“Il vento di Sinnington” di Stefano Oddi

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Š 2013 Edizioni Ensemble, Roma I edizione ottobre 2013 ISBN 978-88-97639-91-6 www.edizioniensemble.com direzione@edizioniensemble.com Edizioni Ensemble


Stefano Oddi

Il vento di Sinnington

Edizioni Ensemble



Al focolare, il cancello, la zona franca e il posto delle more. E al cinema.



Prima parte



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Mentre Ennis camminava per la spiaggia vuota, il sole tardava ad alzarsi all’orizzonte. Era dicembre. E a Sinnington di dicembre, alle sette del mattino, la costa era ancora buia. La gente delle case tutt’intorno era partita da una o due ore per raggiungere il posto di lavoro, sopra i luridi camioncini arrugginiti pagati a rate che da anni ormai sbuffavano, stanchi di continuare la loro corsa. Le strade erano illuminate dai deboli neon dei lampioni, che si susseguivano in fila sui marciapiedi. Sulla via del mare non c’era nessuno. Le case erano chiuse, le finestre serrate, i negozi avevano ancora la saracinesca abbassata. Il vecchio bar di Clinton era, fino ad allora, l’unica traccia di vita; ma di una vita lontana, sfocata, sbiadita come la luce soffusa che aveva reso il cielo appena un po’ più chiaro, colorandolo di lavanda. Sinnington era un paesino della costa orientale, nel North Carolina. Offriva poco e niente. La vita era dura, il lavoro non c’era e la gente lo cercava altrove. Ennis se ne stava in piedi nel buio, con le scarpe pesanti che affondavano nella sabbia umida. Si copriva il volto nella giacca a vento, portandosi in bocca di tanto in tanto la sigaretta che teneva in mano. Un cappello logoro gli copriva la testa e i capelli biondi, che ultimamente avevano cominciato a colorarsi d’ar-

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gento. I suoi occhi continuavano a fissare la via del mare da qualche minuto. Riconoscevano la casa di Gower e quella di Mandy, il ristorante italiano e la frutteria della signora Mallory. Tutto era inesorabilmente vuoto e spento, senza vita, portato via dal tempo. Ormai tutto sembrava vivo solo nei suoi ricordi. Quando il bagliore arancione della sigaretta bruciò la scritta Marlboro, cominciò a camminare verso la strada, col vento freddo che gli sferzava la fronte e gli occhi scoperti. Sul marciapiede della via del mare, c’erano le stesse vecchie panchine di un tempo. Il verde bottiglia, però, aveva lasciato posto a un marrone fatto di ruggine antica. Tutto era al suo posto. Ma allo stesso tempo tutto era opaco e sbiadito. La fermata c’era ancora, ma dello scuolabus delle 7.10 non c’era traccia. Da lontano si vedeva il parco, ma Ennis voltò a sinistra all’incrocio e dopo pochi passi si fermò di fronte al bar di Clinton. Spinse con poca forza la porta vetrata e un campanellino risuonò nel silenzio della via del mare. Il bar era cambiato, sapeva di vecchio e di scarico. Il juke-box era scomparso e le foto alle pareti si erano tinte di un giallo scolorito. Era rimasto qualche tavolo e un bancone con pochi sedili. Ennis fece un altro passo. – Buongiorno. Una voce sembrò risvegliare Sinnington, tutto a un tratto. Ennis si girò e, abbassando tempestivamente lo sguardo, salutò anche lui. – Prende qualcosa? – Un caffè, grazie. Il proprietario andò dietro il bancone e preparò il primo caffè della giornata. Poi si rivolse allo sconosciuto con voce cordiale. – La prende una fetta di torta di mele? Ennis si sedette a un tavolo vicino alla porta. – No, grazie. Non ho fame.

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– Suvvia… offre la casa! Ennis fece una smorfia per dissentire, ma il barista tagliò una fetta con un coltello da pane e gliela portò insieme al caffè. – Lei è di Sinnington? – No. – Mi sembrava di non averla mai vista. – Già. – Viene spesso da queste parti? – No. L’uomo cercò di guardare il forestiero negli occhi, ma Ennis rimase col capo chinato. Capì che non voleva parlare. Era strano, quasi scontroso. Per un attimo cercò di immaginare cosa avesse portato quell’uomo distinto e ben vestito in quel posto dimenticato da dio. Si concentrò sul berretto da baseball che gli rinserrava il volto in una morsa scura, chiusa in basso dall’ampio bavero del giaccone. Avvertì nell’aria qualcosa di nervoso. Fece un passo indietro e tornò al bancone di fretta, continuando a guardare assiduamente lo sconosciuto che dal canto suo restava con il capo chino sul tavolo, con gli occhi vagamente persi tra le righe di un quotidiano del giorno prima. Quando scosse la testa, girandola appena verso di lui, il barista discostò lo sguardo. – Cos’è successo a questo posto? – chiese Ennis, indurendo la voce più di quanto già non avessero fatto le sigarette. – Al mio bar? – No. A Sinnington. – Cosa intende dire? – La ricordavo diversa. – Ha detto di non esserci mai stato. – No, ho detto di non capitare spesso da queste parti. – Io non ci vedo nulla di diverso.

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– Sembra una città fantasma. Neanche passa un autobus per gli studenti sulla via del mare. – Gli studenti non lo prendono più. Sinnington ha una scuola adesso. – E dov’è? – È stata costruita sopra le rovine della vecchia casa dei Gump. Il preside è un mio amico, Joe Skattini. Ennis non rispose più. Girò il suo caffè nero con calma. Poi lo finì in pochi sorsi. Si frugò dentro le tasche e tirò fuori una banconota. La mise sul tavolo e ci poggiò il posacenere sopra. Poi si alzò, stringendosi nella sua giacca blu notte. – Grazie della torta, arrivederci. Il barman, appena la porta si chiuse, corse al tavolo dove l’uomo aveva appena bevuto il suo caffè. E con grande sorpresa, spostando il posacenere, trovò cinquanta dollari. Pensò che si fosse sbagliato sul suo conto e, avvicinandosi alla porta, guardò fuori per cercare il forestiero generoso. Camminava lentamente sulla via del mare, illuminato da un debole lampione. Gli ricordava qualcuno. Ma prima che potesse soffermarsi a pensare, il suo amico Joe arrivò spedito e, aprendo la porta, chiese a Clinton di preparargli un caffè in fretta, perché doveva andare a scuola e già era in ritardo. Così, Clinton preparò il secondo caffè della giornata e glielo portò al tavolo con una fetta di torta di mele. Sapeva che l’amico non avrebbe lasciato un cinquantone sotto il posacenere, ma in fondo non gli importava e, guardando una di quelle foto che tappezzavano la parete, gli diede una pacca sulla spalla. Quattro amici si abbracciavano, sorridendo ingialliti dal tempo. Sotto, una targa: «Clinton Monroe, Mandy Johnson, Joe Skattini ed Ennis Gump».

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A Sinnington non c’era mai stata una vera scuola. Per qualche tempo, un edificio malandato era stato adibito ad asilo nido, ma i fondi mancavano e tutto sparì in pochi mesi. I ragazzi di Sinnington crescevano con la pelle dura. Pochi continuavano dopo le scuole medie. La maggior parte di loro, compiuti i 14 anni, cercava di trovare un lavoretto onesto presso un amico di famiglia oppure cominciava a spacciare droga. Il più delle volte iniziavano con l’hashish; poi quelli più portati passavano alla cocaina, si creavano un giro malfamato e due o tre anni dopo finivano in galera per spaccio o detenzione. Quelli che cercavano di costruirsi un futuro con lo studio viaggiavano da pendolari con l’autobus, che passava tre volte al giorno lungo la via del mare. Il paese più vicino aveva due o tre scuole superiori ed era lì che i ragazzi di Sinnington passavano la maggior parte del loro tempo. Il sole era alto, ma faceva freddo. Ennis camminava avanti e indietro di fronte all’entrata della Walt Whitman, la nuova scuola che – non sapeva da quanto – Sinnington aveva inaugurato. Per tutta la mattina era stato seduto sull’erba fredda del parco sulla via del mare. Solo tra rumori vuoti, aveva pensato senza sosta. Dopo vent’anni era tornato. Era tornato a Sinning-

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ton. La gola gli si era stretta più volte in un nodo fastidioso. Il tempo aveva cancellato tutto. La sua casa era stata demolita per far spazio a una scuola. E ora se la trovava davanti. Era grande, fatta di mattoncini rossi. Anche il suo giardino era scomparso, per lasciar spazio a un cortile ben rasato. Mancava il suo vecchio dondolo e, al posto della sua camera, adesso c’era una classe di ragazzini rumorosi. In tutto questo, il suo amico Joe era diventato preside e con tutta probabilità trascorreva la giornata a firmare cartacce, seduto a una scrivania in legno, proprio nel posto in cui, vent’anni prima, passava a prendere l’amico col suo motorino scassato. Erano le 11.30 quando la campanella suonò la ricreazione. Ennis oltrepassò il grande cancello d’entrata e fece quei pochi passi che lo separavano dall’ingresso dell’edificio. Entrato, si diresse verso la segreteria e chiese a una donna sulla trentina di incontrare il direttore. Lei lo fece accomodare nel suo ufficio. – Il preside Skattini sta discutendo di una questione importante in un’aula al primo piano, può aspettarlo qui. Ennis si sedette e aspettò che la donna uscisse prima di alzarsi di nuovo. Si diede un’occhiata intorno. La stanza era ben illuminata, la scrivania in legno era ricoperta di fogli ordinati e catalogati. A un angolo, una cornice se ne stava solitaria. Ennis la girò verso di sé. Una foto di Joe con una donna in costume. Era Melissa Bank, una ragazza di Sinnington. Sulle spalle di Joe spuntava un bambino paffutello dai capelli neri e corti. Ennis non sapeva che Joe si fosse sposato con Melissa, né che avesse avuto un bambino. Non sapeva niente neanche della vita di Clinton o di Mandy. Non aveva più parlato con sua madre da vent’anni né era riuscito ad andare al suo funerale. Non conosceva il nome del nuovo proprietario della bisca Black Arrow, dove s’incontrava con gli amici dopo la scuola, e

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a dirla tutta non poteva sapere nemmeno se esistesse ancora. La gola gli si strinse di nuovo, mentre la testa non la finiva di fargli la predica. Che ci fai qui, Ennis? Cosa speri di ottenere? Un po’ di compassione? A un tratto, sentì un rumore di passi avvicinarsi. Risistemò la cornice e si sedette sulla poltrona di fronte alla scrivania, pensando fosse di nuovo la segretaria. Sentì la porta aprirsi. – Ok, ok, se succede di nuovo vieni ad avvertirmi in ufficio. Il preside entrò, richiudendo con forza la porta alle sue spalle. Poi si avvicinò alla scrivania e, senza sedersi, tese la mano verso il suo ospite. – Salve. Barbara mi ha detto che mi stava aspettando. – Salve. Ennis ricambiò la stretta di mano, col volto stretto ancora nel bavero della giacca. – Lo prende un goccio di whisky? Ennis fece sì col capo e Joe andò verso una credenza in legno vicino alla porta. Prese due bicchierini e li riempì con una bottiglia di vetro, messa in bella vista. Ennis si alzò in piedi e prese da sé il suo bicchiere, finendolo tutto d’un fiato. Il direttore lo guardava con aria interrogativa, quasi nervosa, cogliendo l’aria di mistero che quell’uomo portava con sé. – Allora, come mai qui? Lei è il padre di uno dei nostri studenti? Ennis rimase in piedi e, girato di spalle, guardava le pareti dell’ufficio. Non rispose. Il preside scosse la testa. – Dal suo silenzio deduco di no… ma forse preferirebbe sedersi? – No, grazie, sto bene così – rispose Ennis in modo secco, mentre osservava la laurea di Joe, incorniciata in grande stile.

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– Come preferisce. Immagino voglia dirmi qualcosa? – Niente di particolare. Joe, che cominciava a spazientirsi per quella discussione senza senso, come anche per quell’uomo, che continuava a camminare avanti e indietro per la stanza ma ancora non gli aveva detto il suo nome; cercò di controllare i nervi e assunse un tono pacato. – Be’, allora temo che dovrà uscire. Dovrei controllare queste cartelle e non ho proprio tempo da perdere. – Nessuno ha tempo da perdere, Joe. La gente perde sempre il tempo che dovrebbe sfruttare, per questo quando il tempo finisce capisce di aver buttato al cesso tutta la vita. Il preside rimase spiazzato. Si appoggiò coi fianchi sulla scrivania e fece un sospiro. – Che cosa ha detto? – Ho detto che nessuno ha del tempo… – Sì, ho capito, ho capito. Ma chi è lei? Ennis si voltò lentamente. Col capo basso. – Dimmelo tu. Si tolse il cappello e si passò una mano tra i capelli biondi. – Ennis? Joe lasciò andare il bicchiere che teneva in mano e che, cadendo, si frantumò di colpo. Ennis alzò la testa, lasciando intravedere il suo volto invecchiato. – Ennis! Joe fece qualche passo verso di lui e senza esitare lo avvinghiò tra le braccia, stringendolo forte quanto poteva. Qualche lacrima violenta gli sgorgò dagli occhi finendogli sulle guance calde, poi sulle labbra, lasciandogli un sapore salato. Ennis rimase immobile, senza fiato. I suoi occhi si bagnarono un po’, ma appena Joe lo lasciò, non lo diede a notare. – Mio dio, amico – bisbigliò Joe con la voce che gli mancava.

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– Non mi chiedi come va? Ennis sorrise. Joe non riusciva a credere ai propri occhi. Cercò di dire qualcosa, tentò di mettere in ordine parole che sperava di pronunciare da vent’anni. Ma non ci riuscì. – Io… io non riesco a credere di vederti! L’amico gli tese le braccia. Joe rimase stretto nel loro calore per molto, continuando a singhiozzare di gioia e di rabbia, di amore e d’odio, senza capire quale sentimento lo stesse dominando davvero. Ennis cercava di calmarlo, passandogli una mano sulla schiena. Poi Joe si rilassò. Si sedette sulla poltrona degli ospiti, tenendo l’amico stretto per il braccio, magari per paura che, lasciando la presa, potesse perderlo di nuovo. Lo guardò in viso, strizzando gli occhi, ancora lucidi di sale. – Come stai, Ennis? – Vado avanti. – Sai, pensavo di non rivederti più! È passato talmente tanto tempo. Joe notò che Ennis si stava risistemando la giacca. – Scusami. – E di cosa? – La giacca. Devo avertela bagnata. – Figurati. I due sorrisero. Joe riprese a parlare. – Quando sei arrivato? – Stamattina presto. – Hai visto qualcuno? – Diciamo di sì… Sono andato al bar da Clinton. – Come da Clinton? Ci sono stato proprio prima di attaccare ma non mi ha detto niente! – No… Clinton non mi ha riconosciuto, diciamo che non mi sono fatto notare. Volevo aspettare un po’, ma poi mi ha det-

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to che avevano aperto una scuola sopra le macerie di casa Gump. Così sono uscito dal bar e sono venuto qui. – Chissà come la prenderà quando ti rivede. Ennis fece una risata. – Ma dimmi di te… di voi. – Allora… vediamo. Io, come vedi, sono preside. La laurea poi l’ho presa, sai? Clinton ha continuato con il bar, ma quando sua nonna è morta ha preso ad affittare le stanze della villa. E ora va più che bene. – Ho visto che ti sei accasato con Melissa. – Sì… alla fine ci sono cascato. Abbiamo un bambino di 9 anni e mezzo, Mark. Lui è fantastico. Clinton, invece, vive con una tipa di origine messicana. Lei si è trasferita da lui due anni fa. E tu? – Io? – Hai ragione, non sono molto credibile, eh? Sei stato con quella modella spagnola, la Morantes, no aspetta Moravies… – Morales, Joe, si chiamava Magda Morales. – Morales, esatto. Per tre anni, giusto? Poi con l’attrice, l’altra attrice, l’altra attrice ancora… ma non ti sei mai sposato perché non hai ancora trovato la donna giusta! – Vedo che leggi i giornali di gossip. Ennis sorrise, poi, notando lo sguardo di Joe, tornò serio. – È dura ammettere che tutto quello che so dei tuoi ultimi vent’anni me l’hanno detto le pagine dei rotocalchi rosa. Joe si fermò in una pausa snervante, guardando l’amico fisso negli occhi. – Perché non hai mai scritto, Ennis? E non dirmi che non hai avuto tempo perché in vent’anni anche il papa l’avrebbe trovato. Ennis abbassò lo sguardo.

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– Vedi Joe, è che… dopo quello che ci siamo detti, non me la sentivo. Sono passati i primi anni e io ho continuato a pensare a voi. Ma dopo tutto quel tempo, avevo paura che voi vi foste dimenticati di me. Insomma, appena arrivato a New York non avevo niente. Solo i miei 19 anni. Ero lontano da casa, quasi senza soldi, senza lavoro e senza di voi. Credi che sia stato facile per me? Sono partito credendo di avervi perso per sempre. Pensavo di dover ricominciare daccapo, senza di voi, senza mia madre, pensavo… Ennis scoppiò in un pianto dirotto. Joe gli si avvicinò, mettendo la propria fronte contro la sua. – Ascolta, Ennis, noi non ti abbiamo mai dimenticato. Non c’è stato un solo minuto, da quando sei partito, in cui abbiamo smesso di pensare a te. È arrivato il tuo successo. Eravamo così fieri, avresti dovuto vederci. Abbiamo sperato che un giorno saresti tornato. Ma gli anni passavano, e tu… tu non arrivavi. E ora di colpo ti ritrovo nel mio ufficio con quella faccia di merda. Una sorpresa così, credo che non la dimenticherò tanto facilmente. Hai rischiato di farmi prendere un infarto, lo sai questo? Joe prese a ridere, senza togliere gli occhi dal compagno che abbozzò un sorriso spento, carico di cose irrisolte. In un attimo tornò serio, infondendo alla voce una nota più profonda. – Lasciamo andare quello che è passato, Ennis. Per favore. Joe gli diede un buffetto sulla guancia bagnata. – Dai, andiamo da Clinton. Voglio che ti riveda, così oggi facciamo piangere anche lui! Ennis rise, annuendo. Poi avvertì una sensazione strana all’altezza dello stomaco. – E Mandy? Joe, che si stava mettendo la giacca, si fermò di colpo.

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– Di lui non mi hai parlato. Come sta? E nonno Gower? Abitano ancora in via del mare? Le finestre prima erano serrate. Come se non avesse sentito, Joe continuò a infilarsi la giacca, poi si strinse una sciarpa di cotone intorno al collo e aprì la porta, senza rispondergli. – Be’? Cosa c’è? – Ennis, coraggio, andiamo. Ne parliamo più tardi. Ennis avvertì qualcosa nella sua voce strozzata e come preso da uno strano panico allungò il passo e strattonò l’amico per il braccio: – Che ti prende, Joe? Lo superò e chiuse la porta della stanza. Poi con aria più dura, gli si avvicinò al viso. – Che ti prende? Joe cercò di liberarsi dalla presa stretta di Ennis. Quando ci riuscì, fece qualche passo verso la credenza e, allentandosi la sciarpa, si riempì un altro bicchiere di whisky. Poi si girò verso l’amico, con un volto tirato, fatto di ansia e risentimento. Ennis, che sin da bambino aveva imparato a interpretare le espressioni di Joe alla stregua di un semplice dizionario, si preparò alla notizia. Lo stomaco gli si chiuse di colpo. – Ennis… vedi, Mandy… era l’anno scorso. Stava guidando su una strada innevata… era fatto, aveva bevuto, fumato, e poi c’era una curva… Joe cominciò a balbettare. Ennis lo fermò. – È morto, vero? – Sì. Gli occhi di Joe si riempirono di lacrime amare. Ennis gli si avvicinò, offrendogli di nuovo la sua spalla. Ma dietro quella forza, il petto cominciò a fargli male, come se il vuoto all’improvviso avesse inondato le sue viscere. Fu colto da un improv-

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viso senso di vomito. La mente gli si annebbiò. Pensò alla vita, all’amore, alla gioia che si era lasciato alle spalle. Pensò di non esserci stato. D’un tratto credette di vedere la bara di Mandy. E tu? Tu dov’eri, Ennis, un anno fa? Dov’eri mentre Mandy guidava quella notte? Dov’eri mentre lo seppellivano? Forse sul palco… o più probabilmente insieme a una ventenne con la speranza di un provino e il tuo cazzo in bocca! Un senso di colpa insopportabile gli pervase lo spirito, infettandolo come un virus. Dovevi esserci, Ennis. Tu l’avresti impedito. Saresti andato con Mandy e non l’avresti lasciato guidare. Ennis cadde in ginocchio, chiudendosi la testa fra le dita. Joe, preoccupato che stesse svenendo, lo sorresse, inginocchiandosi anche lui. Gli mise le mani a sorreggergli il capo. Poi lo baciò sulla fronte, e gli fece poggiare la testa sulla sua spalla. Non si preoccupò di restare per terra a lungo e aspettò che l’amico fosse pronto a rialzarsi. Più tardi, mentre oltrepassavano il cancello della scuola, Ennis si rese conto di come gli fosse bastata una mattina. Immerso nel freddo irrigidito di Sinnington, capì come in poche ore aveva ripreso a scherzare e a ridere, a piangere e a consolare. Più di quanto gli fosse riuscito in vent’anni. Respirando l’aria rigida, alzò il colletto della giacca e portò il braccio sulle spalle di Joe. L’amico, stupito, sentì una strana stretta al cuore. Nel breve tragitto a piedi che seguì, i due risero, parlarono e restarono in silenzio, immersi nel vento freddo e sorpresi di come il tempo, dopotutto, pareva non averli cambiati affatto.

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