produzione di biolubrificanti, per uso agricolo, sfruttando la sua tecnologia di trasformazione dell’olio vegetale in monomero. Si tratta di Matrol-Bi®, una nuova linea di biolubrificanti e grassi derivati dal seme di girasole alto oleico, che saranno commercializzati attraverso la rete dei consorzi agrari. il bioetanolo di mossi&ghisolfi Un altro colosso della chimica verde italiana è Mossi Ghisolfi. Nata negli anni ’50 a Tortona (Al) e specializzatasi nella produzione di imballaggi in plastica, grazie a una serie di acquisizioni è diventata uno dei maggiori produttori al mondo di Pet, il diffusissimo polimero plastico caratterizzato da un nome che somiglia a uno scioglilingua (polietilentereftalato). Nel 2006 l’azienda piemontese ha aperto un filone di ricerca sui biocarburanti di seconda generazione – quelli prodotti da scarti agricoli o da colture no food in aree marginali senza andare in conflitto con le coltivazioni a destinazione alimentare (vedi capitolo 3) – che ha permesso di raggiungere in pochi anni la leadership mondiale nella realizzazione su scala industriale di questo tipo di bioraffinerie. Se fino a pochi anni fa era possibile produrre bioetanolo solo da colture zuccherine, come il mais o la canna da zucchero (bioetanolo di prima generazione), creando un pericoloso conflitto tra produzione energetica e alimentare, grazie alla ricerca nei laboratori di Mossi Ghisolfi è stata brevettata la tecnolo-
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gia Proesa (Produzione di etanolo da biomassa) in grado di produrre etanolo da residui agricoli come la paglia o da biomasse lignocellulosiche come l’Arundo donax, la comune canna gentile. Un salto ingegneristico tutt’altro che banale, visto che la produzione dell’etanolo dalla fermentazione di zuccheri e amidi mediante l’utilizzo di lieviti è molto più complessa se questi zuccheri vanno estratti per degradazione delle molecole lunghe della cellulosa. In questo secondo caso c’è anche l’ulteriore problema della separazione della cellulosa dalla lignina, che impedisce l’accesso ai lieviti. La ricerca è stata eseguita con successo nel centro di Rivalta Scrivia (Al) e ha portato nel 2009 alla realizzazione di un impianto su scala pilota, i cui risultati hanno permesso di salire alla scala industriale con la bioraffineria realizzata nel comune di Crescentino (Vc), entrata in esercizio nel 2013. Il bioetanolo è destinato ad avere un mercato sempre più importante a livello mondiale nella produzione di biocarburanti per l’autotrazione, visti i problemi crescenti dei combustibili fossili causati dall’inquinamento, dalle emissioni climalteranti e dal reperimento delle sempre più scarse risorse petrolifere nel sottosuolo. Biochemtex, società controllata dal Gruppo Mossi Ghisolfi con fatturato di circa 200 milioni di euro nell’anno 2012, ha previsto un investimento di 180 milioni di euro in ricerca e sviluppo nel periodo 2013-2018. Sta studiando la possibilità di convertire la lignina prodotta dalla bioraffineria in bionafta e composti aromatici utilizzati in diversi settori industriali (tecnologia Moghi) con la costruzione di un impianto dimostrativo nel centro di ricerca aziendale di Modugno (Ba). L’implementazione di questa tecnologia in corso di studio garantirebbe un’ulteriore qualificazione ambientale a un processo industriale di produzione di biocarburanti già molto innovativo. i biofumiganti di agrium Tra le numerose filiere di bioraffineria in essere a oggi in Italia (tabella 5.1), viene molto spesso sottovalutata l’esperienza di Agrium Italia, azienda italiana appartenente da pochi anni alla multinazionale Agrium, nella produzione di mezzi tecnici per l’agricoltura: fertilizzanti e prodotti fitosanitari (erbicidi, fungicidi ecc.). La produzione di mezzi tecnici di origine vegetale e a basso impatto ambientale è un settore di particolare importanza per la chimica verde, in relazione alle decisioni comunitarie di un uso sostenibile dei fitofarmaci e rappresenta una grande scommessa degli anni futuri per una produzione di cibo più sano e a minore impatto ambientale. Negli anni 2000 il sistema agricolo, e in particolare quello ortofrutticolo e dell’alto reddito in generale, ha vissuto una fase difficile, stretto tra la necessità di produrre, con minori apporti di input chimici, merce di qualità e a prezzi competitivi per un mercato sem-
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pre più globalizzato. Tuttavia, il continuo uso di chimica di sintesi sulle coltivazioni negli ultimi decenni per lo sfruttamento intensivo dei terreni, incurante della loro fertilità biologica, ha determinato un progressivo depauperamento qualitativo e quantitativo del tenore in sostanza organica con un aumento dei fenomeni di stanchezza dei suoli. Da qui l’interesse verso lo studio e la definizione di nuove tecniche per la gestione e la difesa naturale delle coltivazioni, attraverso una corretta gestione della fertilità dei suoli, il contenimento di alcune patologie telluriche e un innalzamento del numero di individui appartenenti a specie utili e/o saprofitarie. Ne è derivata la tecnica della biofumigazione naturale dei terreni che, attraverso l’interramento di biomassa fresca o secca di materiali vegetali provenienti da piante della famiglia delle Brassicaceae, già note per le positive ricadute sulle colture coltivate in successione, ha fornito al mondo agricolo nuove opportunità sia per l’agricoltura biologica sia convenzionale. La tecnica della biofumigazione naturale mutua un sistema di difesa tipico di questa famiglia di piante, in grado di rilasciare in caso di attacchi patogeni dei principi attivi, attraverso una reazione enzimatica di idrolisi, a partire da precursori atossici, i glucosinolati (vedi il capitolo 2 sui metaboliti secondari). Questi principi attivi altro non sono che le molecole responsabili del tipico sapore pungente della senape o della rucola. La multifunzionalità della biofumigazione, pur rappresentando un’alternativa parziale o totale ai mezzi chimici di sintesi nel contenimento di alcune patologie, non può comunque essere in nessun modo ricollegata al concetto di fitofarmaco in senso stretto. Sulla base di questa semplice idea, in oltre vent’anni di lavoro sono state messe a punto una serie di opzioni per l’agricoltore: a partire da piante da utilizzare come sovesci intercalari delle colture principali, essenzialmente attraverso un’azione trappola di alcuni patogeni del terreno, quali funghi e nematodi, per arrivare a formulati secchi a base di farine disoleate di Brassicaceae con una tecnologia brevettata in Italia e all’estero. Più recentemente sono stati definiti anche formulati liquidi contenenti farine disoleate di Brassicaceae che consentono di fornire un’alternativa naturale all’uso di oli minerali in agricoltura. La linea dei prodotti Agrium per biofumigazione è interamente italiana e da sola, o in combinazione con altre tecniche a ridotto impatto quali la solarizzazione o l’applicazione di antagonisti naturali, rappresenta un’opportunità per la riduzione totale o parziale di alcuni fitofarmaci, esportata in molti paesi comunitari ed extracomunitari con i loghi “Triumph Italia” e “Biofence l’alternativa naturale”. È un’interessante esperienza di un’agricoltura che produce essa stessa parte dei propri mezzi tecnici e li utilizza direttamente, come nel caso dei sovesci, o attraverso un passaggio industriale di bioraffineria, come nel caso delle farine. Rappresenta quindi un’opportunità di sviluppo nella direzione di un’agricoltura multifunzionale.
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