“Prima o poi torno” di Federica Gramegna

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Š 2013 Edizioni Ensemble, Roma I edizione ottobre 2013 ISBN 978-88-97639-95-4 www.edizioniensemble.com direzione@edizioniensemble.com Edizioni Ensemble


Federica Gramegna

Prima o poi torno

Edizioni Ensemble



A mia madre, che con i suoi insegnamenti mi ha permesso di realizzare il sogno pi첫 grande. E ai miei due angeli che, a un cielo di distanza, vedo sorridermi da dietro una nuvola.



Preludio

Una valigia color cartone, il manico è rigido e tu lo tieni stretto. Ti avvolge, come la pioggia che si prepara a scendere da nuvole grasse, poco rassicuranti. Aspetti un taxi, i clacson ti assordano, la folla attorno a te di te non si accorge. Eppure sono loro. Le strade rumorose che hai percorso distratto prima di arrivare a scuola. I tragitti fatti mano nella mano con la tua migliore amica. L’ambulante all’angolo con il volto sfigurato dall’attesa. Le campane di mezzogiorno che hanno orchestrato il tuo primo bacio. Il tuo vicino in bici, rumoroso ma affidabile. I volti e gli amori vissuti, o troppo tardi conosciuti. Lui che avrebbe voluto essere tuo amico, ma non ne ha avuto il tempo. L’orologio segna le quattro, vedi il taxi in lontananza e intanto ti domandi perché sei uscito così in fretta. Forse un trillo di telefono, pochi minuti fa, avrebbe reso una persona felice o te molto più triste. Ma è tardi, sei già dentro. “All’aeroporto, grazie”. L’ultima parola la pronunci piano, quasi sottotono. Poi volti la testa verso il finestrino. Piccole gocce tintinnano lungo il vetro. Cadono lente, preludio di quel che ti aspetta. Come il tuo sorriso, ora.

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Istantanee della tua vita battono tamburi, a ritmo di violini, in una lacrima di zucchero e cartone. Ăˆ anche questo la tua generazione.

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A Bruxelles

Cara Bruxelles, così uniti credo tu ci abbia visto tante altre volte. Nei vicoli della Grand Place, a mangiare una gauffre calda con cioccolata e miele; al Sablon, con le mani piene di cioccolatini firmati Marcolini; nel quartiere très chic di Avenue Louise, a fare shopping, prima di riprendere il tram verso casa; in Place du Luxembourg, per gli amici Place Lux, con una birra in una mano e nell’altra il cellulare a urlare a gran voce “Ci sei?”; in Place Jourdan, da Mamma Roma, a tirare le somme sulla pizza in Belgio; a SaintGéry, che per arrivarci segui il mappamondo, e infine nelle nostre case: Rue du Cornet 46, Avenue de Tervueren 143, Rue du Berceau 11, Rue Franklin 6 e tante altre ancora… Luoghi cult che ci hanno visti ridere, domandare, chiedere di noi, di loro, dei presenti e degli assenti. Perché? Perché non si sa mai. Nelle nostre case si mangia tanto e all’italiana. Niente cozze e patatine fritte, ma l’amalgama internazionale di spagnoli, greci e francesi non manca mai. “E i miei connazionali dove sono?”, ti starai chiedendo insoddisfatta. “Ci dispiace, ne conosciamo pochi, anche se ci abbiamo provato, credici”.

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Noi italiani facciamo “comunella”, si sa, e intanto fuori tu non ci risparmi la pioggia. Certo che con questo clima è difficile resistere alla tentazione, ma poltrire a casa è assolutamente vietato dalle regole del gioco. Quello frenetico, di squadra, che qui ti prende e ti fa conoscere, avanzando pretese. Stasera però siamo tra di noi, possiamo anche fare a meno di giocare. Per stare bene ci basta solo una chitarra che ripercorra la cultura e la canzone della nostra bella Italia. Riparati tutti sotto la stessa tettoia, insieme, alcuni per coraggio, altri per paura. Guardaci ora, Bruxelles, e ascoltaci. Al diavolo le discoteche. Quello che abbiamo da dirti parla di te, di noi dentro te. Grazie per averci lasciato entrare. Il badge che ci rilasci è speciale, ma ce lo giocheremo poi. Ora parliamone. A tu per tu, o meglio, in tre per te. Lei ora può solo origliare. Pensarvi insieme mi fa palpitare. E allora è giunto il momento di iniziare a raccontarsi. Tu continua pure a incidere i minuti al ritmo frusciante del vento, ma lascia che ci si narri tutti, nello spazio di poche pagine che dedichiamo anche a te, crocevia di stranieri passanti, forieri di speranze, con l’ombrello aperto sul mondo ad aspettare che piova, per guardarti dentro e riscoprirsi se stessi, lontani, eppure vicini, a un tempo passato quando tu ancora non ci conoscevi.

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Poi un giorno, disegnando un labirinto di passi tuoi per quei selciati alieni, ti accorgi con la forza dell’istinto che non son tuoi e tu non gli appartieni e tutto è invece la dimostrazione di quel poco che a vivere ci è dato e l’Argentina è solo l’espressione di un’equazione senza risultato, come i posti in cui non si vivrà, come la gente che non incontreremo, tutta la gente che non ci amerà, quello che non facciamo e non faremo. Francesco Guccini, Argentina

Questa è una storia che inizia da lontano, da un pezzo di terra verde che confonde lacrime e sapere. Il nostro, quello dei padri e di chi ancora si fermerà ad ascoltare, ora in silenzio, ora domandando, il racconto di un destino, di una generazione tutta da narrare. Anche quando il riflesso della luna smaschererà gli anni, poggiando la luce sui loro volti solcati dai ricordi. E allora non si farà mai notte. Al chiarore della luna, un eterno fanciullo balla audace il suo ultimo tango. Maximo ha gli occhi del bambino che è stato. Non ha fretta di dire il presente, alcune frasi sono sgrammaticate, l’accento ri-

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vela subito la sua origine, finché una nenia aggraziata non si leva a cantare l’Italia. Quella della domenica mattina trascorsa in famiglia a casa dei nonni paterni, che fa di Dante il portabandiera della nostra lingua. La sfida, per il piccolo Maximo, è imparare l’italiano per leggere la Divina Commedia, che inizia a sfogliare a soli quattro anni. La lettura dei gironi danteschi, in braccio al nonno, si alterna ai racconti di una Roma che sulle sue carrozze, all’ombra dei pini, lungo il Tevere in ascolto, porta a spasso le belle “ciumachelle” che salutano i soldati con un goodbye my darling. Le stesse fanciulle che la sera rimangono affacciate, con il cuore in attesa, sui balconi in fiore. È il popolo delle dolci ninarelle, dei cantori e degli uomini in doppio petto che con audacia sanno di dover ricostruire il Paese sulle rovine del passato, infondendo speranza, senza mai dimenticare lo stornello e la canzone. La cultura italiana del dopoguerra, quella Roma forestiera e cittadina, artista e contadina, le cui origini di popolarità e sfarzo narrano al contempo una storia vecchia di mille anni, ma fresca di poche ore, quelle che succedono allo sbarco degli americani. Qualcuno glielo avrebbe dovuto dire che “bastavano la salute e un paio di scarpe nuove” e poi avremmo girato il mondo accompagnandoci da noi, senza troppi fronzoli. D’altronde il thank you filoamericano poco si intona con quel “grazzie”, pronunciato alla romana, più facile da rimare, da arpeggiare, e per Maximo – che ascolta con la testa appoggiata alla spalla del nonno – da amare e portare in sogno fino all’alba dei giorni venturi. L’Italia è lontana. La separano dall’Argentina i pascoli e i passi delle donne che incedono fiere sulle orme dei loro figli. Come quelli della mamma e della nonna paterna di Maximo che accompagnano la sua crescita con racconti diversi, ognuno po-

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polato dalla presenza del Bel Paese, l’una argentina ma di genitori italiani, l’altra italiana da generazioni. È soprattutto grazie alle loro storie che agli occhi di Maximo l’Italia diventa speciale, proprio perché distante, tanto che per lui, ogni giorno che passa, è sempre più difficile capire le ragioni che hanno spinto i suoi genitori, e ancor prima i suoi nonni, a trasferirsi in Argentina. In realtà, non sa che il viaggio della sua famiglia sarebbe dovuto durare giusto il passaggio di qualche stagione. Invece di anni ne passano. In mezzo ci passa quasi tutta una vita. E a furia di ricordare, non ci si accorge che sta suonando la campana. A festa. Forse è ora di tornare. Ma dove, in quali luoghi? Innanzitutto, lungo il tragitto Brescia-Roma. Un itinerario divenuto mitico, nell’immaginario di Maximo, in quanto percorso dal nonno in bicicletta, in seguito all’8 settembre del 1943. Una storia leggendaria, che narra di spari di cannoni lasciati oramai a tacere alla spalle di una strada fangosa e impolverata. Suo nonno sì che è saggio. Ne sa di tutto, da Dante ai fumetti, e poi ha pedalato tanto, lui. Un giullare sempre pronto a recitare, oggi una poesia domani un consiglio, per il nipote che gli cresce accanto con lo sguardo di chi presto avrebbe avuto negli occhi la coltre della malinconia. Saggio, e altrettanto cocciuto, al punto che il giorno in cui Maximo subisce a cinque anni il suo primo intervento al cuore, decide che suo nipote “deve conoscere l’Italia” e che questa speranza non sarebbe stata ricordata solo come il consiglio di un buon “vecchio”, ma come un insegnamento di vita, di quelli che ti porti sempre dietro, anche quando pensi siano ormai superati perché non hai più l’età per certi sentimentalismi. Passano pochi mesi e quella frase perentoria – è il lontano 1986 – si traduce in realtà, cambiando per sempre il futuro del nostro protagonista.

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La prima volta che Maximo vide Roma gli sembrò troppo grande per lui, un’immensa collina di luci e fontane. Mentre immaginava i gladiatori lottare nel Colosseo, e lungo i fori imperiali cresceva l’orgoglio delle sue origini, si chiedeva cosa fosse quel pulsare forte nel petto, quel sorriso che, camminando sui sampietrini della città eterna, non va mai via. Lo capirà poi. La testa sempre in alto a guardare le finestre dei sontuosi palazzi romani che si nutrono delle voci del popolo. Certo l’architettura è assai diversa da quella delle case in Argentina, ma a Maximo lo spirito sembra lo stesso. I trasteverini, davanti alla chiesa di Santa Maria in Trastevere, accordano chitarre e vendono souvenir, dispensando a tutti un sorriso. In fondo, se avessero anche loro le nacchere, sarebbe come a casa. In Argentina, però, non avrebbe avuto la Rossa, una Ferrari da collezione che gli regala uno dei nipoti di suo padre, Massimo, insieme ad altri modellini di macchine antiche. Una più bella dell’altra, che ti viene voglia di imparare a guidarle, quando devi ancora capire come funziona un motore. Tanto ci sono i pedali a portarti al di là della sponda. Tra i due cugini, che si incontrano per la prima volta a Roma, ci sono ben tredici anni di differenza, ma a unirli è la passione per le automobili. Maximo non sapeva che quel ragazzo, all’epoca maggiorenne, avrebbe voluto intraprendere in futuro la sua stessa carriera, studiando Economia e Commercio, per poi andare a lavorare all’estero, magari proprio a Bruxelles. Peccato, però, che il motore, dopo averne capito il funzionamento, possa rivelarsi astuto fino a ribellarsi e non rispondere più ai comandi. Nemmeno a quelli di un bravo oratore, quale sarebbe diventato Massimo se il motore non si fosse spento di botto nel 1990. In uno scontro di macchine, che bruciò il suo destino su un cemento di sogni infranti.

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Durante il viaggio di ritorno in Argentina, Maximo ha la sensazione di aver dimenticato qualcosa laggiù, non un fumetto, non un giocattolo. Non conosce il termine esatto per definire quel che si è lasciato indietro, ma qualsiasi cosa essa sia, sente che un giorno viaggerà per riprendersela. E la metterà nel suo zaino. È sicuro che il padre gliene prenderà uno più grande, una volta cresciuto. Serve tanto spazio, di tempo ce ne sarà da aspettare, ma dopo averla presa la terrà al caldo, sulle sue spalle. Probabilmente per sempre. L’occasione per tornare indietro, e capire, arriva solo al suo diciottesimo compleanno. Il nonno gli aveva promesso che come regalo per la maggiore età lo avrebbe portato lungo l’itinerario Brescia-Roma, per ripercorrerlo insieme in bici, proprio come aveva fatto lui ai vecchi tempi. Maximo aveva trascorso intere giornate a prefigurare il cammino, in compagnia del suo zaino, depositario di ogni memoria. Certo, sarebbe stata dura, forse il nonno si sarebbe dovuto allenare un po’, ma non si poteva dire che non fosse in gamba. Alla sua età aveva ancora la forza di litigare con la moglie. “Questo viaggio, in confronto alle loro accese discussioni, sarà una passeggiata”, pensava. La resistenza c’era e il fiato pure. Eccome. E invece, tutto a un tratto, il nonno torna in Italia, ma senza di lui. Maximo non immaginava, al ritorno da una gita scolastica di pochi giorni, che ad attenderlo ci sarebbe stata solo una poltrona vuota, la stessa su cui si era sempre seduto da bambino per ascoltare, più da vicino, i suoi sapienti racconti. I genitori non sanno cosa dirgli e prendono tempo. Non hanno certo la stoffa da romanzieri del vecchio saggio che ha cresciuto loro figlio. Ma Maximo non ha bisogno di troppe parole, lo intuisce da sé dopo un momento di profondo silenzio. Il nonno non sareb-

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be più tornato e quel lungo tragitto, da Brescia a Roma, lo avrebbe dovuto affrontare da solo con uno zaino che ora, a metterci le ceneri di famiglia, si sarebbe riempito di rabbia e frustrazione, o forse solo di immatura incomprensione. Maximo capisce che i genitori non gli hanno detto tutta la verità. Perché il nonno, la persona che lo avrebbe dovuto portare in Italia a fargli conoscere le meraviglie del suo Paese, era morto proprio lì senza mantenere la promessa? Perché era partito sapendo che qualcosa sarebbe potuto accadere? Quante domande nella testa del piccolo Maximo. E purtroppo, accanto a loro, ben poche e confuse risposte. Il nonno soffriva di cuore e le complicazioni, si sa, lontano da casa sono sempre più difficili da sopportare. Eppure lui era così saggio, possibile che non conoscesse i rischi della malattia? L’Italia lo aveva fottuto, proprio lui che l’aveva amata tanto. Ma allora perché Maximo avrebbe dovuto esaudire il desiderio del nonno e tornare a Roma? In fondo, avrebbe potuto piangerlo anche in Argentina, pur senza una tomba su cui chinarsi. D’altronde, tra le mandrie al pascolo, è tutto un incedere di passi dalla memoria lunga. Lavorano la terra che il sole brucia di nostalgia. A cavallo dei suoi raggi, un’intera generazione non conta più gli anni al passato e per ogni figlio portato in grembo vi è l’idea che qualcuno, dopo di loro, ritroverà la pace. La fortuna, quella per cui si era partiti allora, l’hanno già fatta. Dalla vita non possono pretendere altro. Maximo, invece, aveva ancora l’età per chiedere. E chiedeva solo di non dover scegliere. Tra un ritorno, che avrebbe significato ammettere la morte del nonno, e uno zaino da riporre per sempre nell’armadio, insieme a tutti i souvenir e alla palla di vetro con Roma in miniatura, che avrebbe obliato di colpo il suo sogno più grande. Sarebbe stato come farlo morire due volte, ma accettare,

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dentro di sé, l’eternità dell’affetto. Che decisione grande da prendere. E Maximo è ancora troppo piccolo. In quel momento non poteva che lasciar riposare la mente e andare a dormire in compagnia delle sue amate letture in cerca di una risposta. Fino a che non fu la scuola a metterlo di fronte a una scelta. L’istituto italiano, frequentato da Maximo, doveva essere rappresentato nel Comune di Civitavecchia e per quella occasione il più bravo della classe avrebbe dovuto portare la bandiera italiana o argentina, a seconda del corso di lingua in cui aveva i voti più alti. Maximo era il migliore in entrambe le materie. Così, il direttore della scuola chiese direttamente a lui quale Paese desiderasse rappresentare durante la manifestazione. Per Maximo non c’erano dubbi. In quell’istante, nell’aula con il preside, ogni immagine lasciata a purificarsi dal dolore gli riaffiorò alla mente, in un improvviso tripudio di chitarre e mandolini. Le nacchere? Quelle no, sono tipiche dell’Argentina. In fondo, il ritmo non è proprio lo stesso. Quel pomeriggio, dopo la scuola, Maximo fece una gran corsa per arrivare a casa e, ancor prima di sedersi a tavola per la cena, esclamò ai suoi: “Ho scelto, sarà la bandiera italiana”. Da dietro il «Corriere della Sera», vide il padre sorridergli, con uno sguardo complice, e la mamma farsi pensierosa. “I tuoi compagni non capiranno questo gesto, è l’Argentina che vai a rappresentare”. “E io”, avrebbe voluto aggiungere ma non lo fece, “sono argentina”. “Se questo ti dispiace, mamma, porterò la nostra bandiera”, le rispose Maximo con la voce spezzata. Nel frattempo, il padre aveva già ripreso a leggere, sapendo che in pochi minuti la questione si sarebbe risolta. Conosceva bene la moglie e ancora di più la testardaggine del figlio.

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“Ma no, ragazzo mio, porta pure la bandiera italiana se è ciò che desideri”. Due enormi sorrisi come a dire: “In fondo siamo tutti una famiglia”. A Maximo, però, restava la responsabilità più grande, quella che probabilmente il nonno avrebbe persino dato ragione alla moglie pur di assistervi, ma non senza polemiche. Tanto poi l’ultima parola, si sa, sarebbe spettata a lui, che era sempre stato il più forte. Vedo Maximo prendere fiato, solo un momento. Lo guardo negli occhi e il suo sorriso è quello di una persona buona, vera, anche se parlandoci ho come l’impressione che questo ragazzo non sia mai stato bambino, cresciuto a cavallo tra la soglia di casa e una pista aerea su cui far decollare, con fatica e orgoglio, tutto il sapere e la memoria della sua famiglia. Viaggio di sola andata, direzione Roma, Italia o Italy, come preferite. L’importante è che la busta non torni indietro. Il francobollo, Maximo, è stato ben attento a bagnarlo con le lacrime di chi lo ha fatto nascere. – E a quel punto, Fede, Dio ha fatto una mossa –. La voce è complice, birichina, anch’essa, come lo sguardo sveglio di questo giovane ventisettenne. Maximo torna in Italia, con la scuola, nel 1999. Ad accoglierlo c’è una zia speciale, che negli anni a venire diventerà la sua principale alleata: zia Renata. Era stata lei a prendersi cura del nonno prima che morisse, e a vedere per l’ultima volta quel volto, ancora sognante, spegnersi con un sorriso perché morto in patria, non in Argentina, come sua moglie pochi anni prima. Zia Renata gioca la carta più rischiosa, quella che una volta girata svela la realtà e te la mette davanti senza scuse, dapprima solo immaginata, poi finalmente pronta a essere compresa con tutte le

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conseguenze del caso. Tristi, ma anche loro dannatamente vere, come le situazioni che preferisci guardare da lontano, perché le senti distanti da te, finché un giorno non ti raggiungono cogliendoti alla sprovvista. Anche se non lo avresti mai creduto possibile. Da portavoce di questa storia, quale sono, mi permetto di azzardare un giudizio. Credo che Renata abbia visto, nell’espressione del nipote, lo stesso bagliore che colpisce me, ora, mentre Maximo ricorda il giorno in cui per la prima volta pianse la morte del nonno. La fatica è dolce, il respiro lento, perché non si può avere fretta di ascoltare la traccia più dolorosa di questa storia. “Abbi pazienza”, sembra volermi dire, “so di essere un chiacchierone”. Non può far scendere le lacrime, questa è un’intervista, bisogna essere professionali. In fondo abbiamo tutti una morte dolorosa che ci accompagna nella vita. La sua, Maximo la ricorda con un’immagine: lui che prega su una tomba cosparsa di gigli per poi finalmente abbandonarsi al pianto. Ora sì che le lacrime possono scendere, ora che può guardare al suo “vecchio” con tutto il calore trasmessogli negli anni dalla melodia degli stornelli romani, dalla bellezza delle donne d’Italia – quelle che la meglio gioventù l’hanno cresciuta tra zappe e bestiame – dall’amore per i libri di storia che esaltano l’Italia tutta, da Nord a Sud, ma non ne raccontano la trama più bella – per fortuna la sa il nonno – dal suono delle campane, lasciate cantare durante la messa a Santa Maria in Trastevere, dai souvenir mostrati con orgoglio ai compagni di scuola. Chissà se loro vedranno mai Roma… E infine, un’altra istantanea: le gambe tremanti del nonno. Maximo si era accorto che negli ultimi tempi gli era diventato sempre più difficile raccontare e sperare con la forza di un uomo maturo. Per lui, che era tornato bambino. E tale, con lo spirito del giovane

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scampato ai bombardamenti, avrebbe voluto ripercorrere con il nipote il tragitto Brescia-Roma che lo aveva fatto uomo. Chissà se pure quel ragazzino avrebbe imparato che la vita è una sterzata improvvisa, che si fa volto e voce, ti chiede dove vuoi andare e se a quel punto la risposta non è ancora pronta – nemmeno lontanamente puoi giustificarne il ritardo, sarebbe scorretto – allora meglio abbassare lo sguardo e provare a tastare con la suola i ciottoli di varie forme che il primo sentiero ti offre. Forse a metà strada, o solo alla fine del percorso, ti ritroverai di nuovo a deviare, e troppe volte ancora dovrai sporcarti le scarpe sul fango di sassi via via dalle forme più strane. Smussati, regolari, screziati o privi di sfumature, possibile solo a un occhio distratto. Quando la vista si farà più audace, la mente diverrà critica e il passo caparbio, determinato, pronto a seguire il ritmo esagitato dei tuoi pensieri. Allora, a quel punto, avrai fatto la tua scelta, avrai deciso di sterzare e di regalare alle tue iridi, uno a uno, il colore brillante dei ciottoli a terra. La voce di Maximo si fa più sicura, il tono è chiaro, limpido, e lui torna a raccontarsi non smettendo mai di sorridermi. Riprende la storia da una telefonata. Una volta ritornato in Argentina, Maximo riceve la chiamata di zia Seta, una delle sorelle del padre, che gli dice di aver letto nel suo sguardo l’amore caparbio per l’Italia e, come in una profezia di altri tempi, gli rivela il futuro in poche, semplici, parole: “Tu ce la farai, ritornerai al tuo Paese, hai negli occhi la stessa luce che aveva mio figlio Massimo”. Gli anni che seguono diventano per lui una sfida, non verso gli altri, ma verso se stesso e il suo sogno più grande: fare ritorno nella città eterna e a quella chiesa di Trastevere, le cui campane sentiva ancora suonare a festa, nonostante tutto.

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Maximo si iscrive, in Argentina, alla Facoltà di Relazioni Internazionali e a quella di Economia e Commercio, malgrado lo scetticismo della madre che vedeva per lui un futuro di contabile nell’azienda di famiglia. Ma ci sembra di aver capito che a Maximo le vie più semplici non siano mai piaciute. Studio, solo studio. A tutte le ore del giorno. Chino sui libri, per conoscere e immaginare l’Europa unita, l’ideale di una società multiculturale che nasce per non disperdere la ricchezza del mondo. E pensare ai propri figli come parte di una cultura che non ammetta prestiti ma confronti, lasciando da parte, quando possibile, i calcoli d’interesse. D’altronde l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale in Europa e Maximo lo sa. Sa che essere italiano significa innanzitutto capire perché si è europei. “Andiamolo a raccontare oggi a chi ancora non crede in questo sogno”, sembra volermi dire mentre inizio a intravedere la stoffa di chi la politica, non solo l’ha appresa sui libri, ma ha anche viaggiato per comprenderla, valutarne le ragioni per poi magari arrivare persino a disprezzarla. Senza mai rinnegarla, però. Perché la politica ha fatto la Storia ed è grazie alla Storia che Maximo ora insegue quel sogno, e non un altro, ed è sempre grazie a Lei – «nessuno si senta escluso, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da raccontare» – che la sua famiglia conta le trame d’argento alle partenze e ai ritorni. In Australia, Canada, Argentina. Lasciando traccia di sé nei vecchi album di famiglia. O al di là del filo di un telefono, perché Maximo negli anni non ne ha mai perso il contatto in giro per il mondo. L’Italia erano loro e Bruno Vespa (Maximo lo conosce da quando ha dieci anni) la RAI e le canzonette, il Festival di San-

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remo. Perché alla fine, come diceva ridendo sua mamma, di quei sessanta canali messi dal padre negli anni Novanta ne trionfava solo uno: il primo canale RAI. Anche all’estero – è proprio il caso di dirlo – la mamma è sempre la mamma però, per una volta, possiamo essere orgogliosi di portarci dietro il pregiudizio dell’italiano “mammone”. Durante gli anni dell’università, Maximo è spesso irascibile, anche con i suoi migliori amici, perché la sua ossessione è finire presto gli studi per poter andare definitivamente a Roma. In tempi record fa il suo primo esame ed è il primo a laurearsi su trecento studenti iscritti nel suo stesso anno. Oggi ha 27 anni, ma continuo a pensare di avere di fronte un uomo di gran lunga più maturo della sua età. Mentre lo ascolto ne stimo le parole, messe l’una accanto all’altra con cura sapiente, e mi dico che c’è tanto da imparare da questo ragazzo. Come da tutti coloro che la vita se la costruiscono da sé, cogliendo nell’alba di ogni giorno una speranza per il proprio futuro. Caso o destino che sia, forse entrambi, dipende sempre da noi. «Siamo noi Bella ciao che partiamo». Possiamo immaginare di vedere questo verso correre lungo le immagini in Power Point della tesi di Maximo. Niente connotazioni politiche, si intende. Prendiamolo come un riferimento puramente casuale, ma che dice la verità. A quel “siamo noi” sostituiamo un “sono io”… anzi no, lasciamolo pure intatto questo verso meraviglioso. Anche perché, una volta discussa la tesi, è Maximo a partire di corsa per l’aeroporto – e pensare che avrebbe perso il volo, se lo avessero tenuto qualche minuto in più durante la discussione – direzione Roma, questa volta senza biglietto di ritorno o lacrime con cui bagnare il francobollo.

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Il giorno successivo sarebbe sicuramente partito qualcun altro, figlio di emigrati o anche di nessuno, accelerando il passo del taxi o godendosi il tramonto argentino lungo la via, mentre domani saremo noi, la nuova emigrazione professionale sicura di sé, apparentemente poco confusa, ad afferrare le valigie lungo un tramonto assonnato che profuma di terra bagnata, sullo sfondo di una Bruxelles che dice addio ai suoi migliori europei. La tesi. Lo avevamo lasciato lì a discutere del rapporto tra la Russia e l’Europa. Ma ora è davvero il caso di andare, non si può indugiare tra abbracci e congratulazioni. Festeggeremo poi. Maximo mi dice che per lui la tesi di laurea è stata un po’ come la fase del check-in: semplicemente un tramite amministrativo. Indispensabile per la mossa successiva, quella per cui aveva bisogno di sentire accanto a sé l’affetto dei genitori. In aeroporto, poi, la frase più bella: “Preferisco un figlio realizzato a uno infelice”. Quelle furono le prime parole d’incoraggiamento pronunciate dalla madre dopo tanti anni. “Grazie mamma”, sembra pensare ora, in un breve attimo di silenzio in cui il suo sguardo parla da sé. Sull’aereo per Roma, Maximo incontra un giornalista genovese che lavora nella capitale, così si ritrova immediatamente a parlare italiano. Per lui questo è un altro segno: la sua città che ritorna nei discorsi, nelle voci degli sconosciuti e in ogni suo gesto, anche il più semplice. Fino a che l’aereo non atterra e quella città diventa reale, però stavolta è una realtà diversa, non una gita o una vacanza, ma un ritorno a casa. Chissà come sarà. Cosa mi aspetterà fuori. Come mi sentirò oggi. Oggi mi sento bene. Alla grande, direi. Nonostante la pioggia che mi accoglie. Questa, no, proprio non me l’aspettavo.

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Passa una notte, e ne passano altre ancora, prima che Maximo realizzi davvero di essere riuscito a coronare il suo sogno. Saranno il Ferragosto, San Felice Circeo e una canzone a farglielo capire. Non una qualunque, bensì l’inno di Mameli, cantato da una banda che, nel giorno più corto di quell’estate laziale, non sapeva di suonare amore, lacrime e speranza. “Ce l’ho fatta”. L’Italia cantata col cuore. Iddio la creò, con il suo cielo carta da zucchero e la cultura della bellezza, esteta di se stessa. Maximo si desta con lei, al chiarore di un azzurro silente che abbraccia l’immensa pianura della Pampa argentina, con il giallo dei girasoli e il promontorio sabbioso di San Felice Circeo da cui, affacciandosi, si scopre quanto sia bello coccolare i ricordi nello spazio di una natura che tutto a un tratto diviene universalmente propria. Maximo, una volta a Roma, inizia a sistemare la casa che un tempo era dei nonni e che i genitori avevano affittato a studentesse universitarie. C’è da rifare il bagno e dare una ripulita alle stanze, ma non è certo un problema. Se non fosse, però, che bisogna pensare anche al proprio futuro. Nonostante abbia solo ventitré anni, ha le idee chiare sulla carriera che vuole intraprendere, ma sa che non è facile fare i passi giusti. A consigliarlo è soprattutto uno dei cugini romani, tenace e determinato come lui, il quale gli suggerisce di partecipare a un concorso del Ministero degli Esteri, dove si sarebbe dovuto occupare di politiche comunitarie. All’inizio Maximo è scettico, non sa se possiede le competenze giuste, poi, però, come sempre, si lancia. Si prepara scrivendo tesine in italiano sull’Unione europea. Pur conoscendo altre tre lingue (spagnolo, francese e inglese), non fa confusione. Sbaglia solo qualche accento, ma il contenuto è perfetto, lineare, tecnico. La commissione esaminatrice non ha dubbi;

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così, nonostante qualche parola scritta male, la sua prova viene premiata. Quando riceve la notizia, Maximo è in Spagna, su una spiaggia, a godersi l’estate. Un tuffo al telefonino e un altro al cuore, tant’è la gioia di essere stato preso. Gli viene proposto un contratto da funzionario della durata di un anno, ma a pochi mesi dall’inizio, si rende conto che quell’ambiente non fa per lui. Ci sono pochi giovani e il suo capo non sa neanche quale sia la differenza tra una direttiva e un regolamento. Anche lui sente che dovrebbe approfondire quegli argomenti ed è così che decide di iscriversi a un master. Nel frattempo, invia una tesi sull’Europa per partecipare a una conferenza prestigiosa in Svizzera, per cui avrebbero selezionato solo quindici persone e (non avevamo dubbi) senza troppe difficoltà riesce a entrare nella lista degli “eletti”. Un bel biglietto da visita, peccato però che fosse l’unico italiano, tra l’altro in mezzo ad altri cinque argentini. Maximo rimane sorpreso della mancanza di italiani alla conferenza e lo è ancora di più quando un giornalista gli chiede di unirsi ai suoi compatrioti per una foto da pubblicare sul principale giornale argentino, «La Nación», pretendendo che Maximo si togliesse il badge da cui si vedeva che era italiano. Lui risponde di no, vista la doppia nazionalità. Tuttavia, durante la conferenza, vengono scattate delle foto e – a volte è proprio singolare il destino − il giorno in cui Maximo rimette piede in Argentina, dopo il viaggio di ritorno da Roma, prende il giornale e… si ritrova in prima pagina! Ma torniamo alla vita nella caput mundi. Siamo nel giugno del 2006 quando Maximo decide di iscriversi a un master per approfondire gli studi europei. La scelta ricade su quello del-

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l’Università degli studi Roma Tre, apparentemente una buona tappa per acquisire nozioni tecniche. Il cugino, però, insiste affinché si iscriva al Collegio d’Europa, una delle scuole più prestigiose per chi vuole lavorare nel campo degli affari europei, nel pieno ritmo di Bruxelles. Due sono le principali destinazioni: Bruges, in Belgio, e Natolin, in Polonia. Alla fine Maximo cede alle pressioni del cugino e presenta la domanda, vedendolo tuttavia come un sogno irraggiungibile. Ma il destino, si sa, a volte è beffardo… Quando Maximo va in banca per pagare il master di Roma Tre, realizza che il conto è stato aperto dallo zio, per cui serviva la sua firma per effettuare il versamento. A quel punto può solo aspettare che lui lo raggiunga, ma improvvisamente, durante quella forzata attesa, le sue certezze subiscono un crollo disarmante. Forse avrebbe dovuto impiegare meglio le proprie risorse… il pagamento poteva ancora attendere. Chiamatelo istinto, ragione del cuore o se preferite “lampadina”, fatto sta che dopo pochi giorni Maximo ricevette una mail dal Collegio d’Europa che gli comunicava di presentarsi per un colloquio. Maximo non riesce a crederci. Questa volta la soddisfazione è davvero grande, non solo la sua, ma anche quella dei familiari. Anche se non sarebbe stato facile affrontare la commissione esaminatrice, che lo avrebbe dovuto giudicare idoneo per la partenza verso il suo sogno. Il giorno del colloquio, Maximo conosce quello che poi diverrà uno dei suoi migliori amici, Alessandro, anche lui in coda come tanti altri ragazzi. Quando tocca a lui, si mostra deciso, non ha paura, è molto motivato, anche se a fine intervista si ritrova di fronte a una do-

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manda imbarazzante, che gli rivolge proprio il rappresentante della Farnesina: “Senta, ma è sicuro che qui valga la sua laurea?”. Una domanda provocatoria alla quale Maximo risponde senza farsi mettere paura, chiarendo di poter portare la documentazione che attesta gli esami fatti in Argentina e dimostrare, così, di aver seguito lo stesso percorso di studi degli italiani iscritti a Scienze politiche. Che poi, lui, ha anche la laurea in Economia, quindi semmai ha qualcosa in più, e non in meno, rispetto agli altri. Niente panico. “Una volta avuta la documentazione, sarete voi a decidere se i miei studi sono appropriati oppure no”, ribatte convinto. La domanda che gli è stata rivolta non è gentile, ma quando il direttore del Collegio d’Europa lo saluta con un muchas gracias, allegato a un sorriso di complicità, Maximo capisce che saranno cinque contro uno. Tuttavia mantiene la promessa fatta e, dopo una serie di chiamate in Argentina, si fa recapitare il materiale da inviare alla commissione. Lo manda, dopodiché aspetta. Fino al giorno in cui non riceve la chiamata di Alessandro il quale gli comunica, pieno di gioia, che sono usciti i risultati e che è stato preso. “Devi fare questa telefonata, Maximo, forza”, lo incoraggia l’amico, ma per lui non è facile. Ora ha paura, ha bisogno di sostegno. Va a casa di zia Renata che, entusiasta, lo sprona a chiamare, ma vedendolo indeciso sul da farsi alla fine prende in mano la situazione e compone lei il numero. Nel frattempo, Maximo esce dalla stanza come un cane bastonato e la lascia sola. Un attimo dopo le grida di felicità. E lacrime di sincera commozione. “Ce l’hai fatta”. Maximo ancora non sa che questa frase lo avrebbe accompagnato a lungo durante la sua vita. Lui stes-

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so, come la zia, non sta nella pelle. È un’euforia generale, condivisa anche dai genitori che lo chiamano subito dall’Argentina. Un altro sogno sta per realizzarsi. Dopo Roma, Bruxelles, e da lì Bruges, una tappa indispensabile per arrivare a lavorare nel cuore della capitale europea. Questo avrebbe significato allontanarsi da Roma, ma Maximo ha fiducia nel suo progetto, soprattutto crede nell’Europa unita e sente di dovervi dare un contributo personale anche per migliorare l’Italia. All’aeroporto di Ciampino, ad abbracciarlo, c’è la sorella arrivata apposta dall’Argentina. Di nuovo una pista, ancora una partenza. A quando, Maximo, il ritorno? Questa domanda, però, me la tengo per me, gliela farò alla fine dell’intervista, ora è troppo presto. A Bruxelles, Maximo porta con sé il peso necessario per sopravvivere giusto qualche mese. Dall’aeroporto di Charleroi prende la navetta e giunge alla Gare du Midi (la vecchia gare che all’epoca, nel 2007, non era ancora stata ristrutturata). Dalle tasche escono soldi che non ha nemmeno contato, ma ha solo quelli dato che non porta con sé la carta di credito. Banconote piegate, anche un po’ stracciate, ma cosa importa? È Bruxelles. E piove… Per Maximo la capitale europea è una tappa intermedia dove trascorrere giusto qualche giorno, per presentare una relazione al Parlamento su tutto quello che aveva appreso al Ministero degli Esteri. Questo fu il suo primo ingresso nelle istituzioni da protagonista, anche se a Bruxelles c’era già stato con le missioni del Ministero. Dalla moquette grigia del Palazzo di vetro e alle French fries – de gustibus – fino alla stazione dei treni. Direzione Bruges, la città in miniatura che qui in Belgio definiscono la “Venezia del

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Nord” (ma, scusate, non erano Amsterdam e Praga?), un quadretto naïf con i rami secchi degli alberi, a ridosso dei ponticelli, che si riflettono sui canali d’acqua verde, mentre il freddo che trapunge la piccola città ti spinge a conoscerne i pub del centro e i ristoranti turistici. Ma dove sono gli altri? Maximo se lo chiede durante la sua passeggiata, prima di raggiungere la sede del Collegio. Muy raro. Alla fine se li ritrova davanti tutti insieme, i suoi compagni, futuri amici, colleghi e – ancora non se ne rende conto – rivali. A Maximo salta subito all’occhio l’alta presenza di italiani. Il suo amico Alessandro è stato preso a Natolin, in Polonia; peccato, avrebbero fatto volentieri baldoria insieme. Ma si rifaranno in seguito. A questo punto dell’intervista, gli chiedo come si sia trovato al Collegio. Se sia stato facile stringere amicizia e integrarsi in un contesto così grande e competitivo, ma allo stesso tempo chiuso, dato che, stando alle varie testimonianze, si passano le giornate a preparare esami con ritmi velocissimi che non permettono di evadere. Una “gabbia dorata”, una sorta di caserma in cui tutto è sotto controllo e la parola d’ordine è lobby. Le feste si organizzano all’interno del Collegio, come le stesse bravate, per non impazzire del tutto dietro a scadenze serrate, o meglio possibili solo per quei pochi che giungeranno alla fine con voti alti e perché no, dalla loro, un bel concorso per lavorare da agente contrattuale nelle istituzioni europee. – Gli italiani hanno un modo speciale di fare gruppo. Se non entri appieno nei loro “schemi” di divertimento, dello stare insieme appena se ne ha la possibilità, ti fanno sentire a disagio. Non voglio generalizzare, ma la mia esperienza con gli italiani del Collegio non è stata tanto positiva. Quando senti-

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vano che parlavo spagnolo, e mi vedevano con gente di altra nazionalità, mi facevano sentire un escluso. Spesso gli italiani riescono ad aggregarsi solo con i propri connazionali. Se dovessi fare un bilancio direi che mi sono trovato meglio con gli spagnoli, però… Lo so, Maximo, non devi aggiungere altro. Questa è stata la tua esperienza, però sappiamo tutti quanto ami l’Italia, quindi prendo nota senza giudicare. L’anno a Bruges lo mette a dura prova. A master concluso, ritroverà nelle opinioni di Alessandro lo stesso giudizio; in fondo, quel che conta davvero è il risultato. L’importante è che gli sforzi vengano premiati e ancora una volta Maximo non delude le aspettative di chi gli sta attorno. Dopo il master, infatti, decide di passare l’estate a Bruxelles e invece di riposarsi fa lobby, come gli hanno insegnato i professori del Collegio. Così, in poco tempo, trova uno stage presso la “European Foundation for Democracy” dove lavora sui diritti umani. L’ambiente è stimolante, il salario non è alto, ci si paga giusto l’affitto, ma non è male. In realtà non era scontato trovare un tirocinio a pochi mesi dalla fine degli studi. – Bruxelles è una città piccola, chi viene qui, in genere, ha un alto profilo di studi e vorrebbe lavorare per il Parlamento o la Commissione. L’ambiente è estremamente competitivo e io, nonostante il Collegio d’Europa, non mi sentivo affatto sicuro di me. Non è vero che si tratta di un lasciapassare; certo se ce l’hai sul curriculum è un bel vantaggio, ma poi dipende da come riesci a muoverti in questo mare di ipotetici o reali stagisti, considerando che, secondo le statistiche, Bruxelles è la capitale d’Europa con più tirocinanti. Dopo lo stage, Maximo trova il suo lavoro attuale di consulente presso la Burson-Marsteller dove si occupa, in particolare,

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di energia. Ha un contratto a tempo indeterminato, che definisce interessante in quanto gli permette di crescere professionalmente e, allo stesso tempo, di lavorare su un tema che lo ha sempre appassionato. Maximo è un fiume in piena mentre racconta del suo lavoro. Tutto a un tratto, poi, inizia a parlarmi di capitalismo e i suoi occhi si accendono. – Il capitalismo in Italia non è possibile? Una gran cazzata. Passami il termine, ma non è vero come pensa la maggior parte della gente che l’Italia, in quanto legata al passato e alle tradizioni, non può essere capitalista. Noi abbiamo qualcosa che tutte le altre nazioni ci invidiano: la passione. In quello che facciamo, in ciò che crediamo. Qui a Bruxelles non vedo la stessa vivacità nelle persone. E mi riferisco sia ai belgi che ad altri cittadini stranieri. Maximo a questo punto fa un passo indietro nel tempo e torna con la memoria a quando era andato a visitare il box della Ferrari. Era rimasto impressionato nel vedere come veniva pulita e lucidata la Rossa. – Ecco come diventiamo quando ci piace quello che facciamo. Siamo originali, appassionati, e sembra che nessuno possa fermarci e abbattere le nostre speranze. È così per l’artista di strada come per quello d’azienda (è Maximo a coniare questa definizione). Tra l’altro, quando si riesce a essere creativi in ambito imprenditoriale, è lì che si vede la differenza, e l’Italia potrebbe essere piena di questi esempi se solo lo volesse. Invece, per la nostra generazione, quella a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, il passaggio dall’idealismo alla realtà si chiude nel segno della repressione. Barlumi di sogni appena nati e già conclusi con un: “Cosa vuoi fare, il giornalista? Cambia

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strada finché sei in tempo!”, oppure: “Avresti fatto meglio a studiare di meno e a imparare un mestiere, come si faceva una volta. Oggi gli elettricisti guadagnano più degli avvocati” (non me ne vogliano) o, come se non bastasse: “Sì, d’accordo, avrai pure una laurea, ma hai zero contatti… se riuscissi a pagarti un master, forse…” (me li dai tu i soldi? Scusami, è vero. Non me la devo prendere con te, mi stai solo dando consiglio). L’Italia di oggi si fa avanti a stento, cercando di raggiungere i modelli europei, ma non ce la fa. Usciamo dalle nostre case, facciamo il giro del palazzo e torniamo indietro. Abbiamo paura, tanta. L’alternativa sembrerebbe partire, ce lo dicono gli amici più intraprendenti, quelli che contano almeno l’esperienza Erasmus sul curriculum, i parenti più avveduti (vecchi sessantottini), ma non certo mamma e papà che vorrebbero sempre monitorare i nostri passi. Tranquilli, signori. Di questo passo non andremo certo lontano. Forse lasceremo i mari del Sud per spostarci al Nord, ma l’Italia si lamenta tutta da Nord a Sud, la crisi ha colpito il Paese nella sua totalità e noi francamente siamo stanchi. Anche di dire che lo siamo. Perché in fondo ci vergogniamo di questa condizione di paralisi che ha frenato la nostra voglia di andare avanti e di credere che la situazione possa davvero migliorare. – Quella di oggi è un’Italia che sta bene a casa propria. Capisco lo stato d’animo di chi preferisce non andare fuori, tanti hanno paura dell’ignoto, di ritrovarsi in un Paese da soli, senza poter comunicare. Tuttavia, il problema più grande credo sia il crollo dei valori che ha colpito l’Italia in questi ultimi decenni. Ora l’italianità è rappresentata dal cellulare all’ultima moda o dalla borsa griffata, comprata dai cinesi tra l’altro. Questo è il sogno. Non più portare a termine un progetto e sentirsi appagati con quello che si fa, per se stessi e per gli altri, ma acquistare l’ultimo modello di iPhone. Mentre una buona fetta dei quasi quattro milioni e mez-

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zo di italiani residenti all’estero vorrebbe tornare, per dare ai propri figli un futuro di valori meno virtuali e più reali, anche ideali, perché no, visto che in fondo dall’idea nasce il progetto e dal progetto, poi, si costituisce la realtà di un sistema. Ma l’Italia non li richiama sull’attenti. Il Paese è oramai schiavo di una politica di furbetti e raccomandazioni, un virus che fa ammalare tutti, anche i più onesti, e non c’è vaccino che tenga. Ci si prova a farne a meno, ma chi non cede rimane fregato e, nella maggior parte dei casi, viene anche deriso per eccesso di lealtà. E noi, invece, italiani di Bruxelles, che facciamo la spola tra un bar e l’altro di Place du Luxembourg? Meglio dalle 18.30 in poi, quando siamo sicuri di trovare qualche funzionario delle istituzioni. Apro una parentesi personale. Ricordo perfettamente la mia impressione quando arrivai per la prima volta in questa piazza gremita di ragazzi, il giorno prima dell’inizio del mio stage. Presa dall’ansia, dato lo scarso senso dell’orientamento, avevo deciso di fare la strada da casa di un amico da cui ero ospite al Parlamento, per non perdermi l’indomani mattina e i giorni a seguire. Chiedevo informazioni in inglese e, per tutta risposta, mi dicevano “Tout droit”, sempre dritto. Era una bella giornata, fredda ma con il sole, e quella piazza, allora, mi sembrò davvero carina. Ancora non mi rendevo conto che, tra quei pub e quel brusio assordante, le mani da cui ricevevi una pacca sulla spalla e un “Ehi, congratulazioni per lo stage!” erano le stesse a cui pochi minuti dopo avresti dovuto avere la faccia tosta – non per tutti, ovvio − di chiedere un biglietto da visita. Il cosiddetto networking, ovvero il contatto a tutti i costi. Assordante assonanza. O se preferite consonanza di progetti, obiettivi e concorsi.

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Maximo lo sa, come tutti noi emigrati a Bruxelles. La differenza con l’Italia è che qui si ha la percezione che la conoscenza “giusta” sia complementare alle proprie competenze. Da sola non basta, serve il talento prima di tutto. In Italia, invece, la raccomandazione è essenziale per trovare lavoro e a farne le spese sono gli studi e i sacrifici. Anche per questo i ragazzi si impegnano meno. Tanto vige l’idea che basta essere raccomandati e “si passa”. Maximo mi dice che proprio qualche giorno fa, scorrendo i suoi biglietti da visita, si è reso conto di non ricordarsi affatto di chi fossero quelle persone, di non riuscire ad associare un fisico e un volto ai nomi scritti su quei pezzi di carta. Eppure molti di loro li aveva conosciuti solo un mese prima. – Tuttavia, non puoi fare a meno di conoscere gente a Bruxelles, altrimenti te ne torni a casa senza nulla e ci perdi anche la faccia. E poi ci chiediamo perché la maggior parte dei nostri amici torna a casa tutti i fine settimana. – Qui la gente pian piano si trasforma, il sistema ti impone di essere efficiente e produttivo ed è anche per questo che, come un vero uomo d’affari, fai in modo di allargare le tue conoscenze, fino ad avere ritmi sociali esasperati e a sentirti solo ogni giorno di più. I legami che instauri sono fittizi, deboli, li tiene uniti solo uno scopo, che non sai bene neanche tu come definire perché non hai ancora capito cosa vuoi davvero dalla vita. Ma senti che una giornata sotto la pioggia di Bruxelles ne vale almeno dieci sotto il sole di Roma – com’è vero Maximo – perché qui si è in continua attività, è tutto un fermento, una vita work in progress. Così ti ritrovi sempre più spesso il venerdì sera a

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Charleroi, a condividere insieme a tanti ragazzi come te la fase “partenza da weekend”, anche solo per sentire una voce che parli incondizionatamente, che ti ricordi che l’amicizia non è vincolata a un grado AST 4, ma al volersi bene reciprocamente. Certo anche lo step dell’aeroporto tutti i fine settimana è stressante, fortuna che ci sono i progetti e il lavoro che ti tengono a Bruxelles e prima di ogni altra cosa i tuoi desideri per l’Italia. Come immagini che sarà in futuro – impensabile tornare ora – per te e per i tuoi figli. Maximo sa che i suoi non si sentiranno vagabondi, non dovranno scegliere la loro nazione, perché il loro Paese sarà l’Europa Unita e anche quella low cost da raggiungere, esplorare, per poi fare ritorno a casa, laddove si è cresciuti e si ritrovano le vere radici. La lontananza è, e rimarrà sempre, la storia della sua vita, iniziata a zero mesi e per il momento approdata nel regno appannato della cioccolata e delle patatine fritte, ma un domani − spera lui − nella città del Cupolone, la sua città del cuore. Non vuole che i suoi figli soffrano la scissione tra due Paesi, per di più tanto diversi, tra cui scorre addirittura un oceano. Per lui ci sono da un lato Buenos Aires e dall’altro Roma, non un attimo di pace tra questi due territori, neanche un istante l’inquietudine si placa per lasciare spazio alla felicità. “Una storia senza partenze”, questo è il futuro che Maximo spera i suoi bisnipoti possano ascoltare dalla voce dei loro nonni. La famiglia è il filo conduttore di questo racconto. Le generazioni che passano e scelgono, e lo fanno anche per te, senza voltarsi indietro. Quando girano lo sguardo è tardi, sono lì con una coperta a quadri fin sulla testa e il cordoncino del tè verde a penzolare tra le gambe. Sperano di coinvolgerti nella grande

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avventura della loro vita, attraverso la forza delle narrazioni. Ma non sanno che tu sei già avanti nel tempo, a quando prenderai la valigia e te ne andrai – la coperta ben avvolta nello zaino – in memoria delle storie che ti hanno fatto crescere. «Anche se prendi sempre delle cose, anche se qualche cosa lasci in giro non sai se è come un seme che dà fiore o polvere che vola a un respiro», ma nelle notti di nostalgia, sempre uguali a se stesse, tu sei diverso. Il tuo volto appare come la pagina invecchiata di un libro ruvido, con l’odore di muffa tra le borse degli occhi e il vermiglio delle labbra a rimembrare l’incipit rosso del romanzo più bello che la vita ti ha posto di fronte. Tra le pagine di questo racconto, credo che ne vada riempita qualcuna in più sul rapporto tra Maximo e suo padre. Due generazioni di emigranti a confronto. Sono curiosa di sapere se questo confronto c’è stato, cosa si sono detti, i sorrisi e le lacrime che li hanno divisi o avvicinati. Maximo è felice di questa domanda. Dopo due ore di intervista, ha ancora voglia di narrare e ricordare. E allora mi faccio da parte e do direttamente voce alle sue parole. – Ho cercato tutta la vita il confronto con mio padre perché, in fondo, pur verso Paesi diversi, abbiamo provato entrambi gli stessi sentimenti. Lui nutre un grande rispetto per l’Argentina. Quando lasciò l’Italia aveva solo sei anni, e di quel giorno ricorda il porto di Napoli e una partenza confusa di cui non capiva bene le ragioni. Per tanto tempo non ebbe la possibilità di tornare in Italia, fino a che anche lui progettò il suo viaggio di ritorno. Ma una settimana prima di partire, incontrò mia madre. Una passione improvvisa, travolgente, lo spinse a convincere i suoi genitori a rimanere in Argentina. I miei nonni non volevano, ma di fronte alla felicità di mio padre non ebbero il coraggio di dirgli di no.

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Maximo si ferma un istante. Forse sta pensando, una volta di più, a come sarebbe stata la sua vita se quell’incontro non ci fosse mai stato, se suo padre fosse davvero partito. L’amore, quello dei nonni per il figlio e quello del figlio per una donna. In questo triangolo solo il Bel Paese non ne esce clandestino. L’Argentina con la sua alba, persa in un cielo di nuvole e aquiloni, vince la sua partita con l’Italia. Lei è la matrona, la donna che ha cambiato il destino di una generazione. Oggi sembra voler dire “Mi ritroverai sempre lì, dalla stessa parte”. Ma loro hanno costruito un ponte con l’Italia, il padre prima e il figlio dopo. Maximo, però, è stato più tenace. Suo padre non avrebbe mai immaginato che un giorno si sarebbe rivolto a un avvocato per chiedere di annullare la sua cittadinanza argentina. – Perché tutta la mia famiglia è nata a Priverno e io a Quilmes? Perché devo parlare italiano come un italo argentino? – Maximo mi rivolge queste domande e scuote la testa. – Quando poserai la valigia? – gli chiedo. Non capisce la mia domanda e ride. Allora gliela faccio di nuovo: – Quanto ti fermerai a Bruxelles, Maximo? Quando tornerai indietro? – Ah, ora sì, ho capito – e mi chiede scusa. – Il tempo scorre veloce e il mio obiettivo è crescere professionalmente per poi capitalizzare in Italia ciò che ho imparato all’estero. Tornerò solo quando questo sarà possibile. Le conoscenze acquisite qui devono trovare un senso da noi, e poter essere utilizzate appieno, altrimenti significa che non è ancora il momento di lasciare Bruxelles. La sfida è sia a livello professionale che politico. In futuro mi piacerebbe rappresentare il mio Paese attraverso un’istituzione e raccontare, alle generazioni che verranno, che l’Italia non è solo quella della pasta e della Ferrari. È anche

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meritocrazia e senso di responsabilità. Allo stato attuale questo è ciò che dovrebbe essere, ma non è, però io ci credo nella trasformazione. Siamo noi i messaggeri, il nostro compito è comunicare con l’Italia per trasmetterle tali valori. Dobbiamo essere portatori di produttività, ma è necessario anche quel surplus emotivo nel voler migliorare la situazione, e questo più che da un high profile deve venire dal cuore. Sbagliamo tutti a sentirci un’élite, non lo siamo affatto. Ci vuole umiltà e nonostante le lingue e i master dobbiamo ricordarci in che stato versa il nostro Paese. Già, Maximo. E tu, stasera, in queste due ore e mezza di intervista, ce l’hai ricordato. Ci hai aiutati a capire cosa c’è dietro la partenza di tanti giovani che arrivano a Bruxelles, spesso confermando le mie personali opinioni, che rappresentano la ragione per la quale ho deciso di scrivere la tua storia e quelle che seguiranno. Sentimenti comuni, frustrazioni e rabbia condivise. Poi ognuno ha lacrime e sorrisi propri, alcuni li tacciono per imbarazzo, altri, al contrario, approfittano di questo momento per specchiarsi dinanzi alle loro debolezze. Ora sono qui a trascrivere la tua storia e alla fine di questo viaggio, percorso insieme, c’è un’ultima immagine che sfiora la tastiera. È una distesa color seppia, di conchiglie e cielo terso, uno scenario dal gusto antico, forse un ritratto. Tra le onde di un mare ignoto che si riflette sul tuo volto, si sente l’eco del ricordo, quello eterno di una memoria infinita, del racconto che si tramanda, del senso delle generazioni che allargano i confini ma non si perdono mai. Si trasmettono il sapere, anche i consigli più banali, insieme all’amore più puro, di quello che si prova quando si ha nostalgia. E allora mi congedo da te con un grazie, in sottofondo le note di Argentina di Guccini a ricordare da dove vieni e ciò per cui ti batti.

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Ti lascio andare, ma so che ci rivedremo presto e mi parlerai ancora di te. No, non mi devi ringraziare. Non mi hai raccontato solo di Bruxelles, della vita che facciamo, dei sacrifici e delle vittorie che ci aspettano. Oggi a me hai parlato d’amore e chissà se domani, qualcuno, al di là dell’oceano riflesso nei sogni, all’alba delle nostre terre, si sveglierà di buon’ora e sotto un cielo che va nascendo porgerà il cuore al suono ancestrale dei tuoi racconti. Amore sapessi com’era il cielo a Roma qualche tempo fa, a guardarlo adesso non sembra vero che sia lo stesso cielo, la stessa città che ci guarda partire, volerci bene, che ci guarda lontani e poi di nuovo insieme prigionieri di questo cielo di questa città che ci ha visto soffrire, che ci ha visto partire. Luca Barbarossa, Via Margutta

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