Guida all'interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a tastiera (ant.)

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Crediti Per le illustrazioni e gli esempi musicali riprodotti in questo libro si ringraziano: Illustrazioni Fig. III.1.1 p. 171 © Kunstmuseum Basel, Depositum der Freunde des Kunstmuseums Basel und des Museums für Gegenwartskunst 1940 Foto: Kunstmuseum Basel, Martin P. Bühler Fig. III.3.1 p. 195 Courtesy of Steinway & Sons Esempi musicali Es. I.2.1 p. 32 Es. I.2.2 p. 34 Es. I.2.17a p. 51 Es. I.2.18 p. 53 Es. I.2.21 p. 55 Es. I.3.3 p. 69 Es. I.3.5 p. 73 Es. I.4.1 p. 77 e Es. I.4.3 p. 79 Es. II.1.1 p. 100-101 Tabella II.2.1 p. 112-113 Es. II.2.6 p. 119 Es. II.2.16 p. 130 Es. II.2.17a p. 132 Es. II.2.17b p. 132 Es. II.4.1 p. 150 Es. II.4.2 p. 154 Es. II.4.3 p. 155 Es. II.4.4 p. 155 Es. III.2.2 p. 182 Es. III.3.2 p. 198 Es. III.3.3 p. 199 Es. III.3.6 p. 203 Es. III.4.1 p. 219

© Oxford University Press 1968. Extract reproduced by permission. All rights reserved. Courtesy of The Music Sales Group Ltd Reproduction by permission of The Fitzwilliam Museum, Cambridge © The British Library Board Image courtesy of Cardiff University Library: Special Collections and Archives © The British Library Board © Lebrecht Music & Arts Reproduced by permission of Stainer & Bell Ltd, London, England © Oxford University Press 1937. Extract reproduced by permission. All rights reserved. Kolisch, R. Tempo and Character in Beethoven’s Music (Continued) Musical Quarterly (1993) 77 (2): 268-342, table: ‘authentic metronome marks for selected works by Beethoven.’ Reprinted by permission of Oxford University Press © The British Library Board © The British Library Board © Internationale Stiftung Mozarteum (ISM) © The British Library Board © The British Library Board © The British Library Board © ONB/Wien – Image ID © The British Library Board © ONB/Wien – Image ID © 1930 by Éditions Max Eschig – Per gentile concessione di Hal Leonard MGB Srl – Milano Tous droits réservés pour tous pays. © 1909 by Éditions DURAND – Co-propriété de ARIMA SCP et de NORDICE – Répresentation exclusive par les Éditions DURAND – Per gentile concessione di Hal Leonard MGB Srl – Milano © 1906 by Éditions Demets / Éditions Max Eschig – Per gentile concessione di Hal Leonard MGB Srl – Milano/ Tous droits réservés pour tous pays Courtesy of Bibliothèque nationale de France

L’editore, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini e degli esempi musicali prescelti, è a disposizione degli aventi diritto per eventuali lacune od omissioni.

Edizione italiana a cura di Angelo Gilardino Traduzione: Cristoforo Prodan Revisione: Daniela Magaraggia Redazione: Samuele Pellizzari Progetto grafico: Anna Cristofaro, Cristiano Cameroni

Contenuti digitali disponibili on line: edizionicurci.it/guide_abrsm_tastiere

Titoli originali dell’opera: A Performer’s Guide to Music of the Baroque Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music A Performer’s Guide to Music of the Classical Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music A Performer’s Guide to Music of the Romantic Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music Per l’edizione in lingua italiana riorganizzata in quattro volumi, su licenza dell’Associated Board of the Royal Schools of Music: Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a tastiera (EC 11873) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti ad arco e a corda (EC 11874) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a fiato (EC 11875) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per canto (EC 11876) Proprietà per tutti i Paesi: Edizioni Curci S.r.l. – Galleria del Corso, 4 – 20122 Milano © 2016 by Edizioni Curci S.r.l. – Milano Tutti i diritti sono riservati / All rights reserved EC 11873 / ISBN: 9788863951899 www.edizionicurci.it Prima stampa in Italia nel 2016 da INGRAF Industria Grafica S.r.l., Via Monte San Genesio, 7 – Milano


Avvertenze generali Ove necessario, le altezze delle note vengono indicate utilizzando la notazione scientifica:

do centrale: c'/do4

Notazione di Helmholtz

Notazione scientifica

C''-B" (C2-B2)

do0 - si0

C'-B' (C1-B1)

do1 - si1

C-B (C-B)

do2 - si2

c-b (c-b)

do3 - si3

c' - b' (c1-b1)

do4 - si4

c'' - b'' (c2-b2)

do5 - si5

c''' - b''' (c3-b3)

do6 - si6

c'''' - b'''' (c4-b4)

do7 - si7

c''''' - b''''' (c5-b5)

do8 - si8

Nelle didascalie degli esempi musicali la data si riferisce a quella di composizione, a meno che non sia indicata fra parentesi, nel qual caso si riferisce a quella di pubblicazione o, nel caso di rappresentazioni, alla prima esecuzione. In questo volume viene adottata la notazione scientifica per la numerazione delle ottave sul pianoforte. Il do centrale (corrispondente alla frequenza di 264 Hz) viene pertanto indicato come do4, in quanto quarto do sulla tastiera, partendo da sinistra. Nella tradizione italiana, la stessa nota è indicata più frequentemente come do3 (poiché la prima ottava non ha indice numerico). I QR Code presenti nel volume (come quello a fianco) rimandano agli ascolti selezionati nelle playlist Spotify disponibili in streaming all'indirizzo: edizionicurci.it/ guide_abrsm_tastiere. Per ulteriori informazioni consulta le Note sugli ascolti a p. 225. I QR Code possono essere utilizzati da qualunque dispositivo mobile dotato di fotocamera e apposito programma (“app”) di lettura, che può essere scelto tra quelli disponibili gratuitamente negli app store dedicati ai principali sistemi operativi (es. iTunes Store, Google Play Store, Windows Phone Store). Come funziona: inquadrando il QR Code dall’interno dell’app, si accede al corrispondente contenuto online. L’uso delle cifre romane nella numerazione di esempi musicali e illustrazioni identifica il periodo a cui si riferiscono e la corrispondente sezione del libro (I – Età barocca; II – Età classica; III – Età romantica).

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Prefazione di Anthony Burton

Cosa intendono l’amico, l’insegnante o il membro di una giuria, quando, dopo che è stato suonato o cantato un pezzo, affermano che il brano «è stato eseguito con lo stile giusto» o, al contrario, che «non è stato molto in stile»? Significa che il pezzo è stato interpretato con, o senza, la consapevolezza di come il compositore si sarebbe aspettato che suonasse quando lo ha scritto. E queste guide sono state scritte proprio per aiutarvi a scoprire cosa si sarebbe aspettato il compositore in epoche diverse e per applicare tali conoscenze al vostro modo di suonare o di cantare. In effetti, fino all’inizio del XX secolo non c’era un’idea precisa di cosa fosse lo “stile dell’epoca”. Quando fu riscoperta, la musica dei secoli XVII o XVIII veniva di solito trattata, da curatori e interpreti, come se appartenesse al presente. Tuttavia, col passare del tempo i musicisti cominciarono a rendersi conto che non potevano tranquillamente assumere in modo semplicistico che tutto – compresi gli strumenti e il modo di suonarli – andasse sempre bene, e che il loro abituale stile esecutivo si adattasse ugualmente ad affrontare qualsiasi composizione musicale. Essi iniziarono così a ricercare nuovi modi di eseguire la musica del passato, che fossero più attenti alle aspettative del compositore: attraverso il recupero di strumenti come il clavicembalo e il liuto e la formazione di orchestre da camera; attraverso l’affermarsi delle edizioni “Urtext”, che proponevano (o pretendevano di proporre) nient’altro che le intenzioni originali del compositore; attraverso lo studio dettagliato della “prassi esecutiva”, cioè del modo in cui la musica veniva interpretata in tempi e luoghi diversi; e, più recentemente, attraverso l’utilizzo di strumenti d’epoca (o, sempre più spesso, di fedeli repliche moderne degli stessi). In tutto questo le registrazioni hanno svolto un ruolo fondamentale, facendo rivivere molte zone trascurate della storia della musica, gettando una nuova luce sulle opere famose del passato e dimostrando quale poteva essere l’intenzione del compositore. Per un po’ questi sviluppi hanno portato a uno scoraggiante trasferimento di competenze di intere aree del repertorio agli specialisti, a non vedere di buon occhio qualsiasi esecuzione di musica barocca al pianoforte e a rimuovere non solo Bach e Händel, ma anche Haydn e Mozart, dai programmi delle orchestre sinfoniche. Ma ciò non era di certo sufficiente ai musicisti o al loro pubblico; e per gli studenti che avessero voluto conoscere un repertorio musicale più vasto, probabilmente senza alcuna possibilità di accesso agli strumenti d’epoca, ciò non aveva proprio senso. In ogni caso, non appena gli esecutori specializzati e gli studiosi estesero le loro ricerche nel territorio più familiare del XIX secolo, scoprirono altre tradizioni

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Anthony Burton

esecutive andate perdute o fraintese. Così diventò sempre più chiaro che tutte le esecuzioni del passato potevano beneficiare delle conoscenze e dell’esperienza maturata dal “movimento della musica antica”. Un settore rimasto indietro riguardo a questo aspetto è quello della didattica. Molto spesso solo gli artisti che hanno effettuato studi musicali fino al liceo musicale o all’università (e certamente non tutti) si sono cimentati con le idee sull’interpretazione filologica. E poche sono state le pubblicazioni contenenti delle informazioni affidabili di carattere generale, non specialistico, sull’interpretazione della musica del passato. È questo il divario che noi cerchiamo di colmare con questa serie di guide all’interpretazione della musica attraverso epoche diverse: l’età barocca, definita approssimativamente come quel periodo che va dal 1600 circa al 1759 (anno della morte di Händel); l’età classica, dal 1759 (prima sinfonia di Haydn) al 1828 (anno della morte di Schubert); l’età romantica, dal 1828 (anno di composizione dell’op. 1 di Berlioz) a circa il 1914. Le guide si rivolgono principalmente agli studenti dell’Associated Board (soprattutto dei livelli più avanzati) e ai loro insegnanti – per non parlare degli esaminatori. Tuttavia esse non sono state pensate come vademecum per specifici piani di studio, attuali o futuri; e noi speriamo che possano essere utili a tutti i musicisti, oltre che agli adulti dilettanti e ai professionisti. I volumi seguono tutti lo stesso schema. Per ognuna delle tre epoche storiche, un capitolo introduttivo che delinea la collocazione storica della musica e un capitolo conclusivo che tratta delle fonti e delle edizioni. Gli autori di questi saggi, tutti scelti fra i massimi esperti del settore, hanno adottato approcci nettamente diversi per raggiungere i loro obiettivi, per cui i volumi costituiscono, nel loro insieme, un’introduzione ai diversi modi di trattare la storia della musica e la musicologia. Ogni volume contiene un importante capitolo generale su come la notazione sarebbe stata interpretata dai musicisti dell’epoca, seguito da una serie di capitoli più specifici dedicati, in ognuna delle quattro guide, rispettivamente agli strumenti a tastiera, agli archi e agli strumenti a corda, agli strumenti a fiato e al canto. Questi capitoli sono stati scritti da musicisti che non hanno soltanto una competenza accademica, ma anche un’esperienza di prassi esecutiva, in molti casi ai più alti livelli. Un elemento importante che emerge da questi capitoli è che i diversi tipi di musicisti hanno sempre imparato gli uni dagli altri. Ci auguriamo che leggiate tutti i capitoli, non solo quelli dedicati alla vostra specialità;1 e anche che ricaviate chiarimenti e stimoli da tutti i brani di cui consigliamo l’ascolto. Un altro elemento importante trasmesso dagli autori in molti punti del testo è che l’obiettivo dell’interprete non è semplicemente dare l’esposizione più accurata possibile delle note stampate sulla pagina. Questa è un’astrazione circolata solo per pochissimi anni alla fine del XX secolo. Normalmente, per secoli, ci si è sempre aspettato che l’interprete fornisse un apporto, attraverso la sua abilità strumentale e il proprio gusto personale, a sostegno della concezione del compositore – in alcuni momenti dando anche un sostanziale contributo. Quindi ci auguriamo che consideriate queste guide non come un insieme di istruzioni su come realizzare un’interpretazione “corretta”, ma come una fonte di tutte quelle informazioni di cui avrete bisogno per realizzare un’interpretazione significativa – una sintesi fra l’ispirazione del compositore nel passato e la vostra immaginazione e fantasia nel presente.

Si veda la Nota all’edizione italiana.

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Nota all’edizione italiana

Rispettando il testo dell’introduzione di Anthony Burton – che appare indispensabile per la comprensione della forma originale dell’opera ‒ si rende necessario spiegare preliminarmente che questa edizione è stata strutturata in modo da renderla aderente a quelle che, in base alle esperienze acquisite dall’editore, si presume siano le preferenze dei lettori italiani: si è ritenuto cioè che nelle nostre scuole di musica, a ogni livello, prevalga in ogni categoria di interpreti l’interesse specifico per la trattazione riguardante il proprio ambito strumentale. Mantenendo quindi intatto e inalterato il contenuto del testo originale, si è proceduto a una ripartizione del medesimo non più per età (barocca, classica, romantica), ma per destinazione: strumenti a tastiera, strumenti ad arco e a corda, strumenti a fiato, canto. Ciascuno dei quattro volumi derivati da tale ristrutturazione conserva, in comune con gli altri, le parti di interesse generale, e si differenziano dunque soltanto le trattazioni dei rispettivi ambiti strumentali. Naturalmente, tale scelta editoriale – operata con il proposito di offrire ai lettori italiani il servizio che essi si aspettano ‒ non può andare disgiunta dall’auspicio che i componenti di ciascuna categoria leggano anche i volumi destinati alle altre – il che li ricongiungerebbe idealmente ai lettori dell’edizione originale – ma si è preferito lasciare tale lodevole orientamento alla scelta personale. Il curatore

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PRIMA PARTE - ETÀ BAROCCA

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Collocazione storica di George Pratt

Esplorare un’epoca lontana Un’“epoca” artistica non può essere datata con precisione. È sempre possibile ravvisare dei prodromi nell’approssimarsi di nuove idee e spesso le influenze si protraggono oltre la morte di un compositore o i cambiamenti delle condizioni politiche, sociali ed economiche. Ci sono però delle buone ragioni per identificare il 1600 come uno spartiacque che, almeno in Italia, coincide con la nascita dell’opera. Un secolo e mezzo dopo, la morte di Händel, avvenuta nel 1759, segnò la scomparsa del secondo gigante del tardo barocco dopo J.S. Bach. Guardare semplicemente indietro di quattrocento anni può portare a una visione compressa e distorta, come se si guardasse dalla parte sbagliata di un telescopio. Allora si tenga presente che se l’età barocca stesse finendo oggi, nei primi anni del nuovo millennio, essa avrebbe avuto inizio attorno al 1840. E a questo punto Beethoven e Schubert sarebbero scomparsi da poco più di un decennio e Ciajkovskij sarebbe appena un neonato. L’arco di tempo che va dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri è stato un periodo di enormi cambiamenti. Allo stesso modo, sebbene alcune caratteristiche distintive la rendano unitaria, l’età barocca racchiude una vasta gamma di mutamenti dello stile compositivo e della prassi esecutiva, nonché del pubblico al quale la musica era rivolta. Lo scopo di questo capitolo è dunque quello di delineare le caratteristiche distintive non solo dei diversi luoghi, personaggi e generi ri guardanti la musica, ma anche di un lungo periodo – durato centosessant’anni – di influenze, cambiamenti e sviluppi. Un altro errore può derivare dall’assunto inconsapevole che, cambiando, la musica diventi anche più sofisticata, che migliori. Ma un istante di riflessione ci rivelerà che un brano del quinto libro di madrigali di Monteverdi è perfetto, per finalità e collocazione, nel contesto della corte di Mantova del 1605 quanto lo può essere un coro dell’oratorio Jephtha scritto da Händel per il teatro del Covent Garden nel 1752.

Una perla irregolare La lingua portoghese ha utilizzato la parola barroco per descrivere una perla imperfetta. L’equivalente francese del termine, baroque, continuò a essere usato per tutto il XVIII secolo per indicare qualcosa di stravagante e bizzarro. Jean-Jacques Rousseau scrisse nel suo Dictionnaire de musique (1768): «La musica barocca è quella in cui l’armonia è confusa e carica © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


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George Pratt

di modulazioni e dissonanze, la melodia è dura e poco naturale, l’intonazione difficile, il movimento forzato». Solo nel corso del Novecento il termine assumerà i significati di ampollosità, decorativismo, esuberanza e appariscenza. Tutto ciò descrive indubbiamente lo spirito di fondo dell’età, nonostante la ricca varietà di stili che si sono manifestati nel corso dei centosessant’anni che stiamo esplorando.

Terreno comune Al pari dello spirito vivace, ci sono altre caratteristiche comuni a tutta la musica barocca. La più ricorrente è la presenza del basso continuo, una linea melodica formata da tutte le note più gravi che si susseguono in un brano. Le implicazioni di questa pratica sono fondamentali per comprendere come i compositori barocchi concepivano la loro musica. Ascoltate un movimento di una messa scritta da compositori dell’alto Rinascimento come Palestrina o Lasso. Qui le linee indipendenti procedono orizzontalmente, in melodie intrecciate. Esse ovviamente creano un’armonia verticale, ma la loro funzione principale è melodica. In luogo di questo intreccio contrappuntistico i compositori barocchi costruirono l’armonia, con accordi chiaramente identificabili, che poi utilizzavano secondo concatenazioni particolari, in senso orizzontale, attraverso un continuum temporale. Gli es. I.1.1 e I.1.2 mostrano rispettivamente il flusso contrappuntistico orizzontale e il movimento armonico verticale. Nel momento in cui un compositore (raramente una “compositrice” nel periodo barocco, anche con alcune eccezioni) pensava in verticale, poteva usare la dissonanza in modi profondamente intensi ed espressivi. L’impatto della vicenda di Orfeo, quando apprende che la sua sposa è morta avvelenata dal morso di un serpente, poteva commuovere il pubblico fino alle lacrime. Cantus Ky

rie

e lei

son,

Ky

Altus Ky

rie

e lei

son,

Ky rie e

lei

Tenor 8

Ky

rie

e

Bassus Ky

- rie e

lei

son, Ky rie

8

rie

e

lei

son,

son,

e

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son,

Ky rie e

Ky

rie

lei

e

lei

son,

Es. I.1.1. Giovanni Pierluigi da Palestrina, Missa tertia “Jesu, nostra redemptio” (1582): Kyrie, batt. 1-13. Le prime entrate per ogni voce sono imitative a distanze diverse: il basso e il contralto entro una battuta, il soprano ritardato alla batt. 4½ e il tenore di nuovo alla prima pulsazione alla batt. 6. La seconda figura melodica imitativa o “punto” inizia poi immediatamente e meno rigorosamente: solo il ritmo di tre semiminime del “Ky-rie e-” è coerente. L’armonia, per quanto estremamente controllata, deriva dalle linee melodiche orizzontali.

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Età barocca | Collocazione storica

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La musica costruita su una linea di basso ben definita pone un’enfasi simile sulla melodia soprastante. Le parti esterne diventano poli opposti. L’es. I.1.2 illustra infatti come Claudio Monteverdi (1567-1643) abbia scritto solo la linea vocale di Orfeo e la parte del basso. Le armonie sono da riempire con strumenti polifonici o in grado di produrre accordi – il clavicembalo, l’organo, il liuto, il chitarrone (un liuto basso dal manico lungo) o l’arpa – e improvvisate dagli esecutori, guidati solo da alcuni numeri posti sotto il basso che, come una sorta di stenografia musicale, indicano quali sono le armonie necessarie. La disposizione degli accordi, il numero di note che li compongono e l’impiego di note di passaggio sono tutti dettagli di pertinenza dell’esecutore. 1-1b

Orfeo

Tu

se’mor

ta,

se’ mor ta mia vi

ta

ed io res pi

Un organo di legno e un chitarone Continuo

- ro,

tu

mai più

non tor na

se’ da me par ti

re

ed io

ri

ta,

ma

se’ da me par ti

no,

no,

ta per mai più,

no,

Es. I.1.2. Claudio Monteverdi, Orfeo (1607): atto II, “Tu se’ morta”, batt. 312-321 (con aggiunta editoriale della parte per la mano destra). Qui la concezione è verticale: la frase di apertura di Orfeo contiene un salto a una dissonanza eclatante completamente non preparata, un fa#2 sopra il sol2. Seguono diversi altri contrasti simili, quando il cantante è sopraffatto dal dolore per la morte della sua sposa.

La tradizione del basso continuo prosegue per tutto il periodo barocco. Un’aria di Bach o un movimento di una sonata strumentale di Händel richiedono ancora che un musicista alla tastiera, o su uno strumento a corde pizzicate, riempia l’armonia tra i due poli opposti costituiti dal basso e dalle parti della melodia. Gli strumentisti devono essere consapevoli che un accompagnatore, e talvolta il solista, suoneranno spesso delle integrazioni editoriali alla © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati

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George Pratt

melodia e al basso piuttosto che le note originali scritte dal compositore (v. il presente volume Guida all’ interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a tastiera, “Età barocca | Strumenti a tastiera”1, pp. 66-68). Altro terreno comune a tutto il Barocco è il potere retorico della musica. Esso in gran parte è destinato alla comunicazione di passioni forti, di emozioni suggestive. Il New Grove Dictionary of Music and Musicians, alla voce “Retorica e musica”, fornisce un elenco affascinante di sessantuno figure con lo specifico significato retorico. Esempi eloquenti sono il salto ascendente per un’esclamazione, la scala discendente per indicare una domanda, la scala cromatica discendente per denotare tristezza. L’es. I.1.2 è saturo di espedienti retorici: il silenzio di Orfeo di incredulità all’inizio; le dissonanze già individuate su specifiche parole o sillabe toccanti; i valori delle note si riducono appena Orfeo inizia a rendersi conto; la linea che sale fino al culmine in “rimano”; il calembour sull’ultima sillaba “no, no”. Una siffatta retorica musicale era un modo per suscitare sentimenti specifici – paura, amore, odio, rabbia, gioia. La musica era – ed è ancora – destinata a commuoverci intensamente. Questo ha chiare implicazioni per noi come interpreti e lo stesso valeva nel tardo barocco, che seguiva la convenzione secondo cui una qualsiasi aria o movimento strumentale si concentrava normalmente su uno solo di una gamma definita di sentimenti, o “affetti”, come venivano chiamati. Una volta stabilito uno stato d’animo, esso sarà generalmente mantenuto per tutto il movimento. In terzo luogo, la musica barocca è ricca di vitalità ritmica. L’Orfeo di Monteverdi comprende musica da ballo, che ci si aspettava fosse danzata dagli interpreti sul palco. Più di cento anni dopo, nel 1727, Bach concludeva la sua Passione secondo Matteo, non appena il corpo di Cristo è stato sepolto, con una lenta sarabanda, per trasmettere sia il lamento sia la promessa di redenzione. Mentre i ritmi fortemente connotati caratterizzano gran parte della musica barocca, la melodia polarizzata e la passione retorica appartengono soprattutto alla musica vocale drammatica, ed è qui che la nuova musica del Barocco comincia veramente: in Italia.

Origini italiane Nel 1600 l’Italia non era lo stato unitario che è oggi. Essa era formata da ducati separati, governati attraverso potenti famiglie nobiliari come i Gonzaga di Mantova, da regni appartenenti ad altri Paesi – la Spagna governò Napoli fino al 1713 – e da una fascia centrale di territori sotto il dominio pontificio, da Roma a Ferrara. Nonostante questa frammentazione politica, l’Italia era unita dalla lingua comune e dalla sua fedeltà al papa. I governanti facevano a gara tra di loro per dimostrare la loro importanza e magnificenza, con sontuosi palazzi, eventi sociali spettacolari, opere teatrali e musica.

L’invenzione del melodramma In un’epoca umanistica, in cui l’uomo poteva decidere il proprio destino piuttosto che lasciarlo interamente nelle mani di Dio, la filosofia e la cultura della Grecia classica furono idealizzate. La storia di Orfeo, il soggetto del primo grande melodramma di Monteverdi, è una leggenda greca che si apre nei campi della Tracia, popolati da ninfe e pastori, e la cui ambientazione bucolica rappresentava una fuga dal formalismo di maniera della vita di corte. L’opera incorpora danze, canti, musica 1

D’ora in avanti i volumi che compongono queste Guide all’ interpretazione verranno indicati semplicemente come Per strumenti ad arco e a corda, Per strumenti a tastiera, Per strumenti a fiato, Per canto.

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Età barocca | Collocazione storica

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strumentale e cori di gioia e di sgomento. Ma nessuno di questi elementi è adatto per veicolare la narrazione e un dialogo drammatico. Fu per questo motivo che Monteverdi optò per il recitativo – parole in musica – appena inventato da un gruppo di intellettuali, nobili, poeti, musicisti, filosofi di Firenze, che si fece chiamare la Camerata. Le implicazioni del recitativo sono molto significative. Come mostrato nell’es. I.1.2, la parte del basso si muove lentamente, ed è abbastanza stabile da far sì che l’orecchio possa cogliere le dissonanze soprastanti, fortemente accentuate.

Madrigali Un’analoga innovazione stilistica era apparsa, due anni prima dell’Orfeo, nel quinto libro di madrigali di Monteverdi. I primi tredici pezzi sono per le consuete cinque voci non accompagnate, ma gli ultimi sei richiedono sorprendentemente l’aggiunta del basso continuo; le sezioni a voce sola in essi contenute risulterebbero del tutto incomplete senza questo sostegno armonico strumentale. Monteverdi stesso descrisse il suo audace uso della dissonanza, razionalizzato attraverso l’approccio verticale all’armonia, come seconda pratica, cioè il secondo e moderno modo di scrivere, in contrasto con la prima pratica, ossia l’intreccio contrappuntistico orizzontale che vincola lo sviluppo delle armonie risultanti.

Organici strumentali Sebbene le corti e le principali chiese avessero alcuni strumentisti alle loro dipendenze, l’idea di un organico di riferimento per l’orchestra era sconosciuta. Per la rappresentazione privata dell’Orfeo in una sala del palazzo ducale di Mantova, c’erano a disposizione quaranta strumenti assortiti e Monteverdi ne fece un uso attento per ottenere effetti specifici. Un esempio è la sostituzione dell’organo a canne di legno con un chitarrone per accompagnare il grido di angoscia di Orfeo (es. I.1.2). Al contrario, L’incoronazione di Poppea, sempre di Monteverdi, fu scritta per essere rappresentata pubblicamente nel 1642-1643 a Venezia, in un teatro d’opera in cui, come oggi, l’amministrazione teatrale operava sotto il peso di gravi ristrettezze economiche. In essa Monteverdi non usa più di un piccolo manipolo di archi, alcuni strumenti per il basso continuo e un paio di fiati portati in scena per la magnificente incoronazione poco prima del finale. E non c’era nemmeno la necessità di impiegare un coro costoso. Ormai, l’attrazione principale per il pubblico era il cantante solista: nel recitativo, per sviluppare l’azione scenica, e nelle arie – brani cantati in cui il dramma si interrompe e prevale la musica.

Il dramma sacro Molte caratteristiche della nuova opera trovarono sviluppo anche nella musica sacra, in particolare nell’oratorio. Il compositore romano Giacomo Carissimi (1605-1674) scrisse Jephte negli anni Quaranta: non molto tempo dopo L’incoronazione di Poppea di Monteverdi. Come per l’Orfeo, si tratta di tragedia: Jephte si è inavvertitamente impegnato a sacrificare la propria figlia. Il suo lamento struggente per la morte imminente di lei si compone di un recitativo libero intervallato da passaggi misurati di canto. Pur non essendo rappresentato in forma teatrale, la combinazione di recitativi e arie di questo oratorio sembra molto simile alla partitura di un’opera. Solo l’aggiunta di una voce narrante per raccontare la storia (come l’evangelista di Bach descrive la passione di Cristo, come vedremo più avanti) e di un coro, lo distingue dall’opera, almeno sulla carta.

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Strumenti a tastiera di Davitt Moroney

Introduzione Nel corso del Seicento e del Settecento gli strumenti a tastiera erano simili a quelli utilizzati durante tutto il Rinascimento, ma presentavano degli sviluppi significativi. Essi possono essere suddivisi in tre categorie principali: gli organi (sono strumenti aerofoni; gli organi barocchi sono sempre azionati da un sistema di trasmissione puramente meccanico che collega direttamente la tastiera alle canne); i clavicembali (che comprendono le spinette e i virginali, e utilizzano tutti corde pizzicate per l’emissione del suono) e i clavicordi (che producono il suono attraverso corde percosse con delicatezza). Sebbene i primi pianoforti siano entrati in uso a partire dalla metà del XVIII secolo, il loro impatto sugli stili interpretativi si farà sentire solo alla fine del secolo, e non saranno discussi qui. Capire in che modo la musica barocca possa essere stata suonata su tutti questi strumenti antichi è stimolante e istruttivo per il numero sempre crescente di esecutori attratti dalle loro qualità singolarmente espressive. Può anche essere d’aiuto a tutti quei musicisti che suonano lo stesso repertorio su pianoforti moderni o organi, identificando i tipi di espressione musicale propri del compositore e che forse egli stesso si sarebbe aspettato. È utile pensare a quali fossero gli aspetti dell’interpretazione ritenuti significativi nel periodo barocco e provare a fare in modo che queste stesse caratteristiche contribuiscano alle esecuzioni moderne al pianoforte, senza snaturarlo, né cercando di imitare con esso gli strumenti più antichi. Le parti di questo capitolo apparentemente scritte per i clavicembalisti e gli organisti sono quindi rivolte anche ai pianisti. Anche se organo, clavicembalo e clavicordo sono strumenti molto diversi, nessuno durante il Rinascimento e il Barocco avrebbe normalmente pensato di separare gli esecutori in diverse categorie, a seconda dello strumento suonato. Molti dei più grandi clavicembalisti del periodo (J.S. Bach, François Couperin, Jean-Philippe Rameau, ad esempio) in certi momenti della loro vita si guadagnarono da vivere principalmente come organisti. Gran parte del repertorio è comune a tutti gli strumenti, anche se alcuni pezzi possono essere suonati in modo diverso a seconda dello strumento utilizzato (maggiore velocità, stile più elaborato per le ornamentazioni, articolazione più spinta). I clavicembalisti che suonano la musica per organo di Bach e Couperin, ad esempio, riconosceranno più facilmente i diversi stili utilizzati da questi compositori. Allo stesso modo, gli organisti che conoscono Il clavicembalo ben temperato di Bach o L’art de toucher le clavecin di Couperin, incontreranno poche difficoltà a sviluppare

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Davitt Moroney

sul sistema di trasmissione dell’organo il tocco delicato necessario per eseguire questi pezzi. E i pianisti che conoscono bene sia il clavicembalo che sia l’organo saranno in grado di sviluppare modalità diverse di suonare il proprio strumento.

Tecnica, diteggiatura e abbellimenti negli strumenti a tastiera Sembra che gli insegnanti di strumenti a tastiera dell’età barocca siano stati relativamente indifferenti alla diteggiatura precisa e che abbiano invece trascorso più tempo a insegnare la corretta posizione della mano. Una buona diteggiatura è in gran parte il risultato di una buona posizione della mano, non il contrario. La tecnica barocca per tastiera, anche nella sua forma più sviluppata (come ad esempio per le Variazioni Goldberg di Bach), richiede che le mani e le dita siano tenute sempre in una posizione compatta ma rilassata, come la zampa di un gatto, per usare l’immagine di un teorico del XVI secolo. Esse dovrebbero essere spostate sulla tastiera senza essere afflitte da troppi allargamenti e contrazioni. Il movimento delle mani dovrebbe essere rigorosamente da sinistra verso destra o viceversa, su una linea parallela alla tastiera. Ci dovrebbe essere, se possibile, un piccolo e preciso movimento del polso o (ma solo se necessario) del gomito. Non ci dovrebbe mai essere un movimento perpendicolare a questo asse sinistra-destra (cioè un movimento parallelo ai singoli tasti), poiché tale movimento disturba l’intero braccio dalla spalla in giù. Fu il compositore tedesco Friedrich Wilhelm Marpurg a riassumere gli atteggiamenti essenziali per la posizione della mano condivisi dai migliori esecutori di tutta Europa per quasi due secoli. Egli scriveva: La posizione delle dita non è una cosa così arbitraria come molti esecutori pensano. È vero che ci sono passaggi che possono essere diteggiati in più di un modo, ma di tutti questi modi ce n’è sempre uno più adatto [...] Bisogna dunque scegliere tra le buone posizioni [...] E poi, tra queste diverse posizioni possibili, si deve scegliere quella che produce il minimo movimento. (Principes du clavecin, 1756, pubblicato per la prima volta col titolo Die Kunst das Clavier zu spielen, 1750.) Il movimento del corpo o delle braccia durante l’esecuzione non veniva considerato, come talvolta accade oggi, un segno di musicalità o di modalità espressiva nel suonare. Al contrario, il principio di limitare il movimento il più possibile era considerato importante in tutti i paesi. (Couperin, in aggiunta, suggerisce di mettere un piccolo specchio sul leggio degli esecutori che fanno smorfie mentre suonano.) Il movimento del corpo era universalmente condannato come dannoso per una buona tecnica alla tastiera. Bach può servire come modello assolutamente affidabile in questo caso: [Egli] suonava con una diteggiatura così facile e rilassata da essere quasi impercettibile. Muoveva solo le articolazioni più estreme delle dita. La mano manteneva la sua forma curva, anche nei passaggi più difficili. Le dita non si staccavano quasi mai dai tasti [...] Le altre parti del corpo [...] non si muovevano affatto. (J.N. Forkel, Üeber Johann Sebastian Bachs Leben, Kunst und Kunstwerke1, 1802, basato in parte sulla corrispondenza con i figli di Bach.) Edizione italiana: Johann Nikolaus Forkel, Vita, arte e opere di Johann Sebastian Bach, Edizioni Curci, Milano, 1982, traduzione di L. Seppilli Sternbach. [N.d.T.]

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Età barocca | Strumenti a tastiera

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Il breve ma eccezionale trattatello di Rameau De la mechanique des doigts sur le clavecin (1724) è il più prezioso di tutti i testi barocchi sulla tecnica per strumenti a tastiera. In esso Rameau afferma: «Esporrò le regole e credo che difficilmente qualcuno possa permettersi di non seguirle con scrupolo, passo dopo passo, in quanto sono basate sulla ragione». Le idee più importanti sono le seguenti: • i gomiti dovrebbero sempre cadere con disinvoltura ai lati del corpo, in posizione rilassata e naturale; • le dita 1 e 5 di ogni mano dovrebbero sempre rimanere “sulla tastiera”, a contatto con tasti “come se vi fossero incollate”, e le dita 2, 3 e 4 dovrebbero essere incurvate in modo tale da restare sempre davanti ai tasti neri, non tra di essi. (Lasciando cadere le mani in modo rilassato ai lati del corpo si vede il grado di curvatura necessario, sebbene chi ha le dita lunghe potrebbe poi vedersi costretto a dover curvare le dita 2 e 3 appena un po’ di più quando riporta le mani sulla tastiera); • il movimento delle dita inizia «nel punto in cui il dito è attaccato alla mano e mai altrove; il movimento della mano è al polso. Nel caso fosse necessario spostare il braccio, questo viene fatto dal gomito». Rameau esclude qualunque movimento dalle spalle quando si suona normalmente (è richiesto solo per l’incrocio delle mani). Quando un dito suona una nota, «le altre dita non dovrebbero muoversi»; • «Un movimento maggiore dovrebbe avvenire sempre e solo quando uno più piccolo non è sufficiente; e così quando un dito può raggiungere un tasto senza spostare la mano, semplicemente estendendolo, si deve fare attenzione a non muoversi più di quanto sia necessario»; • soprattutto, le mani «devono sempre sostenere le dita, mai il contrario [...] Non aggiungere mai peso al tocco delle dita con uno sforzo della mano; al contrario, si permetta alla mano che sostiene le dita di rendere il loro tocco più leggero. Ciò è determinante». Quest’ultimo punto è forse il principio più importante. Se il polso si solleva quando suonate una nota o un accordo, vuol dire che le dita stanno (erroneamente) sostenendo la mano. L’opinione diffusa secondo cui il pollice non venne utilizzato nella musica barocca per tastiera fino a Bach è una grande semplificazione. Il pollice è sempre stato considerato necessario all’inizio delle scale per la mano destra, o alla fine di quelle per la mano sinistra, ed era normale utilizzarlo sulle note adiacenti alle alterazioni, nonché negli accordi di tre note o accordi spezzati. Il suo uso fu certamente un po’ più limitato che nel XIX secolo, e si evitava il più possibile nei diesis e nei bemolle. Solo le dita 2, 3 e 4 erano generalmente poste sulle alterazioni, tranne nei casi di assoluta necessità, come le ottave sui diesis o bemolle (che richiedono le dita l e 5 insieme). Il dito 5 era adoperato anche più raramente dell’1, per lo più in accordi o schemi accordali di tre note e nel contesto di grandi intervalli, come le ottave, che si verificano più frequentemente nella mano sinistra. Alle dita più lunghe era permesso di passare sopra quelle più corte: il 3 sul 4 o sul 2; il 4 sul 5; e il 2 sopra l’1. Esse possono farlo tanto facilmente quanto il passaggio di quelle più corte sotto il dito 3. I clavicembalisti e gli organisti troveranno tali diteggiature non solo storicamente corrette ma utili, mentre i pianisti potranno anche rimanere sorpresi della loro adeguatezza alla musica barocca.

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Davitt Moroney

Gli abbellimenti barocchi della mano destra sono di solito suonati con le dita 2 e 3 o 3 e 4. Quelli nella mano sinistra usano per lo più le dita 1 e 2 o 2 e 3. Gli abbellimenti semplici (trilli, mordenti, gruppetti, arpeggi) iniziano quasi sempre esattamente sul tempo forte. Tuttavia, sia Jean-Henry d’Anglebert (1689, cfr. es. I.3.1) sia Couperin (1713, cfr. es. I.2.18, p. 53) codificarono diversi abbellimenti complessi che iniziano prima del tempo forte e alcuni appena percettibili che iniziano dopo. Poiché l’ornamentazione di Bach per tastiera è derivata da quella dei migliori musicisti francesi, da d’Anglebert e Couperin in particolare, è impossibile conoscere l’intera gamma e la varietà degli abbellimenti che Bach si aspettava venissero usati senza lo studio di questi due grandi compositori. Nell’ornamentazione di stile francese (utilizzata ad esempio anche da Purcell e Händel) i trilli di solito iniziano dalla nota superiore. D’altra parte è possibile che Domenico Scarlatti, seguendo la prassi italiana, non si aspettasse l’inizio di tutti i trilli dalla nota superiore; spesso infatti un trillo dalla nota reale si adatta meglio alle sue sonate.

Es. I.3.1. Jean-Henry d’Anglebert, Pièces de clavecin (1689): tavola degli abbellimenti.

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Gli accordi arpeggiati iniziano dal basso in battere (piuttosto che partire prima del tempo forte e risalire fino all’ultima nota in battere). L’arpeggio barocco, come mostrato nella notazione dettagliata dei “preludi non misurati” di Louis Couperin (es. I.3.2) o nelle opere di Froberger, era molto vario e per nulla limitato a un semplice arpeggio degli accordi dal basso all’acuto.

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SECONDA PARTE - ETÀ CLASSICA

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Notazione e interpretazione di Cliff Eisen

Cosa significano le note? Da diverse generazioni a questa parte, ai musicisti è stato tradizionalmente insegnato ad assumere che i simboli utilizzati per eseguire un brano musicale abbiano un significato universale, accettato dai compositori nel corso della storia. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità: tutte le evoluzioni avvenute, fra il 1759 e il 1828, nello stile musicale e nell’estetica, nella prospettiva teorica, nella costruzione e nelle possibilità degli strumenti musicali, sono volte a confutare l’idea che ci fosse una prassi esecutiva comune e di conseguenza un unico modo di interpretare la notazione. I teorici del Settecento, ad esempio, consideravano la musica come basata essenzialmente sull’armonia. Nel 1806, tuttavia, circa a metà della carriera di Beethoven e all’inizio di quella di Schubert, Jérôme-Joseph de Momigny (nel suo Cours complet d’ harmonie et de composition) sosteneva che si dovesse recuperare un approccio “orizzontale”, o melodico, alla musica, dopo che essa era stata subordinata a una concezione “verticale”, o armonica. Si possono ritrovare anche delle differenze nelle descrizioni di specifiche prassi esecutive. Nel 1789, ad esempio, Daniel Gottlob Türk (nel suo metodo per pianoforte intitolato Clavierschule) raccomandava che “quando le note devono essere riprodotte nel modo usuale, vale a dire, né staccate né legate, il dito dovrebbe essere sollevato dal tasto un po’ prima della durata corrispondente al valore della nota”; nel 1801, tuttavia, Muzio Clementi scriveva che “la migliore regola generale è di tenere abbassati i tasti dello strumento per tutta la durata di ogni nota”. E, infine, si dava talvolta il caso che particolari strumenti, o modi particolari di suonarli, non fossero disponibili sullo scenario paneuropeo – o anche all’interno di regioni che noi oggi consideriamo culturalmente affini. Quando Mozart volle un suono particolare per la tromba e il corno per il suo Idomeneo, scrisse a suo padre chiedendogli un particolare tipo di sordina, che non era disponibile a Monaco ma veniva utilizzata dalle sentinelle di Salisburgo. Anche fra queste due città, geograficamente e culturalmente vicine, sopravvivevano dunque delle tradizioni musicali diverse. Quanta differenza ci sarà stata fra Vienna, Berlino, Parigi e Londra? Per questo motivo, le fonti scritte che descrivono la prassi esecutiva del tardo Settecento e del primo Ottocento devono essere trattate con cautela. A quale repertorio sono coeve? E a quali opere si applicano realmente? In alcuni casi le risposte non sono problematiche: il trattato di C.Ph.E. Bach Versuch über die wahre Art das Clavier zu spielen (“Saggio sulla vera arte di suonare uno strumento a tastiera”, 1753), quello di Quantz Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen (“Saggio di un metodo per suonare il flauto traversiere”, 1752), quello di Leopold Mozart Versuch einer gründlichen Violinschule (“Saggio sui principi fondamentali di una © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


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Cliff Eisen

scuola di violino”, 1756), possono essere associati a specifici repertori. Inoltre, tutti e tre i libri sono stati molto apprezzati in tutta Europa per gran parte del XVIII secolo: evidentemente avevano qualcosa da dire agli esecutori di qualsiasi nazionalità. Al tempo stesso, tuttavia, non è affatto chiaro se tutto ciò che questi autori hanno scritto fosse applicabile in ogni circostanza. Ciò nonostante, vale veramente la pena di studiare i loro trattati, così come i trattati degli allievi e amici più stretti di interpreti famosi. Fra questi ultimi troviamo Musikalischer Unterricht di E.W. Wolf (“Lezioni musicali”, 1788), Schule der praktischen Tonsetzkunst op. 600 di Carl Czerny (“Scuola pratica di composizione”, 1849-1850 ca.), Ausführlich theoretisch-practische Anweisung zum Piano-forte Spiel di Johann Nepomuk Hummel (“Corso completo di regole teoriche e pratiche sull’arte di suonare il pianoforte”, 1828). Le fonti musicali ci raccontano un’altra storia e le informazioni che possiamo ricavarne dipendono in misura non banale da come viene inteso il loro carattere distintivo predominante. Una scuola di pensiero – nata nel XIX secolo e ancora oggi dura a morire – sostiene che solo la partitura del compositore, e non l’interpretazione, rappresenta la “sostanza” di un’opera: è come se Mozart con straordinaria facilità, e Beethoven con lotta titanica, avessero colto dall’etere cosmico le loro opere, musicalmente perfette e complete e delle quali non si debba modificare alcun dettaglio durante l’esecuzione. È questo l’atteggiamento che incoraggia gli esecutori a vantarsi di “lasciare che la musica parli da sola”. Eppure questa affermazione cozza con due fatti molto evidenti: in primo luogo che la musica non può parlare da sola; e, in secondo luogo, che Mozart e Beethoven, e in misura minore Haydn e Schubert, erano in prima istanza degli interpreti. Sicuramente erano anche degli interpreti-compositori, e la straordinaria complessità tecnica e concettuale della loro musica si configura già di per sé come una sorta di interpretazione. Un approccio più fecondo è allora quello di considerare le fonti stesse come delle interpretazioni: questo è chiaramente il caso degli autografi di Mozart, le cui stratificazioni cronologiche conservano spesso letture altrettanto plausibili. Viste come possibilità esecutive, le fonti musicali spalancano una finestra su un’enorme varietà di interpretazioni. Forse l’impressione prevalente che si ha a un attento studio delle opere di Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, o di qualsiasi altro grande compositore della fine del XVIII e dell’inizio del XIX secolo, è che nessun dettaglio sembra essere completamente indipendente dal suo contesto, sia esso una singola frase o un intero movimento. Ne consegue quindi che la classificazione delle convenzioni notazionali e dell’interpretazione – compresi il ritmo e il metro, l’articolazione e il fraseggio, le dinamiche e gli abbellimenti – risulta, nella migliore delle ipotesi, arbitraria. Ci sono degli indizi, tuttavia, sui modi in cui questi singoli elementi interagiscono fra loro. E c’è almeno un esempio che cerca di mettere assieme molte delle questioni discusse qui.

Tempo e metro Il tempo in musica è un argomento importante e problematico. Jean-Jacques Rousseau, nel suo Dictionnaire de musique (1768), elenca tre fattori che giocano un ruolo nel determinare il tempo: Il grado di lentezza o velocità che si dà a una battuta dipende da diversi fattori: 1) dal valore delle note che compongono la battuta. In effetti, si vede che una battuta che contiene una breve deve essere presa con più calma e durare più a lungo di quella che contiene solo una semiminima; © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


Età classica | Notazione e interpretazione

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2) dal tempo, nel senso di indicazione agogica, contraddistinto dalla parola francese o italiana che si trova di solito all’inizio del pezzo [...] Ciascuna di queste parole indica un esplicito adattamento dell’andamento di un determinato metro; 3) infine, dal carattere del pezzo stesso, che, se ben eseguito, farà necessariamente sentire il suo vero tempo. Il primo di questi punti si riferisce alla prassi esecutiva nota come “tactus fisso”: a parità di condizioni, le indicazioni di tempo con i denominatori più piccoli si muovono più velocemente di quelle con denominatori più grandi (ad esempio: 3/8 è più veloce di 3/4), e i metri “corti” sono più veloci di quelli “lunghi” (ad esempio: 3/8 è un metro corto, 6/8 un metro lungo). Se ciò fosse ancora applicato alla musica del tardo Settecento, tuttavia, è incerto, sebbene E.W. Wolf nel 1788 lasciasse intendere che non esistevano relazioni fisse nelle indicazioni di tempo. E tale concezione è apparentemente contraddetta da passaggi in cui i compositori riscrivevano delle introduzioni lente, nello stesso tempo, tipicamente alle riprese (un buon esempio è dato dal primo movimento della Posthorn-Serenade, Il corno di postiglione, KV 320 di Mozart). Il secondo punto di Rousseau, ovviamente, descrive termini come presto, allegro, andante, adagio e simili. Ma anche questi sono oggetto di un significativo dibattito, come anche l’onnipresente e comune indicazione di tempo allegro: mentre molti scrittori nel periodo dal 1750 al 1800 sembrano fissarlo a una velocità di  = 120, altri descrivono velocità che vanno da  = 75 a  = 94. In tutti i casi, tuttavia, è importante notare che, nel complesso, i tempi utilizzati nel XVIII secolo tendevano a essere in generale veloci (anche se non necessariamente così veloci come alcuni direttori “storicamente informati” di oggi vorrebbero farci credere). L’andante, in particolare, era un tempo “al passo” (o “walking”), che conferisce vitalità e movimento ai cosiddetti movimenti “lenti” – si pensi, ad esempio, all’andante con moto della Quinta Sinfonia di Beethoven. L’andantino, d’altra parte, è problematico; a volte descritto come più lento di un andante, a volte più veloce. Almeno per Mozart l’andantino era probabilmente un tempo più lento: ci sono esempi nella sua musica in cui le successioni di velocità possono essere intese solamente secondo una progressione lineare, con l’andantino presente nella parte lenta di tale progressione. Tuttavia altrove, e per altri compositori, la situazione avrebbe potuto essere differente: nel 1813 Beethoven scriveva all’editore scozzese George Thomson chiedendogli se avesse inteso l’andantino come più veloce o più lento dell’andante. Il minuetto, infine, era anch’esso un movimento veloce, sebbene sia importante riconoscere due tipi ben distinti di questa danza: uno, scritto con semiminime e crome, era veloce; l’altro, descritto da Mozart nel 1770 in una lettera dall’Italia come costituito da “una gran quantità di note”, era più moderato. Questi due tipi si trovano distinti fino ai primi anni del XIX secolo. I metronomi non divennero di uso comune almeno fino agli inizi del XIX secolo, periodo a partire dal quale i compositori, gli interpreti e i teorici dell’epoca cominciarono a descrivere con sempre maggiore frequenza non solo le loro idee in merito al tempo in generale, ma anche le loro esigenze su opere specifiche, vecchie e nuove. Beethoven, per esempio, lasciò indicazioni metronomiche per tutte e nove le sue sinfonie, i primi undici quartetti d’archi e diverse opere minori. Tra le sue opere per pianoforte, però, fornì indicazioni solo per la Sonata op. 106 “Hammerklavier”; tali indicazioni sono controverse, perché sembrano eccessivamente veloci. La Tabella II.2.1 fornisce un campione rappresentativo delle opere di Beethoven. Da questa panoramica emerge chiaramente non solo che i tempi del Settecento e del primo Ottocento erano più veloci, ma che non vi era alcuna standardizzazione. Di conseguenza non si può trarre da questa panoramica alcuna conclusione, né di carattere cronologico né geografico.

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Strumenti a tastiera di David Ward

Il pianoforte e la musica pianistica L’età classica fu, in ambito musicale, un’epoca di enormi cambiamenti di stile e di contenuto, in particolare nel campo della musica per tastiera. Il cambiamento più evidente si verificò negli stessi strumenti musicali. All’inizio del periodo il pianoforte, nonostante fosse stato inventato da almeno sessant’anni, cominciava appena a essere accettato come una valida alternativa al clavicembalo e al clavicordo, ma già nel 1830 era l’unico cordofono a tastiera ancora in uso. E in questi settant’anni lo stesso pianoforte subì enormi cambiamenti. Da un qualcosa che non sembrava molto diverso da un clavicembalo a uno strumento potente e con una grande estensione, in grado di far fronte alle esigenze delle ultime sonate di Beethoven e di Schubert, ma ancora molto diverso dal pianoforte che conosciamo oggi. Anche la musica scritta per tastiera subì parecchi cambiamenti. Questo periodo vide l’ascesa della sonata e della “forma sonata”. Nella prima metà del XVIII secolo Bach compose suites, partite, toccate, variazioni, preludi e fughe. Il suo secondogenito, Carl Philipp Emanuel, compose sonate e molti pezzi brevi, in particolare rondò e fantasie; anche il suo figlio più giovane, Johann Christian, compose sonate, che sappiamo eseguì a Londra su un pianoforte ‘a tavolo’ (ne parleremo più avanti). Haydn, che era un ammiratore di Carl Philipp, e da cui fu fortemente influenzato, scrisse una splendida serie di sessanta sonate per tastiera, le ultime delle quali furono senz’altro concepite per il “pianoforte”. Mozart, anch’egli ammiratore di Carl Philipp, ma più vicino a Johann Christian e da lui maggiormente influenzato, era un esecutore straordinario al pianoforte; ne arricchì in misura notevole il repertorio, principalmente con i suoi ventisette concerti per pianoforte e orchestra, ma anche con diciotto sonate, quindici insiemi di variazioni e molti pezzi brevi. Uno sviluppo significativo fu rappresentato dall’inserimento del nuovo strumento nella musica da camera. Il clavicembalo era stato usato per secoli come un indispensabile strumento d’accompagnamento, ma ciò avveniva per lo più nella forma del basso continuo, in cui l’esecutore doveva ‘realizzare’ la parte per tastiera a partire da un basso figurato. Con la nascita del più espressivo pianoforte, la tastiera divenne un partner alla pari in sonate, trii e via dicendo. I primi “fortepiani” (come di solito venivano chiamati i pianoforti dell’epoca) erano mirabilmente adatti alla musica d’insieme, permettendo un equilibrio timbrico con gli strumenti ad arco o a fiato dell’epoca migliore di quello realizzabile con gli strumenti moderni.

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David Ward

La fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo segnarono l’ascesa del pianista-compositore virtuoso, che non solo implicò un miglioramento nelle abilità tecniche degli esecutori, ma ebbe anche un notevole effetto sulle dimensioni e la costruzione degli strumenti stessi. Un esempio di questa figura fu Muzio Clementi, che fu un costruttore di pianoforti ma anche un raffinato pianista e un importante compositore. Beethoven, nei suoi primi anni, prima che la sordità gli impedisse di esibirsi in pubblico, era famoso per il talento e l’espressività del suo modo di suonare. Nel corso della sua carriera di compositore esplorò tutte le potenzialità dello strumento, sempre spingendolo fino ai suoi limiti, nei concerti, nella musica da camera e nelle opere per piano solo. Suonare la sua Sonate Pathétique op. 13 (1797-1798) su uno strumento dell’epoca rende consapevoli di come il pianoforte dovette evolversi per assecondare la nuova musica. Le trentadue Sonate di Beethoven racchiudono una straordinaria gamma di emozioni e spiritualità, e sono infinitamente creative e innovative nel loro linguaggio musicale come nelle loro esigenze tecniche. Egli scrisse anche molte serie di temi con variazioni e pezzi brevi. Come antidoto all’ampia e spesso complessa sonata, molti compositori cominciarono a scrivere pezzi più brevi, spesso con titoli di fantasia o immaginifici, come “improvviso”, “momento musicale”, “notturno”. Il compositore e pianista irlandese John Field fu il creatore del notturno e Schubert scrisse due serie di Impromptus e una serie di Moments musicaux. Schubert ci ha lasciato una straordinaria eredità di musica per pianoforte, non solo con i pezzi brevi e le sue sonate più lunghe (alcune molto lunghe), ma anche con gli accompagnamenti ai suoi Lieder. Si potrebbe quasi sostenere che l’arte dell’accompagnamento pianistico inizi con queste parti pianistiche belle e fantasiose, che rappresentano ancora una sfida per i migliori pianisti. Mozart fu il primo grande compositore a scrivere un numero considerevole di sonate per duo pianistico a quattro mani; successivamente anche Schubert compose alcune magnifiche composizioni per tale formazione. Il pianoforte a quattro mani divenne sempre più popolare fra i pianisti dilettanti, cosa che creò un mercato non solo per le composizioni originali, ma anche per le trascrizioni di brani da camera e per orchestra, consentendo a un più vasto pubblico di conoscere direttamente tali opere. Quindi è chiaro che questi settant’anni videro l’ascesa del pianoforte alla posizione dominante che detiene ancora oggi. Man mano che lo strumento cresceva in popolarità e diventava più facilmente disponibile in diverse forme e dimensioni, un numero sempre maggiore di persone cominciava a suonarlo, tant’è che con l’inizio dell’Ottocento si assistette anche a una straordinaria proliferazione di pubblicazioni didattiche e raccolte di musica stimolanti per il pianista dilettante. L’industria musicale era nel pieno della sua attività.

Gli strumenti

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Prima di esaminare più da vicino il pianoforte propriamente detto, consideriamo brevemente i due principali strumenti a tastiera che lo hanno preceduto, e con cui esso ha convissuto per circa un centinaio di anni. Il clavicembalo è uno strumento in cui le corde vibrano perché vengono pizzicate; ha un suono chiaro e brillante con un timbro molto pulito e aperto. È stato ampiamente utilizzato per circa trecento anni come strumento solista o d’accompagnamento, mettendo in particolare rilievo i più espressivi canto e violino. Il suo grande limite, tuttavia, è che il suo meccanismo permette alle corde di essere messe in vibrazione solo in maniera uniforme e quindi non è possibile variare il suono o l’intensità dello stesso attraverso l’azione delle dita sulla tastiera. © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


Età classica | Strumenti a tastiera

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Per contro, il più piccolo clavicordo è uno strumento molto sensibile, con un’azione molto semplice. Una barretta di metallo o “tangente” viene premuta contro le corde, agendo sia come attivatore della vibrazione sia come punto di arresto. Il punto in cui la tangente tocca la corda funge infatti da capotasto della parte vibrante. Finché la tangente resta in contatto con la corda, e fino a quando il tasto non viene rilasciato, è possibile effettuare un vibrato, o Bebung, muovendo delicatamente il tasto su e giù per variare l’altezza della nota. Poiché la tangente colpisce la corda, è possibile variare la velocità dell’impatto e di conseguenza il volume del suono prodotto. Il meccanismo di produzione del suono nel clavicordo è quindi più vicino a quello del pianoforte che a quello del clavicembalo. Il suo limite è che produce un volume di suono molto basso. Quindi, da un lato c’era il clavicembalo potente e brillante, e, dall’altro, il clavicordo dolce ed espressivo; e in un certo senso si può dire che il pianoforte nasce per combinare le caratteristiche di entrambi questi strumenti. Viene generalmente riconosciuto che il pianoforte sia stato inventato in Italia da Bartolomeo Cristofori (1655-1732) intorno al 1700, ma in realtà prima di questo strumento erano stati realizzati molti esperimenti con meccanica a percussione. Gli strumenti di Cristofori tuttavia furono i primi a suscitare una seria considerazione. Egli sviluppò un’elaborata “meccanica a scappamento” (fig. II.3.1) la quale, quando il tasto (C) veniva abbassato, azionava un piccolo martelletto (O), che percuoteva le corde (A) e rimbalzava immediatamente all’indietro lasciando le corde libere di vibrare. Quando il tasto veniva rilasciato, uno smorzatore (R) entrava in contatto con le corde, arrestandone così la vibrazione.

Fig. II.3.1. Scipione Maffei, schema della meccanica del pianoforte di Cristofori, dal Giornale de’ letterati d’Italia, vol. V (1711).

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TERZA PARTE - ETÀ ROMANTICA

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Strumenti a tastiera di Roy Howat

con una sezione sull’organo, di David Goode

I mutamenti del pianoforte Tutti saprete senza dubbio fin troppo bene quanto diversamente possa suonare ed essere sensibile un pianoforte rispetto a un altro. Se vi esercitate a casa o a scuola con un pianoforte verticale per una settimana o più, e poi improvvisamente dovete suonare un pianoforte a coda per un concerto (o anche per un esame), il suono ben diverso può essere davvero uno shock. Così anche la differenza di tocco e peso dei tasti. Oppure, se siete stati abbastanza fortunati da avere un pianoforte a coda su cui fare pratica, suonare improvvisamente su un pianoforte verticale può essere allo stesso modo uno shock: il suono che ne viene fuori non sembra corrispondere alla forza che state mettendo sui tasti. Possiamo reagire a ciò in modi diversi. Ad alcuni esecutori piace legarsi a un tipo di pianoforte, o anche a un singolo strumento (se sono abbastanza famosi). Se ci sentiamo più creativi (o non siamo ricchi e famosi), possiamo regolare il nostro modo di suonare, per esempio usando meno peso su un pianoforte meno potente. Col tempo e la pratica potremo imparare a regolarci rapidamente, sia ascoltando sia percependo attraverso le braccia e le dita il modo per ottenere il miglior suono possibile da qualsiasi pianoforte (a meno che non si tratti di uno strumento davvero scadente, il che può verificarsi ovunque, anche nelle sale da concerto). La maggior parte dei pianoforti che oggi troviamo nelle case e nelle sale da concerto sono stati costruiti nel XX secolo. Ma avete mai suonato un pianoforte costruito intorno al 1830? o al 1860? Se avete avuto la possibilità di provare diversi pianoforti d’epoca, come si confronta un pianoforte realizzato a Parigi nel 1830 con uno costruito a Vienna o in Germania nello stesso periodo o a Londra? Chiunque abbia suonato dei pianoforti di quel periodo saprà che non solo rispondono e suonano in maniera molto diversa dai pianoforti moderni, ma anche che sono molto più diversi tra di loro di quanto non lo siano i pianoforti moderni. Perché avviene questo? Ci sono numerose ragioni. Una è che, a differenza di oggi, la maggior parte dei costruttori di pianoforti dell’Ottocento voleva che i propri pianoforti avessero un suono che li distinguesse dagli altri. L’idea stessa del pianoforte era nel suo complesso ancora abbastanza nuova all’epoca e non c’era ancora un’opinione precisa su quale potesse essere il suono standard dello strumento. Né esistevano le registrazioni. C’era anche un repertorio poco radicato, a parte Bach (forse) e il classicismo viennese, per cui i compositori stavano esplorando

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e inventando nuove sonorità e nuove tecniche, mentre i produttori di pianoforti tenevano con difficoltà il passo nello sviluppo di strumenti con una più ampia gamma di note, maggiori dinamiche e migliore timbrica. In questa situazione i costruttori speravano che il suono particolare del loro pianoforte attirasse l’attenzione di qualche famoso virtuoso e dei compositori, garantendo così una buona pubblicità. Questo accadeva a Parigi, negli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento, dove Chopin faceva sapere in giro che il suo pianoforte preferito era il Pleyel (gli piaceva anche il Broadwood inglese), mentre Liszt promuoveva decisamente l’Erard. Vedremo tra poco in che modo tali preferenze si sono riflesse nella loro musica. C’era un altro motivo urgente per cui pianoforti stavano cambiando. Nel 1830, quando Chopin, Liszt, Mendelssohn e Schumann stavano cominciando a farsi un nome, i concerti virtuosistici per pianoforte (o “recital”, un nome inventato da Liszt) stavano diventando di moda in città come Vienna e Parigi; la lamentela costante era che il pianoforte non avesse un suono abbastanza forte per le esigenze acustiche di una grande sala. Questo era particolarmente vero in Austria e in Germania, dove i pianoforti avevano un volume sonoro ancora più debole di quelli francesi o inglesi. (Ecco perché Beethoven, alcuni anni prima, era così felice che gli fosse stato inviato da Londra un pianoforte John Broadwood). Nel corso dei successivi trenta o quarant’anni vari costruttori, da Erard a Parigi a Chickering e Steinway negli USA, ridisegnarono il pianoforte per renderlo uno strumento più robusto e dal volume più forte, in grado di riempire una sala imitando un’orchestra e, nei concerti, di prevalere su un tutti orchestrale (un effetto esplorato nei concerti di Brahms e anche di Schumann). I tasti del pianoforte, per inciso, divennero un po’ più larghi.

Sviluppi ottocenteschi Per addentrarsi in questi sviluppi in maniera esaustiva ci vorrebbe un libro intero. Ma, in breve, come prima cosa accadde che per produrre più suono i martelli furono resi più pesanti e le corde più spesse. I martelli iniziarono anche a essere rivestiti di feltro compatto piuttosto che da strati di pelle, producendo così un suono più profondo e meno “metallico”. Non appena si rese disponibile un volume sonoro maggiore, i compositori cominciarono a richiedere che i suoni gravi si spostassero sempre più in basso e quelli acuti sempre più in alto (cfr. tabella III.3.1). Tutto ciò aumentò enormemente la tensione sul telaio del pianoforte – che su un pianoforte moderno può arrivare fino a venti tonnellate –, cosicché i vecchi telai in legno vennero gradualmente sostituiti da quelli in ferro. Quando le parti interne del pianoforte aumentarono, occupando più spazio, venne introdotta la disposizione incrociata delle corde: le corde del registro basso vengono disposte diagonalmente, incrociandole con quelle dei registri medio e alto (fig. III.3.1). Senza la disposizione incrociata un moderno gran coda da concerto, a parità di lunghezza delle corde, dovrebbe essere circa quindici centimetri più lungo e la sua coda circa trenta centimetri più larga; la maggior parte dei pianoforti verticali dovrebbe avere un’altezza di almeno trenta centimetri in più. E, particolare forse anche più importante, la disposizione incrociata delle corde consente il posizionamento dei ponticelli per le corde dei bassi e degli acuti più al centro della tavola armonica, aumentando notevolmente la risonanza.

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Fig. III.3.1. Vista in pianta di un pianoforte a coda Steinway del 1888, che mostra le corde incrociate.

Tabella III.3.1. L’aumento dell’estensione del pianoforte

Data approssimativa

Nota più bassa

Nota più alta

Opere che sfruttano (o anticipano) la nuova gamma

1775

fa1

fa6

Sonate e concerti di Mozart (e gran parte di quelli di Haydn) e del primo Beethoven. Sul pianoforte il solo fa6 di Mozart che si conosca appare nel finale della Sonata in re maggiore KV 448 per due pianoforti; un analogo fa6 isolato compare nel primo movimento della Sonata in mi maggiore op. 14 n. 1 di Beethoven.

1795

fa1

do7

Haydn, Sonata in do maggiore Hob. XVI:50; Beethoven, Sonata in do maggiore “Waldstein” op. 53.

1816

do1

fa7

Beethoven, Sonata in la maggiore op. 101, Finale (basso mi1); Chopin, Etude op. 10 n. 1.

1840

do1

sol7 o la7

Chopin, Scherzo in mi maggiore op. 54.

1870-1880

la0

la7

Brahms, Concerto per pianoforte n. 2 (prima nota della parte pianistica).

1890

la0

do8

Ravel, Jeux d’eau; Debussy, Reflets dans l’eau.

1900 Bösendorfer

fa0

do8

do0

do8

Bartók (varie opere); Ravel, Jeux d’eau, “Une barque sur l’océan” da Miroirs, “Scarbo” da Gaspard de la nuit e Finale del Concerto in sol maggiore (implicitamente – v. sotto – e probabilmente non con un Bösendorfer in mente).

(Bösendorfer Imperial)

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Tabella III.3.1. Queste erano le estensioni generalmente disponibili, anche se i vari pianoforti le supera-

rono in tempi diversi. Ad esempio, alcuni Broadwood dal 1790 coprivano un’estensione do1-do7; tra il 1822 e il 1834 la Erard portò alcuni pianoforti fino al do8; e durante la Grande Esposizione universale di Londra del 1851 alcuni produttori francesi e inglesi per un breve periodo coprirono una gamma di sette ottave intere la0- la7 o anche sol0- sol7 (tuttora più in basso rispetto all’attuale e forse Ravel ne era a conoscenza). Alcune di queste estensioni durarono solo per un breve periodo a causa della scarsità di suono agli estremi o perché la tensione delle corde aggiunte sottoponeva i telai a tensioni eccessive. Il ritorno degli acuti al do8 iniziò negli anni ’70 dell’Ottocento (con i telai in ferro), ma non fu adottata diffusamente prima della metà degli anni ’90. A metà degli anni ’40 dell’Ottocento il giovane César Franck effettuò alcune dimostrazioni sensazionali su un pianoforte di Jean Henri Pape con una gamma completa di otto ottave dal fa0 a fa8. Questa estensione fu superata non prima degli anni ’90 dell’Ottocento, dal costruttore australiano Stuart & Sons che arrivò a do0 - fa8; sembra che un burlone abbia affermato che le nuove note sarebbero state di particolare richiamo per le balene in mare aperto e i locali pipistrelli della frutta.

In media la maggior parte di questi sviluppi furono ampiamente accettati entro l’inizio del XX secolo. In molti casi però vennero introdotti dai vari produttori in tempi molto diversi; molte invenzioni erano sotto brevetto, per cui adottarle poteva comportare un ingente investimento. Quindi, nel periodo che va dalla metà alla fine dell’Ottocento i diversi costruttori tendevano a vantare caratteristiche differenti. Negli anni ’30 e ’40 del secolo il pianoforte preferito da Chopin era il Pleyel, in parte perché i suoi martelli ricoperti in feltro erano più morbidi di quelli dell’Erard e potevano produrre una maggiore varietà e profondità nelle timbriche cantabili (se il pianista era attento a cercarle, come diceva Chopin). Aveva anche dei bassi piacevolmente ricchi ma chiari. Chopin non si preoccupava affatto se il suo suono aveva o meno il volume adatto a una grande sala da concerto (non si preoccupò mai molto di dare concerti) e se, magari, il pubblico doveva sforzarsi per riuscire a sentirlo. Liszt invece preferiva la brillantezza dei suoni nitidi dell’Erard, con il suo attacco più incisivo, ma anche per un’altra ed enormemente importante invenzione: il doppio scappamento.

Doppio scappamento Brevettato nel 1821 dai fratelli francesi Erard, il doppio scappamento è ormai parte integrante di tutte le meccaniche dei pianoforti moderni. Per capire come funziona provate ad abbassare un tasto, poi osservate quanto lo dovete rilasciare prima di poterlo abbassare di nuovo per suonare ancora la stessa nota. Senza il doppio scappamento il tasto dovrebbe in pratica ritornare nella posizione di riposo ripercorrendo tutta la sua corsa, rendendo così la ripetizione della nota più lenta, più difficile e meno affidabile. Una delle prime celebrazioni del doppio scappamento è la prima versione del 1834 della “Campanella” di Liszt (il pezzo si basava su una semplice melodia di campana tratta dall’ultimo movimento del Concerto n. 2 per violino di Paganini), che si compiace di veloci e leggere note ribattute (es. III.3.1a). Praticamente insuonabile su un pianoforte senza doppio scappamento – e anche adatta alla sonorità leggera e “tintinnante” dell’Erard – “La campanella” non fu solo una grande pubblicità per l’Erard stesso, ma rappresentò anche uno stimolo per molti compositori successivi. Quando Liszt in seguito riscrisse per due volte il pezzo, mantenne le note ribattute, trasferendole però in nuovi contesti (cfr. esempi III.3.1b e c). Il doppio scappamento presenta anche altri vantaggi. Provate a suonare un trillo molto piano, in un primo tempo sulla superficie dei tasti e poi di nuovo con le dita praticamente

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appoggiate sul fondo del tasto, lasciando che i tasti risalgano quel tanto che basta per riabbassarli di nuovo producendo un suono. Trilli in piano come questo – lenti o veloci – si verificano così spesso in Liszt o Debussy (per esempio, all’inizio dell’Isle joyeuse di Debussy) da suggerirci qualcosa su come i compositori stessi suonassero. Molti di quelli che videro Debussy suonare il pianoforte rimasero sorpresi dal fatto che le sue mani restassero sempre poggiate sui tasti, non sollevandosi mai in aria (cosa lontana dalle idee diffuse dell’“impressionismo musicale”). Ex. 3-1 a

(a)

Stretto più allegro

quasi staccato

sciolto

Ex. 3-1 b

(b)

3

3

Tempo giusto 8

dolce leggieramente

Ex. 3-1c

(c)

8

3

3

sempre

3

3

Ex. III.3.1. Franz Liszt, “La Campanella”: (a) versione pub. 1834 come Grande Fantaisie di bravura sur La Clochette de Paganini, batt. 297-299; (b) versione pub. 1840 a Etudes ​​ d’exécution transcendante d’après Paganini, batt. 54-55; (c) versione pub. 1851 a Grandes études de Paganini, batt. 50-52.

I pianoforti verticali, nei quali i martelli si muovono in senso orizzontale e quindi non ritornano giù per la sola forza di gravità, richiedono una forma modificata di scappamento. Anche al giorno d’oggi questo è meno sofisticato rispetto ai pianoforti a coda (potete facilmente verificare questo fatto sperimentalmente) e fa parte della meccanica standard di tipo “Schwander” per i pianoforti verticali. Se riuscite a trovare un modellino di meccanica per un singolo tasto, sia di un coda sia di un verticale – molti negozi di musica o di pianoforti ne hanno uno – potrete constatare di persona come il doppio scappamento entra in funzione non appena lasciate che il tasto cominci a tornare su. (O può mostrarvelo un accordatore di pianoforti direttamente sul vostro pianoforte, ma attenzione a non estrarre la meccanica da soli, perché potreste rompere qualcosa di costoso!) La parte primaria o singola di uno

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scappamento, per inciso, è ciò che permette il rimbalzo all’indietro del martello allontanandolo dalla corda, dopo averla percossa, anche quando il tasto rimane abbassato. Ecco perché quando suoniamo non abbiamo la necessità di rilasciare immediatamente ogni tasto per farlo tornare nella posizione di partenza, come si farebbe con un piatto o un tamburo: la fa per noi la meccanica nascosta. Tutte queste prospettive possono dare nuovo lustro a una musica che ci appare scontata. Per esempio, mentre “La campanella” di Liszt può ancora oggi lasciarci senza fiato per l’abilità dell’esecutore, negli anni ’30 dell’Ottocento, quando il doppio scappamento era ancora poco conosciuto, tale musica sarebbe stata sbalorditiva quanto tirar fuori i conigli da un cappello vuoto o far sì che un orologio andasse al contrario. Trascuriamo di gran lunga quanto umorismo è presente in musica, perché talvolta le battute di spirito sono d’attualità solo nel loro tempo.

Estremi della gamma Oppure immaginate un concerto per pianoforte in cui il solista inizia con una nota che va oltre i limiti estremi della maggior parte dei pianoforti. Lo fece Brahms nel 1881 nel Concerto n. 2 per pianoforte con un gesto che può a dir poco aver fatto sobbalzare gli intenditori presenti fra il pubblico. Altri compositori furono dei precursori in questo senso. Nel 1901 Ravel sorprese il mondo musicale con Jeux d’eau, la cui battuta culminante è realizzata con un glissando di note nere che scende da un altissimo la7 (presente solo nei nuovi pianoforti dell’epoca), mentre la mano sinistra suona come se andasse a finire su un inesistente sol 0, al di sotto della nota più bassa del pianoforte (es. III.3.2). Per non farci urtare le dita sul legno, Ravel misericordiosamente si accontenta del la0 al basso del pianoforte, ma il suo manoscritto originale mostra che egli scrisse un sol 0 prima di cambiarlo. Ex.3-2

8

8

glissan

do

10

10

long

8

Es. III.3.2. Maurice Ravel, Jeux d’eau, 1901, batt. 48-50.

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Note sugli ascolti Playlist completa disponibile anche all’indirizzo edizionicurci.it/guide_abrsm_tastiere playlist

Johann Sebastian Bach: Sinfonia in fa maggiore BWV 1046a (versione originale del Concerto brandeburghese n. l), primo movimento

l’es. I.1.2 e le osservazioni di George Pratt alle pp. 1416 sulle dissonanze espressive di questo passo, l’uso del basso continuo d’accompagnamento e la declamazione retorica nella parte vocale.

New Bach Collegium Musicum Leipzig, direttore Max Pommer

Jean-Philippe Rameau: Castor et Pollux, atto II, scena 2, “Tristes apprêts, pâles flambeaux” (Télaïra)

1

I pionieri della rinascita barocca, come Christopher Hogwood, non erano soltanto interessati a suonare la musica su strumenti d’epoca (o loro repliche moderne), ma anche a ricercare versioni originali o alternative di pezzi ben noti – come nel caso di questa incisione del 1984 delle versioni originali dei concerti che Bach riunì e rivide nel 1721 per dedicarli al margravio di Brandeburgo1. Questo movimento però differisce assai poco dalla sua versione definitiva nel primo brandeburghese. L’orchestra è composta da tre oboi, un fagotto, due corni da caccia (corni naturali), archi solisti e clavicembalo. Si noti che i corni suonano figure di terzine, probabilmente veri e propri richiami di caccia, che non si conformano agli altri ritmi. Claudio Monteverdi: Orfeo, atto II, “Tu se’ morta”

2

John Mark Ainsley (tenore), New London Consort, direttore Philip Pickett

Orfeo è addolorato per la notizia della morte della sua sposa, ma si decide ad andare nell’Ade per cercare di riportarla indietro con il suo canto; il coro sottolinea la natura effimera della felicità umana. Si confrontino

1

3

Emmanuelle de Negri (soprano), Ensemble Pygmalion, direttore Raphaël

Pichon Télaïra è inconsolabile per la morte del suo amato Castore, re di Sparta. L’estratto mostra le qualità distintive della musica vocale del barocco francese, con la sua sensibilità alle tensioni della lingua francese e la delicata ornamentazione. La parte del fagotto obbligato è tipica dell’orecchio immaginifico di Rameau per la timbrica strumentale. Henry Purcell: The Fairy Queen, z. 629, atto V, “Il lamento” (dal masque del quinto atto) Kym Amps (soprano), Robin Canter (oboe), The Scholars Baroque Ensemble, direttore David van Asch

4

Un altro lamento per un amore perduto, questa volta da parte di un compositore inglese. La parte di obbligato è spesso suonata al violino, ma oggi si ritiene che sia stata composta per l’oboe. La prima sezione è su un basso ostinato; la seconda (dal minuto 02.02) è composta liberamente.

Christian Ludwig von Brandenburg-Schwedt (1677-1734). Margravio era un titolo nobiliare del Sacro Romano Impero e corrisponde al titolo di marchese. [N.d.T.]

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Indice

Avvertenze generali

p. 3

Prefazione di Anthony Burton

p. 5

Nota all’edizione italiana

p. 7

Prima Parte - Età Barocca Note sui collaboratori Introduzione di Christopher Hogwood Collocazione storica di George Pratt Notazione e interpretazione di Peter Holman Strumenti a tastiera di Davitt Moroney Fonti ed edizioni di Clifford Bartlett Suggerimenti per ulteriori letture

p. 10 p. 11 p. 13 p. 29 p. 59 p. 75 p. 91

Seconda Parte - Età Classica Note sui collaboratori Introduzione di Jane Glover Collocazione storica di David Wyn Jones Notazione e interpretazione di Cliff Eisen Strumenti a tastiera di David Ward Fonti ed edizioni di Barry Cooper Suggerimenti per ulteriori letture

p. 94 p. 95 p. 97 p. 109 p. 137 p. 147 p. 158

Terza Parte - Età Romantica Note sui collaboratori Introduzione di Sir Roger Norrington Collocazione storica di Hugh Macdonald Notazione e interpretazione di Clive Brown Strumenti a tastiera di Roy Howat Fonti ed edizioni di Robert Pascall Suggerimenti per ulteriori letture

p. 162 p. 163 p. 165 p. 175 p. 193 p. 211 p. 223

Note sugli ascolti

p. 225

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