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Š 2013 Edizioni Ensemble, Roma I edizione novembre 2013 ISBN 978-88-6881-000-9 www.edizioniensemble.com direzione@edizioniensemble.com Edizioni Ensemble
Francesco Grasso
Il re bianco del Madagascar
Edizioni Ensemble
Tracce…
Un lascito dal re del Madagascar, articolo su «La Cerere», Palermo, 2 giugno 1829. «Con riferimento alle notizie apprese riguardo il deposito dell’eredità di tale Bonetti presso la Banca d’Inghilterra, il governo del Regno delle Due Sicilie affida al maggiordomo di corte, marchese Enrico Forcella, l’incarico di riunire i discendenti e aventi diritto e giungere a un accordo su come procedere alla riscossione della somma» (documento registrato presso il notaio Salvatore Leonardi fu Pietro, atto n. 2432, libro I, vol. 627, foglio 42, 30 gennaio 1841). «Da vari giornali italiani essendo stata pubblicata la notizia di un’eredità di 300 milioni giacente a Calcutta e lasciata 60 o 70 anni or sono da certo Bonetti o Monetti […] il Ministero Affari Esteri ravvisa opportuno rendere di pubblica ragione […] che né a Calcutta né in altra località delle Indie Inglesi, né al Madagascar né nelle Indie Neerlandesi trovasi giacente alcuna successione o deposito riconducibile a tale nome» (dalla «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia» n. 129, mercoledì 3 giugno 1903, f. 2268). L’eredità del Madagascar, prima pagina della «Gazzetta del Popolo», Torino, 8 marzo 1925.
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In Sicilia gli eredi del re del Madagascar, articolo di Matteo Tocco su «Notiziario di Messina», 26 agosto 1948. Two italian families claim ancient Madagascar fortune, articolo del «Sydney Morning Herald», 4 agosto 1950. Claim for enormous treasure, articolo del «West Australian», Perth, 12 agosto 1950. C’est en devenant au XVII siècle l’amant de la reine de Madagascar que Bonnet edifia sa fortune, articolo de «Le Parisien libéré», 19 ottobre 1950. Gli eredi del re bianco su Internet, articolo della «Gazzetta di Mantova», 7 giugno 2001.
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avv. Giancarlo Morelli, Londra, 11 dicembre 1965 RISERVATA PERSONALE, NON PRODUCIBILE IN GIUDIZIO
Illustrissimi signori clienti, con riferimento all’incarico da Voi affidatomi, e consistente nella verifica dell’esistenza presso la Banca d’Inghilterra di un lascito, in contanti, valori o titoli della Compagnia Britannica delle Indie Orientali, a nome degli eredi o aventi diritto di tale Bonet, Bonetti o Monet, Vi segnalo che in data odierna – io e i cinque esperti di calligrafia, diritto internazionale privato e araldica che mi affiancano – siamo stati ricevuti, negli uffici situati in Bartholomew Lane, da John William Fansworth, funzionario incaricato dall’istituto finanziario citato. Mister Fansworth ha premesso di essere già a conoscenza della questione, e ha ricordato che numerosi suoi predecessori sono stati più volte interpellati in passato da presunti eredi provenienti da varie regioni d’Italia, dalla Provenza e finanche dalla penisola iberica. Ci ha fornito copia di dichiarazioni, la prima risalente addirittura al 1928, con le quali la Banca d’Inghilterra smentisce categoricamente l’esistenza della cosiddetta (per la precisione, mister Fansworth l’ha definita “fairy”) “eredità del re bianco del Madagascar”.
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Pur professandosi dispiaciuto che noi avessimo fatto tanta strada (cito) “inseguendo una favola”, mister Fansworth sembrava intenzionato a congedarci in fretta. Almeno finché non ha visionato la documentazione da noi raccolta in questi lunghi mesi di ricerche. Alla lettura ha cambiato atteggiamento. Al di là del suo contegno formale, è apparso visibilmente turbato. Ha afferrato la cornetta del telefono e, dopo diverse chiamate, si è alzato dalla scrivania e ci ha cortesemente chiesto di seguirlo. Ci ha condotti negli archivi della Banca, un locale molto vasto che – credo – deve estendersi al di sotto di buona parte della City. Laggiù siamo stati raggiunti da due colleghi di mister Fansworth, che hanno esaminato (tradendo anche loro una certa emozione) il nostro incartamento. Dopo serrate consultazioni, i tre hanno concesso che la lettera della sede di Calcutta appare autentica, e che l’allegata ricevuta bancaria indica una cassetta di sicurezza realmente esistente e custodita nel loro caveau. Luogo e data del deposito (India, metà del XIX secolo) sono compatibili con la ricostruzione degli eventi, e anche la firma sui registri dell’archivio (peraltro pressoché illeggibile) appare corrispondere alla segnatura in calce alla lettera. Molto scosso, Fansworth ha dovuto ammettere che la cassetta in questione potrebbe davvero essere appartenuta al personaggio storico oggetto delle nostre indagini. Sottolineando gli interessi legali che rappresentiamo, abbiamo chiesto formalmente a Fansworth che tale cassetta di sicurezza ci venisse consegnata. I tre funzionari si sono opposti, argomentando che la situazione era estremamente irregolare, che tutta la questione doveva essere verificata e che avrebbero dovuto avvisare i vertici dell’Istituto. È stato necessario discutere a lungo, ma al-
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la fine siamo giunti a un compromesso. In via del tutto eccezionale (suppongo che, al di là del dovere professionale, la sua curiosità non fosse meno pungente della nostra) Fansworth ci ha condotto al caveau e ha lasciato che aprissimo, in sua presenza, la cassetta, al mero scopo di visionarne il contenuto. Sono spiacente di comunicarVi che il deposito in questione non conteneva oro, né gioielli, né tantomeno i famosi 75 milioni di sterline dell’eredità. L’unico oggetto ivi conservato era un manoscritto rilegato in pelle, in discrete condizioni di conservazione nonostante i suoi quasi centocinquant’anni. A prima vista si tratta di un diario, anche se la lingua in cui è vergato (sorta di intreccio tra castigliano, francese, siciliano, provenzale, inglese e chissà quale altro idioma) lo rende di lettura assai ardua. Se ritenete, prima di rientrare in Italia posso richiedere nuovamente a mister Fansworth di rilasciarlo (suppongo che a questo punto non ci saranno ritrosie). Temo però che l’unico valore che tale oggetto possa mai avere sia la storia che esso racconta, come materiale per qualche romanziere (e occorrerebbe comunque un notevole lavoro di traduzione e riscrittura per renderla fruibile). Niente di più. In attesa di un Vostro cortese riscontro, porgo i miei più cordiali saluti. G. Morelli
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Manoscritto di Francesco Claudio Maria Bonetti libera traduzione di Francesco Grasso 1
Nell’italianizzare e attualizzare queste memorie si è cercato, quanto più possibile, di mantenere la frammentarietà stilistica e lessicale del testo originario, che in alcuni passaggi rivela una notevole cultura e raffinatezza d’espressione, mentre altrove vira in un frasario popolare al limite del turpiloquio (rispecchiando in questo, crediamo, la personalità multipla – i freudiani direbbero “dissociata” – del Bonetti). Si è inoltre cercato, nell’eliminare i termini dialettali, di serbare quelli ormai entrati nel bagaglio culturale dei lettori italiani (soprattutto grazie a scrittori come Bufalino o Camilleri), ritenendo che contribuiscano a contestualizzare il vissuto e il retroterra familiare del Bonetti. In passaggi particolarmente controversi (pochi, per fortuna), si è scelto di ricorrere a note esplicative al testo. [N.d.T.] 1
Calcutta, 1828
Odio la pioggia. In questa stagione, il monsone sembra soffiare l’intero oceano sopra la città e lasciarlo cadere giù in una cataratta furiosa che lava via anche i pensieri. E allora i panni ti si attaccano alla pelle, ogni cosa che metti sotto i denti prende sapore di fango, le fogne tracimano, zanzare e sanguisughe spadroneggiano più di tutti i maharaja e i viceré britannici. E odio scrivere. Odio questa penna strappata a qualche cappone finito allo spiedo, e questo calamaio sbrecciato, che gocciola inchiostro nero come lacrime d’un appestato. Ho le dita sozze, e lascio su questi fogli più macchie che parole. Ma devo farlo. Non posso più rimandare. L’ho capito stamani, ai moli, quando quell’idiota mi ha puntato la lama alla nuca. Gli ho mostrato come si usa il pugnale, naturalmente. Ma, dopo, ho dovuto sedermi sulla sua faccia, ansimando e tossendo come il vecchio che sono, a chiedermi su quali remote spiagge, su quali tolde di nave, in quali risse da taverna io abbia lasciato le forze d’un tempo. Non era il primo che sistemavo, l’idiota, ma forse sarà l’ultimo. Il prossimo sicario potrebbe essere fortunato, e guadagnar-
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si l’oro di Ranavalona. Ammesso che paghi davvero, quella piccola vipera, quanto ha promesso per la mia testa. Devo scrivere, dunque. Il mio tempo è finito, e devo far ordine prima di andare. Raccogliere le memorie, narrare gli eventi spogliando la verità dalle maglie di fandonie in cui mi sono sempre avvoltolato. Perché qualcuno, domani o tra decenni, dovrà pur sapere chi sono e chi fui davvero, un uomo in carne, ossa, speranze e dubbi, e non un fantasma dai molti nomi errante tra l’Europa, l’Africa e le Indie. Per questo, mentre decido quale parte dello specchio rotto della mia vita io debba mostrare, se le schegge più tenere o quelle più aguzze, domando perdono a chi, leggendo queste pagine, si sentirà da me ingannato o ferito. Non desidero giustificarmi. Sappiate solo che la memoria delle mie cattive azioni, che riconosco più numerose delle mie rette imprese, non mi rende orgoglioso, e che anzi mi duole al pari della malinconia per le occasioni mancate e della tristezza per gli amici perduti lungo il cammino. A loro dedico questa testimonianza.
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Villabate, 1751-1760
“Tu sei nato sul tavolo della stazione di posta, Ciccio”. Così celiava mio padre, puntualmente, ogni volta che lo tempestavo di domande su ciò che esisteva al di là delle quattro case in croce di Villabate. Con quella sorta di sentenza, più che rispondermi – credo – voleva spiegare a se stesso la mia smania di vedere il mondo, o forse intendeva esorcizzare, dando la colpa a qualche misterioso influsso natale, la mia strana e per lui incomprensibile brama di conoscere e viaggiare. Lui, Cosimo di fu Vincenzo, non aveva mai lasciato Villabate. Non era mai stato neppure a Palermo, che pure si trovava solo a un’ora di cavallo. Anche perché, se mai fosse riuscito a mettere le mani su di un cavallo, certamente l’avrebbe squartato e cacciato in pentola. Bracciante agricolo, cacciatore di frodo, negli anni fortunati mezzadro del barone Vizzicò, aveva calli a forma di vanga e la pelle delle dita talmente spessa che riusciva a maneggiare la brace senza scottarsi. Quanto a mia madre, Rosalia, era una donna di più gravidanze che parole, e prima di mettere al mondo me (appunto sul tavolaccio della stazione, non so per quale imbroglio con la levatrice) aveva sfornato nell’ordine Fortunato, Carmela, Antonio
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e Salvatore, Martina, Onorata e Giuseppa. Più un imprecisato numero di altri fratelli e sorelle, morti di malattia o di semplice miseria prima ancora di ricevere un nome. Della mia infanzia ricordo poco. Le strade lerce di Villabate, la torre spagnola che vigilava severa la baia, il sole a picco sulle tegole rosse, il frinire ossessivo delle cicale, i fichi d’india e gli alberi carichi di arance. A sette anni ricevetti in mano una zappa e fui affidato a Fortunato, che in qualità di primogenito poteva disporre, nei campi e nella salina baronale, del sudore e delle braccia di noi maschi di casa. Mio fratello era irsuto, grosso e maligno. Di quella crudeltà particolare che gode nel vessare i più deboli. Non accadeva mai che si azzuffasse coi suoi coetanei, coi quali anzi difficilmente si accompagnava. Al contrario, con noi fratelli minori non perdeva occasione per metterci le mani addosso. A meno che non fosse impegnato a torturare qualche animale. D’estate, a Villabate, non si vedeva in giro un gatto che non fosse stato accecato, o un cane randagio con tutte e quattro le zampe. Antonio e Salvatore erano gemelli. Silenziosi, chiusi, per mettere insieme un discorso dovevano essere in due. Il ritratto sputato di nostra madre, erano. Accettavano di buon grado le angherie di Fortunato, anzi si stupivano che io me ne lagnassi. Per loro la violenza, l’ignoranza e la miseria erano un gioco senza nome le cui regole non andavano contestate, così come non si discutevano i conteggi della morra o i passi della taranta alla festa dell’Assunta. Si doveva semmai, in quel gioco feroce che era crescere a Villabate, affinare se stessi con pratica coscienziosa, fino a padroneggiare le regole meglio degli altri. Io, che ero il più piccolo e gracile dei quattro maschi, ogni santo giorno che Dio mandava in terra prendevo tante di quelle mazzate che, alla sera, più che chiudere gli occhi sul letto, sve-
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nivo. Per sopravvivere dovetti ingegnarmi, come poi ho fatto per tutta la vita, a cercare una via di fuga. Decisi di sfruttare il fervore religioso di mia madre, e soprattutto di mia sorella maggiore. Così, al termine di una grandinata che ci aveva costretti tutti in casa, presi a esibirmi in testate contro i muri, in risate isteriche con contorno di urla e schiuma alla bocca, finché Carmela, bontà sua, convinse i miei che ero invasato dal demonio, e che solo il parroco del paese avrebbe potuto trovare rimedio. Don Gaetano, che veniva dal continente, era un prete anziano dalla vista lunga. Bastò un’occhiata alla mia faccia gonfia, alle macchie color melanzana sulle mie braccia, per realizzare dove stava il problema. Non so come intortò i miei. Fatto sta che, da quel giorno, in casa si disse che ero stato graziato da sant’Agata in persona, e che si doveva consentire alla mia anima salvata di manifestare riconoscenza e cattolico ardore alle gerarchie celesti. Fu così che cominciai, per scantonare la zappa e le botte quotidiane, a rifugiarmi in sacrestia. Dopo qualche mese, la consuetudine divenne tollerata, in qualche modo accettata in famiglia. Don Gaetano mi assegnava piccoli compiti, come riporre i paramenti, issare l’acqua dal pozzo, spazzare la canonica, raschiare la cera delle candele dall’altare. La domenica raccoglievo le offerte dei fedeli durante la messa e pulivo il tabernacolo dopo le funzioni. In cambio, lui m’insegnava a leggere. E questo mi aprì un mondo. “Lo hai già finito?”, esclamava, sbalordito, quando gli riportavo un libro. “Corto era, don Tano!”, ribattevo. “Ne hai un altro?”. E lui rideva. Divorai presto la sua biblioteca, che peraltro racchiudeva, credo, tutta la carta stampata rintracciabile a Villabate. Ero af-
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fascinato, ricordo, soprattutto dai testi di storia. Lessi dei popoli che ci avevano preceduti. Dai fenici, della cui antica città don Gaetano mi figurava i resti nelle pietre di Cozzo della Cannita, ai mori, che il mio maestro mi spiegava costruttori della Kalsa e del Cassaro. E i greci, i normanni. E tutti gli altri, genti esotiche e sconosciute, che erano venute dal mare, avevano arato, figliato e costruito, e si erano scannate tra loro pur di gridare al cielo: “Quest’isola è mia!”. M’appassionai ai racconti dei crociati in Terrasanta. Mi coinvolsi nelle storie di Orlando e dei prodi paladini. M’innamorai delle cronache avventurose di Giuseppe Martinez, detto “Capitan Peppe”, e dei suoi coraggiosi marinai che si battevano contro gli sciabecchi con la mezzaluna e inseguivano i pirati barbareschi sino alle coste dell’Africa. Lessi di Roma caput mundi e dei papi che la governavano, dall’altare di san Pietro, direttamente per conto del Padreterno. Restai a bocca aperta di fronte ai viaggi milionari di Marco Polo nelle terre fatate del Catai. M’inorgoglii apprendendo della grandezza di sua maestà Carlo per grazia di Dio re delle Due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna e duca di Parma, Piacenza e Castro, e della sua nobile sposa Maria Amalia. – Carlo non è più il nostro sovrano, figliolo – precisò un giorno don Gaetano, mostrandomi un dipinto che ritraeva la coppia coronata dinanzi i lavori di costruzione della reggia di Caserta. – Morto è? – chiesi, quasi inorridito. – No, figliolo. È stato proclamato monarca di Spagna. È partito due mesi fa per Madrid. Dicono che sul trono di Castiglia gravi la sfortuna, e che per proteggersi Carlo abbia voluto portare con sé da Napoli metà del sangue di san Gennaro. Il mio maestro non usava mai con me un linguaggio facile. Al contrario, pretendeva che io gli chiedessi subito il significato
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dei termini che non capivo. Era il nostro gioco privato. In quel frangente avrei dovuto domandare cosa fosse la Castiglia e dove si trovasse Madrid. Ma, come al solito, non m’andava di seguire le regole. – Chi è il nostro re, allora? – m’informai. Don Gaetano esibì un secondo dipinto. – Carlo ha lasciato il trono a suo figlio Ferdinando. Deve ancora ottenere il riconoscimento formale da papa Clemente, ma… Mi stupii davanti alla figura infantile raffigurata sulla tela. – Quanti anni ha? – Nove – rispose don Gaetano. – Gesù, come me! – esclamai d’istinto. – Come te, figliolo – assentì lui. – Hanno dato davvero la corona a un bambino così piccolo? – protestai, sconcertato. – Le vie del Signore sono strane, a volte – concesse don Gaetano. Ricordo che rimasi a lungo in silenzio, a considerare la risposta del mio maestro. E a riflettere su quanto il fanciullo del dipinto mi somigliasse. Stesso corpo esile, stesse braccia magre, medesime labbra sottili e incarnato pallido sotto una cascata di capelli neri. Stessa aria spaurita, e allarme e ansia e voglia di crescere. Forse, conclusi, la differenza tra me e lui non era nelle vie del Signore, ma solo nell’occhio degli uomini. Fu in quel preciso momento, credo, che decisi che sarei diventato un re.
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