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Š 2013 Edizioni Ensemble, Roma I edizione ottobre 2013 ISBN 978-88-97639-89-3 www.edizioniensemble.com direzione@edizioniensemble.com Edizioni Ensemble
Consuelo Consoli
Amori impossibili
Edizioni Ensemble
Solo gli amori irrealizzati sono eterni. Roberto Gervaso, La volpe e l’uva
Mario rubacuori
Baciami; dammi cento baci, e mille: cento per ogni bacio che si estingue, e mille da succhiare le tonsille, da avere in bocca un’anima e due lingue. Patrizia Valduga, Cento quartine e altre storie d’amore
− Ancora un bacio, amore! − Anche cento, anche mille! − rispondeva lui appassionato. − Uffa! La solita solfa, ogni giorno così! − borbottavo io indispettita, celandomi dietro la tendina della finestra. Corre obbligo che io chiarisca chi sono i protagonisti di questa vicenda. Chi ha chiesto il bacio si chiamava Rosalba, mentre l’uomo che vi ha aderito con tanto trasporto era Mario. Io, invece, sono Santina, la sua dirimpettaia. Il motivo di tanto livore è presto chiarito: amavo disperatamente Mario da sempre, mentre lui non ha mai voluto saperne di me. Lo conoscevo da quando eravamo in fasce e frignavamo, debitamente separati, nelle rispettive culle. Mia madre mi ha raccontato che una volta, per sbaglio, ci misero insieme. Sembra che io abbia smesso istantaneamente di piangere ciucciando un suo piede con molto impegno e serietà,
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mentre Mario intensificò i suoi piagnistei elevandoli a un tale livello di sonoro che i cani del circondario presero tutti a ululare contemporaneamente. Si sa che gli animali percepiscono gli ultrasuoni. Comunque, la soluzione non parve quella adatta a risolvere l’inquinamento acustico di cui si lamentavano gli abitanti di via Orfanelli da quando noi eravamo nati. Via Orfanelli è una stradina situata nel centro storico di Catania, a pochi metri dalla pescheria. Palazzi fatiscenti, anneriti dallo smog, la ombreggiano costantemente impedendo al sole di infiltrare i suoi benefici raggi nelle case e sulle basole antiche, dove, tra le fughe, si annidano muschi e licheni. A due mesi dalla nascita, anche noi, come tutto il resto del vicinato, eravamo affetti da bronchite cronica e, di conseguenza, pazienti abituali del vicino dispensario antitubercolare. Abbiamo frequentato la stessa scuola, io e Mario, dalle elementari alla medie, ma non siamo mai stati seduti nello stesso banco. Probabilmente lui conservava a livello subliminale il ricordo di quell’unica volta in cui eravamo accidentalmente stati messi nella stessa culla e io gli avevo ciucciato il piede. Era rimasto leggermente claudicante, anche se non era dimostrabile che la sua disfunzione fosse stata causata da me. Secondo la buon’anima di sua madre, però, sì. Completate le medie, Mario decise di interrompere gli studi, mentre io continuai. Questo segnò il primo, insanabile divario tra di noi. Rimasto orfano decise di fare il posteggiatore abusivo, mentre nel tempo libero strimpellava la chitarra e cantava. Sfruttando la bronchite cronica, che gli aveva regalato un timbro soul da fare invidia a Ray Charles, cantava ogni sera il suo repertorio napoletano nella locanda dello zio
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Giovanni, richiamando un pubblico numeroso e raffinato. Pare che quando intonava ’O surdato ’nnammurato ci fossero scrosci di applausi entusiastici e le donne cadessero in deliquio. Naturalmente le sue serate si concludevano a ore tardissime. In genere albeggiava quando lo vedevo rientrare barcollante dopo i tanti bicchieri di vino al metabisolfito, ahimè invariabilmente abbracciato a qualche sua nuova conquista. Quante donne ho visto varcare la soglia del portoncino in ferro battuto della sua casa! Mario non faceva discriminazioni di sorta, gli piacevano tutte, indipendentemente dal colore di occhi e capelli, dalla taglia che indossavano, la statura e l’età. Ho visto persino Filomena, la figlia del fornaio, varcare quella soglia, e non si può dire che fosse proprio una bellezza. Infatti il 6 gennaio, quando la chiamavano all’oratorio per fare la Befana e distribuire i doni ai bambini, non aveva bisogno neppure di travestimenti. Insomma, Mario, detto anche “Rubacuori”, era l’unico, autentico femminista che io conoscessi. Solo con me, che lo amavo disperatamente, faceva tanto lo schizzinoso. “Non so spiegarti, Santina, ma sento che con te non devo proprio starci”. Queste le parole che pronunciava ogniqualvolta tentassi un approccio. “Ma perché con tutte le altre invece sì? Cos’ho io che non va?”. “Non fraintendermi, tu sei una bel… una brava ragazza, faresti felice qualunque uomo, ma io ti considero quasi una sorella. Siamo cresciuti insieme, abbiamo frequentato la stessa scuola e…”. E a questo punto si interrompeva, massaggiandosi pensosamente il piede. “E…?”. “Non so, ma mi sembrerebbe di commettere un incesto”.
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Proprio così, un incesto diceva, ma secondo me c’entrava il ricordo subliminale. “E poi…”. “Sì, Mario, dimmi pure”. “E poi sei troppo colta per me, mentre io ho conoscenze da rotocalco. Che dialogo potrebbe esserci tra noi? E comunque non capisco una cosa”. “Cosa?”. “Già che ti sei fatta correggere il labbro leporino, non potevi farti togliere anche quel porretto con i peli che hai sul naso?”. “Questo no, mai!”, mi opponevo d’impeto. “Questo”, rimarcavo con orgoglio, “ce l’hanno tutte le donne della mia famiglia: mia madre, mia sorella, mia nonna, la mia bisnonna, la prozia, la mia…”. “Sì, d’accordo, lo so benissimo, ma secondo me staresti meglio senza, potresti coltivare perfino la speranza di…”. “Di stare con te?”. “Nooo, dicevo di suscitare interesse in qualche uomo”. “Non m’interessano gli altri. Io voglio te!”. “Te lo puoi scordare… Volevo dire, mi dispiace ma penso che tra di noi non potrà mai esserci nient’altro che un’affettuosa amicizia”. E pensare che io sarei stata disposta anche a subire l’elettroshock per cancellarmi dalla memoria le nozioni acquisite durante i miei lunghissimi e faticosi anni di studio − tanto non mi servivano a nulla − ma sul porretto no! Non ero disposta a scendere a patti. Lo consideravo una nota caratterizzante, l’unica che possedevo da quando avevo corretto la palatoschisi, alias labbro leporino.
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Particolare che spiega la potenza aspirante della mia bocca ai tempi in cui ciucciai il piede di Mario. Comunque, dato che trascorrevo tutto il mio tempo spiando i suoi movimenti, una notte lo vidi rientrare incredibilmente da solo. L’occasione era propizia, dovevo afferrarla al volo. La luna, affaccendata a giocare a nascondino con le nuvole, e i lampioni come sempre rotti − visto che i ragazzini li usavano per il tiro al bersaglio durante le loro esercitazioni con le pistole a gommini − rendevano via Orfanelli più tenebrosa che mai. Avvolta in uno scialle, mi presentai al suo cospetto. Mario sobbalzò, ma, quando si accorse che a sbarrargli il passo era stata una donna, si rilassò immediatamente. − Chi sei? − biascicò, completamente ubriaco. Naturalmente mi guardai bene dal rispondergli. − Che importa chi sei? − ribiascicò lui, avvicinandosi. − Sei l’amore, la donna che nulla chiede se non di essere… hic!… amata. Non disse proprio così, ma il senso, giuro, era quello. − Vieni dunque, Mario ha un cuore generoso e questa notte il suo cuore, e tutto il resto, saranno solo per te. Dovetti mordermi la lingua a sangue per resistere alla tentazione di accettare quella profferta amorosa così allettante. C’era il pericolo che, una volta a casa, lui accendesse la luce e mi riconoscesse. Non potevo rischiare, così, schermandomi la bocca con un fazzoletto per contraffare la voce, sussurrai al suo orecchio: − Voglio solo un bacio. − Se insisti… − disse Mario, chinando la testa verso di me. Effettivamente dovetti riconoscere che ci voleva uno stomaco di ferro per sopportare il suo alito, ma l’amore, il desiderio erano
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tali da farmi superare ogni esitazione. Ci baciammo e ribaciammo e io non ero mai soddisfatta. − Ancora uno, ancora cento, mille… − continuai a sussurrare sulle sue labbra ripetendo i celebri versi di Catullo. Mi fermai solo quando lui vomitò un liquido denso e vischioso che imbrattò parte del mio vestito. Ma subito dopo, teneramente avvinti, riprendemmo, continuando insaziabili fino a quando quel grande stronzo del sole, che in trent’anni non aveva mai sparso un solo raggio di sole in via Orfanelli, decise di spalmarne uno, e vigoroso, sul mio volto. − Tu! − esclamò Mario indietreggiando come se avesse visto il fantasma dell’Opera. − Come hai potuto farmi questo, Santina? − Dai, non fare così − provai a sdrammatizzare. − E che sarà mai per quattro bacetti? Ma Mario non rispose e, dopo aver lanciato un urlo da lupo mannaro, a cui si affrettarono a rispondere tutti i cani presenti nel raggio di 50 km, sparì dentro casa. Da quella notte magica e romantica erano ormai trascorsi sette mesi. Sette lunghi, interminabili mesi durante i quali mi aveva privato del suo saluto, affrettandosi persino a cambiare marciapiede non appena mi vedeva. Faceva di più: quando mi avvistava in lontananza si schermava gli occhi, come si fa al cinema durante le scene di suspense dei film dell’orrore. Per il resto la sua vita scorreva uguale in tutto e per tutto: la mattina usciva per esercitare la sua professione di posteggiatore abusivo, alle nove meno un quarto in punto. Tornava alle due e mezza e, dopo il riposino pomeridiano, prendeva a ripassare il suo repertorio. Mi struggevo d’amore e di malinconia ascoltando la sua roca e melodiosa voce
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intonare: se non ci stai, io me ne fo’ un’autra, ritornello del suo motivo preferito, dove il napoletano si contaminava con il fiorentino. Poi, alle otto di sera, Mario usciva. Prima stazionava al chiosco della pescheria per almeno due ore e dopo cominciava la sua attività serale da canterino. La notte continuava a rincasare ubriaco e in compagnia femminile. Mario però, nonostante il suo comportamento spregiudicato, aveva un codice d’onore al quale si atteneva rigorosamente: mai la stessa donna per due sere consecutive e mai donne sposate. Questo mi lasciava accarezzare la speranza che prima o poi avrebbe ceduto al mio amore, superando la famosa, subliminale diffidenza. Fu quindi con somma disperazione che a un certo punto constatai il suo cambiamento: Mario non usciva più alle nove meno un quarto per andare al lavoro ma restava a casa ad aspettare. Aspettare chi? Rosalba, la donna di cui si era perdutamente innamorato. Lo intuii da tanti particolari che non sfuggirono al mio occhio attento, né al mio binocolo. Intanto, Mario posizionava regolarmente due sedie rotte e un’asse di legno a metà di via Orfanelli. Lo faceva per riservare il posto alla Citroën bluette di Rosalba, quando arrivava. Non solo: tutti, nella strada, avevamo notato il verificarsi di certi furti. Gli indebiti espropri avvenivano a danno dei gatti randagi che curavamo amorevolmente in cambio della loro caccia ai topi. Le ciotole con i Whiskas sparivano in un batter d’occhio, prima ancora che i felini avessero il tempo di avvicinarvisi. Va bene che così tutti i giorni rinvenivamo tre o quattro cadaveri di roditori barbaramente trucidati e sbranati, ma era un vero strazio sentire i gatti miagolare insistentemente per tutto il giorno, come se chiedessero conto e ragione di tanta ingiustizia. Il malfattore era
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Mario. Lo scoprii il mattino in cui dalla mia finestra, munita dell’inseparabile binocolo, decisi di osservare la scena senza mai sbattere le palpebre, stile Arancia meccanica, per cogliere il ladro in flagrante. Mario era più veloce della luce nell’appropriarsi delle ciotole! Non tardai a comprendere il motivo del suo delinquere: non andando al lavoro i suoi introiti erano paurosamente scemati e doveva accontentarsi delle sole mance della locanda. Denaro, quello, che peraltro dissipava in bagnoschiuma Vidal. Vedere quanto fosse innamorato mi stringeva il cuore in una morsa. La cosa più terribile era il fatto che Rosalba fosse sposata. L’avevo capito spiando nella sua auto, dove, sul sedile posteriore, c’era un passeggino da bebè. La stessa donna tutti i giorni, dunque, e sposata! Per non parlare dei Whiskas che rubava! C’era da impazzire. La storia andava avanti già da tre mesi. Rosalba arrivava verso le dieci, l’ora in cui le brave massaie vanno a fare la spesa. Ma lei, altro che spesa! S’infilava nel portoncino, che trovava già semiaccostato, e chissà cosa succedeva all’interno! Ne riusciva dopo un’ora circa, con un’aria trasognata che l’avrei uccisa, e tutti i giorni, dico tutti, al momento di accomiatarsi chiedeva ancora un bacio. Invariabilmente preceduta dai famosi versi di Catullo, la richiesta, come già si è visto, veniva sempre accolta, imponendo un rientro precipitoso. E pensare che ero stata io a insegnare quei versi a Mario! Dopo un’altra ora, alle dodici, riuscivano felici, innamorati e grondanti profumo di bagnoschiuma Vidal. A modo loro erano prudenti, ma proprio non riuscivano a nascondere la loro ardente passione. Rosalba, in un abitino bluette a balze che avrei visto meglio addosso a una dodicenne, precedeva Mario di qualche metro per non dare la sensazione che stessero insieme.
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Preso il carrellino della spesa dalla Citroën Saxo, svoltava in via Vittorio Emanuele, verso la pescheria. Dietro di lei Mario rimirava con occhi luccicanti il reticolo venoso delle sue gambe e la coda di cavallo castana che oscillava temerariamente sulla cima alta della sua graziosa testolina. Dopo qualche metro Rosalba si fermava, fingendo di guardare una vetrina, ma in realtà aspettava che Mario la raggiungesse per poterlo sfiorare come per caso. Era il turno del mio − e suo − amato di precederla, offrendole la possibilità di ammirare il lucore immacolato del suo cranio. Per fortuna la mia casa aveva tre esposizioni e tre balconi, così potevo continuare a seguire i due amanti mentre facevano acquisti in pescheria: ettolitri di bagnoschiuma Vidal per Mario e patate e pomodori per Rosalba. Persino in quel frangente trovavano il modo di sfiorarsi e strusciarsi, i maledetti! La rabbia e il dolore non mi davano tregua, quella storia doveva finire, altrimenti sarei ammattita. Decisi di dare una mano al destino e a me stessa. Con il numero di targa della Citroën, andai all’ACI per scoprire l’indirizzo di residenza del proprietario. La dea bendata volle darmi un aiuto supplementare: l’auto apparteneva al marito della mia rivale. Un certo Angelo Serafico. Nome e cognome non promettevano bene rispetto a come speravo reagisse, ma ormai ero decisa ad andare fino in fondo. Gli scrissi una lettera anonima che recitava testualmente le seguenti parole: «Tua moglie è una puttana e ti tradisce. Se non ci credi vieni in via Orfanelli alle dodici». La imbucai senza alcun rimorso. Ma lo provai, e cocentissimo, quando, tre settimane dopo − tutti conosciamo l’efficienza delle poste, e meno male che il destinatario ricadeva nel circuito ur-
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bano −, vidi sopraggiungere una scassatissima Panda bluette. In famiglia evidentemente mostravano una spiccata preferenza per quel colore, dato che anche l’uomo che discese dall’utilitaria indossava maglietta e pantaloni bluette. In più aveva un’aria alquanto truce, tatuaggi su entrambi i bicipiti e un rigonfiamento laterale all’altezza della cintura. Com’ero stata tratta in inganno da quel nome e cognome! Quell’uomo, che ero sicura fosse il marito di Rosalba, era tutt’altro che angelico e serafico! Ebbi la tentazione di chiamare il 113, ma poi una sorta di curiosità allucinata mi spinse a restarmene inchiodata al mio punto di osservazione. Rosalba e Mario, dopo aver concluso il secondo round amoroso, fecero la loro apparizione. − Rosalba! − chiamò il nuovo arrivato, parandosi davanti al portoncino. La donna si portò le mani alla bocca, reprimendo un grido. Mario, intento a chiudere il portone, non si accorse di nulla. − Puttana! − tuonò ancora l’uomo, estraendo dalla cintura una pistola. Purtroppo compresi subito che non era ad aria compressa, né, soprattutto, caricata a gommini. Dopo un botto che, come era facile prevedere, ebbe in risposta gli ululati dei cani, vidi Rosalba stramazzare a terra. Nel petto le fioriva una rosa rossa, che si allargava sempre di più. Inebetito, l’uomo la guardava agonizzare, mentre Mario si esibiva in uno dei suoi laceranti urli da lupo mannaro. − Mario corri, salvati! − gridai vedendo che Angelo adesso puntava la pistola contro di lui. − Corri amore, ti prego! Ma Mario rimase lì, impalato, e si sentì esplodere il secondo colpo. Il caso volle che giusto in quel momento passasse di là uno
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di quei gatti che erano stati derubati dei Whiskas, il quale, credendo che la pistola fosse qualcosa di commestibile e stufo di mangiare solo topi, si avventò ferinamente sull’assassino. Mario venne colpito, ma non mortalmente. A quel punto, ripresami dal mio stato allucinatorio, chiamai immediatamente il 113, il 118, il 115, il 1530 – per chi non lo sapesse si tratta del numero di soccorso in mare − e il 1240, pur non ricordando a quale servizio di pubblica utilità corrispondesse quest’ultimo. Meglio abbondare! Dopo una ragguardevole attesa via Orfanelli venne invasa da due auto della polizia, altre due dei carabinieri, il camion dei vigili del fuoco, due autoambulanze e una guardia costiera appiedata che chiedeva dove fosse avvenuto il naufragio. Il tutto preceduto dall’arrivo di un addetto ai servizi funebri, il quale, dopo aver constatato che nessuno avrebbe potuto corrispondere l’onere per le esequie della defunta − Angelo Serafico era già stato ammanettato −, si allontanò malinconicamente. Mi precipitai a prendere posto al fianco di Mario nell’autoambulanza. Pallido come un fantasma, non riuscì a sottrarre la sua mano dalla mia. Solo quando gli dissi: − Amore resisti, io non ti lascerò mai! − ebbe la forza di rantolare: − Mai? Allora meglio la muerte! − e spirò. Non dimenticherò mai Mario e, in segno di espiazione, mi sono fatta togliere il porretto con i peli dal naso. So che così facendo ho perso la mia identità, ma sono sicura che il mio amore, da lassù, mi vede e sorride. Almeno spero.
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