Questo libro è pubblicato con il supporto del Cidim - Comitato Nazionale Italiano Musica
Direzione editoriale: Laura Moro Editing: Pino Pignatta, Michela Podera, Giovanni Podera Grafica e impaginazione: Studio grafico Silvia Ballarin Progetto grafico di copertina: Gian-Paolo Zeccara; realizzazione: Samuele Pellizzari Foto di copertina: © Archivio personale di Diana Castelnuovo-Tedesco Proprietà per tutti i Paesi: Edizioni Curci S.r.l. – Galleria del Corso, 4 – 20122 Milano © 2018 by Edizioni Curci S.r.l. – Milano Tutti i diritti sono riservati EC11981 / ISBN: 9788863952469 www.edizionicurci.it Prima stampa in Italia nel 2018 da INGRAF Industria Grafica S.r.l., via Monte San Genesio, 7 - Milano
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Prefazione «Questa casa è un museo!», esclamava frequentemente mia nonna Clara. Ricordo che mi sentivo scettica, guardando intorno le pile di manoscritti ingialliti, le cataste di libri consunti e le parate di fotografie in bianco e nero sul pianoforte: a Los Angeles, negli anni Sessanta, tutto quel che sembrava avere importanza appariva nuovo, brillante e risuonava ad alto volume, mentre i miei nonni vivevano in aperto contrasto con il loro ambiente. Mario Castelnuovo-Tedesco non amava la California quanto la sua prediletta Toscana, ma le si affezionò nella stessa misura. Dovette accettare uno scambio: mentre a Firenze usciva per la sua quotidiana passeggiata sostando per un “espresso” a “Le Giubbe Rosse”, a Beverly Hills, aggirandosi al sole nelle vie bordate di palme, faceva tappa alla “International House of Pancakes”, dove, in assenza di camerieri in eleganti divise scarlatte, sostituiva l’impossibile “espresso” con un “Regular Joe” (caffè americano). Ma la Toscana era sempre nei suoi pensieri, nelle sue memorie e nei suoi sogni. Egli scelse di diventare cittadino americano perché non voleva, né avrebbe potuto, far tornare indietro l’orologio. Mi domandano spesso se Mario e Clara si sentivano spaesati a causa della mancanza di cultura a Los Angeles. Sappiamo che egli trovava Hollywood molto noiosa. Probabilmente, guardava con nostalgia al tempo trascorso da giovane in capitali culturali come Parigi, Venezia e Vienna. A Los Angeles creò la sua propria cultura: leggendo poesia e romanzi, suonando e ascoltando musica e intrattenendo un’intensa, voluminosa corrispondenza con amici sparsi in tutto il mondo. A parte qualche sorrisetto per Schroeder, che suonava il pianoforte in televisione mentre noi bambini guardavamo i fumetti di Peanuts, egli aveva scomunicato la cultura popolare. Quando penso a nonno Mario, ricordo un uomo che era felicissimo solo quando poteva lavorare: sedendo al suo semplice tavolo 3 © 2018 by Edizioni Curci S.r.l. - Milano. Tutti i diritti sono riservati.
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degli abbozzi, sperimentando le sue idee al pianoforte, o leggendo nel suo giardino, trascorreva la sua tranquilla, piacevole, niente affatto sensazionale, esistenza. Benché adorasse i suoi quattro nipotini, non era il tipo di nonno al quale piacesse giocare con i bambini o leggere loro le fiabe. Era però lietissimo quando gli facevamo visita. Il nostro diletto consisteva nel mangiare i biscotti al burro e le caramelle gommose che la nonna ci offriva, giocando intorno all’enorme avocado del giardino e rincorrendo i gatti dei vicini. Tutto ciò gli piaceva, a patto che non facessimo troppo chiasso. Oggi, guardando le raccolte della corrispondenza dei miei nonni, comprendo l’eroismo di Clara nel cercare di tener viva la memoria e la musica del marito dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, quando, al di fuori della comunità dei chitarristi, non molta gente era interessata a lui e alla sua opera. Per fortuna, Mario non prestava molta attenzione a quel che gli altri pensavano (o non pensavano) di lui. Aveva scoperto la sua vocazione musicale molto presto, e la sua musa non lo abbandonò mai. Sostenuta dalle brillanti capacità tecniche acquisite con uno studio rigoroso nei conservatori italiani, tale vocazione formò la base di una granitica fede in sé stesso e nella sua arte. La sua bussola interiore lo mantenne costantemente vivo nella creazione e lo guidò nella scelta dei soggetti che gli dicevano qualcosa personalmente, senza mai cambiare quello che sentiva per risultare più “moderno”, e certamente senza mai tentare di adattarsi vantaggiosamente alle situazioni. Cinquant’anni dopo, la generazione di oggi non è più intrappolata nella politica musicale della metà del secolo XX e manifesta la volontà di impegnarsi in ciò che è semplicemente bello: la musica di Mario è quindi pronta per la riscoperta e la valorizzazione. Quanto più la gente ascolta le sue opere, tanto più si incuriosisce della sua vita. La nostra famiglia ha la fortuna di poter contare sul maestro Angelo Gilardino e sulla sua volontà di 4 © 2018 by Edizioni Curci S.r.l. - Milano. Tutti i diritti sono riservati.
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raccontare la storia del nostro avo. Da giovane, Angelo coltivò una profonda amicizia con mio nonno e, come editor di molte sue composizioni, ne conosce a fondo lo stile. In aggiunta a tale sua cognizione, Gilardino ha dalla sua l’intelligenza, l’onestà e la magnifica facoltà di raccontare, che scorre fluidamente in questo libro. Guardando a ritroso, mi rendo conto del fatto che Mario fece bene a lavorare molto e a non preoccuparsi di compiacere gli altri. In qualche modo, doveva sapere che tutto sarebbe andato come doveva andare. Oggi, sono io la donna la cui casa è diventata un museo. E questo mi sta molto bene. Diana Castelnuovo-Tedesco
New York, 16 novembre 2017
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Prologo Perché scrivere la biografia di un compositore che, grazie alla cultura letteraria e alla dimestichezza con la penna, ci ha lasciato una ricca autobiografia?1 Credo forse che Mario Castelnuovo-Tedesco abbia peccato in qualche modo – per eccesso di autocelebrazione o per difetto omissivo – nel raccontare di sé e delle molte persone con le quali ebbe che fare? Che le sue pagine emanino profumi narcisistici o che, in esse, spiri qualche venticello fazioso? Certamente no. Credo invece che la storia della sua vita, la sua vicenda sì d’artista, ma anche di cittadino colpito dallo strale dell’esilio, di lavoratore spaesato nel dramma dell’emigrazione, di marito e di padre responsabile verso la famiglia, possano e debbano riapparire in una luce diversa da quella che ci viene offerta dalla sua stessa parola. Nel racconto, gli eventi capitali e quelli minimi, i personaggi di primo piano e le comparse scorrono sullo stesso piano narrativo, e le divagazioni intorno alla propria musica e a quella altrui sovrabbondano, rendendo spesso arduo seguitare il filo che traccia l’essenza della storia. Più che scrivere per dei lettori, egli sembra immergersi in un lungo monologo confidenziale per iniziati (certe pagine sono chiaramente rivolte ai musicisti e agli storici della musica), senza distinguere il corso principale dalla digressione, i fatti rilevanti da quelli riferiti per puro intrattenimento, a non dire di alcuni sconfinamenti in ambito filosofico – come il lungo capitolo intitolato Che cos’ è la musica? – che ripropongono interrogativi eterni fornendo risposte un po’ semplicistiche. A volte, la sua prosa, spezzettata dalla continua ricorrenza di frasi parentetiche, di puntini di sospensione e di espressioni tra virgolette, può risultare, nell’allusività, un poco ermetica.
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Mario Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, Cadmo, Firenze, 2005.
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Ritengo che oggi si possa osservare la storia di Mario Castelnuovo-Tedesco da una distanza temporale che permette di comprendere fatti e persone in una prospettiva più ordinata: di certi eventi, si può tentare un’interpretazione distaccata che, alla fine, giova a rivelare con maggior chiarezza il carattere, la personalità e lo stile del musicista. A ciò si aggiunge una mia convinzione: a rischio di rasentare il luogo comune, credo che le vicende della sua vita, riviste qui e adesso, possano risultare drammaticamente attuali. Oggi non meno di allora, infatti, il razzismo, l’intolleranza, la mortificazione del merito e l’esaltazione dell’inettitudine e della pochezza, occupano la scena politica, sociale, culturale, lavorativa e artistica italiana, costringendo ingegni validissimi a operare in condizioni umilianti, di pura sopravvivenza, o a espatriare alla ricerca di giusti riconoscimenti. Pertanto, ho deciso di scrivere questa storia daccapo, a modo mio, per chiunque e per tutti.
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Panorama Il titolo dato da Castelnuovo-Tedesco alla propria autobiografia, Una vita di musica, postula una riflessione. In realtà, l’esistenza del compositore fu crudelmente spezzata in due, nel 1938, dalle leggi razziali emanate dal governo fascista. Dalla nascita (1895) fino ad allora, egli era stato un musicista di chiara fama in Italia e in Europa, esponente di una agiata famiglia di finanzieri ebrei e dell’alta borghesia fiorentina. Per mettersi in salvo, dovette emigrare negli Stati Uniti, dove morì nel 1968. In America, privo di risorse economiche e pressoché sconosciuto, dovette ricominciare daccapo, potendo contare unicamente sul proprio talento e sulle proprie capacità. In un certo senso, si potrebbe dire che visse due vite: la prima, in una situazione privilegiata e in completa serenità; la seconda, tra difficoltà di ogni genere (professionali, sociali, culturali), affrontate con umiltà, pazienza e una dose immensa di buona volontà, ma non senza ansia e, a volte, con angoscia. A tenere insieme, in una sorta di continuità spirituale (non certo di circostanze), le due vite, fu principalmente, se non in modo esclusivo, la musica. In sostanza, nella prima parte della sua esistenza, egli visse nel presente, interpretando la realtà di ogni giorno da protagonista favorito dalla sorte; nella seconda parte, accettando una ben diversa realtà, si chiuse in sé stesso, coltivando le memorie della giovinezza e della prima maturità, e sforzandosi di non cedere alle pressioni dell’ambiente in cui era costretto: abitava a Beverly Hills, e campava dei proventi delle musiche che scriveva per l’industria cinematografica e delle lezioni che impartiva ai musicisti che poi avrebbero firmato le colonne sonore dei film (o che aspiravano a farlo), ma non aderiva in alcun modo agli stili di vita di quel mondo, e ogni sera, terminato il lavoro che gli dava da vivere, si metteva a tavolino per comporre la sua musica – quella vera – e per scrivere lettere agli amici lontani. In altre parole, viveva di ricordi e di azioni che lo riconducevano al passato. 9 © 2018 by Edizioni Curci S.r.l. - Milano. Tutti i diritti sono riservati.
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Del resto, anche l’Italia, e soprattutto la sua Firenze erano profondamente mutate, e anche se, a guerra terminata, fosse rientrato in patria (come gli fu offerto di fare dal nuovo governo), non gli sarebbe rimasto altro che affidarsi alla ricerca del temps perdu. La musica fu la sua salvezza, il rifugio nel quale cercò e trovò scampo per ripararsi dalla realtà che gli si era presentata all’arrivo nel porto di New York. Per questo egli non avvertì mai il bisogno di modificare il proprio modo di comporre: conservare la misura stilistica e la sua poetica gli servì anzi come garante per la continuità della vita spirituale, e dunque non si curò mai delle critiche avverse, che gli rimproveravano l’immobilità e l’assenza di un qualsiasi segno evolutivo nella sua opera. Egli visse due vite esteriori e una interiore resa unica dalla musica: fu giusto, quindi, il titolo che diede alla propria autobiografia. Non scrisse, infatti, “Una vita per la musica”, o con la musica, ma di musica: la musica era stata consustanziale alla sua presenza nel mondo, al di là della buona e della cattiva sorte.
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Parte I FIRENZE, LA BELLA ITALIA, LA VECCHIA EUROPA
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Il nome della famiglia Il compositore non svolse mai ricerche genealogiche, ma seppe da un autorevole rabbino di Firenze, il professor Umberto Cassuto, che il cognome Castelnuovo non aveva nulla a che fare con il nome di molti borghi italiani, e derivava invece da Castilla Nueva. La famiglia, le cui origini risalivano fino al secolo XII, era giunta in Italia al tempo dell’inquisizione che, nel 1492, aveva costretto gli ebrei non disposti a convertirsi al cattolicesimo a lasciare la Spagna.2 Il tristissimo Mario Castelnuovo-Tedesco a destino dell’esilio si era dunque già pochi mesi in braccio alla mamma Noemi, nel 1896 abbattuto sui suoi antenati (qualcuno disse che nel proprio nome è racchiusa la chiave del fato). Il secondo cognome, Tedesco, fu aggiunto a quello del nonno paterno di Mario, Angiolo, da Samuel Tedesco, uno zio senza prole che l’aveva adottato. Tedesco sarebbe poi risultato, nell’uso dei colleghi di Mario alla Metro Goldwyn Mayer, molto più abbordabile dell’impervio Castelnuovo, ma non ancora abbastanza pratico: l’avrebbero ristretto in un più snello Teddy, per approdare infine all’inevitabile Ted. Del Castelnuovo, non sarebbe rimasta traccia: avrebbe campeggiato, silente, soltanto nel frontespizio delle composizioni “serie” dell’autore, delle quali, a Hollywood, non ci si occupava per niente. Si mormorava talvolta, negli stabilimenti di produzione cinematografica, che lui scrivesse “musica da concerto”, cioè che producesse articoli non vendibili, e quindi privi del benché minimo interesse. 2
Mario Castelnuovo-Tedesco, op. cit., pag. 49.
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Il padre di Mario, Amedeo, era un commissario di borsa, e anche la madre, Noemi Senigaglia, veniva da una famiglia di operatori finanziari, sebbene non più prospera come quella dei Castelnuovo-Tedesco. Appartenevano, questi, all’élite della borghesia di Firenze, integrati da secoli nella vita cittadina, benvoluti e rispettati. Mario era il loro terzo figlio, ultimogenito. Nacque il 3 aprile 1895. La descrizione che il compositore offre della famiglia mostra un quadro di intemerata armonia, privo della benché minima ruga nei rapporti tra i genitori e tra questi e i figli. Il padre era un uomo contegnoso, riservato, di specchiata rettitudine, abile negli affari al punto da potersi permettere, a un certo punto, di ritirarsi dall’esercizio ufficiale della professione e di continuare a svolgerla tranquillamente a casa propria. L’appartamento nel quale risiedeva con moglie e figli, in via dei Martelli n. 4, era talmente ampio da permettergli di adibirne una parte a ufficio e un’altra ad abitazione. La madre, di tredici anni più giovane (era andata sposa appena diciassettenne), era l’incarnazione della gioia, della grazia e della gentilezza. Mario e i suoi fratelli maggiori furono allevati da una coppia di genitori che ricalcavano i profili ideali della severa virilità paterna e della tenera femminilità materna: rappresentavano cioè, agli occhi dei figli, la perfezione. L’unico inconveniente lamentato dal compositore riguardo agli anni della sua infanzia fu il freddo che, d’inverno, raggelava le stanze dell’appartamento, talmente ampie da risultare refrattarie al riscaldamento. Soffrì quindi di geloni e cercò di ripararsi portando i guanti anche in casa. Tra i privilegi di cui godette fu inclusa anche l’istruzione elementare privata, che gli fu impartita a domicilio da due maestre. Le scuole pubbliche non erano adatte a un bambino della sua classe sociale, soprattutto perché – gli dicevano – foriere di malattie infettive: scusa gentilmente addotta dalle famiglie benestanti che in realtà volevano evitare i contatti tra i loro 14 © 2018 by Edizioni Curci S.r.l. - Milano. Tutti i diritti sono riservati.
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rampolli e i figli del proletariato. Quando Mario compì cinque anni, e sapeva già scrivere e leggere, una delle due precettrici, originaria di Hannover, lo iniziò alla lingua tedesca: ebbe così avvio la sua formazione di poliglotta, che si sarebbe presto estesa anche al francese, all’inglese, e persino, un poco, all’ebraico. Credo che non avesse mai studiato lo spagnolo, anche se, successivamente, non ebbe difficoltà a servirsene nella sua opera di compositore di canciones e di romances. Mi sembra strano il fatto che i facoltosi Castelnuovo-Tedesco non vivessero in un alloggio di loro proprietà, e affittassero l’appartamento di via dei Martelli n. 4 dal conte Testa: l’unica spiegazione plausibile è che il proprietario non fosse disposto a venderlo. Possedevano invece una villa di campagna a Giramonte (luogo carissimo al compositore) e andavano in villeggiatura a Marina di Pisa, un mese all’anno; nonché, in montagna, a Vallombrosa, un altro mese. Si sarebbero presto trasferiti in un appartamento ugualmente prestigioso, al numero 7 della stessa via Martelli, dove funzionava un sistema di riscaldamento cenMario Castelnuovo-Tedesco nel 1908, a tralizzato che mise fine ai tredici anni, in villeggiatura geloni di Mario; egli ebbe 15 © 2018 by Edizioni Curci S.r.l. - Milano. Tutti i diritti sono riservati.
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la rivelazione delle sconosciute meraviglie dell’ascensore e, nella nuova abitazione, fu possibile insediare lo Steinway mezza coda che papà Amedeo e mamma Noemi gli regalarono per il tredicesimo compleanno (età nella quale i ragazzi vengono considerati, nella comunità ebraica, maturi per assumersi piena responsabilità delle loro azioni). Un bel crescere, nel quale mise radici lo stile di vita del compositore, assai poco incline sia alla bohème sia alla mondanità, signorilmente distaccato dalle manovre nel mondo della musica e, come lo ricordò Massimo Mila, “uomo civilissimo, cortese, incapace di bassezze e di sopraffazione”.3
La scoperta della musica La concordia domestica dovette superare una lieve crisi di aggiustamento allorché si manifestò l’interesse del bimbo per la musica. In casa, questa c’era già nei modi tipici del dilettantismo borghese di fine Ottocento: mamma Noemi suonava Chopin su un pianoforte verticale, e per giunta cantava. La spalleggiava suo padre, il nonno Bruto, accanito melomane che sapeva leggere e scrivere la musica e istigava la figlia a impartire lezioni di pianoforte al piccolo Mario di nascosto da papà Amedeo. Questi considerava il pianoforte un trastullo da signorine e, per i suoi figli, preferiva gli sport. Con Mario, non ebbe fortuna: il bambino non eccelleva nella ginnastica e ancor meno nella scherma, discipline nelle quali fu invano esortato a istruirsi. Imparò a mala pena ad andare in bicicletta. Gli riuscivano benissimo, invece, gli esercizi pianistici, che però non potevano continuare a lungo nella clandestinità. La rivelazione a papà Amedeo fu preparata accortamente da mamma Noemi che, invece di affrontare il marito su un argomento da prendere alla larga, gli fece presentare, in occasione 3
Massimo Mila, Ricordo di Castelnuovo-Tedesco, La Stampa, Torino, 19 marzo 1968.
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Mario Castelnuovo-Tedesco tredicenne, nel 1908. Aveva iniziato gli studi regolari di pianoforte nel 1905, con il maestro Edgardo Del Valle de Paz
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Indice Prefazione Prologo Panorama
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Parte I - Firenze, la bella Italia, la vecchia Europa Il nome della famiglia La scoperta della musica I maestri Il grande maestro I primi amici I primi successi Clara L’opera I grandi interpreti Arturo Toscanini Walter Gieseking Jascha Heifetz Gregor Piatigorsky Andrés Segovia Cantanti di liriche da camera Amicizie senza tramonto Relazioni amichevoli con i grandi Il critico musicale Rapporti con il regime
13 16 18 21 24 27 32 37 42 42 46 51 55 56 59 63 72 80 83
Parte II - I giorni dell’esilio I primi segnali Il bando non scritto La prima opera dell’esule in patria Il bando, legge dello stato I preparativi per la partenza
93 94 97 99 100
Parte III - L’America New York e Larchmont Una lettera da Montevideo Esordio a New York Addio a Larchmont Hollywood
111 113 118 124 126
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Coprifuoco Sir John Barbirolli e gli indiani L’insegnamento 1944, South Clark Drive e Candide Una critica al fascismo, senza ritorsioni Cittadino americano L’Italia riappare Musiche per il servizio religioso, per il coro e per il divertimento I Sonetti di Shakespeare Addio al padre (da lontano) e viaggio in Messico Il primo viaggio in Italia Anestesia e sogni biblici Il compositore ebreo e il Vangelo La chitarra Musica da camera Secondo e felice viaggio in Italia (con marionette) L’amicizia in musica: le Greeting Cards Ancora la Bibbia Idillio fiorentino Il Cantico dei Cantici La chitarra in pompa magna I grandi privilegi di una piccola ascoltatrice Il mercante di Venezia Tutto è bene Caro Mario, caro Andrés (uno scricchiolìo) Distinto professore in visita Saul, l’ultima opera, e la prima de Il Mercante Un asinello come amico Mario, alter ego di Francisco Ida Presti e Alexandre Lagoya L’importanza di essere Franco (o di chiamarsi Ernesto) Gli ultimi due oratori e il quartetto di Berenson Moses Ibn Ezra, compagno nell’esilio L’ultima composizione: gli appunti per chitarra Sabato 16 marzo 1968, l’ultimo mattino
133 134 137 143 147 148 150 154 158 162 164 169 171 173 187 192 195 199 201 203 205 208 209 218 220 227 229 232 234 238 241 243 244 248 249
Appendice Crediti fotografici
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