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a cura di Silvia Zamboni
UN’ALTRA EUROPA SOSTENIBILE DEMOCRATICA PARITARIA SOLIDALE prefazione di Edo Ronchi
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a cura di Silvia Zamboni un’altra europa sostenibile democratica paritaria solidale realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it
coordinamento redazionale: Paola Cristina Fraschini progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina: elaborazione GrafCo3 Milano
© 2014, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’Editore. ISBN 978-88-6627-133-8 Finito di stampare nel mese di aprile 2014 presso GECA S.p.a., San Giuliano Milanese (Mi) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta certificata FSC
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sommario
prefazione di Edo Ronchi
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introduzione di Silvia Zamboni
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ringraziamenti
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prima parte democrazia e riforma della ue: quo vadis europa? quale futuro per l’unione europea? Pier Virgilio Dastoli
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cosa s’intende dire con l’espressione “per un’europa forte”? Jürgen Habermas
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oltre l’altro deficit di democrazia: l’unione europea in chiave di parità di genere Joyce M. Mushaben, Gabriele Abels
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seconda parte oltre la crisi economica, sociale e dell’eurozona l’europa tra eurosclerosi e decrescita infelice Pier Giorgio Ardeni
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un’agenda per salvare l’euro Joseph E. Stiglitz
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europa: una bambina in economia, un’orfana della politica Jean-Paul Fitoussi
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i movimenti di protesta contro le politiche di austerità in europa Mario Pianta, Paolo Gerbaudo
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terza parte europa sostenibile l’industria europea deve risollevarsi! Reinhard Bütikofer
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l’europa alla guida della transizione energetica della decarbonizzazione Gianni Silvestrini
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clima, rinnovabili, efficienza energetica: obiettivi strategici da non mancare Monica Frassoni
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i fondi europei a supporto della sostenibilità ambientale ed energetica Antonio Lumicisi
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quarta parte per una nuova politica di difesa ed estera della ue le spese militari e l’europa che finge di non vedere Sergio Andreis
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introduzione
A cento anni esatti dallo scoppio della Prima guerra mondiale, tra il 22 e il 25 maggio prossimi nei ventotto paesi dell’Unione europea andremo a votare per il rinnovo dell’europarlamento. Iniziato il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia in seguito all’assassinio dell’erede al trono Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, il conflitto si concluse quattro anni dopo con la sconfitta della Germania e dei suoi alleati austro-ungarici, come certificato nel 1919 dal Trattato di Versailles che, secondo l’economista britannico John Maynard Keynes,1 era destinato a provocare nuovi conflitti anziché garantire una pace duratura, dal momento che non prevedeva alcun piano di ripresa economica, ma solo durissime sanzioni contro la Germania. Previsione che trovò tragica conferma appena vent’anni dopo quando, nel settembre del 1939, in risposta all’invasione della Polonia da parte della Germania di Hitler, scoppia, di nuovo sul territorio europeo, la Seconda guerra mondiale, che vede riprodursi lo storico scontro tra Germania e Francia. Bilancio finale delle battaglie in mare, in terra e in cielo, con bombardamenti che portarono vittime e distruzioni anche tra la popolazione civile non belligerante in città, sui monti e nella campagne: 54.788.000 morti. Aggiungendo i sei milioni di ebrei sterminati nei lager nazisti, è come se fosse stata annientata l’intera popolazione italiana.2 Rinchiuso nelle patrie galere come oppositore del regime fascista, proprio negli anni dell’orrore del secondo conflitto mondiale Altero Spinelli cominciò a tessere il sogno degli Stati Uniti d’Europa, una federazione di paesi pacificata e per sempre immune dalle sanguinose guerre che hanno attraversato la storia del nostro continente. Un sogno che sotto altra forma all’inizio degli anni ’80 fu ripreso dal movimento pacifista indipendente europeo che, all’installazione dei missili nucleari NATO Pershing e Cruise nell’Europa dell’Ovest, e di quelli sovietici SS20 nell’Europa dell’Est opponeva il disegno di un’“Europa denuclearizzata dal Portogallo agli Urali”.
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Dal sogno di Spinelli, che fu anche di Jean Monnet e Robert Schumann per la Francia, di Konrad Adenauer per la Germania, di Alcide De Gasperi per l’Italia, di Paul-Henri Spaak per il Belgio e di Joseph Bech per il Lussemburgo, i riconosciuti “padri dell’Europa”, attraverso una serie di trattati di cooperazione economica prese poi avvio il cammino verso una comunità europea di stati democratici che, dopo secoli di guerre, intendeva bandire per sempre dal suolo europeo il ricorso alle armi.
settant’anni di pace ininterrotta (o quasi) in europa I settant’anni dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale a oggi rappresentano il più lungo periodo di pace ininterrotta che l’Europa abbia vissuto nella sua storia, pur con la sanguinosa eccezione delle guerre nella ex-Iugoslavia e in Kosovo negli anni ’90, e la fine degli ultimi due regimi fascisti europei in Spagna e Portogallo avvenuta solo a metà degli anni ’70, oltre alla parentesi greca della dittatura dei colonnelli dal 1967 al 1974. Una pace che ha visto per la prima volta, dopo secoli di conflitti sanguinosi, le due nemiche storiche Francia e Germania sedere a tavoli di trattative e dialogare da paesi alleati. Collocati in una prospettiva storica, questi settant’anni rappresentano un enorme privilegio rispetto ad altre aree del mondo e ai nostri stessi antenati, un privilegio su cui però non si riflette a sufficienza, forse anche perché sono tante le famiglie in cui non ci sono più nonni o genitori che possano raccontare a figli e nipoti l’incubo e gli orrori delle due guerre. Anche la cancellazione della cortina di ferro e la caduta del Muro di Berlino nel 1989, a differenza dell’insurrezione democratica di Budapest del 1956 e della repressione della primavera di Praga nell’estate del 1968, non hanno portato a spargimenti di sangue – grazie anche al nuovo corso politico dell’ultimo segretario del PCUS, Michail Gorbačëv – e hanno dato l’avvio al processo di riunificazione delle due Germanie (conclusosi nell’ottobre 1990) e di integrazione, nella comunità europea occidentale, dei paesi dell’Europa dell’Est, che nel dopoguerra, in base alla divisione delle sfere di influenza delle due superpotenze Usa e Urss, erano rimasti reclusi nell’orbita sovietica dei regimi comunisti. I trattati via via sottoscritti dai paesi europei3 in questi quasi settant’anni di pace sono sfociati nella creazione di un mercato economico unico, di istituzioni europee sovranazionali e di una moneta, l’euro, entrata in circolazione a partire dal primo gennaio 2002 a oggi in 18 degli attuali 28 stati membri dell’Unione europea. Una moneta forte sui mercati internazionali – secondo l’ex Presidente della Commissione europea Romano Prodi addirittura sopravvalutata rispetto al dollaro – che era stata considerata il primo passo verso un’unione politi-
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ca di fatto, aspettativa che si è rivelata però platealmente errata, con le conseguenze nella gestione dell’odierna crisi economica e finanziaria che conosciamo e su cui torneremo più avanti. Ma per quanto l’assenza di guerra in armi sia un privilegio, la pace in tempo di guerra economica e delle sue devastanti ripercussioni sociali rischia di non bastare più a legittimare, agli occhi dei cittadini, la costruzione di un’Europa sovranazionale. Oggi in molti paesi europei, Spagna, Portogallo, Grecia, Italia in testa, ma anche in Francia e nel Regno Unito, la trincea da cui uscire indenni è quella del precariato e la “guerra” è quella per entrare sul mercato del lavoro per i giovani, per mantenere il posto di lavoro per i più anziani non ancora in età di pensione, e per garantire a sé e ai figli un livello dignitoso di vita, riuscendo ad arrivare con lo stipendio alla fine del mese; per non parlare della scia di imprenditori italiani che hanno chiuso anche con la propria vita dopo aver chiuso i portoni dei loro stabilimenti colpiti dalla crisi economica. Per questo, obiettivi pur “capaci di futuro”, come il processo di allargamento dell’Unione europea, la costruzione dell’euro, la Costituzione europea – non a caso impallinata dai referendum confermativi in Francia e Paesi Bassi – non scaldano più il cuore, e tanto meno accendono la fantasia. Profondamente scossa nelle sue stesse fondamenta e negli ideali dall’odierna crisi economica, l’Unione europea sta conoscendo la più grave crisi di legittimità della sua storia, ed è attraversata da movimenti populisti e nazionalisti antiEuropa e anti-euro, che in alcuni casi esprimono un’autentica avversione per l’Europa, vista come l’entità matrigna delle politiche di austerity. Al punto che serpeggia la preoccupazione che alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del maggio prossimo si possa registrare in tutta Europa un tasso di assenteismo senza precedenti. In questo contesto, il libro che state sfogliando intende offrire – attraverso le voci di alcuni autorevoli protagonisti del dibattito sul futuro dell’Europa – materiale su cui riflettere e una nuova prospettiva in cui rilanciare l’obiettivo di un’Europa diversa: sostenibile, democratica, paritaria, inclusiva, solidale, fuori dalla crisi economica, sociale e generazionale. Un’Europa paladina dell’ambiente e della lotta globale ai cambiamenti climatici, capofila quindi della transizione energetica verso un mondo de-carbonizzato: una transizione obbligata in termini energetici e ambientali che rappresenta anche un’opportunità di modernizzazione tecnologica e di rilancio sostenibile dell’economia e dell’occupazione sui mercati interni e globali. Un’Europa battistrada nella diffusione delle politiche di genere per superare ogni forma di discriminazione delle donne e per mettere a profitto della società europea, e non solo, il loro contributo, aprendo la strada, di riflesso, al mainstreaming di genere4 e alle azioni positive
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anche nel resto del mondo. Un’Europa che riduce le spese militari e incrementa la spesa sociale per un rilancio della crescita in termini di sostenibilità sociale e ambientale. Un’Europa le cui istituzioni siano più vicine ai cittadini e più sottoposte a un autentico controllo democratico. Un’Europa che riprenda in mano il pur complesso disegno originario di un’Unione politica solidale, per migliorare le condizioni di vita degli europei, e non il contrario. In fondo, sottotraccia, dentro a queste pagine c’è anche un po’ di biografia personale: le impressioni, le esperienze, le incredulità, le emozioni degli anni in cui ho vissuto a Berlino Ovest prima della caduta del Muro, dal 1978 al 1983, in quella situazione unica al mondo in cui, varcando un confine interno a una città, entravi in un ordinamento politico, sociale ed economico completamente diverso, addirittura passavi dalla vigilanza NATO a quella del Patto di Varsavia. Ricordo ancora il batticuore quando, a bordo di una carrozza della metropolitana gestita dall’azienda di Berlino Ovest, transitai per la prima volta nella stazione – sotto Berlino Est – di Friedrichstrasse dopo che un altoparlante dell’ovest aveva annunciato: “Attenzione, state lasciando Berlino Ovest”. “E adesso che succede?”, mi ero chiesta prima di “riapprodare” in una stazione di Berlino Ovest, nel nord della città, dopo essere transitata attraverso stazioni deserte sotto il settore orientale, piantonate da vopos coi mitra spianati, in cui la metro non si fermava. Ma ci sono soprattutto i ricordi degli incontri proibiti con il gruppo non governativo delle donne per la pace di Berlino Est, le dissidenti in rotta con il regime della DDR (Deutsche Demokratische Republik, ovvero Repubblica Democratica Tedesca), perché il socialismo realizzato in quel paese era stato svuotato di libertà e democrazia che per loro, invece, non potevano non essere fondanti per uno stato post-capitalista che aveva la parola “democratica” persino nel proprio nome. Le stesse donne con cui, in occasione dell’8 marzo 1984, scrivemmo il primo appello congiunto delle pacifiste indipendenti dell’Est e dell’Ovest contro lo stazionamento dei missili nucleari sia della NATO sia russi, che fu poi sottoscritto anche da donne cecoslovacche di Charta 77 (dopo un incontro che ebbi a Praga con l’allora dissidente Vaclav Havel) e da decine di pacifiste italiane, tedesche-occidentali e inglesi. Ancora oggi, quando ripasso per Friedrichstrasse, dove in passato c’era il varco di accesso a Berlino Est, accesso che comportava minuziosi controlli e il cambio obbligatorio di 25 marchi occidentali con altrettanti orientali, continuo a provare una sorta di brivido incontrollabile, come mi è successo anche passando, dopo l’unificazione, attraverso la centralissima Alexander Platz dell’ex Berlino Est, o di fronte alla Zionskirche, nel quartiere “orientale” Prenzlauer Berg dove incontravo le mie straordinarie amiche di allora: Bärbel Bohley, Ulrike Poppe, Katja Havemann (moglie di Robert Havemann).
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quale futuro per l’unione europea? Pier Virgilio Dastoli
l’integrazione europea dalla ceca ai trattati fondativi dell’unione europea L’integrazione comunitaria ha mosso i suoi primi passi con la creazione di un’amministrazione europea intorno all’Alta Autorità della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) secondo il modello funzionalista immaginato da Jean Monnet. Come un grande cantiere, il progetto europeo si è progressivamente arricchito e completato nel corso degli anni secondo le linee di una fruttuosa convergenza fra il modello monnettiano e la visione federalista di Altiero Spinelli fino agli inizi degli anni ’90 quando, sulla base del Trattato di Maastricht entrato in vigore nel 1993, furono decisi il passaggio dalle tre Comunità economiche allora esistenti (la CECA, la Comunità economica europea e l’Euratom nate con i trattati di Roma del 1957) all’Unione europea e il passaggio dal mercato interno all’Unione monetaria. Questa transizione era essenzialmente fondata sull’erronea convinzione che l’Unione monetaria si sarebbe progressivamente e inevitabilmente trasformata in un’Unione politica, e che lo “scudo” della moneta unica avrebbe protetto gli stati membri dai rischi di default e di asimmetrie economiche e sociali, contrariamente al “progetto Spinelli”, approvato dal Parlamento europeo nel 1984, fondato esattamente sulla logica opposta dell’Unione politica che avrebbe dovuto precedere quella economica. * L’entrata in vigore, nel 2009, del Trattato di Lisbona che ha modificato i precedenti trattati di Amsterdam (1997) e Nizza (2000), pur non innovando riPier Virgilio Dastoli – già assistente parlamentare di Altiero Spinelli, è stato direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione europea. È attualmente presidente del Movimento europeo in Italia e consigliere politico del Gruppo Spinelli.
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spetto alla logica perversa del Trattato di Maastricht, è stata considerata dai governi come il punto di arrivo del processo di riforma iniziato nel 1987 con l’Atto unico europeo. Il Trattato di Lisbona modifica il Trattato sull’Unione europea di Nizza e conserva il suo nome (TUE), mentre i Trattati di Roma del 2004 (e le loro integrazioni) prendono il nome di Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). La maggior parte delle norme contenute nel Trattato costituzionale firmato a Roma, poi rigettato dai referendum confirmatori tenutisi in Francia e Paesi Bassi nel 2005, sono state mantenute, mentre sono state eliminate chirurgicamente tutte quelle che aprono una prospettiva costituzionale, comprese quelle più innocenti sui simboli dell’Unione europea (l’inno, il motto, la bandiera). L’Unione nata a Maastricht, ma vuota di sostanza giuridica, e le Comunità economiche europee nate nel 1957 a Roma, col Trattato di Lisbona si sono quindi fuse in un’unica Unione europea dotata di personalità giuridica. I valori e gli obiettivi dell’Unione europea hanno consolidato quelli indicati dalla Costituzione europea con la sola, significativa integrazione della parità fra donna e uomo nell’articolo 2 e con la precisazione, inserita dalla Conferenza intergovernativa, che l’Unione non potrà andare al di là delle competenze che le sono attribuite dal Trattato. Nel preambolo si riprende la formula della “unione sempre più stretta”, avendo rinunciato a un riferimento esplicito alla finalità federale del processo di integrazione per l’opposizione del Regno Unito. Con abilità negoziale, i britannici – dopo aver ottenuto per l’ennesima volta di cancellare la “F” word, ovvero il riferimento all’Europa Federale – sono riusciti a inserire nei trattati la possibilità apparentemente pleonastica di restituire competenze agli stati membri e il diritto di ogni singolo paese membro al recesso dall’Unione. La ripartizione dei compiti fra stati nazionali e Unione è chiarita con l’indicazione delle competenze esclusive dell’Unione nei settori dell’unione doganale e delle regole della concorrenza necessarie per il funzionamento del mercato interno, della politica commerciale comune e della conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca, aggiungendo la competenza di natura federale della politica monetaria per gli stati che hanno adottato l’euro come moneta unica. L’Unione europea dispone anche di una competenza esclusiva per la stipula di accordi internazionali quando sia prevista da un atto legislativo dell’Unione o quando sia necessaria per permetterle di esercitare una sua competenza interna, o nella misura in cui essa sia suscettibile di modificare delle regole comuni o di alterarne la portata. In una lista non esaustiva e sottoposta a una clausola di flessibilità che potrà consentire al Consiglio europeo – con decisione unanime – di attribuire nuovi
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compiti all’Unione europea, dalla Costituzione europea il Trattato di Lisbona riprende testualmente l’elenco delle tredici competenze condivise con gli stati membri nei limiti fissati dai principi di sussidiarietà e di proporzionalità, il cui rispetto viene rafforzato dal controllo politico esercitato dai parlamenti nazionali. In alcuni casi si tratta di compiti aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal Trattato di Nizza, come la coesione territoriale o la politica spaziale o la sicurezza nella salute pubblica. Di fronte a un eventuale conflitto di poteri fra l’Unione europea e gli stati, e nella prospettiva di un nuovo salto in avanti dell’integrazione, il Trattato concede a ogni paese membro la controversa possibilità di esercitare come ultima ratio il diritto di recesso dall’Unione. In linea di massima l’esercizio delle competenze condivise da parte dell’Unione europea potrebbe svuotare progressivamente il ruolo degli stati nazionali, che non possono adottare atti legislativi contrari al diritto dell’Unione, anche se, nel caso della ricerca e dello sviluppo tecnologico o della politica spaziale o di quella della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario, l’azione dell’Unione non potrà impedire quella degli stati membri. Le grandi politiche dell’Unione, che completano l’obiettivo originario del mercato unico, sono così riprese nell’elencazione delle competenze concorrenti. Esse autorizzano l’Unione europea non solo a sviluppare azioni con un forte impatto finanziario, ma anche ad adottare misure di armonizzazione delle legislazioni degli stati membri. Si tratta della politica sociale con qualche rilevante eccezione, della coesione economica, sociale e territoriale, dell’agricoltura e della pesca, della politica dell’ambiente, della tutela dei consumatori, dei trasporti e delle reti trans-europee, dell’energia, dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (con l’esclusione della cooperazione giudiziaria in materia penale), della sicurezza nel settore della salute, della ricerca e dello sviluppo tecnologico, della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario. Nell’attribuire all’Unione nuove competenze, i governi nazionali hanno poi deciso di lasciare all’Unione un compito limitato alla facilitazione del coordinamento dell’azione degli stati membri in settori considerati sensibili per le sovranità nazionali, come la protezione e il miglioramento della salute, la politica industriale, la cultura, il turismo, l’educazione, la formazione professionale, le politiche per la gioventù e lo sport, la protezione civile e la cooperazione amministrativa. Nel quadro dei nuovi equilibri istituzionali, il Parlamento europeo dispone ormai – con alcune eccezioni significative – del ruolo di co-legislatore su un piano di parità con il Consiglio europeo (al cui interno vige ampiamente il metodo del voto a maggioranza) ed elegge il Presidente della Commissione su proposta e designazione del Consiglio europeo “tenuto conto del risultato delle elezioni europee”.
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Per parte sua, il Consiglio europeo diventa un’istituzione a pieno titolo dell’Unione, come la Banca centrale europea, ed è presieduto da un presidente full time per due anni mezzo rinnovabili una sola volta. La continuità dell’azione esterna dell’Unione viene rafforzata nel Trattato con la nomina di un Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza (la parola “ministro”, suggerita dalla Costituzione, è stata soppressa perché giudicata troppo impegnativa) che presiede le riunioni dei ministri degli esteri e della difesa ed è il primo vicepresidente della Commissione europea. Vengono infine rafforzate le competenze della Corte di Giustizia. Uno spazio importante è assegnato alla cittadinanza attiva e alla democrazia partecipativa con l’introduzione del diritto di iniziativa popolare, l’obbligo di consultazione delle organizzazioni rappresentative della società civile e il diritto-dovere alla trasparenza. Nella prospettiva di future modifiche ai Trattati, quello di Lisbona consacra il metodo della Convenzione adottato per la redazione della Carta dei diritti fondamentali di Nizza e della Costituzione europea, lasciando aperta la porta alla possibilità che, di fronte al rifiuto di un paese membro a ratificare una revisione del Trattato, il Consiglio europeo possa avviare, seppure all’unanimità, una discussione sulla vexata quaestio dell’Europa a due o più velocità o un’integrazione differenziata. Rispetto alla Carta di Nizza va osservato che i diritti dei cittadini e più in generale della persona umana sono considerevolmente rafforzati dal suo valore giuridicamente vincolante, così come dalla futura adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Carta europea di Nizza inoltre rispecchia i valori condivisi nell’Unione europea fissando gli obblighi che le istituzioni europee e gli stati nazionali s’impegnano a rispettare nei confronti dei loro cittadini. Essa accoglie, in linea di principio, tutti i diritti contemplati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e quelli enunciati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, con l’aggiunta di alcuni nuovi diritti legati in particolare ai progressi delle nostre società in questi ultimi cinquanta anni, come quelli nei settori delle nuove tecnologie della comunicazione, della biologia e della medicina. I diritti sono stati suddivisi in sei capitoli concernenti la dignità, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà e la giustizia, con una clausola finale (art. 53) diretta a riconoscere la prevalenza della normativa nazionale o internazionale se essa fosse più favorevole rispetto a quella contenuta nella Carta di Nizza.
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Gli estensori della Carta hanno cercato di evitare uno dei difetti che spesso insidiano le dichiarazioni di questo genere con proclamazioni di diritti tanto astratti da non sapere poi come poter essere garantiti dalla giustizia. Nell’ambito della biologia e della medicina è previsto il diritto al consenso informato nonché il divieto di commercializzazione del corpo umano e delle sue parti e il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani e di pratiche biogenetiche (art. 3). Il fatto che si sia menzionata solo la clonazione riproduttiva apre la strada alla liceità della clonazione terapeutica, una scelta che suscita ancora divisioni e dibattiti a livello nazionale. Non si è proclamato il diritto generico alla salute ma il diritto di ogni individuo ad “accedere alla prevenzione sanitaria e a ottenere cure mediche” (art. 35). È inoltre contemplato il diritto alla tutela dei dati personali (art. 8), frutto del progresso elettronico e della globalizzazione, quello alla libertà di impresa (art. 16) fino a ora mai contemplato in atti internazionali. Alcuni articoli della Carta rivestono un particolare interesse sociale e culturale come il principio di non discriminazione da applicarsi nel caso di diversità di orientamenti sessuali (art. 21), il principio di libertà religiosa e quello dell’istruzione (artt. 10 e 14) da impartire secondo le convinzioni dei genitori. L’articolo 9 afferma che “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti” secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio, chiarendo come al riguardo ci siano due diritti distinti: quello di sposarsi e quello di formare una famiglia e riconoscendo così che è possibile formare una famiglia anche senza il matrimonio. Fra i nuovi diritti, da ricordare quelli dei bambini, degli anziani e dei disabili che non avevano trovato spazio nelle costituzioni nazionali del dopoguerra. La Carta di Nizza compie un salto di qualità sul piano dell’affermazione di valori che sono ormai propri all’Unione. I diritti sono indivisibili, ovvero la tutela dei diritti civili e politici necessita la contestuale garanzia dei diritti sociali ed economici (senza i quali la tutela dei primi finirebbe per essere astratta e fittizia) per permettere ai cittadini di passare, come afferma anche la Costituzione italiana, dall’uguaglianza formale a quella sostanziale. Essi sono universali perché la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza e la solidarietà devono essere garantite a ogni individuo sul territorio dell’Unione europea, e non solo ai suoi cittadini, non potendo essere subordinate a una condizione di nazionalità. Non è irrilevante in questo spirito il fatto che la Carta, nel proclamare il diritto di asilo (art. 18), sancisca il divieto di respingimento dello straniero nel paese in cui è oggetto di persecuzione. La raccolta dei diritti contenuta nella Carta di Nizza dà un significato nuovo e più concreto agli articoli 6 e 7 del Trattato sull’Unione europea, che istituiscono una procedura di verifica del rispetto dei diritti da parte degli stati membri
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nel caso di una violazione grave e persistente dei principi fondamentali cui si devono conformare tutte le pubbliche autorità. Da questo punto di vista, i diritti proclamati dalla Carta sono destinati a vivere innanzitutto al di fuori delle aule dei tribunali, costituendo principi di azione delle istituzioni pubbliche oltre che limiti all’esercizio dei loro poteri. All’interno del cantiere istituzionale ha lavorato un cantiere meno conosciuto dalle opinioni pubbliche nazionali e a torto sottovalutato dai portatori di interesse, molto attivo durante gli anni della Commissione Prodi (1999-2004), ma già operativo sotto le Commissioni precedenti: si tratta della riforma dell’amministrazione europea ispirata alla nascita della CECA, all’amministrazione francese e fortemente influenzata dai Trattati di Roma dal primo presidente della Commissione europea, il tedesco Walter Hallstein (1958-1967), e dalla struttura gerarchica dello Auswärtiges Amt (il Ministero degli affari esteri tedesco). Questo cantiere ha permesso modifiche profonde nell’ambito dell’amministrazione europea e più in particolare in quello della Commissione: la riforma dello statuto dei funzionari, la riforma delle risorse umane, la riforma delle procedure di bilancio e della pianificazione delle attività con un’attenzione accademica e di ricerca, che si è spostata progressivamente dal mondo di cultura latina a quello di cultura anglosassone tendenzialmente portato a privilegiare le questioni relative al management pubblico e quelle di politica internazionale. Parallelamente allo sviluppo politico e istituzionale avvenuto nel quadro del processo di integrazione comunitaria, l’amministrazione pubblica europea e le amministrazioni nazionali, in qualche modo influenzate da quello sviluppo, hanno intrapreso processi di riforma fin dalla seconda metà degli anni ’80 insieme agli altri paesi dell’area OCSE, con una progressione che si è poi accelerata negli anni ’90, portando ai mutamenti profondi di paradigmi avvenuti nei primi anni del 2000. Lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione ha certamente avuto un ruolo determinante nel cambiamento delle relazioni fra amministrazioni e amministrati. Gli amministrati possono ora adire le amministrazioni con le proprie richieste per vie sempre più semplificate e trasparenti. Dalle più alte cariche fino ai livelli più tecnici all’interno delle amministrazioni, ogni funzionario della funzione pubblica è sottoposto a codici di condotta che lo vincolano a un elevato grado di visibilità e al contatto diretto con il cittadino. Gli amministrati hanno aspettative crescenti e, seppure senza mettere in questione il ruolo esecutivo della funzione pubblica, esigono il dialogo e di essere consultati dai propri amministratori, ai quali riconoscono sempre più un ruolo di “partner privilegiato” e sempre meno quello di esecutore assoluto. Questa tendenza è destinata del resto ad accentuarsi di fronte al ricambio ge-
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nerazionale e al modo innovativo con cui le nuove generazioni si posizionano rispetto alle pubbliche autorità, che traggono la loro legittimità (accountability) dalla loro capacità di coinvolgere, spiegare e convincere.
l’unione europea alla prova della crisi finanziaria: il fiscal compact e la governance economica Veniamo ora alle misure già messe in atto o progettate, alla ricerca della governance economica perduta a partire dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2007-2008. Gli strumenti base di questa governante sono il Six Pack, entrato in vigore il 13 dicembre del 2011, che modifica il Patto di stabilità e di crescita, e il Semestre europeo. Entrambi questi strumenti riguardano l’Unione europea nel suo complesso. Le linee programmatiche di politica economica e di bilancio sono decise in comune durante il primo semestre dell’anno, e realizzate dai singoli paesi attraverso le procedure nazionali. Nel corso del semestre europeo, la Commissione passa al setaccio i bilanci nazionali e avanza raccomandazioni al Consiglio. Una specifica procedura verifica che non ci siano squilibri eccessivi nelle economie, mentre il sistema di sanzioni è rafforzato da un più rapido avvio delle procedure. La novità più importante riguarda il decision making, il processo decisionale, che risulta capovolto rispetto alle passate regole comunitarie. Le raccomandazioni della Commissione sono infatti adottate tranne i casi in cui siano respinte o modificate dal Consiglio a maggioranza qualificata (normalmente è necessario il consenso unanime). Anche se il rapporto tra Commissione e Consiglio formalmente non cambia, il ruolo della prima risulta rafforzato: a decidere è, di fatto, l’esecutivo di Bruxelles, mentre il Consiglio può solo opporsi, cosa non agevole visto che deve farlo a maggioranza. Al Six Pack, che comprende solo due regolamenti destinati ai paesi dell’eurozona (le altre misure riguardano tutta l’Unione europea), si è aggiunto il Two Pack. Esso riguarda solo l’eurozona e prevede meccanismi di sorveglianza più stringenti per quei paesi che si trovano in difficoltà o rischiano di esserlo, e un sistema di monitoraggio e valutazione dei bilanci e la correzione dei disavanzi eccessivi. L’insieme di questi strumenti conferisce maggiori responsabilità alla Commissione europea. Nel marzo del 2011 è stato sottoscritto da 23 paesi (i 17 dell’eurozona più Bulgaria, Danimarca, Estonia, Lettonia, Polonia e Romania) il “Patto Euro Plus”. Quest’accordo di natura programmatica prevede un ulteriore rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche e la loro convergenza.
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Esattamente un anno dopo, nel 2012, per ragioni di politica interna più che per rendere efficaci le misure di controllo sugli stati “asimmetrici” dell’eurozona, la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha richiesto e ottenuto che questo pacchetto di norme di diritto primario e secondario fosse codificato in un accordo fra i governi, accordo che ha dovuto assumere le sembianze di un trattato intergovernativo a causa del veto britannico posto alla modifica di quello di Lisbona. Questo nuovo trattato ha lo scopo di rendere più lunghe e complesse le modifiche, blindando dunque le disposizioni. Pudicamente chiamato “di stabilità, coordinamento e governance dell’Unione economica e monetaria” (TSCG), è conosciuto sotto il nome di Fiscal Compact. Firmato il 2 marzo 2012, il Fiscal Compact obbliga governi e parlamenti nazionali a introdurre, entro il 2014, la golden rule del pareggio di bilancio. Quest’obbligo, a carattere permanente, deve essere inserito in norme nazionali vincolanti, preferibilmente di carattere costituzionale. L’obbligo si intende raggiunto se il deficit strutturale annuale non eccede lo 0,5% del Pil nominale. Nel caso in cui il debito consolidato sia molto inferiore al 60% del Pil, la soglia potrà essere fissata all’1%. In circostanze di eccezionali gravità, la golden rule potrebbe non essere applicata. Se un paese si discosta dagli impegni presi, dovrà mettere in cantiere misure correttive. L’inosservanza degli obblighi previsti dal Fiscal Compact può dare luogo a un’azione di fronte alla Corte di Giustizia. Quest’ultima può imporre una sanzione il cui ammontare non superi lo 0,1% del Pil del paese in questione. La bizzarria della codifica di norme comunitarie in un trattato internazionale è sanata dalla previsione che lo stesso sia incorporato nel diritto europeo entro cinque anni dalla sua entrata in vigore. Dopo la ratifica da parte dei paesi dell’eurozona, il Fiscal Compact è entrato in vigore il 1° gennaio 2013, quindi si parla del 2018. Parallelamente a queste misure di governance, i leader europei hanno previsto strumenti “salva stati” per contrastare i rischi di default. Ultimo in ordine di tempo è il Meccanismo europeo di stabilità (ESM), istituito tramite un trattato intergovernativo il 2 febbraio 2012. In precedenza, nel maggio 2010, nel convulso e nervoso contesto della crisi, erano stati istituiti il Meccanismo europeo di stabilità finanziaria (EFSM), riferito a tutti i paesi dell’Unione europea (dotato di 60 miliardi di euro) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF) per i paesi dell’eurozona (dotato di 440 miliardi di euro). Tornando allo strumento finale, l’ESM, che copre tutta l’Unione europea, dal 1° marzo 2013 il suo intervento è condizionato dalla ratifica del Fiscal Compact da parte del paese interessato. Il nuovo Meccanismo è dotato di importanti risorse, per l’esattezza 700 miliardi di euro, sottoscritte dai paesi dell’eurozona, e può erogare prestiti fino a 500 milioni di euro. L’assistenza finanziaria è soggetta a una forte condizionalità che passa attraverso le decisioni del board del
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oltre l’altro deficit di democrazia: l’unione europea in chiave di parità di genere1 Joyce M. Mushaben, Gabriele Abels
Nei paesi dell’Unione europea continuano a uscire a getto continuo, in molti luoghi e in molte lingue, studi di genere (gender studies); ma anche alle/agli studiose/i di cultura femminista capita di trovarsi di fronte al noto problema che Donald Puchala ha sintetizzato con la classica metafora dell’Unione europea paragonata a un elefante.2 Il problema principale consiste nel fatto che nessuna ricercatrice e nessun ricercatore sono in grado di coprire da soli tutte le aree e tutti i movimenti attivi nei vari stati membri monitorando al contempo la madre di tutti gli elefanti a Bruxelles. Un altro dilemma cruciale è che ci sono obiettivi fondamentali dell’integrazione europea che confliggono spesso tra di loro (come, per esempio, nella fase di crisi dell’euro l’implementazione di misure di austerity da un lato, e l’assicurare l’inclusione sociale, dall’altro). Senza lasciarsi influenzare dalla nomea degli esordi della Comunità europea, definita 1 come un “club per ricchi industriali maschi”, un piccolo gruppo di impegnate/i Joyce Marie Mushaben – professoressa di Politiche comparate e studi di genere alla University of Missouri-St. Louis. Scrive per le riviste Femina Politica, German Politics & Society e German Politics. Autrice di The Changing Faces of Citizenship: Integration and Mobilization among Ethnic Minorities in Germany (Berghahn, 2008) e From Post-war to Post-Wall Generations: Changing Attitudes towards the National Question and NATO in the Federal Republic of Germany (Westview, 1998). Con Gabriele Abels ha curato il volume Gendering the European Union (Palgrave, 2012). Gabriele Abels – titolare di una cattedra Jean Monnet Chair di Politiche comparate e di integrazione europea alla Eberhard Karls University di Tubinga. Fa parte del comitato scientifico dell’Institute for European Politics (IEP) di Berlino e della redazione della rivista Femina Politica. Si è occupata di regolamenti Ue su biotecnologie e sicurezza alimentare, cultura di genere nella Ue, democratizzazione della Ue e ruolo dei parlamenti nella Ue. Con Joyce Mushaben ha curato il volume Gendering the European Union (Palgrave, 2012).
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attiviste/i ha riconosciuto, al di là di tutto, il potenziale strategico insito nell’articolo 119 (sull’uguale retribuzione per donne e uomini) del Trattato della Comunità europea sottoscritto nel 1957. Fin dagli anni ’70, esperte/i di cultura femminista e donne e uomini in lotta per la parità di diritti tra i sessi hanno attivato reti, raccolto montagne di dati, promosso nuovi contesti comunicativi e accolto due istituzioni comunitarie come degli alleati formidabili nella battaglia per la parità di diritti di donne e uomini. Utilizzando l’“ottica di genere” questo saggio esamina l’evoluzione storica, i mutevoli contesti concettuali, le istituzioni-chiave e gli sviluppi delle politiche della Ue nell’arco dei 60 anni del processo di integrazione europea. Intendiamo qui sottolineare che i cambiamenti sociali derivanti dall’aver affrontato a livello sovranazionale le politiche per la parità di genere sono stati straordinari e hanno inciso sulla vita quotidiana delle donne e degli uomini in modi su cui raramente si riflette. L’aver integrato i principi della parità di genere nei vari Trattati della Ue li ha resi dei diritti fondamentali giuridicamente vincolanti. Queste prescrizioni hanno reso operativo “il completamento, l’approfondimento e l’estensione” del principio della parità di diritti tra donne e uomini, da tempo sposato con il mantra “il personale è politico”. Il nostro studio completo Gendering the European Union: New Approaches to Old Democratic Deficits (Palgrave Macmillan, 2012), a cui fa riferimento questo saggio, si apre con una rassegna storica, declinata al femminile,3 di alcuni paradossi insiti nel deficit di democrazia della Ue e nello sviluppo delle sue istituzioni. Segue una panoramica su concetti, meccanismi, protagonisti e politiche che hanno ampliato enormemente l’acquis comunitario (il corpus delle norme comunitarie, ndT ) di genere dell’integrazione europea. Infine presentiamo le acquisizioni più importanti, frutto di uno studio condotto da più autrici sulle politiche di genere dal 1957 attraverso il 2009 (l’anno dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ndT ).
alla ricerca della storia declinata al femminile nell’istituzionalismo storico maschile Ai suoi albori, negli anni ’60 e ’70, grazie al baby boom la Comunità economica europea (Cee) offrì alle donne straordinarie opportunità per incrementare in maniera significativa l’accesso ai livelli di istruzione superiore e per attivare nuove tecnologie di comunicazione. Come d’abitudine, studiosi di teoria della democrazia avevano già lamentato la mancanza di trasparenza e legittimazione dei processi decisionali nell’ambito della Ue, ma all’epoca del Trattato di Maastricht del 1992 l’atteggiamento critico si intensificò. L’assenza di autorità consolidate, di procedure ormai codificate, di gerarchie istituzionali e di ban-
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che-dati ufficiali aprirono le porte alla partecipazione delle donne nell’elaborazione di politiche relative alle questioni di genere, producendo così un primo paradosso istituzionale: il deficit di democrazia, definito per convenzione come una mancanza di “élite rappresentative” (ovvero di partiti e di elezioni tradizionalmente maschilisti) consentiva la discesa in campo di nuovi giocatori. Ciò offrì alle donne l’opportunità di affrontare un altro, ancor più radicato deficit di democrazia, noto nella seconda ondata del movimento femminista come “il gap di genere”. Il desiderio della Commissione europea di superare il cosiddetto Euro-malaise, il malessere in Europa negli anni ’70, i crescenti poteri della Corte di Giustizia e il giovane, sia pur privo di potere, Parlamento europeo favorirono il grande balzo in avanti delle donne dentro l’arena politica della Ue. Da quasi inesistente che era stata con il sistema di nomina in vigore dal 1957, la presenza delle donne crebbe significativamente con la prima elezione diretta del parlamento europeo nel 1979: i leader maschi dei partiti poterono così premiare le leali ma subordinate attiviste dei loro partiti senza sacrificare i seggi parlamentari nazionali, quelli sì dotati di “veri” poteri. Persino l’architettura dell’europarlamento era nuova e moderna. Come osservò la deputata inglese Joyce Quin “Non ci sono più Sancta Sanctorum in cui le donne non possano entrare... e non c’è più un posto a cui appendere la vostra spada”.4 L’aumento esponenziale del numero delle parlamentari dal 5,5% del 1974 all’11% del 2011 permise alle donne di impegnarsi in “atti critici” (critical acts in originale nel testo, ndT ), ovvero in una politica simbolica e di sensibilizzazione che innescò il decollo irreversibile delle donne, prima ancora che esse avessero raggiunto una massa critica.5 Facendo assegnamento sulle loro reti di esperte e su quelle degli stati membri strinsero delle alleanze con la Commissione attraverso le cosiddette femocrats, le donne insediate nella burocrazia delle Direzioni generali. Si mobilitarono spesso in settori ancora privi di competenze e di regolamenti formalizzati, creando così i cosiddetti “triangoli di velluto”,6 (ovvero dei partenariati tra donne delle istituzioni, della società civile e delle università, ndT ). La ricaduta di tutto ciò fu che le donne cominciarono a essere testimoni 1) di un passaggio dall’iniziale atteggiamento negativo verso la loro presenza a segnali che i decisori accoglievano positivamente i loro input; 2) di un miglioramento delle performance delle donne, dal momento che le reti “delle vecchie ragazze” abbreviavano il processo di apprendimento delle nuove europarlamentari; 3) di una nuova “cultura politica” che assumeva le tematiche di genere come parte integrante della normale agenda politica; 4) di una trasformazione della narrazione politica; 5) di innovativi approcci al processo decisionale basati sul consenso; 6) dell’adozione di nuove norme e di diritti fondamentali; 7) dell’incremento, infine, del potere delle donne grazie alle
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reti professionalizzate. Intorno al 2000 le donne avevano raggiunto una massa critica (del 30%) sia nei parlamenti nazionali di molti stati membri, sia al Parlamento europeo. Le sostenitrici della parità di diritti tra donne e uomini costrinsero i governi degli stati membri a cancellare le leggi basate sulla discriminazione sessuale, e sottolinearono il potenziale dell’europarlamento a sostegno del processo di democratizzazione dell’intera Unione europea. A dispetto del ridotto numero di donne nella Commissione, nel Consiglio e nella Corte di Giustizia, la Comunità europea cominciò ad accumulare competenze e risorse, configurando un secondo paradosso istituzionale: fin dagli anni ’80, in tutta la Ue il modo tradizionale di prendere decisioni, il “potere dall’alto”, era stato via via sostituito da una particolare modalità che le femministe chiamavano il “potere con”:7 invece di concentrarsi sulla capacità di “A” di far fare a “B” ciò che non è scontato che “B” farebbe (Max Weber, Robert Dahl), la Ue si affidava a un sistema di governance multi-livello che non implicava né la rinuncia all’autorità nazionale, né l’imposizione di decisioni dall’alto, quanto piuttosto “la condivisione della sovranità” (the pooling of sovereignty in originale nel testo). Le donne furono le prime ad apprendere che nell’epoca della globalizzazione l’uso più efficace del potere è quello basato sulla strategia win-win. Un terzo paradosso istituzionale deriva dalle nuove regole contenute nel Trattato di Lisbona del 2009. Mentre negli anni ’50 le prime strutture della Comunità europea riflettevano i pregiudizi dei “padri fondatori”, negli anni ’80 divenne più difficile giustificare la sotto-rappresentanza delle donne mentre un maggior numero di loro, in possesso di una laurea, intraprendeva la lunga marcia dentro le istituzioni europee. La European Women’s Lobby8 chiese che venissero nominate più donne in seno alla Commissione Delors (1990) e Santer (1995), mentre le pressioni esercitate dalla Expert Network on Women and Decision-Making9 nel 1994, l’adozione del principio del gender mainstreaming10 nel Trattato di Amsterdam del 1996, e le raccomandazioni del Consiglio “sulla partecipazione paritaria di donne e uomini” avrebbero dovuto innescare “azioni positive” dentro la Casa dell’Europa. In effetti la promessa della Commissione di garantire alle donne il 40% dei posti nelle commissioni e nei gruppi di esperti contrasta fortemente con la composizione prevalentemente maschile della Convenzione europea del 2002 incaricata di stendere la Costituzione dell’Europa. Benché il suo scopo principale fosse quello di definire la Ue come una comunità democratica impegnata a favore della parità di genere, nel 2003 su 105 delegati c’erano solo 18 donne, comprese tre donne Capo di stato su 15, e altre 3 su 30 parlamentari nazionali, con solo il 6% di donne tra i componenti della presidenza.11
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Tuttavia, il Trattato di Lisbona del 2009, che ha sostituito il fallito Trattato Costituzionale, ha rafforzato i poteri del Parlamento europeo estendendo la procedura legislativa della co-decisione estesa. Ha anche riconosciuto alle assemblee legislative nazionali il ruolo di cani da guardia (watch-dog in originale nel testo, ndT), ovvero di controllori delle iniziative legislative della Commissione. Queste riforme democratiche hanno dato origine a un quarto paradosso: se la “razionalizzazione” delle relazioni e delle competenze interne alle Ue poneva rimedio al deficit istituzionale di democrazia, ciò avveniva al prezzo di aggravare il deficit di democrazia di genere. Più la Ue assume le sembianze di un “vero governo” – con procedure codificate, flussi di informazioni gerarchizzati, gruppi di interesse organizzati e funzioni di controllo con canali di risposta formalizzati – e meno è probabile che nuovi gruppi sociali saranno in grado di assicurarsi l’accesso che ha contribuito a diffondere l’“imprevista” rivoluzione socio-culturale a cui si è assistito negli ultimi trent’anni. Il Libro Bianco del 2001 sulla governance europea sottolineava la necessità di integrare più stakeholder;12 essere “ascoltati”, però, non equivale ad aver garantito per legge il diritto di veto. Allo stesso tempo queste riforme potrebbero marginalizzare il ruolo delle istituzioni democratiche, proprio mentre un maggior numero di donne tra facendo il suo ingresso in politica. Il rapporto tra istituzionalizzazione, trasparenza, accountability (la responsabilità e l’obbligo di rispondere democraticamente dei propri atti, ndT ) e le “impreviste” opportunity structures (in originale nel testo, ndT ) è molto ambivalente. La prossima generazione delle sostenitrici della parità di diritti tra donne e uomini si troverà ad affrontare negoziazioni ancor più complesse con stakeholder sempre più riconosciuti a ogni passo del processo decisionale in ambito Ue.13
l’impronta di genere nel processo di integrazione europea: stato dell’arte14 Benché la maggior parte delle teorie sull’integrazione abbiano trascurato le dinamiche del potere di genere, molti degli attuali paradigmi, con l’eccezione dell’ intergovernamentalismo liberale,15 si potrebbero usare per integrare questioni legate all’uguaglianza dei diritti. La cultura femminista offre un terreno fertile per convogliare dentro al processo di integrazione non solo fattori legati alle specificità di genere ma anche le minoranze etniche o religiose. Ciò però riuscirà solo se si svilupperà un dialogo tra le teorie mainstream (sull’integrazione delle pari opportunità nelle politiche comunitarie, ndT ) e gli approcci della cultura di genere che mettono in discussione i presupposti maschilisti dei processi e delle istituzioni della Ue. Oggi “le teorie sui massimi sistemi” ci hanno
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restituito un quadro incompleto sul perché e il come i risultati dell’integrazione europea differiscano per le donne e gli uomini nei vari stati membri. Di seguito presentiamo una panoramica su una serie di analisi “sullo stato dell’arte” e a “medio raggio” che possono contribuire a far avanzare la ricerca in chiave di genere su diversi aspetti del processo di integrazione europea. Nell’analizzare le principali istituzioni, i protagonisti e i gruppi di interesse chiave della Ue, Anna van der Vleuten (2012) scopre che “le donne che occupano ruoli decisionali” fanno davvero la differenza. Singole donne nella DG-Occupazione (compresa l’Unità delle Pari Opportunità), europarlamentari, giudici della Corte di Giustizia e alcune ministre (come le scandinave), che si sono impegnate personalmente nel campo della parità di genere, sono riuscite a giocare molto bene su più livelli: mobilitare le supporter locali e sovranazionali aiuta a produrre un prodigioso “effetto tenaglia”, che preme sui governi nazionali dall’alto e dal basso affinché si conformino alle politiche europee. Anche se considera la Ue “un difensore avanzato della parità di genere”, con un notevole acquis normativo di genere, Birgit Locher evidenzia come lo sviluppo normativo della Ue proceda di solito a un passo più spedito della messa in pratica a livello nazionale. Nondimeno, il sistema multi-livello crea nuove aperture per l’azione delle donne, introducendo nuovi contesti politici, fondamentali consulenti esterne e (involontarie) chance di implementazione a livello nazionale. Alison Woodward (2012) osserva che tra i decisori a livello nazionale si manifesta la preoccupante tendenza ad annacquare i successi conseguiti nella politiche di genere, anche se imprimono nuova enfasi al diversity management (gestione delle differenze).16 Il passaggio dall’obiettivo della parità di diritti alle azioni positive e infine al gender mainstreaming rispecchia gli enormi cambiamenti che si sono registrati nell’agenda femminista nel corso del decennio. All’inizio le sostenitrici della parità di diritti credevano che a ostacolare la partecipazione delle donne fossero soprattutto requisiti formali e divieti in materia di lavoro retribuito delle donne (nel caso fossero sposate o in gravidanza). Persino la gender-friendly (amica della cultura di genere, ndT ) Corte di Giustizia della Ue adottava degli standard maschili per giudicare cosa fosse “paritario”, spingendo le femministe ad abbracciare paradigmi di tipo strutturale.17 Convegni internazionali e campagne gestite dai movimenti di base hanno aiutato le donne a reimpostare le loro richieste. Donne impegnate nelle battaglie per la parità di genere hanno immaginato come “caricare” e “scaricare” proposte di politiche molto prima che questi termini venissero comunemente usati in riferimento a internet.18 Come mostrano Yvonne Galligan e Sara Clavero (2012), a partire dal 1973 le varie fasi di allargamento dell’Unione europea hanno consolidato la posizio-
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Reinhard Bütikofer
L’economia europea si trova bloccata in una situazione preoccupante. Stando alle più recenti previsioni sull’economia mondiale formulate dal Fondo monetario internazionale, un numero considerevole di stati membri della Ue quest’anno sarà in recessione. Si è prestata troppa attenzione alle politiche di austerity e troppo poca alla sostenibilità e alla crescita. Né l’Europa, come c’era da aspettarsi, è stata capace di trovare una sua strada verso la riduzione sostenibile del debito. Alcuni esponenti dei partiti conservatori hanno sfruttato la situazione economica e l’allarme che questa ha destato in ambito politico. Hanno cercato di rovesciare l’opinione acquisita su una delle principali questioni di strategia economica, per la quale si sono versati fiumi di inchiostro: riuscirà l’Europa a coniugare la capacità di restare competitiva a livello industriale con la conversione a un’economia low-carbon? In più di un’occasione si è risposto affermativamente a questa domanda. Per controbattere a coloro che ancora non accettano questa prospettiva, converrebbe forse formulare la domanda in maniera più radicale: riuscirà l’Europa a restare competitiva senza affrontare la trasformazione in un’economia low-carbon, ovvero a basse emissioni di carbonio? La mia risposta è “No”.
il basso profilo non porta da nessuna parte 1 Non sarà l’opzione di basso profilo di una deregulation improntata al dumping sociale e ambientale ad assicurarci la competitività a livello industriale. Né la competitività aumenterà sbarrando le nostre frontiere con nuove forme di protezioniReinhard Bütikofer – europarlamentare tedesco del gruppo Verdi europei/Alleanza Libera europea, co-presidente del Partito Verde europeo.
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smo. Al contrario, l’Europa deve dimostrarsi all’altezza della situazione adottando un’ambiziosa politica industriale che concentri gli investimenti in un processo spinto di modernizzazione low-carbon esteso al settore energetico e a quello dell’uso efficiente delle risorse. Nella comunicazione sulla sua politica industriale del 10 ottobre 2012 la Commissione europea ha riconosciuto la necessità di un quadro politico che incrementi gli investimenti nelle nuove tecnologie e conferisca “all’Europa un vantaggio competitivo nella nuova rivoluzione industriale”. Su questo si fonderà la nostra competitività industriale e sarà per questa strada che l’industria europea in ginocchio si risolleverà proiettandosi verso traguardi più avanzati. Perché ciò accada, l’Europa ha bisogno di una strategia di Rinascimento dell’Industria per un’Europa Sostenibile (Renaissance of Industry for a Sustainable Europe – RISE strategy in originale nel testo, ndT ). Nella mia relazione al Parlamento europeo intitolata “La re-industrializzazione dell’Europa per promuovere la competitività e la sostenibilità” ho proposto un modello di “strategia RISE” che produrrà il rinnovamento dell’industria apportando dinamismo economico, fiducia e competitività. Stella polare di questo approccio sono i principi di concorrenza leale, l’internalizzazione delle esternalità e un ordinamento politico che tenga conto dei vincoli ambientali e sia incardinato in un’economia ecologica e sociale di mercato di dimensione europea. Questa strategia poggia su una serie di pilastri.
il percorso per risollevarsi (rise) In primo luogo c’è bisogno di un’offensiva tecnologica all’insegna dell’innovazione, dell’efficienza e della sostenibilità per modernizzare i pilastri su cui poggia la nostra industria e per consolidare i nostri punti di forza. In altri termini, bisogna investire nelle energie rinnovabili di pari passo con l’efficienza energetica e l’uso razionale delle risorse. La banca americana Merrill Lynch ha individuato nell’efficienza energetica uno dei prossimi mega trend finanziari, mentre la Commissione europea nella sua road map per l’uso efficiente delle risorse ha messo in luce che i guadagni derivanti dall’uso efficiente delle risorse nel settore manifatturiero della sola Germania potrebbero portare a una riduzione dei costi fino al 30%. In questo campo c’è bisogno di rinnovata energia. Misure innovative per stimolare investimenti nel settore dell’efficienza potrebbero essere, da un lato, l’introduzione di un conto energia finalizzato a promuovere l’efficienza energetica, come pure, dall’altro, la proposta avanzata dalla VDMA (l’associazione di categoria degli ingegneri della Germania) di istituire dei prestiti dedicati all’ecoefficienza che includano un anticipo sui risparmi attesi (per esempio un presti-
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to del 120%) che si potrebbero impiegare per finanziare altri investimenti non legati all’efficienza e che si potrebbero restituire attraverso, tra l’altro, i guadagni marginali ottenuti con l’efficientamento. Potrebbe essere d’ausilio anche l’introduzione di un’esenzione per categoria degli aiuti di stato riservata a tutti i progetti di riqualificazione energetica presenti nell’ambito dei Piani di efficienza energetica degli stati membri, come suggerisce uno studio sugli aiuti di stato commissionato dai Verdi. Anche la normativa sull’ecodesign può giocare un ruolo cruciale in questo ambito. Secondo la società di consulenza Ecofys, ai consumatori e alle imprese europei al 2020 l’ecodesign potrebbe far risparmiare potenzialmente 90 miliardi di euro all’anno, riducendo del 23% le importazioni di gas naturale dalla Russia. In questo senso, la normativa sull’ecodesign potrebbe essere ampliata fino a comprendere la riciclabilità e l’efficienza nell’uso delle risorse. Di grande importanza e in grado di contribuire all’attivazione di questa agenda sono anche i partenariati pubblico-privato, come per esempio la proposta denominata SPIRE rivolta al mondo dell’industria e dedicata all’innovazione nell’uso efficiente delle risorse e dell’energia. Secondo pilastro: i leader politici europei devono far seguire alle parole dei fatti concreti e devono cominciare a investire in quei settori in cui la competitività dell’Europa può ottenere il massimo dai nostri soldi, come per esempio innovazione e ricerca&sviluppo. Questo elemento è cruciale perché, come osserva il World Economic Forum, gli investimenti business as usual (BAU, ovvero secondo l’andamento di routine) non ci porteranno né una crescita stabile né prosperità.
molte parole ma pochi fatti Alla riunione del Consiglio europeo del 27-28 giugno 2013 i Capi di stato e di governo si sono vantati di aver lanciato un nuovo “Piano di investimenti per l’Europa” per sostenere le Pmi e per avviare la ripresa. In realtà quel piano è poco più di una manovra diversiva per distogliere l’attenzione dai tagli effettivi imposti dal Consiglio. D’intesa con la maggioranza del Parlamento europeo, il Consiglio europeo si è accordato su un quadro finanziario pluriennale (QFP) molto modesto che mantiene invariato l’attuale status quo economico e opera tagli a carico delle succitate aree strategiche. Il programma di aiuti finanziari alle Pmi, denominato COSME, ha subito tagli pari al 20%, ed è stato pesantemente colpito anche il programma quadro per la ricerca Horizon 2020. Al contempo, opere “nate morte” (“cimiteriali” in originale, ndT ) che costano miliardi di dollari, come il reattore per la fusione nucleare ITER, continuano a ricevere finanziamenti senza alcuna limitazione.
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Una strategia RISE metterebbe a disposizione nuovi strumenti innovativi per la ripresa del credito sui mercati. Tra questi, per esempio, il rilancio del mercato delle obbligazioni garantite da attività per le Pmi e la promozione di partenariati finanziari in cui le banche pubbliche investano in obbligazioni garantite emesse da banche private, collegando tali investimenti all’aumento degli obiettivi di prestito della banca privata alle Pmi. Inoltre, nel contesto di un incremento della riduzione della leva finanziaria, RISE sosterrebbe la nascita di mercati obbligazionari locali e creerebbe un quadro normativo europeo per il crowdfunding al fine di favorire l’accesso delle imprese a fonti di finanziamento alternative. Il terzo pilastro riguarda i mercati. Dobbiamo completare il mercato interno e dotarci di una strategia RISE che finanzi il mercato domestico europeo per promuovere l’innovazione indotta dalla domanda e la penetrazione di nuove tecnologie. Lo si potrebbe fare, per esempio, abbassando l’Iva su merci particolarmente innovative, prevedendo per i prodotti efficienti un accesso privilegiato agli appalti pubblici, come pure attraverso le politiche di standardizzazione. Contemporaneamente, una strategia RISE spalanca anche le porte dei mercati internazionali. Da questo punto di vista il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) tra Unione europea e Usa (ovvero il Trattato di libero scambio per la costruzione di un mercato unico Ue-Usa per merci e investimenti, la cosiddetta “NATO economica”, ndT ) gioca un ruolo-chiave e questo accordo potrebbe cercare di far decollare, di qua e di là dall’oceano, un processo di riduzione delle emissioni di carbonio eliminando gradualmente i sussidi per i combustibili fossili. Presso le sedi all’estero dell’Unione europea si potrebbero creare degli sportelli delle Pmi e si potrebbe perseguire una strategia dell’export dedicata a tecnologie e servizi per un uso efficiente delle risorse e dell’energia. Quarto pilastro: dobbiamo metterci in condizione di poter disporre delle capacità tecniche e della forza lavoro che ci servono per la prossima rivoluzione industriale. Ciò significa che dobbiamo far diventare i lavoratori parte del processo aumentando il tasso di democratizzazione e innovazione nei posti di lavoro, e che va garantito il diritto individuale alla formazione. Di cruciale importanza sarebbe anche aumentare il numero di studenti di scienze, tecnologia, ingegneria, matematica (in inglese nel testo queste materie sono indicate con l’acronimo STEM, ovvero Science, Technology, Engineering, Mathematics, ndT ) e, in aggiunta alla creazione di partenariati tra l’industria e il mondo accademico, fissare degli obiettivi nazionali di iscrizioni nei dipartimenti STEM. Inoltre, gli stati membri dotati di sistemi di formazione professionale ben impostati hanno beneficiato di mercati del lavoro relativamente solidi durante la crisi. A tale riguardo, la Commissione dovrebbe aiutare gli stati membri a introdurre questi sistemi. Accanto alla Youth Guarantee, la Garanzia europea per i gio-
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le spese militari e l’europa che finge di non vedere Sergio Andreis
La spesa militare globale nel 2012, l’anno per il quale, al momento di andare in stampa, sono disponibili i dati più recenti pubblicati dal SIPRI,1 è stimata in 1.756 miliardi di dollari, pari al 2,5% del prodotto interno lordo mondiale, ovvero a circa 249 dollari per ogni abitante del pianeta. In termini reali l’importo totale è diminuito dello 0,4% circa rispetto al 2011, quando si registrò la prima flessione dal 1998, pur restando il dato complessivo superiore a quello di un qualunque anno precedente dalla fine della Seconda guerra mondiale al 2010. La distribuzione della spesa militare nel 2012 evidenzia i primi segnali di uno spostamento del baricentro dall’Occidente verso altre parti del mondo, in particolare Europa orientale e paesi in via di sviluppo. Nell’Europa centrale e occidentale l’austerity ha continuato a limitare le spese militari. In Asia e Oceania la spesa è cresciuta più lentamente, in parte come conseguenza di una più debole crescita economica sulla scia della crisi finanziaria globale del 2008. In Asia centrale e meridionale, America settentrionale, Oceania, Europa centrale e occidentale, ai rialzi del periodo 2003-2009 sono seguite le flessioni del 2009-2012; nell’Africa sub-sahariana, Asia orientale e America meridionale il rallentamento della crescita è stato maggiore, mentre una decelerazione meno incisiva si è registrata in Europa orientale e Asia sudorientale. Al contrario, il tasso di crescita è aumentato in Medio Oriente e Africa settentrionale. L’effetto complessivo sul totale mondiale, segnala il SIPRI, è stato una crescita ridotta 1 nel 2010-11, seguita da una caduta nel 2012; cifre comunque da capogiro, con l’Europa che resta, dopo il Nord America, la regione che spende di più (vedi tabella “Spese militari”). Sergio Andreis – Direttore di Kyoto Club, esperto di politiche giovanili, di cittadinanza attiva e di programmi di cooperazione internazionale, si occupa di spese militari nell’ambito della Campagna Sbilanciamoci! È stato obiettore di coscienza totale (adottato per questo da Amnesty International) e deputato verde (1987-1992).
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spese militari (per regione) 2012 Regione: variazione % Africa +1,2
In miliardi di $ USA correnti 2012 39
Nord Africa +7,8
16
Africa sub-sahariana - 3,2
23
Americhe -4,7 America Centrale e Caraibi + 8,1
782 8
Nord America -5,5
708
Sud America +3,8
66
Asia e Oceania +3,3
390
Asia Centrale e Meridionale -1,6 Asia Orientale +5,0
60 268
Asia Sud Orientale +6,0
34
Oceania -3,7
28
Europa +2,0
407
Orientale +15
100
Occidentale e Centrale -1,6
307
Medio Oriente +8,3
138
Totale mondiale -0,4
1.756
Per quanto riguarda la produzione di armamenti, i dati più recenti, ovvero il SIPRI Top 100 che ordina le maggiori imprese produttrici (esclusa la Cina) in base al volume delle loro vendite di armi, sono stati resi noti lo scorso 31 gennaio2 alla Conferenza di Monaco di Baviera sulla sicurezza e si riferiscono al 2012. Segnalano che: a) le vendite totali vengono quantificate in 395 miliardi di dollari, pari a meno 4,2% in termini reali rispetto al 2011; b) si tratta della seconda diminuzione annuale consecutiva, ma il totale resta del 29% maggiore rispetto a quello del 2003; c) l’industria mondiale degli armamenti continua a essere fortemente accentrata, con le prime dieci industrie produttrici, tre quarti delle quali hanno le proprie sedi in Nord-America o nell’Europa occidentale, che coprono il 52,1% delle vendite totali di armi (vedi tabella “Le dieci maggiori imprese produttrici di armi, 2012”). Commercio internazionale di armi: lo scorso 17 marzo il SIPRI ha pubblicato i dati riferiti al 2013 dai quali emerge che il volume dei trasferimenti internazionali di armamenti convenzionali maggiori tra il 2004-2008 e il 2009-13 è cresciuto del 14%. I cinque maggiori fornitori del periodo 2009-13 – Stati
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le dieci maggiori imprese produttrici di armi, 2012 Impresa 1. Lockheed Martin – Usa
Vendite di armi (in milioni di dollari)
Profitti (in milioni di dollari)
36.000
2.745
2. Boeing – USA
27.610
3.900
3. BAE Systems – Regno Unito
26.850
2.599 1.900
4. Raytheon – USA
22.500
5. General Dynamics – USA
20.940
-332
6. Northrop Grumman – USA
19.400
1.978
7. EADS – trans-europea
15.400
1.580
8. United Technologies – USA
13.460
5.200
9. Finmeccanica – Italia
12.530
-1.010
10. L-3 Communications – USA
10.840
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Uniti, Russia, Germania, Cina e Francia, vedi tabella – sono stati responsabili del 74% delle esportazioni, con la Cina che rafforza ulteriormente le proprie esportazioni di armamenti e sostituisce la Francia al quarto posto. Armamenti nucleari: nonostante la sottoscrizione, l’8 aprile 2010, a Praga, da parte di Usa e Russia, del Nuovo, dopo quello del 1991, Trattato START per ulteriori riduzioni dei rispettivi arsenali nucleari, ogni ottimismo sarebbe fuori luogo: all’inizio del 2013 otto stati si trovavano in possesso approssimativamente di circa 4.400 armi nucleari operative, di cui quasi 2.000 tenute in stato di elevata prontezza. Se si contano tutte le testate – operative, di riserva, immagazzinate (attive o meno) e in attesa di smantellamento – Stati Uniti, Russia, i dieci principali paesi esportatori e importatori di armi convenzionali 2009-2013 Percentuale dell’export globale (%) Esportatore USA 29 Russia 27 Germania 7 Cina 6 Francia 5 Regno Unito 4
Percentuale sull’import globale (%) Importatore India 14 Cina 5 Pakistan 5 Emirati Arabi Uniti 4 Arabia Saudita 4 USA 4
Spagna 3
Australia 4
Ucraina 3
Corea del Sud 4
Italia 3 Israele 2
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Singapore 3 Algeria 3
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Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan e Israele sono in possesso complessivamente di circa 17.270 armi nucleari. La disponibilità di informazioni affidabili sugli arsenali nucleari varia notevolmente. Francia, Regno Unito e Stati Uniti hanno recentemente divulgato importanti informazioni circa le loro capacità nucleari. Al contrario, la trasparenza della Russia è diminuita in seguito alla decisione di non rilasciare pubblicamente dati dettagliati sulle forze nucleari strategiche, anche se il paese condivide informazioni con gli Usa nell’ambito del Nuovo Trattato START sottoscritto nel 2010. La Cina conserva una posizione assolutamente non trasparente, in linea con la sua tradizionale strategia di deterrenza. Informazioni attendibili sullo stato operativo dell’arsenale nucleare e sulle potenzialità dei tre stati che non hanno mai aderito al Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP, 1968) – India, Israele e Pakistan – sono particolarmente difficili da reperire. In mancanza di dichiarazioni ufficiali, le informazioni disponibili sono spesso contraddittorie, erronee o esagerate (vedi tabella “Forze nucleari nel mondo”). Armi chimiche e biologiche: Russia e Stati Uniti non sono riusciti a rispettare la scadenza per lo smantellamento completo dei loro stock di armi chimiche fissata dalla CAC (Convenzione sulle armi chimiche, 1993) all’aprile 2012. Al 31 dicembre 2012, erano 188 gli stati che hanno ratificato o aderito alla convenzione, 2 quelli che l’hanno firmata, ma non ratificata, 6 quelli che non l’hanno firmata né ratificata. Per quanto riguarda le armi biologiche, il SIPRI ricorda che nel corso del 2012 gli stati parte della Convenzione sulle armi biologiche (CAB, 1972) hanno tenuto i primi due di una serie di quattro incontri intersessionali fra esperti e paesi aderenti, cosi come concordato nell’ambito della Settima Conferenza di revisione della CAB (2011). Questi incontri consistono in scambi di opinioni e informazioni sulle misure di capacity building, sulle implicazioni per il regime degli sviluppi scientifici e tecnologici, sull’effettiva implementazione a livello nazionale della convenzione, e sull’incremento della trasparenza e della fiducia tra i membri. L’Unità di supporto all’implementazione della CAB sta sviluppando un database volto a incrociare domanda e offerta in tema di assistenza e cooperazione. Tuttavia, se comparato con il CAC il regime appare ancora limitato in termini di capacita istituzionali. Nel 2012 un nuovo stato membro ha aderito al CAB: le Isole Marshall. Al 31 dicembre 2012 altri 12 stati hanno firmato, ma non ancora ratificato la convenzione. Fin qui i dati disponibili, sui quali vanno fatte alcune considerazioni. • Si tratta comunque di dati sottostimati, sia per la reticenza a fornire informazioni da parte delle aziende e dei governi, sia perché a quelli qui riportati andrebbero aggiunte anche le armi leggere, gli arsenali chimici e biologici e tut-
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forze nucleari nel mondo – stime al gennaio 2013 Paese
Testate dispiegate
Altre testate
USA
2.150
5.550
Totale 7.700
Russia
1.800
6.700
8.500
Regno Unito
160
65
225
Francia
290
10
300
Cina
....
250
250
India
....
90 – 110
90 – 110 100 – 120
Pakistan
....
100 – 120
Israele
....
80
80
Corea del Nord
....
....
6-8?
4.400
12.865
17.270
Totale
te quelle spese a fini militari i cui capitoli di bilancio sono gestiti da Ministeri diversi da quelli della Difesa: dal Ministero degli Esteri, del Tesoro, del Commercio estero, dell’Industria o dello Sviluppo economico. Va anche considerato tutto il settore – risultato dell’evoluzione tecnologica e in forte crescita negli ultimi decenni e che, per definizione, pone problemi di quantificazione e tracciabilità – del dual use, relativo a quelle produzioni che possono avere usi sia civili sia militari. Nel 1992 il Parlamento italiano aveva approvato una legge per regolarne il commercio. Legge abolita appena pochi anni dopo. • Per quanto riguarda la spesa militare e le esportazioni dei diversi paesi dell’Unione europea (Ue), l’analisi comparata delle stime SIPRI e di quelle di fonte del Consiglio Ue si trova nel rapporto pubblicato nel 2013 “Harmonized EU Arms Exports Policies in Times of Austerity? Adherence to the Criteria of the EU Common Position on Arms Exports”, commissionato dal Gruppo dei Verdi-ALE al Parlamento europeo e curato da Jan Grebe del BICC, Bonn International Centre for Conversion.3 • Il quadro resta quello di un pianeta sovra-armato, con spesa militare, produzione e commercio di armamenti che assorbono ingenti quantità di risorse. La domanda da porsi è: si tratta di comparti in balia di una propria inerzia e sottratti al controllo di governi, parlamenti e della società civile che, al contrario, non è superfluo precisarlo, sono i soggetti che dovrebbero decidere? • Scriviamo di paesi dell’Unione europea e non di Ue perché, al di là dei proclami e della retorica, non esiste una politica comune Ue di sicurezza e difesa, che invece potrebbe – e sarebbe interessante capire se è proprio per questo che manca – facilitare la razionalizzazione, la trasparenza e la riduzione della spesa militare, del tutto abnorme anche nel nostro continente. Come riportato dalla giornalista Anna Maria Merlo, uno scambio di battute tra i leader dei due paesi europei più impegnati sulle questioni di difesa – il britannico David Ca-
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meron e il francese François Hollande – illustra meglio di tante spiegazioni lo stato della politica di sicurezza e di difesa comuni della Ue. La scena ha avuto luogo al Consiglio europeo dello scorso dicembre, dedicato per la prima volta da anni alle questioni della difesa. “Bloccherò ogni iniziativa che miri a dotare le istituzioni europee di reali capacità militari”, ha affermato Cameron. “Nessuno prevede la creazione di un esercito europeo”, l’ha tranquillizzato Hollande. Eppure, il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre 2009, aveva ripreso, agli articoli 42-46, le linee di politica di sicurezza e difesa comuni presenti nel trattato di Maastricht (titolo V) che prevedevano la realizzazione di una politica estera e di difesa comuni, con la specificazione+, comunque, che tale politica non si sarebbe sostituita alla NATO. Da allora nulla o quasi si è mosso: a prevalere sono stati i vecchi nazionalismi, ognuno per sé, con le ex grandi potenze – Francia e Gran Bretagna – che pensano di poter agire ancora da sole nello scenario internazionale, cercando alternativamente l’appoggio degli Usa, mentre la Germania mantiene una posizione reticente, pur non disdegnando la produzione e l’export di armi. Nei fatti, la Francia decide da sola gli interventi esterni, salvo poi rivolgersi alla Ue per chiedere appoggio e finanziamenti (come nel recente caso del suo intervento armato nella Repubblica Centrafricana), mentre la Gran Bretagna non si smuove dalla conferma della centralità della NATO, rifiuta la difesa europea e si limita a firmare accordi bilaterali. Gli altri paesi stanno a guardare, con alcuni episodi velleitari decisi qua e là da governi che vogliono mostrare i muscoli. • Nuove informazioni sulla spesa militare, sconosciute ai più, arrivano anche dalla statistica: Roberta Carlini, su sbilanciamoci.info, ha scritto dell’aggiornamento del manuale di contabilità nazionale (sistema europeo dei conti SEC95), entrata in vigore nei paesi Ue da quest’anno. Fino a ieri le spese militari erano considerate in modi diversi nella contabilità nazionale a seconda che fossero passibili anche di un utilizzo civile (come nel caso, per esempio, di una portaerei), oppure destinate a scopi esclusivamente distruttivi (come un missile). In questo secondo caso, non andavano ad arricchire il capitale di un paese, ma venivano classificate tra i “consumi intermedi”. Con i nuovi metodi di contabilità, invece, tutti gli acquisti di sistemi d’arma e dei relativi sistemi di supporto, purché utilizzati per un periodo superiore a un anno, saranno contabilizzati come investimenti in beni durevoli; anche le munizioni, le bombe e i pezzi di ricambio vengono quindi spostati dai consumi intermedi per essere collocati fra le scorte. Lo spostamento da un capitolo all’altro non è di poco conto. Evidente la sua implicazione simbolica e politica: i sistemi d’arma sono capitale fisso, che a tutti gli effetti contribuisce alla ricchezza e al benessere di un paese. Il che ha una immediata traduzione concreta: chi spende di più in armi, per esempio per una guerra, aumenta la pro-
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