CONFLITTI AMBIENTALI
biodiversitĂ e democrazia della terra
CONFLITTI AMBIENTALI
BIODIVERSITĂ€ E DEMOCRAZIA DELLA TERRA
prefazione di Joan Martinez Alier
A CURA DEL CDCA Centro di documentazione sui conflitti ambientali con Marinella Correggia e Giuseppe De Marzo
Edizioni Ambiente
CONFLITTI AMBIENTALI biodiversità e democrazia della terra A cura del Cdca – Centro di documentazione sui conflitti ambientali Contributi di: Marinella Correggia, Giuseppe De Marzo, Marica Di Pierri, Laura Greco, Lucie Greyl
realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it
coordinamento redazionale
Anna Satolli
progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina: © Gjermund Alsos/Shutterstock
© 2011, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-96238-88-2
Finito di stampare nel mese di marzo 2011 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% i siti di edizioni ambiente
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sommario
prefazione di Joan Martinez Alier
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introduzione: i nuovi conflitti ambientali come fenomeno globale di Marica Di Pierri
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1. la
biodiversità nella scienza e nelle leggi la vita come vera ricchezza la tutela giuridica della biodiversità conservare la biodiversità
19 19 29 44
la biodiversità minacciata minacce: tutte di matrice umana, anzi economica
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2.
3. i
grandi conflitti ambientali america latina Agrobusiness vs sovranità alimentare in Argentina: storia della Monsanto Ecuador, Perù, Brasile: le vie dell’Iirsa Sfruttamento idroelettrico in Patagonia: il progetto Hidroaysén
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76 76 84 92
asia e medio oriente La “Shrimp Region” in Bangladesh La diga Ilisu sul fiume Tigri in Kurdistan Singur, terra o automobili
100 100 105 111
africa Miniere di coltan nel Kivu, Congo L’industria forestale nel Sud-Est del Camerun
118 118 124
tutta la filiera dal giacimento al lingotto La ragazza senza gioielli A che serve tutto quest’oro? Miniere, minatori, mercurio e fine delle civiltà Restituire l’oro con gli interessi?
130 130 132 135 144
4.
i profughi ambientali: perdita di biodiversitĂ e nuovi flussi migratori il fenomeno emergente dei profughi ambientali le principali cause delle migrazioni per ragioni ambientali conclusioni
147 148 153 162
5. conflitti
ambientali e loro composizione: risposte, proposte e alternative saperi locali in difesa della biodiversitĂ processi dal basso e difesa dei beni comuni debito ecologico, giustizia climatica e governance strumenti di composizione del conflitto
163 166 178 186 194
6.
dalla biocrisi alla biotica la nostra terra vista dall’alto la relazione tra salvaguardia della biodiversità e modelli di sviluppo un manifesto dei saperi e delle conoscenze i diritti della natura come un nuovo paradigma di civilizzazione
221 221 225 227 230
note bibliografia e sitografia ringraziamenti scheda cdca
239 247 253 255
prefazione
di Joan Martinez Alier
Quali sono le cause dei conflitti ambientali? A rischio di un certo riduzionismo materialista, credo si possa dire che la causa ultima sia l’aumento del metabolismo sociale, cioè dei flussi ogni volta maggiori di energia e di materiali immessi nell’economia, che influiscono su una maggiore produzione di residui. Dal punto di vista quantitativo, in economie basate sui combustibili fossili, il residuo più consistente in termini di tonnellate, a parte l’acqua contaminata, è l’anidride carbonica. Che produce l’aumento dell’effetto serra. Eccolo, dunque, il primo grande conflitto. A chi spetta il diritto di proprietà sugli oceani e sull’atmosfera che permetta il deposito delle ingenti quantità di anidride carbonica che produciamo in eccesso? Non dovremmo avere tutti, come esseri umani, diritti simili? Esistono conflitti nati in relazione alla produzione di rifiuti (come in Campania), conflitti per l’estrazione di risorse naturali (petrolio, gas naturale, carbone, rame, oro, bauxite, agrocombustibili, cellulosa, pesca ecc.) e per il loro trasporto. Spesso, i paesi ricchi rinunciano al prelievo locale di materia prima perché gli risulta più conveniente l’attività estrattiva nel Sud del mondo. Da ciò nascono tremendi conflitti che solo a volte trovano spazio sulla stampa e sulla televisione dei paesi più sviluppati. Per esempio, il conflitto dei Dongria Kondh nell’Orissa indiano contro la miniera di bauxite dell’impresa Vedanta, di Londra, è un conflitto famoso che si aggiunge a tanti altri che i media ignorano. Tra i quali, ad esempio, il processo giudiziale iniziato in Olanda contro la Shell per i suoi crimini nel Delta del Niger.
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Dalla resistenza possono nascere alternative. Un esempio che ci arriva dall’America Latina è la proposta Yasuní Itt. Consiste nel lasciare sottoterra il petrolio dei blocchi chiamati Ishpingo, Tambocoha, Tiputini che si trovano alla frontiera dell’Ecuador con il Perù, nel Parco nazionale dello Yasuní. Nel sottosuolo dell’Itt ci sono circa 850 milioni di barili di petrolio, una quantità equivalente a dieci giorni di consumo mondiale. Sembra poco, ma dieci giorni senza petrolio stremerebbero il mondo “sviluppato”, spingendolo a riflettere. L’Ecuador propone di lasciare questo petrolio nel sottosuolo, preservando la biodiversità ineguagliabile di questa zona e rispettando i diritti dei popoli indigeni locali. Inoltre, lasciando il greggio sottoterra, si eviterebbe l’emissione in atmosfera di 410 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Un’iniziativa che viene dal Sud e che occorre sostenere. A Nagoya, nella 10a Conferenza delle parti della Convenzione sulla diversità biologica, tenutasi nell’ottobre 2010, si è riconosciuto che l’obiettivo di frenare la perdita di biodiversità nel mondo entro il 2010 è fallito. Così come è fallito quello di frenare l’aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Il mondo va verso un disastro. Uno degli elementi più importanti per costruire un’economia più sostenibile è l’impulso che viene dai movimenti dell’ecologismo popolare del Sud, e a volte anche del Nord del mondo. In tal senso, un ruolo di primo piano è ricoperto dalle alternative che provengono da questo ecologismo degli indigeni e dei poveri, che si trovano ad affrontare sempre più spesso imprese transnazionali o nazionali in contesto di conflitto ambientale. Ne tratta questo libro, nato dall’esperienza e dalla solidarietà.
Joan Martinez Alier Economista, tra i fondatori dell’International Society of Ecological Economics Docente dell’Università autonoma di Barcellona
introduzione: i nuovi conflitti ambientali come fenomeno globale di Marica Di Pierri
Negli ultimi decenni i conflitti ambientali, per la crescente diffusione e l’entità delle implicazioni prodotte, sono divenuti fenomeno di estremo interesse in ambito politico, scientifico, universitario e – non da ultimo – sociale. Tuttavia essi rimangono un tema piuttosto ignorato dalla letteratura scientifica del nostro paese. La prima ragione della crescente attenzione mondiale che i conflitti ambientali hanno stimolato negli ultimi anni va ricercata nel fatto che essi rappresentano una realtà rilevante non soltanto a livello locale ma anche e ancor prima a livello globale: sono la manifestazione localizzata e sintomatica degli effetti che il modello di sviluppo economico attuale produce in termini ambientali e sociali. In altre parole: pur avendo a che vedere con una dimensione locale, testimoniano una tendenza diffusa a livello mondiale e hanno quindi una portata che trascende l’ambito territoriale. Un’altra ragione, che approfondiremo più avanti, ha a che vedere con le modalità in cui tali fenomeni stimolano nelle comunità coinvolte o in generale nella società civile forme nuove e dirette di partecipazione: spesso l’opposizione sociale che viene a crearsi attorno alla causa del conflitto elabora e sperimenta strumenti di democrazia dal basso e articola processi organizzativi non privi di elementi di novità. Negli ultimi decenni si è assistito a una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei confronti delle tematiche ambientali. Disamarica di pierri – Giornalista, presidente del Centro di documentazione sui conflitti ambientali.
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stri di proporzioni enormi, rimasti impressi nella memoria collettiva come Bhopal o Chernobyl, hanno avuto un duplice effetto, incrociando i residui timori di catastrofi alla nascente coscienza del progressivo sorgere di conflitti socio-ambientali in tutto il mondo. La recente catastrofe ambientale che dal 20 aprile 2010 ha funestato il Golfo del Messico con l’affondamento della piattaforma off shore della British Petroleum ha mostrato ancor più agli occhi del mondo come l’attività umana sia capace di causare calamità di dimensioni ogni volta maggiori, che vanno oltre l’immaginabile. Insieme alla crescita delle organizzazioni ambientaliste è aumentata la volontà di partecipare ai processi decisionali che riguardano la gestione della cosa pubblica da parte della società civile, organizzata in comitati, comunità, associazioni ecc. Per capire meglio questi due aspetti, è necessario fare ora una premessa su cosa si intenda per conflitto ambientale e su quali siano gli elementi che lo configurano. Le definizioni date dalla letteratura di settore sono molteplici. Le prime risalgono agli anni Novanta. Uno dei primi studi realizzati sul tema, svolto presso la Toronto University e coordinato da Thomas Homer-Dixon, mette in luce i legami esistenti tra scarsità delle risorse e insorgenza dei conflitti ambientali. Lo studio prende in esame regioni del mondo in situazioni di conflitto armato, come Gaza, Haiti, Pakistan, Ruanda e Sudafrica, sovrapponendo la conflittualità sociale a situazioni pregresse di violenza e in tal modo distorcendo lo studio sull’indagine – non del tutto calzante nella pubblicazione in questione – relativa all’esistenza di legami diretti e dimostrabili tra conflitto e questione ambientale scatenante. Una prima definizione più vicina al nostro campo di indagine è fornita da Günther Baechler e Kurt R. Spillman: “I conflitti ambientali si manifestano come conflitti politici, sociali, economici, etnici, religiosi e territoriali, o conflitti sulle risorse o interessi nazionali. Sono tradizionalmente conflitti indotti dal degrado ambientale. Sono caratterizzati da sovrasfruttamento di risorse, raggiungimento delle capacità limite dell’ambiente e riduzione degli spazi di riproduzione della vita”.1 Alcune ricostruzioni rintracciano tra le caratteristiche della tensione ambientale propria dei nuovi conflitti un’inedita “dimensione pianificatoria”.
introduzione: i nuovi conflitti ambientali come fenomeno globale
Al posto della dimensione catastrofica, nella quale la tensione ambientale è derivata da un atto improvviso e, appunto, catastrofico, e accanto alla dimensione ecologica, nella quale le modifiche dell’assetto ambientale costituiscono minacce per l’equilibrio del pianeta, Angelo Turco e Pierpaolo Faggi (accademici che hanno dedicato molti anni allo studio dei conflitti ambientali) aggiungono la dimensione pianificatoria, definendola come “l’irruzione esplicita dello spazio naturale nelle politiche attraverso cui si cerca di governare l’assetto e l’evoluzione del territorio”.2 In altre parole, l’incontestabile aumento della conflittualità ambientale al quale si assiste negli ultimi decenni sarebbe dovuto in gran parte proprio alla crescente e pervasiva occupazione di spazio bioriproduttivo – terre, aria, acque, biosfera, germoplasma, biodiversità – da parte di attori economici pubblici e privati. Secondo questa ricostruzione, alle tre dimensioni sopra citate c’è da aggiungere ancora quella “vicinale”, basata sulle relazioni di vicinanza all’interno delle quali la conflittualità ambientale si sviluppa portando a una territorializzazione del conflitto. Nonostante la crescita progressiva della conflittualità ambientale e la maggiore attenzione riservata a questi temi in campo scientifico e sociale, non esiste tuttora una teoria univoca sui conflitti ambientali che ne definisca concettualmente le caratteristiche e ne tracci i limiti. Ci si è chiesti3 se fosse possibile parlare di “conflitto totale” riferendosi al conflitto ambientale, visto che in tale tipo di conflitto coesistono elementi ambientali, economici, geografico/territoriali, sociali, culturali ecc. Un ulteriore tentativo di marcare il campo concettuale definisce i conflitti ambientali come lotte tra soggetti e gruppi sociali, con interessi e capacità differenti che devono soddisfare i propri bisogni accedendo all’ambiente naturale. Tuttavia, a nostro avviso tale definizione pecca di eccessiva genericità. È pertanto necessario chiarire ulteriormente i termini per definire il campo di ricerca di questo lavoro. Nella pratica, un conflitto ambientale si manifesta quando progetti di opere pubbliche o private (energetiche, infrastrutturali, produttive, di smaltimento) oppure politiche nazionali o sovranazionali con rilevanti impatti ambientali incontrano – o meglio si scontrano con – l’opposizione della società civile: residenti, associazioni, comitati ecc.
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Nel nostro caso, precisando ulteriormente il quadro di riferimento, quando parliamo di conflitti ambientali intendiamo tutte quelle situazioni che vedono la concorrenza di due elementi: s RIDUZIONE QUALITATIVA E O QUANTITATIVA DELLE RISORSE NATURALI O BENI COmuni presenti su un dato territorio (terre coltivabili, acqua, biodiversitĂ , flora o fauna, minerali o altre materie prime di carattere finito); s PRESENZA DI OPPOSIZIONE RESISTENZA DA PARTE DELLA SOCIETĂ? CIVILE COMUnitĂ coinvolte, organizzazioni sociali o ambientaliste, comitati locali, gruppi di stakeholders) che si organizzano e si mobilitano in difesa dei propri diritti o del proprio territorio. Gli esempi che si possono citare sono molteplici: basti pensare ai grandi progetti di estrazione petrolifera nelle regioni amazzoniche, che incontrano da sempre la strenua resistenza delle popolazioni originarie, insediate nei luoghi da millenni, o ai tanti mega progetti per la costruzione di infrastrutture viarie o energetiche (come nel caso di ferrovie, ponti, dighe e centrali idroelettriche o termoelettriche), che comportano in seno alle comunitĂ coinvolte espropriazioni, inondazione di vaste superfici, inquinamento del suolo e delle acque ecc. O ancora poli industriali, progetti di estrazione mineraria, politiche pubbliche che privatizzano beni comuni o servizi di base: tutte cause che possono scatenare fenomeni di conflittualitĂ e resistenza sociale. Per definire tale situazione è emerso negli ultimi anni l’acronimo Lulu, cioè Locally Unwanted Land Uses, ovvero “Usi dei luoghi non desiderati dai residentiâ€?. Un tentativo riduzionista ha provato a ricondurre i processi di rivendicazione e opposizione territoriale alla cosiddetta sindrome Nimby: Not in my Back Yard, cioè “Non nel mio giardinoâ€?. Spesso tuttavia, tali movimenti di opposizione sviluppano e articolano impianti teorici che vanno ben oltre l’impatto territoriale del progetto contestato, trasformando il Nimby in Niaby, Not in Anyone’s Back Yard, vale a dire “In nessun giardinoâ€?, oppure in Nope, Nowhere on Planet Earth, “Da nessuna parte sulla Terraâ€?. In altre parole, operando un tentativo di semplificazione, tali movimenti organizzati finiscono non con il contestare semplicemente la costruzione di un inceneritore o di una base mi-
introduzione: i nuovi conflitti ambientali come fenomeno globale
litare sul proprio territorio, quanto la stessa politica di gestione dei rifiuti o le politiche di guerra in quanto tali, ovunque siano presenti e, dato questo fondamentale, ovunque producano le loro conseguenze. Per fare solo qualche esempio legato alla realtà del nostro paese, è possibile citare tra i progetti alla base dell’insorgenza di conflitti ambientali: il progetto di costruzione del Treno alta velocità (Tav) in Val di Susa, la mala gestione dello smaltimento dei rifiuti in Campania, il progetto di conversione a carbone della centrale elettrica di Civitavecchia (Rm), l’individuazione di siti per lo stoccaggio o il trattamento di rifiuti urbani o industriali come nel caso di Chiaiano (Na) o di rifiuti “speciali” come a Scanzano Jonico (Mt). Dal punto di vista teorico, provando a ricondurre le cause dei conflitti ambientali a tre macro categorie, potremmo distinguerli in tre tipologie a seconda della causa scatenante. Al primo tipo di conflitto ambientale sono ascrivibili quei conflitti causati da scelte politiche o amministrative relative a progetti infrastrutturali o produttivi o di smaltimento di rifiuti contro la volontà della popolazione residente o senza previo consenso. Rientrano in questa categoria miniere, industrie, progetti estrattivi, progetti per la costruzione di elettrodotti, gasdotti, oleodotti, reti viarie, centrali per la produzione di energia elettrica, inceneritori, siti di stoccaggio di rifiuti ecc. Emblematico il caso dell’estrazione petrolifera nel Delta del fiume Niger, iniziata oltre mezzo secolo fa e che ha convertito la regione in un enorme campo estrattivo, compromettendo le condizioni di riproduzione della vita per gli oltre due milioni di persone residenti. Alla seconda categoria sono riconducibili i conflitti scatenati da processi di “non decision making”, ovvero di mancato intervento pubblico in situazioni dove, al contrario, sarebbe necessario. Fanno parte di questa tipologia i casi di mancanza di politiche di salvaguardia ambientale, di mancato o tardivo intervento in caso di disastri ambientali o calamità naturali, di mancato esercizio delle attività di controllo e monitoraggio ambientale e sociale di competenza dei poteri pubblici, la mancata bonifica di zone contaminate. Si pensi a quanto è accaduto in seguito al sisma che ha colpito l’Abruzzo nell’aprile del 2009: la gestione del post
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terremoto e le condizioni di precarietà in cui continuano a vivere molte delle persone terremotate hanno indotto la popolazione a organizzarsi in comitati per chiedere trasparenza e partecipazione nelle decisioni relative alla ricostruzione. La terza categoria di conflitti riguarda i casi in cui la causa è riconducibile a scelte politiche nazionali, a politiche commerciali, monetarie e finanziarie raccomandate o imposte da organismi sovranazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Unione europea ecc. Ne sono un esempio le politiche di sicurezza o di lotta al narcotraffico come il Plan Colombia, le politiche di investimenti infrastrutturali come l’Iirsa in America del Sud o di aggiustamento strutturale come quelle imposte negli anni Novanta ai paesi latinoamericani dal Fondo monetario, i prestiti vincolati al rispetto di politiche economiche che comportano tagli alla spesa pubblica, aumento delle tasse ecc., o infine i trattati commerciali bilaterali o multilaterali che comportano una riduzione di sovranità per alcuni paesi a danno delle economie interne, specialmente nei settori artigianali o agricoli. l’evoluzione dei conflitti ambientali: i conflitti di seconda generazione Si è già detto che l’attuale panorama mondiale è stato caratterizzato negli ultimi decenni da una sempre maggiore diffusione dei conflitti ambientali, quale sintomatica manifestazione degli effetti che il modello di sviluppo centrato esclusivamente sulla crescita economica espresso con l’indicatore del Prodotto interno lordo produce in termini ambientali e sociali. Tuttavia, la natura dei conflitti ambientali rispetto al passato è del tutto cambiata: i conflitti ambientali sviluppatisi negli ultimi decenni si differenziano in maniera marcata da quelli che si registravano prima. Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio mondiale bipolare si è assistito a un protagonismo sempre maggiore degli organismi finanziari sovranazionali in ambito economico e politico globale. Paral-
introduzione: i nuovi conflitti ambientali come fenomeno globale
lelamente è arrivata la crisi dello stato-nazione che, insieme al maggiore ruolo delle banche e delle grandi società di capitali e allo svuotamento di poteri statali, ha reso i singoli paesi incapaci di far fronte a problematiche prima affidate ai governi centrali. Altri fattori, come l’esaurimento progressivo delle risorse naturali, l’incalzare delle problematiche ambientali, l’inizio di una lunga fase di recessione economica, la crisi del diritto internazionale hanno acuito la rapace corsa per il controllo delle risorse naturali. Di pari passo, la sempre maggiore facilità di accesso alle nuove tecnologie ha permesso di mettere in contatto esperienze simili seppure geograficamente molto lontane tra loro e di fare circolare in maniera prima inimmaginabile informazioni, notizie, documenti, denunce. Questo elemento, che a un primo sguardo potrebbe apparire scontato o marginale, ha avuto in realtà un effetto duplice: da un lato ha alimentato la consapevolezza circa l’ingiustizia sociale e ambientale che molte comunità indigene, rurali o urbane stavano subendo, dall’altro ha aiutato la costruzione di reti di solidarietà e di appoggio attorno a queste esperienze di resistenza. Riassumendo quanto detto, i conflitti di nuova generazione presentano rispetto a quelli precedenti una maggiore potenza offensiva dovuta alla diminuzione delle risorse, ma anche una maggiore potenzialità di resistenza sociale, attraverso l’insorgere sempre più frequente di movimenti organizzati di opposizione. Tramite tali processi di mobilitazione, la società civile si organizza e diviene attore sociale e protagonista territoriale che chiede di partecipare alla presa di decisioni che riguardano il territorio. Dall’altro lato, le autorità o i privati proponenti progetti alla base del conflitto si scontrano con la rivendicazione di processi decisionali partecipativi, difendendo una gestione del locale vincolata a interessi centrali e sovranazionali. Da ciò emerge la definizione di conflitto ambientale come manifestazione della contrapposizione tra due modelli di sviluppo e due sistemi di valori antinomici e incompatibili: da una parte l’allargamento della frontiera di controllo sulle risorse del modello economico capitalista4 e dall’altra la rivendicazione di una gestione territoriale che sia socialmente e ambientalmente sostenibile.
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Occorre a questo punto, per completezza di analisi, tentare di ampliare l’angolazione dalla quale osserviamo la realtà, tenendo conto anche del contesto globale in cui tale dinamica si inserisce. Una sempre maggiore disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza e delle risorse si coniuga da tempo con un’emergenza ambientale e climatica globale senza precedenti. Questi fattori sono entrambi figli della corsa spasmodica al controllo delle risorse naturali rimaste, avvertite come sempre più limitate. È questa la ragione per cui la frontiera di sfruttamento dei territori si è spostata via via più in là, iniziando a interessarsi a risorse che prima erano considerate non mercificabili: l’acqua, l’aria, la terra fertile ecc. Questo ha causato l’esclusione di sempre più persone dal godimento del diritto all’alimentazione, all’acqua, alla sussistenza e all’autodeterminazione, configurando una minaccia per la vita stessa di migliaia di comunità. Sono molti i casi in cui si è osservato che proprio nei luoghi in cui vengono portate avanti attività estrattive su larga scala o installati mega progetti per la trasformazione o la produzione di beni senza attenzione alla sostenibilità socio ambientale, si creano sacche di povertà e spesso di violenza. Abbiamo già citato il caso del Delta del Niger, al quale si aggiungono gli esempi eclatanti dell’estrazione di idrocarburi nelle zone amazzoniche, o delle miniere sulla dorsale andina, per citarne solo alcuni. Un sistema economico che insieme alle sue strategie di espansione ha messo in crisi le moderne democrazie rappresentative, incapaci di dare risposte concrete alla devastazione dei territori e alla scarsità di meccanismi di partecipazione reale nelle decisioni politiche. costruendo alternative In base a questa considerazione, molti dei movimenti di opposizione territoriale nati nel Sud come nel Nord del mondo stanno lavorando alla costruzione di alternative di gestione dei territori e all’articolazione di strumenti in grado di denunciare i fallimenti del sistema attuale cercando di fondare la propria azione su principi altri, come la giustizia sociale e ambientale, la partecipazione, l’orizzontalità, l’inclusione.
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Molto importante in questo ambito è stato il contributo delle popolazioni indigene, la cui cosmovisione è incompatibile con il processo di progressivo e incontrollato sfruttamento di risorse e territori; popolazioni tradizionali che si sono trovate a dover lottare per la propria sopravvivenza contrastando l’imposizione di attività estrattive o industriali che si concretizzano in elementi di minaccia per l’identità, le forme di governo tradizionali, le stesse culture ancestrali. Per le popolazioni indigene la relazione con l’ambiente è basata non sulla esclusiva necessità di utilizzare risorse al fine di trarne giovamento o profitto, ma soprattutto sulla dimensione spirituale e cosmogonica del rapporto che definisce l’equilibrio tra essere umano e sistema ecologico. Differenza sostanziale, che porta le popolazioni indigene a rivendicare e articolare metodi di gestione dell’ambiente in armonia con la natura, la pace, il senso di comunità e di solidarietà. Sulla base di questa consapevolezza e della presa di coscienza che la difesa del territorio come strumento di identità e sopravvivenza non era rimandabile oltre, sono state proprio le popolazioni indigene a mettere in atto, in diverse regioni del mondo, alcuni dei processi politici e sociali più interessanti degli ultimi anni. Ridefinendo e introducendo nel dibattito internazionale concetti importanti come quello di debito ecologico,5 buen vivir 6 o di diritti della natura, grazie alle rivendicazioni di questi popoli e di tante comunità rurali si è riusciti a produrre risultati importanti a livello tanto sociale quanto politico. Un esempio su tutti: le lotte indigene sono riuscite – come vedremo meglio oltre – a consacrare nelle nuove costituzioni approvate da paesi come l’Ecuador o la Bolivia il riconoscimento di diritti e tutele proprie in capo alla natura. Insomma, le proposte nate all’interno di dinamiche definibili di conflitto ambientale hanno finito con l’offrire alle democrazie contemporanee spunti importanti a cui ispirarsi. In questo senso, scegliere di studiare e monitorare nel tempo l’evoluzione dei conflitti ambientali significa impegnarsi nella rilevazione di molteplici fattori di origine economica, politica, sociale, climatica, che hanno interagito e assunto un ruolo centrale nell’insorgenza di nuove tipologie di conflitto territoriale.
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Se da un lato nel processo di globalizzazione si assiste a un’estremizzazione della legge del piÚ forte, dall’altro lato si assiste alla nascita e allo sviluppo di un’idea della democrazia, del governo, della partecipazione, dello sviluppo economico e della gestione delle risorse completamente alternativa a quella proposta dalle grandi multinazionali e dagli organismi sovranazionali finanziari e commerciali.