Assistente Sociale Domani

Page 1

CAPITOLO 2

L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE > QUADRO CONCETTUALE INTRODUTTIVO Etica professionale e Codice deontologico Il servizio sociale è una professione «umana» che, cioè, riguarda direttamente l’uomo e le sue attività, a differenza delle professioni «fisico-naturali» e «tecnologiche». Più in particolare, è una professione di aiuto, nel senso che si occupa prevalentemente di persone che stanno attraversando una situazione di difficoltà, o sono esposte al rischio di incorrervi. Altre professioni umane di aiuto sono — ad esempio — la medicina, l’assistenza infermieristica, la psicoterapia. In tutte queste professioni, proprio per il tipo di problemi di cui esse si occupano, si crea una potenziale diseguaglianza di potere tra il professionista e il suo cliente (o paziente, o utente, a seconda dei casi) assai delicata, vista la situazione di fragilità personale in cui si trova chi ha bisogno di aiuto. Il cliente ha la necessità di avvalersi delle competenze del professionista per poter migliorare o risolvere la sua situazione di difficoltà, ma — proprio perché tali competenze gli mancano — da solo non è pienamente in grado di valutare in anticipo: a) se il professionista a cui si rivolge sia adeguatamente capace («Mi saprà aiutare in maniera competente? Ha una preparazione di base adeguata? È aggiornato?»); b) se il professionista consideri davvero prioritario l’interesse di chi gli chiede aiuto («Le indicazioni che mi darà saranno quelle che onestamente ritiene migliori? O invece quelle che sono più vantaggiose per lui, in termini economici, o di prestigio, o quant’altro?»). I Codici di etica professionale e gli Ordini professionali che se ne fanno garanti trovano la loro primaria ragion d’essere proprio nella tutela del cliente/utente/paziente, nel contesto di un rapporto di consulenza o di libera professione (cioè un rapporto diretto fra il professionista e il cliente, in cui è il cliente a scegliere — e a pagare — il professionista a cui rivolgersi). In sostanza, il fatto che un professionista sia iscritto al relativo Ordine professionale costituisce, in primo luogo per il cliente, utente o paziente, una forma di garanzia che: a) quel professionista sia adeguatamente preparato; b) quel professionista rispetti una serie di principi e di regole di condotta coerenti con le finalità di aiuto proprie della professione che esercita. Infatti, senza adeguati requisiti di formazione, verificati con l’apposito esame di Stato, non è possibile iscriversi all’Albo professionale. Una volta iscritti, la non osservanza delle norme del Codice deontologico comporta delle sanzioni che possono arrivare alla radiazione dall’Albo e, quindi, al divieto permanente di esercitare la professione.


58

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Perché questa funzione di garantire all’utente una accettabile adeguatezza del professionista viene esercitata da un Ordine professionale e non da qualche altro soggetto «terzo» (direttamente dallo Stato, ad esempio)? La ragione di fondo sta nell’idea dell’«esclusività» delle competenze professionali: per valutare l’adeguatezza di un dato professionista (ad esempio di un medico) è indispensabile possedere le competenze specifiche di quella professione (la medicina), che solo dei professionisti (dei medici) possono avere, in quanto non c’è un’altra professione sovraordinata. Di qui si comprende perché la presenza di un Ordine professionale costituisca un significativo riconoscimento del fatto che una data professione abbia una propria autonomia operativa, parallela a una analoga autonomia della disciplina scientifica di riferimento. Il servizio sociale di rado viene esercitato in forma di rapporto libero-professionale diretto con le persone in difficoltà. Gli assistenti sociali operano per lo più in maniera dipendente da un’organizzazione (come lavoratori subordinati o in consulenza), la quale deve tutelare i propri utenti rispetto alla competenza e all’integrità degli operatori. Ma — secondo la logica delle competenze esclusive — un ente non può valutare (e garantire) appieno l’adeguatezza professionale di un assistente sociale, a meno che non affidi questa funzione a un altro assistente sociale gerarchicamente sovraordinato. Diversamente, il professionista risponde al proprio Ordine (come si comprende dal Tit. VI del Codice deontologico italiano, art. 50 in particolare). In questa prospettiva, l’appartenenza all’Ordine (e il conseguente vincolo al rispetto del Codice deontologico) costituisce una garanzia per l’organizzazione che impiega l’assistente sociale, oltre che per l’utenza. Dunque, le norme contenute nel Codice deontologico servono in primo luogo a garantire chi (utente o ente) si avvalga del professionista rispetto al potenziale rischio che la sua situazione di difficoltà venga «sfruttata» dall’esperto per ricavarne vantaggi indebiti. Accanto a questa finalità basilare, il Codice deontologico del servizio sociale — sia in Italia, sia in altri Paesi e a livello internazionale — si riferisce anche a ulteriori finalità, relative: – da un lato, ancora, alla tutela dell’utenza; – dall’altro, alla tutela della professione. Sul versante della tutela dell’utenza, i principi e le responsabilità dell’assistente sociale sono incentrati sulla dignità della persona. Al valore della persona possono venire ricondotti i principi «classici» del servizio sociale, basati su quelli definiti da Biestek (1961) per il casework: il nongiudizio, il rispetto dell’unicità della persona, il diritto all’autodeterminazione, la promozione dell’autonomia, la tutela della riservatezza. Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento si è sviluppata una crescente consapevolezza dei limiti di questi principi: di per sé, essi guardano al rapporto assistente sociale-utente in maniera avulsa dal contesto in cui ha luogo, prendendo in considerazione i problemi dell’utente soltanto come problemi «personali» e, quindi, senza tenere conto delle ineguaglianze strutturali della società e dei fattori economici, culturali e politici che incidono sulle difficoltà dei singoli. Ai tradizionali principi derivati da Biestek si è così aggiunto un ulteriore insieme di norme riferite alla responsabilità dell’assistente sociale verso la società, incentrate sul dovere di contrastare l’emarginazione e di porre all’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica le situazioni di deprivazione e di disagio che non trovano risposta. Questo secondo complesso di principi trova le sue matrici nel social work antioppressivo e in quello femminista, anche se ne possiamo cogliere radici illustri, più indietro nel tempo, nel movimento dei Settlements (e in particolare nel lavoro di Jane Addams a Chicago, nel primo Novecento).


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

59

A partire dagli anni Novanta, i sistemi di welfare europei sono andati sempre più caratterizzandosi in senso liberista, secondo l’idea che i dispendiosi apparati burocratici dei servizi pubblici, spesso poco efficaci e poco efficienti, vadano rinnovati tramite l’introduzione del meccanismo della concorrenza di mercato (si veda il capitolo 7). In tale quadro, i principi connessi al rispetto della persona hanno trovato una ridefinizione in senso consumerista: l’utente andrebbe considerato un consumatore, cioè un acquirente di prestazioni sociali, a cui il sistema deve garantire la possibilità di scegliere i servizi che preferisce. I servizi migliori saranno quelli che incontrano il gradimento di un maggior numero di utenti/consumatori e, quindi, sopravvivono nel quasi-mercato assistenziale. Concepire l’utente come un consumatore presenta dei lati positivi, principalmente legati al fatto che il rapporto con le organizzazioni che forniscono aiuto e con i loro operatori si ridefinisce in senso maggiormente paritario: l’utente non è più colui che «chiede», a cui l’aiuto viene «concesso», ma diventa colui che «acquista», del quale dunque è indispensabile guadagnarsi il favore. Le Carte dei servizi e la maggiore importanza attribuita al definire un contratto di aiuto chiaro e trasparente sono in buona misura legati all’ottica consumeristica. Tuttavia, nel lavoro sociale ci sono molte voci critiche rispetto a questo approccio: l’assistenza e i processi di aiuto non possono essere considerati come merce (se non in minima parte) e l’autodeterminazione dell’utente riguarda il decidere della direzione da dare alla propria vita, il che è qualcosa di molto più ampio che non decidere quali servizi «acquistare». Le norme riguardanti la tutela della professione possono essere considerate da due punti di vista: da un lato, come strumentali alla finalità sovraordinata di tutelare l’utente (vale a dire: l’assistente sociale deve adoperarsi perché la professione venga svolta al meglio, perché così sarà meglio perseguito il bene delle persone in difficoltà); dall’altro, come legate direttamente a promuovere la professione, nell’interesse di chi la esercita (vale a dire: l’assistente sociale deve adoperarsi perché la professione venga svolta al meglio, perché il costruire una buona immagine professionale è di per sé un fine degno di attenzione per la comunità professionale e per l’Ordine che ne è espressione). Alla tutela della professione si possono ritenere strettamente legate le indicazioni riguardanti la responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della propria organizzazione di lavoro (l’ente): in sostanza, si tratta di norme incentrate sull’idea che non si debbano accettare condizioni di impiego tali da non consentire di svolgere la professione con la dovuta correttezza, dignità, autonomia, sia — come si è detto — nell’interesse degli utenti, sia nell’interesse della categoria professionale di per sé. Dunque, il servizio sociale è un’attività con molti «strati» di doveri e di responsabilità (Banks, 1999). In sintesi possiamo almeno individuare: – i doveri verso il singolo utente, individualmente preso; – i doveri verso gruppi o categorie di persone svantaggiate o emarginate; – i doveri verso l’ente per cui eventualmente l’operatore lavora; – i doveri verso la collettività e la società più ampia; – i doveri verso la propria professione. A tutto ciò va sempre aggiunta la necessità di preservare la propria integrità morale: in altri termini, il professionista è una persona con un proprio sistema di valori e di convinzioni di cui non è possibile non tenere conto. La compresenza di diversi doveri comporta che, in varie circostanze concrete, non risulti possibile rispettarli tutti con la stessa intensità. Il professionista si trova così di fronte a dei cosiddetti dilemmi etici: situazioni in cui deve scegliere tra diverse alternative, ciascu-


60

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

na delle quali presenta delle controindicazioni, perché comporta contemporaneamente la salvaguardia di un principio ma anche la non ottemperanza di un altro. I Codici deontologici non vengono molto in aiuto quando si tratta di prendere queste decisioni: è indispensabile, caso per caso, esaminare accuratamente quale sia il margine di discrezionalità di cui disponiamo, quali gli interessi in gioco, quale l’opzione che riteniamo costituisca il male minore, e secondo quali criteri.

Bibliografia Biestek F. (1961), The casework relationship, London, Allen & Unwin. Banks S. (1999), Etica e valori nel servizio sociale, Trento, Erickson.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

61

> LETTURE SCELTE

GLI ASPETTI ETICI NELLE DECISIONI DELL’ASSISTENTE SOCIALE* Sarah Banks (Durham University)

Operatori e studiosi del servizio sociale sono tutti concordi nel ritenere che gli aspetti relativi all’etica, alla morale e ai valori sono elementi sostanziali della professione. Quasi tutti gli assistenti sociali, se viene loro richiesto, sono in grado di fornire senza difficoltà numerosi esempi di problemi e di dilemmi tipici che incontrano nel loro lavoro. La letteratura sul servizio sociale è pure molto chiara: «Gli aspetti morali pervadono il servizio sociale», dice Jordan (1990, p. 1); secondo Pinker, «il servizio sociale è essenzialmente un’attività morale» (Pinker, 1990, p. 14); e l’Associazione nazionale britannica delle scuole di servizio sociale (Central Council for Education and Training in Social Work) afferma: «La competenza professionale degli assistenti sociali richiede la comprensione e l’integrazione dei valori del servizio sociale» (CCETSW, 1989, p. 15). Questo capitolo intende esaminare quale sia la natura degli aspetti etici inerenti al servizio sociale, in che modo e per quale motivo l’etica tenda a emergere in evidenza nel lavoro professionale di aiuto. Intende altresì esaminare il senso di colpa e l’ansia avvertiti in genere dagli assistenti sociali quando, trattando questioni di carattere etico, vengono fatti oggetto di biasimo per eventuali esiti sfortunati delle loro decisioni. L’assunzione di decisioni morali Molto spesso l’assistente sociale si trova a dover decidere sul modo di agire in determinati casi. Ad esempio: se inviare o meno una signora all’ospedale contro la sua volontà. Ciò comporta una presa di decisione o un giudizio morale. Uno di questi giudizi potrebbe essere: «È moralmente sbagliato inviare questa donna all’ospedale contro la sua volontà». Ora, la natura dei giudizi morali (Banks, 1990, p. 92) può essere sintetizzata come segue: 1. I giudizi morali riguardano il benessere umano, ad esempio la promozione della fiducia umana o la soddisfazione di bisogni (Warnock, 1967, pp. 48-72; Norman, 1983, pp. 225-232). Ciò che viene considerato «bisogno umano» varierà da una società all’altra, o a seconda della dominante ideologica che può cambiare da un’epoca a un’altra. 2. I giudizi morali comportano azione, ossia sono prescrittivi (Hare, 1952; 1963). Se un assistente sociale giudica che una persona mentalmente disturbata non dovrebbe essere inviata all’ospedale contro la sua volontà, l’operatore deve essere preparato ad agire di conseguenza, ossia pianificare la permanenza dell’utente nella sua abitazione e riuscire a sostenere questa decisione con la sua famiglia o i suoi colleghi. * Tratto da Banks S. (1995), Ethics and values in social work, London, Macmillan, trad. it. Etica e valori nel servizio sociale, Trento, Erickson, 1999, pp. 17-25.


62

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

3. Un giudizio morale dovrebbe essere universalizzabile, nel senso che dovrebbe applicarsi a tutte le persone che si trovano nella stessa situazione. L’assistente sociale dovrebbe adottare lo stesso giudizio morale anche per un’altra donna ugualmente disturbata, a meno che egli non possa dimostrare che la situazione sia notevolmente differente. 4. I propri giudizi morali devono poter essere giustificati. Essi possono riferirsi a particolari relazioni o responsabilità, a qualche giudizio morale più generale o ai principi interni a un particolare sistema di pensiero morale. In questo caso l’assistente sociale potrebbe riferirsi al principio che «tutti gli individui hanno il diritto di decidere autonomamente ciò che desiderano fare (autodeterminazione)». Questo a sua volta potrebbe essere giustificato in base al principio che «tutte le persone dovrebbero essere rispettate come esseri razionali e autodeterminantisi». Alla fine, si raggiunge uno stadio dove non possono essere date ulteriori giustificazioni e le ulteriori credenze sulla natura del benessere umano e i relativi bisogni devono essere dati per scontati. Non tutti i filosofi concorderebbero con queste definizioni (per un esame più analitico vedi Hudson, 1970) e nel capitolo secondo prenderemo in esame un orientamento alternativo, detto «etica della solidarietà» (Tronto, 1993) che contesta la prospettiva in base alla quale la morale è basata su una giustificazione razionale e in aderenza a dei principi. L’etico, il tecnico e il giuridico Frequentemente nella letteratura del servizio sociale i valori vengono distinti dalle conoscenze, e le tematiche etico-morali dagli aspetti tecnici e giuridici. Tali distinzioni possono essere utili, a meno che non si ritenga che le conoscenze siano esenti da giudizi di valore, o che le decisioni legali e tecniche possano essere adottate senza ricorso all’etica. Si potrebbe dire, ad esempio, che è essenzialmente una questione giuridica disporre il ricovero coatto di un paziente psichiatrico in base alla legge sanitaria. Tuttavia, come affermano Braye e Preston-Shoot (1992, p. 39), la legge è poco chiara e ha bisogno di essere interpretata dall’assistente sociale. Il Mental Health Act 1983 parla di «disordine mentale di natura e grado tali da giustificare il ricovero del paziente in un ospedale, nell’interesse della sua salute o incolumità o al fine di proteggere terze persone». La legge ci dice che se noi riteniamo che il problema sia tale da dover presumere l’interesse della persona stessa a essere ricoverata in ospedale, noi abbiamo il potere legale di farlo. La legge non ci dice quello che «dobbiamo» fare, solo quello che «possiamo» fare. La legge stessa riflette determinate norme e determinati valori presenti nella società, nei confronti dei quali alcuni di noi possono avere delle riserve morali (vedi ad esempio la legge sull’aborto, sul divorzio o sulle tossicodipendenze). La maggior parte delle decisioni nel servizio sociale coinvolge una complessa interazione di aspetti etici, politici, tecnici e legali, che sono fortemente interconnessi. I nostri principi etici o valori influenzano il modo in cui interpretiamo la legge. Un altro esempio: «È una questione tecnica decidere se una persona abbia o meno il diritto al contrassegno per utilizzare il parcheggio riservato ai disabili». Noi valutiamo la persona secondo dei criteri definiti e prendiamo una decisione utilizzando le nostre


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

63

abilità professionali e i nostri giudizi tecnici obiettivi. Si potrebbe ritenere che si coinvolga l’aspetto etico soltanto nel caso in cui dovessimo dare il contrassegno malgrado i criteri oggettivi che definiscono la disabilità non siano tutti soddisfatti nel caso in questione. Comunque una decisione potrebbe essere considerata come solo tecnica non perché essa in sé presenti soltanto aspetti di misurazione oggettiva e valutazione tecnica, ma perché l’assistente sociale sceglie di vederlo in questo modo, ossia come un caso relativamente semplice che non presenta problemi etici o dilemmi. Il processo stesso — valutare i bisogni per rilasciare il contrassegno — non è affatto privo di contenuto etico. I criteri di bisogno che determinano il rilascio o meno dei contrassegni si baseranno su giudizi etici circa il dovere pubblico di ridurre alcuni svantaggi causati dalla disabilità, o sul modo di distribuire una risorsa scarsa in modo efficiente ed equo. L’assistente sociale può giudicare che i criteri non sono equi o che le risorse devono essere distribuite alle persone più bisognose. Alla luce di queste considerazioni può essere utile distinguere tra aspetti etici, problemi etici e dilemmi etici. – Aspetti etici: pervadono tutti i compiti del servizio sociale (inclusi quelli che appaiono solo «tecnici» o «giuridici») per il fatto che il servizio sociale è un’istituzione del welfare state, il quale incorpora principi di giustizia sociale e di benessere collettivo, e per il fatto che l’assistente sociale ha un potere professionale nella relazione con l’utente. – Problemi etici: sorgono quando l’assistente sociale ritiene che una data situazione lo obblighi a una difficile decisione morale, come quando, ad esempio, deve respingere la domanda di una persona veramente bisognosa perché il caso non ottempera tutti i criteri previsti per l’assegnazione della prestazione. – Dilemmi etici: appaiono quando l’assistente sociale si trova di fronte a una scelta tra due alternative ugualmente spiacevoli che possono comportare un conflitto di principi morali e non è chiaro quale sia la scelta giusta. Per esempio, si dovrebbe passare sopra alla mancanza di alcuni requisiti per assegnare una prestazione a un utente oppure applicare le regole e rifiutare l’assegnazione a una persona che ne ha veramente bisogno? Ciò che per un operatore è soltanto una questione tecnica (la semplice applicazione di norme) può essere un problema etico per un altro (una decisione difficile ma che è chiara e a cui deve essere data attuazione) o un dilemma per un terzo (non ci sono soluzioni evidenti). Dipende dal modo in cui ogni persona vede la situazione, come sperimenta l’assunzione di decisioni morali e come assegna priorità ai principi etici. Quali sono gli aspetti etici nel servizio sociale? La tipologia di aspetti etici che coinvolgono maggiormente l’assistente sociale e gli pongono frequentemente «problemi» e «dilemmi» comprende essenzialmente tre elementi: – aspetti relativi ai diritti individuali e al benessere: il diritto dell’utente di prendere le proprie decisioni e di effettuare le proprie scelte; la responsabilità dell’operatore di promuovere il benessere dell’utente;


64

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

– aspetti relativi al benessere collettivo: i diritti e gli interessi di altri, diversi dall’utente; la responsabilità dell’operatore nei confronti del proprio ente e dell’intera società; la promozione del maggior vantaggio per il maggior numero di persone; – aspetti relativi all’ineguaglianza e all’oppressione strutturale: la responsabilità dell’operatore nello sfidare la cultura prevalente che genera svalutazione o sfruttamento e nel lavorare per il cambiamento tanto nella politica dell’ente quanto nella società. Ogni tentativo di categorizzare, nel campo dell’etica professionale, è ovviamente artificiale e non è mai in grado di rendere giustizia della complessità degli aspetti interni a ogni categoria e del loro intrecciarsi. Frequentemente ci sono dei conflitti tra diritti, responsabilità e interessi tanto interni che esterni a queste categorie. Comunque, questo schema può essere un utile punto di avvio per esplorare aspetti relativi ai valori etici nell’attività professionale del servizio sociale. 1. Diritti/benessere dell’individuo Un assistente sociale, parlando di un’ottantenne recentemente inviata al servizio sociale dal locale ospedale dopo una caduta in casa, disse: Era difficile sapere fin dove ci si potesse spingere nel cercare di convincere o anche obbligare la signora Rossi ad accettare l’offerta del servizio di assistenza domiciliare o se fosse meglio lasciarla vivere da sola e sperare che lei si sarebbe organizzata per tirare avanti.

Qui il centro dell’interesse dell’assistente sociale è il benessere dell’utente. L’operatore desidera rispettare le decisioni della signora Rossi sul modo di condurre la propria vita ma nello stesso tempo desidera anche assicurarsi che la signora Rossi mangi propriamente e sia regolarmente sotto controllo nel caso dovesse cadere ancora. C’è un conflitto tra la tutela del benessere e della sicurezza dell’utente e il diritto dello stesso di operare autonomamente le proprie scelte. 2. Benessere collettivo Un’assistente sociale di un istituto per minori parla di Cinzia, una ragazzina di dodici anni che è stata recentemente affidata al servizio a causa del disinteresse dei suoi genitori nei suoi confronti. Aveva avuto dei rapporti sessuali con un cinquantenne che le aveva dato del denaro in cambio delle sue prestazioni sessuali. La polizia era sulle tracce di quest’uomo e chiese al personale di lasciare che Cinzia fosse libera di uscire dal centro in cui era ospitata nella speranza di prendere l’uomo sul fatto. Che cosa doveva fare l’assistente sociale? Doveva rifiutare perché in questo modo si poneva Cinzia in una situazione di rischio, oppure doveva favorire la cattura del colpevole e quindi prevenire altri rischi per la ragazzina e per le sue coetanee?

Qui l’assistente sociale è consapevole che sarebbe nell’interesse collettivo che questo uomo venisse preso; nello stesso tempo si sente a disagio sia nel partecipare al tranello, sia per la paura che a questa bambina, affidata all’ente, possa succedere ancora qualche


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

65

cosa di male. In questo caso si tratta di decidere se per l’interesse pubblico la cattura dell’uomo prevalga sul disagio di tendere la trappola nonché sul piccolo rischio che deve essere corso dalla ragazzina. 3. Oppressione strutturale Un’assistente sociale visita una famiglia nomade che ha richiesto di poter inviare i propri figli a un centro ricreativo. Dai suoi dirigenti le era stato detto che i figli non potevano essere accolti, in base al fatto che ciò avrebbe potuto provocare una reazione negativa da parte delle altre famiglie, che avrebbero probabilmente ritirato i loro figli, il che avrebbe minacciato l’equilibrio economico del centro stesso. Durante la visita, mentre l’assistente sociale sta parlando con i genitori, osserva che i bambini stanno giocando con la stufa elettrica e la sua spina: Pensai che in un’altra situazione avrei cercato di dissuadere i genitori dal permettere ai loro figli di giocare con simili congegni pericolosi. Dato però che sentivo che erano stati trattati in maniera veramente meschina da parte dell’intera comunità, mi risultava difficile fare delle osservazioni sul modo in cui badavano ai propri figli.

L’assistente sociale è consapevole che i nomadi sono stati discriminati dalla comunità locale come lo sono in genere dalla società. Non desidera entrare in conflitto con loro ma non sa come reagire. Questo è un caso di un assistente sociale che è consapevole di lavorare con i membri di un gruppo oppresso e non desidera opprimerli ulteriormente criticando il loro modo di assistere i figli, benché sia in gioco la stessa incolumità dei bambini. Le descrizioni sopra accennate certamente semplificano gli elementi problematici di ogni caso. Molto spesso gli elementi problematici si riferiscono a tutte e tre le categorie e gli operatori devono affrontare alcuni dilemmi ed equilibrare diversi principi etici: serie di diritti, interessi e assunzioni di valori. Il servizio sociale è un’attività complessa, con molti «strati» di doveri e responsabilità (per esempio, nei confronti della propria integrità morale, nei confronti dell’utente, dell’ente e della società). Questi differenti elementi sono spesso in conflitto e devono essere bilanciati. Non ci sono facili risposte a simili questioni che fanno parte del lavoro quotidiano degli assistenti sociali. Alcuni le affronteranno più facilmente di altri, a seconda dell’esperienza, della sensibilità morale e delle singole personali scelte di valore. Il servizio sociale come professione umana Il servizio sociale può essere considerato come una «professione dei servizi umani», come la medicina o l’avvocatura. L’assistente sociale ha specifiche conoscenze e abilità e deve godere della fiducia dell’utente per agire nei suoi interessi. La relazione tra assistente sociale e utente è diseguale, per il fatto che il primo ha più potere. Il servizio sociale,


66

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

tuttavia, come le professioni legali, la medicina, l’assistenza infermieristica, il counseling e altre ancora, ha un codice etico con lo scopo, fra l’altro, di proteggere l’utente dallo sfruttamento o dalla cattiva condotta del professionista. Alcuni autori descrivono la relazione assistente sociale-utente come fiduciaria, ossia basata su una relazione di fiducia (Levy, 1976, p. 55 e segg.; Kutchins, 1991). Benché possano essere rilevate diverse analogie tra il servizio sociale e le classiche professioni sopra accennate, ci sono anche parecchie differenze. Alcuni sostengono che il servizio sociale è una «semiprofessione», in parte perché l’autonomia individuale degli assistenti sociali è più limitata di quella dei medici o degli avvocati. Molti assistenti sociali dipendono direttamente o indirettamente dagli enti locali; hanno una funzione di controllo sociale e quindi il loro obiettivo principale non è semplicemente quello di lavorare nel migliore interesse dell’utente. L’assistente sociale inoltre assolve funzioni che si riferiscono al welfare state, il quale di per sé si basa su principi contraddittori. Servizio sociale e welfare state Il servizio sociale fa parte di un sistema statale organizzato e dotato di risorse per distribuire beni e servizi al fine di affrontare certi tipi di bisogni di individui, famiglie, gruppi e comunità, nonché di curare, contenere o controllare il comportamento che è considerato come socialmente problematico o deviante. Più in generale il welfare state organizza e finanzia anche una serie di altri servizi sociali universalistici, come l’istruzione, la sanità, la sicurezza sociale, l’edilizia pubblica, e altri servizi pubblici, come la polizia, l’esercito, le strade e lo smaltimento dei rifiuti (Spicker, 1988, pp. 74-75). Questi sono servizi collettivi che, in principio, vanno a vantaggio dell’intera comunità. Comunque, i servizi sociali personali (o socio-assistenziali) sono spesso considerati come differenti dai servizi pubblici poiché sono visti come mezzi per trasferire risorse a persone che sono non autosufficienti, per esempio a causa di malattia, vecchiaia, infanzia, disoccupazione o disabilità. I sistemi di welfare sono collegati all’economia capitalista e hanno un ruolo redistributivo attraverso la tassazione, le assicurazioni sociali obbligatorie e la fornitura diretta di servizi. Possono essere visti come una forma di compensazione dei limiti di quel sistema di distribuzione dei beni e dei servizi rappresentato dal mercato. Molti autori analizzano la natura del welfare state in termini di contraddizione. Marshall (1972) nota che le tensioni, interne al welfare capitalistico, tra i valori della giustizia sociale e dell’uguaglianza, da un lato, e quelli dell’individualismo competitivo del mercato, dall’altro, sono strutturali, benché riconosca che lo scopo del welfare state non è quello di rimuovere la disuguaglianza di reddito, quanto piuttosto di sradicare la povertà e dare a ognuno lo stesso status di cittadinanza nella società. Secondo O’Connor (1973, p. 6), il welfare state ha due funzioni contraddittorie nelle società capitaliste: quella dell’accumulazione (far sì che il capitale privato produca ulteriore ricchezza) e quella della legittimazione (dell’ordine sociale ed economico esistente). Moon sinteticamente delinea i principi contraddittori presenti nel welfare state come segue:


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

67

Il welfare state abbraccia il mercato, ma nello stesso tempo cerca di limitarlo e di controllarlo; ne incorpora idee di diritti, specialmente i diritti di proprietà e dei frutti del proprio lavoro, ma afferma il diritto al benessere, il diritto alla soddisfazione dei bisogni di base di ognuno. Poggia su una concezione della persona come agente responsabile ma riconosce altresì che molte delle condizioni individuali di vita sono dovute a situazioni che sfuggono al controllo personale. Parte da sentimenti di socievolezza e di interesse comune, ma il suo successo può indebolire proprio questi sentimenti. Cerca di fornire sicurezza, ma abbraccia altresì il valore della libertà. (Moon, 1988, p. 12)

Moon suggerisce che questa ambivalenza è un motivo per il quale il welfare state appare essere così vulnerabile alle critiche. Altri potrebbero non essere d’accordo (Offe, 1984, cap. 5), ma non ci sono dubbi che attualmente l’intera concezione del welfare state — i suoi scopi, le sue funzioni, il suoi metodi e i suoi risultati — sono oggetto di discussione e di critica da varie parti (tanto da sinistra quanto da destra). La recessione economica della metà degli anni Settanta ha dato origine a una critica di politici e studiosi conservatori, e questa è stata rafforzata dalla recessione degli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta. Primo, il peso della tassazione e la regolazione imposte al capitale tendono a disincentivare gli investimenti. Secondo, i benefici del welfare e il potere collettivo dei sindacati tendono a disincentivare il lavoro. Altri argomenti sono stati anche che i valori della famiglia e la loro responsabilità, il senso comunitario e i doveri morali possono, in effetti, essere indeboliti dal welfare state. Le critiche da sinistra tendono a focalizzare l’inefficienza e l’inefficacia delle burocrazie di welfare, sia perché la redistribuzione delle risorse tra le classi è stata scarsa sia, soprattutto, perché non si sono affrontate le cause fondamentali della povertà e della disoccupazione. Le critiche femministe e antirazziste hanno teso a intensificarsi sempre più, man mano che diversi aspetti del welfare state avevano mostrato di rafforzare, da un lato, gli stereotipi di genere e di etnia e, dall’altro, la discriminazione e l’oppressione. Il welfare state è visto quindi come uno strumento repressivo di controllo sociale (tramite la definizione dei problemi come questioni individuali e la distinzione tra merito e demerito). Considerare il servizio sociale come parte del welfare state è importante poiché ci aiuta a comprendere in che modo alcune problematiche etiche sono inerenti al ruolo dell’assistente sociale. In quanto parte del welfare state, riproduce al suo interno contraddizioni e ambivalenze di ordine sistemico. Il servizio sociale contribuisce all’espressione dell’altruismo societario (assistenza) e rafforza le norme sociali (controllo); è sostenitore dei diritti individuali tanto quanto è garante del bene comune. Gli assistenti sociali sono visti come «buoni» (danno aiuto anche a coloro che non se lo meritano) e, nello stesso tempo, come «prepotenti» (esercitano troppo potere sugli individui e sulle famiglie). Bibliografia Banks S. (1990), Doubts, dilemmas and duties: Ethics and the social workers. In P. Carter et al., Social work and social welfare Yearbook 2, Buckingham, Open University Press, pp. 91-106.


68

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Braye S. e Preston-Shoot M. (1992), Practising social work law, Basingstoke, Macmillan. Central Council for Education and Training in Social Work (1989), Requirements and regulations for the diploma in social work, London, CCETSW. Hare R.M. (1952), The language of morals, Oxford, Clarendon. Hare R.M. (1963), Freedom and reason, Oxford, Clarendon. Hudson W. (1970), Modern moral philosophy, London, Macmillan. Jordan B. (1990), Social work in an unjust society, Hemel Hempstead, Harvester. Kutchins H. (1991), The fiduciary relationship: The legal basis for social workers responsibilities to clients, «Social Work», vol. 36, n. 2, pp. 106-113. Levy C. (1976), Social work ethics, New York, Human Sciences Press. Marshall T. (1972), Value problems of welfare-capitalism, «Journal of Social Policy», vol. 1, pp. 15-30. Moon D. (1988), Introduction: Responsibility, rights and welfare. In D. Moon (a cura di), Responsibility, rights and welfare: The theory of the welfare state, Boulder, CO, Westview, pp. 1-15. Norman R. (1983), The moral philosophers, Oxford, Clarendon. O’Connor J. (1973), The fiscal crisis of the state, New York, St Martin’s Press. Offe C. (1984), Contradictions of the welfare state, London, Hutchinson. Pinker R. (1990), Social work in an enterprise society, London, Routledge. Spicker P. (1988), Principles of social welfare, London Routledge. Tronto J. (1993), Moral boundaries: A political argument for an ethic of care, London, Routledge. Warnock G. (1967), Contemporary moral philosophy, London, Macmillan.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

69

Codice deontologico dell’assistente sociale Testo approvato dal Consiglio nazionale nella seduta del 17 luglio 2009. In vigore dal 1° settembre 2009

TITOLO I – Definizione e potestà disciplinare   1. Il presente Codice è costituito dai principi e dalle regole che gli assistenti sociali devono osservare e far osservare nell’esercizio della professione e che orientano le scelte di comportamento nei diversi livelli di responsabilità in cui operano.   2. Il Codice si applica agli assistenti sociali ed agli assistenti sociali specialisti.   3. Il rispetto del Codice è vincolante per l’esercizio della professione per obbligo deontologico. La non osservanza comporta l’esercizio della potestà disciplinare.   4. Gli assistenti sociali sono tenuti alla conoscenza, comprensione e diffusione del Codice e si impegnano per la sua applicazione nelle diverse forme in cui la legge prevede l’esercizio della professione.

TITOLO II – Principi   5. La professione si fonda sul valore, sulla dignità e sulla unicità di tutte le persone, sul rispetto dei loro diritti universalmente riconosciuti e delle loro qualità originarie, quali libertà, uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione, nonché sulla affermazione dei principi di giustizia ed equità sociali.   6. La professione è al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle diverse aggregazioni sociali per contribuire al loro sviluppo; ne valorizza l’autonomia, la soggettività, la capacità di assunzione di responsabilità; li sostiene nel processo di cambiamento, nell’uso delle risorse proprie e della società nel prevenire e affrontare situazioni di bisogno o di disagio e nel promuovere ogni iniziativa atta a ridurre i rischi di emarginazione.   7. L’assistente sociale riconosce la centralità della persona in ogni intervento. Considera e accoglie ogni persona portatrice di una domanda, di un bisogno, di un problema come unica e distinta da altre in analoghe situazioni e la colloca entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente, inteso sia in senso antropologico-culturale che fisico.   8. L’assistente sociale svolge la propria azione professionale senza discriminazione di età, di sesso, di stato civile, di etnia, di nazionalità, di religione, di condizione sociale, di ideologia politica, di minorazione psichica o fisica, o di qualsiasi altra differenza che caratterizzi le persone.   9. Nell’esercizio delle proprie funzioni l’assistente sociale, consapevole delle proprie convinzioni e appartenenze personali, non esprime giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti. 10. L’esercizio della professione si basa su fondamenti etici e scientifici, sull’autonomia tecnico-professionale, sull’indipendenza di giudizio e sulla scienza e coscienza dell’assistente sociale. L’assistente sociale ha il dovere di difendere la propria autonomia da pressioni e condizionamenti, qualora la situazione la mettesse a rischio.


70

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

TITOLO III – Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della persona utente e cliente Capo I – Diritti degli utenti e dei clienti 11. L’assistente sociale deve impegnare la propria competenza professionale per promuovere l’autodeterminazione degli utenti e dei clienti, la loro potenzialità e autonomia, in quanto soggetti attivi del progetto di aiuto, favorendo l’instaurarsi del rapporto fiduciario, in un costante processo di valutazione. 12. Nella relazione di aiuto l’assistente sociale ha il dovere di dare, tenendo conto delle caratteristiche culturali e delle capacità di discernimento degli interessati, la più ampia informazione sui loro diritti, sui vantaggi, svantaggi, impegni, risorse, programmi e strumenti dell’intervento professionale, per il quale deve ricevere esplicito consenso, salvo disposizioni legislative e amministrative. 13. L’assistente sociale, nel rispetto della normativa vigente e nell’ambito della propria attività professionale, deve agevolare gli utenti e i clienti, o i loro legali rappresentanti, nell’accesso alla documentazione che li riguarda, avendo cura che vengano protette le informazioni di terzi contenute nella stessa e quelle che potrebbero essere di danno agli stessi utenti o clienti. 14. L’assistente sociale deve salvaguardare gli interessi e i diritti degli utenti e dei clienti, in particolare di coloro che sono legalmente incapaci e deve adoperarsi per contrastare e segnalare all’autorità competente situazioni di violenza o di sfruttamento nei confronti di minori, di adulti in situazioni di impedimento fisico e/o psicologico, anche quando le persone appaiono consenzienti. 15. L’assistente sociale che nell’esercizio delle proprie funzioni incorra in una omissione o in un errore che possano danneggiare l’utente o il cliente o la sua famiglia deve informarne l’interessato ed esperire ogni tentativo per rimediare. 16. L’assistente sociale deve avere il consenso degli utenti e dei clienti a che tirocinanti e terzi siano presenti durante l’intervento, o informati dello stesso, per motivi di studio, formazione, ricerca. Capo II – Regole generali di comportamento dell’assistente sociale 17. L’assistente sociale deve tenere un comportamento consono al decoro e alla dignità della professione. In nessun caso abuserà della sua posizione professionale. 18. L’assistente sociale deve mettere al servizio degli utenti e dei clienti la propria competenza e le proprie abilità professionali, costantemente aggiornate, intrattenendo il rapporto professionale solo fino a quando la situazione problematica lo richieda o la normativa glielo imponga. 19. Qualora la complessità di una situazione lo richieda, l’assistente sociale si consulta con altri professionisti competenti. Nel caso l’interesse prevalente dell’utente o del cliente lo esiga, o per gravi motivi venga meno il rapporto fiduciario, o quando sussista un grave rischio per l’incolumità dell’assistente sociale, egli stesso si attiva per trasferire, con consenso informato e con procedimento motivato, il caso ad altro collega, fornendo ogni elemento utile alla continuità del processo di aiuto. La stessa continuità deve essere garantita anche in caso di sostituzione o di supplenza. 20. L’assistente sociale, investito di funzioni di tutela e di controllo dalla magistratura o in adempimento di norme in vigore, deve informare i soggetti nei confronti dei quali tali funzioni devono essere espletate delle implicazioni derivanti da questa specifica attività.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

71

21. L’assistente sociale investito di funzioni peritali deve esercitarle con imparzialità e indipendenza di giudizio. 22. Nel rapporto professionale l’assistente sociale non deve utilizzare la relazione con utenti e clienti per interessi o vantaggi personali, non accetta oggetti di valore, non instaura relazioni personali affettive e sessuali. Capo III – Riservatezza e segreto professionale 23. La riservatezza e il segreto professionale costituiscono diritto primario dell’utente e del cliente e dovere dell’assistente sociale, nei limiti della normativa vigente. 24. La natura fiduciaria della relazione con utenti o clienti obbliga l’assistente sociale a trattare con riservatezza le informazioni e i dati riguardanti gli stessi, per il cui uso o trasmissione, nel loro esclusivo interesse, deve ricevere l’esplicito consenso degli interessati, o dei loro legali rappresentanti, a eccezione dei casi previsti dalla legge. 25. L’assistente sociale deve adoperarsi perché sia curata la riservatezza della documentazione relativa agli utenti e ai clienti, in qualunque forma prodotta, salvaguardandola da ogni indiscrezione, anche nel caso riguardi ex utenti o clienti, anche se deceduti. Nelle pubblicazioni scientifiche, nei materiali a uso didattico, nelle ricerche deve curare che non sia possibile l’identificazione degli utenti o dei clienti cui si fa riferimento. 26. L’assistente sociale è tenuto a segnalare l’obbligo della riservatezza e del segreto d’ufficio a coloro con i quali collabora, con cui instaura rapporti di supervisione didattica o che possono avere accesso alle informazioni o documentazioni riservate. 27. L’assistente sociale ha facoltà di astenersi dal rendere testimonianza e non può essere obbligato a deporre su quanto gli è stato confidato o ha conosciuto nell’esercizio della professione, salvo i casi previsti dalla legge. 28. L’assistente sociale ha l’obbligo del segreto professionale su quanto ha conosciuto per ragione della sua professione esercitata sia in regime di lavoro dipendente, pubblico o privato, sia in regime di lavoro autonomo libero-professionale, e di non rivelarlo, salvo che per gli obblighi di legge e nei seguenti casi: – rischio di grave danno allo stesso utente o cliente o a terzi, in particolare minori, incapaci o persone impedite a causa delle condizioni fisiche, psichiche o ambientali; – richiesta scritta e motivata dei legali rappresentanti del minore o dell’incapace nell’esclusivo interesse degli stessi; – autorizzazione dell’interessato o degli interessati o dei loro legali rappresentanti resi edotti delle conseguenze della rivelazione; – rischio grave per l’incolumità dell’assistente sociale. 29. La collaborazione dell’assistente sociale alla costituzione di banche dati deve garantire il diritto degli utenti e dei clienti alla riservatezza, nel rispetto delle norme di legge. 30. L’assistente sociale nel rapporto con enti, colleghi e altri professionisti fornisce unicamente dati e informazioni strettamente attinenti e indispensabili alla definizione dell’intervento. 31. Nei rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di diffusione l’assistente sociale, oltre che ispirarsi a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni o interviste, è tenuto al rispetto della riservatezza e del segreto professionale. 32. La sospensione dall’esercizio della professione non esime l’assistente sociale dagli obblighi previsti dal Capo III del presente Titolo ai quali è moralmente e giuridicamente vincolato anche in caso di cancellazione dall’Albo.


72

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

TITOLO IV – Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della società Capo I – Partecipazione e promozione del benessere sociale 33. L’assistente sociale deve contribuire a promuovere una cultura della solidarietà e della sussidiarietà, favorendo o promuovendo iniziative di partecipazione volte a costruire un tessuto sociale accogliente e rispettoso dei diritti di tutti; in particolare riconosce la famiglia nelle sue diverse forme ed espressioni come luogo privilegiato di relazioni stabili e significative per la persona e la sostiene quale risorsa primaria. 34. L’assistente sociale deve contribuire a sviluppare negli utenti e nei clienti la conoscenza e l’esercizio dei propri diritti-doveri nell’ambito della collettività e favorire percorsi di crescita anche collettivi che sviluppino sinergie e aiutino singoli e gruppi, soprattutto in situazione di svantaggio. 35. Nelle diverse forme dell’esercizio della professione l’assistente sociale non può prescindere da una precisa conoscenza della realtà socio-territoriale in cui opera e da una adeguata considerazione del contesto culturale e di valori, identificando le diversità e la molteplicità come una ricchezza da salvaguardare e da difendere, contrastando ogni tipo di discriminazione. 36. L’assistente sociale deve contribuire alla promozione, allo sviluppo e al sostegno di politiche sociali integrate favorevoli alla maturazione, emancipazione e responsabilizzazione sociale e civica di comunità e gruppi marginali e di programmi finalizzati al miglioramento della loro qualità di vita favorendo, ove necessario, pratiche di mediazione e di integrazione. 37. L’assistente sociale ha il dovere di porre all’attenzione delle istituzioni che ne hanno la responsabilità e della stessa opinione pubblica situazioni di deprivazione e gravi stati di disagio non sufficientemente tutelati, o di iniquità e ineguaglianza. 38. L’assistente sociale deve conoscere i soggetti attivi in campo sociale, sia privati che pubblici, e ricercarne la collaborazione per obiettivi e azioni comuni che rispondano in maniera articolata e differenziata a bisogni espressi, superando la logica della risposta assistenzialistica e contribuendo alla promozione di un sistema di rete integrato. 39. L’assistente sociale deve contribuire a una corretta e diffusa informazione sui servizi e le prestazioni per favorire l’accesso e l’uso responsabile delle risorse, a vantaggio di tutte le persone, contribuendo altresì alla promozione delle pari opportunità. 40. In caso di calamità pubblica o di gravi emergenze sociali, l’assistente sociale si mette a disposizione dell’amministrazione per cui opera o dell’autorità competente, contribuendo per la propria competenza a programmi e interventi diretti al superamento dello stato di crisi.

TITOLO V – Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti di colleghi e altri professionisti Capo I – Rapporti con i colleghi e altri professionisti 41. L’assistente sociale intrattiene con i colleghi e con gli altri professionisti con i quali collabora rapporti improntati a correttezza, lealtà e spirito di collaborazione, sostenendo in particolare i colleghi che si trovano all’inizio dell’attività professionale. Si adopera per la soluzione di possibili contrasti nell’interesse dell’utente, del cliente e della comunità professionale.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

73

42. L’assistente sociale che, a qualsiasi titolo, stabilisca un rapporto di lavoro con colleghi e organizzazioni pubbliche o private, si adopera affinché vengano rispettate le norme etico-deontologiche che ispirano la professione; fornisce informazioni sulle specifiche competenze e sulla metodologia applicata per salvaguardare il proprio e altrui ambito di competenza e di intervento. 43. L’assistente sociale che venga a conoscenza di fatti, condizioni o comportamenti di colleghi o di altri professionisti, che possano arrecare grave danno a utenti o clienti, ha l’obbligo di segnalare la situazione all’Ordine o Collegio professionale competente.

TITOLO VI – Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti dell’organizzazione di lavoro Capo I – L’assistente sociale nei confronti dell’organizzazione di lavoro 44. L’assistente sociale deve chiedere il rispetto del suo profilo e della sua autonomia professionale, la tutela anche giuridica nell’esercizio delle sue funzioni e la garanzia del rispetto del segreto professionale e del segreto di ufficio. 45. L’assistente sociale deve impegnare la propria competenza professionale per contribuire al miglioramento della politica e delle procedure dell’organizzazione di lavoro, all’efficacia, all’efficienza, all’economicità e alla qualità degli interventi e delle prestazioni professionali. Deve altresì contribuire all’individuazione di standard di qualità e alle azioni di pianificazione e programmazione, nonché al razionale ed equo utilizzo delle risorse a disposizione. 46. L’assistente sociale non deve accettare o mettersi in condizioni di lavoro che comportino azioni incompatibili con i principi e le norme del Codice o che siano in contrasto con il mandato sociale o che possano compromettere gravemente la qualità e gli obiettivi degli interventi o non garantire rispetto e riservatezza agli utenti e ai clienti. 47. L’assistente sociale deve adoperarsi affinché le sue prestazioni professionali si compiano nei termini di tempo adeguati a realizzare interventi qualificati ed efficaci, in un ambiente idoneo a tutelare la riservatezza dell’utente e del cliente. 48. L’assistente sociale deve segnalare alla propria organizzazione l’eccessivo carico di lavoro o evitare nell’esercizio della libera professione cumulo di incarichi e di prestazioni quando questi tornino di pregiudizio all’utente o al cliente. 49. L’assistente sociale che svolge compiti di direzione o coordinamento è tenuto a rispettare e sostenere l’autonomia tecnica e di giudizio dei colleghi, a promuovere la loro formazione, la cooperazione e la crescita professionale, favorendo il confronto fra professionisti. Si adopera per promuovere e valorizzare esperienze e modelli innovativi di intervento, valorizzando altresì l’immagine del servizio sociale, sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione. 50. Il rapporto gerarchico funzionale tra colleghi risponde a due livelli di responsabilità: verso la professione e verso l’organizzazione e deve essere improntato al rispetto reciproco e delle specifiche funzioni. Nel caso in cui non esista un ordine funzionale gerarchico della professione, l’assistente sociale risponde ai responsabili dell’organizzazione di lavoro per gli aspetti amministrativi, salvaguardando la sua autonomia tecnica e di giudizio. 51. L’assistente sociale deve richiedere opportunità di aggiornamento e di formazione e adoperarsi affinché si sviluppi la supervisione professionale.


74

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

TITOLO VII – Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della professione Capo I – Promozione e tutela della professione 52. L’assistente sociale può esercitare l’attività professionale in rapporto di dipendenza con enti pubblici e privati o in forma autonoma o libero-professionale. Ha l’obbligo dell’iscrizione all’Albo secondo quanto previsto dalla normativa vigente. 53. L’assistente sociale deve adoperarsi nei diversi livelli e nelle diverse forme dell’esercizio professionale per far conoscere e sostenere i valori e i contenuti scientifici e metodologici della professione, nonché i suoi riferimenti etici e deontologici. In relazione alle diverse situazioni, deve impegnarsi nella supervisione didattica e professionale, nella ricerca, nella divulgazione della propria esperienza, anche fornendo elementi per la definizione di evidenze scientifiche. 54. L’assistente sociale è tenuto alla propria formazione continua al fine di garantire prestazioni qualificate, adeguate al progresso scientifico e culturale, metodologico e tecnologico, tenendo conto delle indicazioni dell’Ordine professionale. 55. L’assistente sociale deve segnalare per iscritto all’Ordine l’esercizio abusivo della professione di cui sia a conoscenza. 56. L’assistente sociale deve adoperarsi, in ogni sede, per la promozione, il rispetto e la tutela dell’immagine della comunità professionale e dei suoi organismi rappresentativi. Capo II – Onorari 57. Nel rispetto delle leggi che regolano l’esercizio professionale privato, vale il principio generale dell’intesa sull’onorario fra l’assistente sociale e il cliente. L’assistente sociale è tenuto a far conoscere il suo onorario al momento dell’incarico o non appena sia chiara la richiesta e concordato il piano di intervento. Deve informare il cliente che i compensi non sono subordinati al risultato delle prestazioni. 58. Nella determinazione degli onorari l’assistente sociale deve attenersi alle indicazioni fornite in materia dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali; può tuttavia prestare la sua opera a titolo gratuito. 59. L’assistente sociale, nel rispetto delle normative vigenti, è tenuto a dare informazioni veritiere e corrette sulle sue competenze professionali e può pubblicizzarle con rispetto dei principi di verità, decoro e del prestigio della professione. Capo III – Sanzioni 60. L’attività professionale esercitata in mancanza di iscrizione all’Albo si configura come esercizio abusivo della professione ed è soggetta a denuncia secondo quanto previsto dai codici civile e penale. È sanzionabile anche disciplinarmente lo svolgimento di attività in periodo di sospensione dell’iscrizione; dell’infrazione risponde disciplinarmente anche l’assistente sociale che abbia reso possibile direttamente o indirettamente l’attività irregolare. 61. L’inosservanza dei precetti e degli obblighi fissati dal presente Codice deontologico e ogni azione od omissione comunque non consone al decoro o al corretto esercizio della professione sono punibili con le procedure disciplinari e le relative sanzioni previste nell’apposito Regolamento emanato dal Consiglio nazionale dell’Ordine. Il regolamento disciplinare è parte integrante del presente Codice.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

75

62. Il procedimento disciplinare è promosso d’ufficio nonché a seguito di denuncia o segnalazioni provenienti dall’Autorità giudiziaria o di denuncia o di segnalazioni sottoscritte provenienti da enti o da privati. 63. Nel caso di studi associati è responsabile sotto il profilo disciplinare il singolo professionista a cui si riferiscono i fatti specifici. Capo IV – Rapporti con il Consiglio dell’Ordine 64. L’assistente sociale ha il dovere di collaborare con il Consiglio dell’Ordine di appartenenza per l’attuazione delle finalità istituzionali. Deve inoltre fornire i propri dati essenziali aggiornati ed elementi utili alla costruzione della banca dati dei professionisti. Ogni iscritto è tenuto a riferire al Consiglio fatti di sua conoscenza relativi all’esercizio professionale che richiedano iniziative o interventi dell’Organo, anche diretti alla sua personale tutela. 65. L’assistente sociale chiamato a far parte del Consiglio nazionale, regionale o interregionale dell’Ordine deve adempiere l’incarico con impegno costante, correttezza, imparzialità e nell’interesse della comunità professionale ed essere parte attiva nelle politiche dei servizi. 66. L’assistente sociale impegnato nel Consiglio dell’Ordine nazionale o degli Ordini regionali o interregionali deve rendere conto agli iscritti dell’operato del suo mandato. Capo V – Attività professionale dell’assistente sociale all’estero e attività degli assistenti sociali stranieri in Italia 67. Nel rispetto delle leggi che regolano le attività professionale all’estero, l’assistente sociale è tenuto al rispetto delle norme deontologiche del Paese in cui esercita; ove assenti, è tenuto al rispetto delle norme del presente Codice. L’assistente sociale straniero che, in possesso dei requisiti di legge, eserciti in Italia, è tenuto all’obbligo di osservanza del presente Codice. 68. Il Consiglio nazionale si adopera per mantenere rapporti con le Organizzazioni nazionali e internazionali di servizio sociale (social work), ponendosi in un confronto costruttivo sui principali aspetti dell’identità della professione e sulle problematiche etiche e sociali. Si adopera per favorire l’interscambio culturale e la mobilità degli assistenti sociali a livello internazionale. Capo VI – Aggiornamento del Codice 69. Il Consiglio nazionale, sulla scorta delle questioni problematiche che emergeranno dall’applicazione del Codice, provvederà alla sua revisione. A tal fine è istituito l’Osservatorio nazionale permanente, il cui funzionamento è disciplinato da apposito regolamento.

DISPOSIZIONI FINALI Gli Ordini regionali e interregionali degli assistenti sociali sono tenuti a inviare ai nuovi iscritti all’Albo il Codice deontologico e a promuovere periodicamente occasioni di aggiornamento e di approfondimento sui contenuti del Codice e la sua applicazione.


76

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Il procedimento disciplinare Alcune note di sintesi Il procedimento disciplinare regolamenta il modo in cui eventuali comportamenti non conformi alla professione, tenuti da un assistente sociale iscritto all’Ordine, vengono accertati e puniti. Nel procedimento disciplinare troviamo quindi indicati i soggetti a cui spettano tali accertamenti e decisioni, le azioni che essi sono tenuti a compiere e le sanzioni che possono essere inflitte per punire una mancanza o un abuso professionale. A seguito dell’ultima riorganizzazione, vi sono tre norme che, nel loro insieme, regolano i procedimenti disciplinari relativi agli assistenti sociali professionisti: 1. l’art. 8 del DPR 7 agosto 2012, n. 137, Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali. In conseguenza di questo articolo, il Consiglio nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali ha emanato: 2. il Regolamento per il funzionamento del procedimento disciplinare locale (Del. 175 del 15.11.2013), entrato in vigore il 1° gennaio 2014 in sostituzione del precedente Regolamento Sanzioni disciplinari e procedimento del 2007 (modificato nel 2009); 3. il Regolamento per l’esercizio della funzione disciplinare nazionale, entrato anch’esso in vigore il 1° gennaio 2014.

Soggetti del procedimento Consigli di disciplina territoriali L’organizzazione e la gestione dei procedimenti e la decisione sulle questioni disciplinari riguardanti gli iscritti all’Albo sono affidate a Consigli di disciplina regionali, composti da assistenti sociali scelti dal Presidente del Tribunale nel cui circondario hanno sede tra i nominativi contenuti in un elenco proposto dal Consiglio dell’Ordine corrispondente. I componenti del Consiglio di disciplina non possono essere anche consiglieri dell’Ordine. Essi restano in carica per il medesimo periodo del corrispondente Consiglio regionale. Le funzioni di segreteria del Consiglio di disciplina sono svolte dagli uffici del Consiglio regionale dell’Ordine. Collegi di disciplina Il Consiglio regionale di disciplina opera attraverso uno o più Collegi di disciplina, composti da tre componenti della medesima sezione e presieduti dal componente con maggiore anzianità d’iscrizione all’Albo. Consiglio nazionale di disciplina Il Consiglio nazionale di disciplina esercita la funzione disciplinare di secondo grado, cioè decide in merito ai ricorsi presentati contro le sanzioni disciplinari inflitte dai Collegi di disciplina. Esso è composto da tre membri, dei quali due iscritti nella sezione A dell’Albo e uno iscritto nella sezione B, che vengono eletti dal Consiglio nazionale. Le funzioni di segreteria del Consiglio nazionale di disciplina sono svolte dagli uffici del Consiglio nazionale dell’Ordine.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

77

Procedimento Avvio del procedimento Il procedimento disciplinare nei confronti dell’iscritto è promosso d’ufficio dal Consiglio regionale di disciplina, nei seguenti casi: – quando ha notizia di azioni o omissioni, da parte di un iscritto, che violino norme di legge e regolamenti, o il Codice deontologico, o che siano in contrasto con i doveri generali di corretto esercizio della professione. Il Consiglio dell’Ordine regionale è tenuto a comunicare al Consiglio regionale di disciplina ogni notizia di fatti disciplinarmente rilevanti; – su richiesta del Pubblico ministero competente (ad esempio quando il professionista è sottoposto anche a un’azione penale); – su richiesta degli interessati, cioè gli iscritti all’Albo o i soggetti che possono aver subito un pregiudizio dalla condotta dell’iscritto. Ricevuta la notizia di presunto illecito disciplinare, il presidente del Consiglio di disciplina assegna lo svolgimento del procedimento a un Collegio di disciplina composto dai consiglieri appartenenti alla sezione del professionista assoggettato al procedimento. Archiviazione immediata, tentativo di conciliazione o apertura del procedimento Il Collegio di disciplina può deliberare di archiviare immediatamente il procedimento disciplinare (che quindi non viene aperto) quando i fatti palesemente non sussistono; oppure le notizie pervenute sono manifestamente infondate; oppure i fatti non sono stati commessi da un iscritto nell’Albo della Regione. Dopo un attento esame dell’attendibilità e fondatezza delle segnalazioni, se si tratta di un caso non particolarmente grave il Collegio può esperire un tentativo di conciliazione tra le parti. Se non sono possibili né l’archiviazione immediata né la conciliazione, il Collegio delibera l’apertura del procedimento e nomina un consigliere relatore incaricato di condurre l’istruttoria. Istruttoria L’istruttoria consiste nell’acquisizione dei documenti necessari e nella raccolta di tutte le notizie utili. Se lo ritiene opportuno, il consigliere relatore può effettuare un’audizione sia del soggetto privato che ha richiesto il procedimento, al quale può essere richiesto di esibire dei documenti, sia dell’incolpato, che può anch’egli presentare memorie o documenti. Entro sei mesi, il relatore riferisce i risultati al Collegio e tramette il relativo fascicolo, contenente tutto il materiale acquisito. Udienza Il Collegio, dopo aver sentito il relatore, fissa la data dell’udienza. Nel corso dell’udienza il Collegio acquisisce gli elementi rilevanti per la decisione del procedimento, sentendo eventuali testimoni o persone informate sui fatti. L’incolpato può farsi assistere da un avvocato e/o da esperto di sua fiducia. L’udienza non è pubblica e si tiene presso la sede del Consiglio regionale dell’Ordine. Se necessario, il procedimento può essere rinviato a ulteriori udienze. Delibera Il Collegio delibera con decisione motivata. La decisione viene notificata all’incolpato, al Pubblico ministero presso il Tribunale nella cui circoscrizione l’incolpato risiede, ai soggetti


78

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

che abbiano fatto pervenire notizia dei fatti rilevanti. Il provvedimento disciplinare definitivo è reso pubblico mediante annotazione nell’Albo, per il periodo di tempo indicato dal Collegio nella stessa delibera. La sanzione è comunicata al datore di lavoro e/o all’ente che si avvalgono delle prestazioni del professionista sanzionato. Impugnazione Il provvedimento del Collegio di disciplina che conclude il procedimento può essere impugnato dal Pubblico ministero e dall’incolpato con ricorso al Consiglio nazionale di disciplina entro 60 giorni dalla notifica. Il Consiglio nazionale di disciplina, dopo un procedimento analogo a quello di primo grado, delibera con decisione motivata l’inammissibilità, il rigetto, l’accoglimento oppure l’accoglimento parziale del ricorso con riduzione della sanzione. Sanzioni Le sanzioni che il Collegio può infliggere una volta accertata la responsabilità disciplinare sono previste dal Regolamento per il funzionamento del procedimento disciplinare locale negli articoli dal 18 al 23. Ammonizione Consiste in un richiamo sull’osservanza dei suoi doveri e in un invito a non ripetere quanto commesso. Viene inflitta nei casi di abusi o mancanze di lieve entità che non hanno, tuttavia, leso l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione. Censura Consiste in una dichiarazione di biasimo. È inflitta nei casi di abusi o di mancanze che hanno leso l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione. Sospensione Consiste nel proibire l’esercizio della professione fino al massimo di un anno. È inflitta nei casi di abusi o mancanze che arrechino grave danno ai destinatari dell’attività professionale o comunque ad altri soggetti. Sospensione cautelare Può essere deliberata, previa audizione, al professionista soggetto a una misura cautelare disposta in sede penale; oppure al professionista condannato a una pena accessoria (art. 35 del Codice penale), o sottoposto a una misura di sicurezza detentiva, o condannato a una pena detentiva uguale o superiore a tre anni, o condannato per alcuni specifici reati se sono stati commessi nell’ambito dell’esercizio della professione (falsa testimonianza, frode processuale, intralcio alla giustizia, favoreggiamento, infedeltà nel ruolo di consulente tecnico, truffa, appropriazione indebita). Radiazione Consiste nella cancellazione dall’Albo. Viene inflitta nei casi di abusi o mancanze particolarmente gravi o reiterati nel tempo che arrechino gravissimo danno ai destinatari dell’attività professionale o comunque ad altri soggetti.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

79

Comportamenti disciplinarmente rilevanti Il Regolamento per il funzionamento del procedimento disciplinare locale esplicita che è considerato comportamento disciplinarmente rilevante il mancato versamento dei contributi previsti dalla legge. Il pagamento tardivo dei contributi dovuti non comporta automaticamente l’archiviazione del procedimento disciplinare o la revoca della sanzione disciplinare. Viene inoltre specificato che costituiscono illecito disciplinare il mancato adempimento dell’obbligo di formazione continua, la mancata o infedele certificazione del percorso formativo e il mancato adempimento dell’obbligo assicurativo previsto dall’art. 5 DPR 137/2012.*

* L’art. 5, comma 1 del DPR 137/2012 stabilisce che «il professionista è tenuto a stipulare, anche per il tramite di convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti, idonea assicurazione per i danni derivanti al cliente dall’esercizio dell’attività professionale». L’obbligo di assicurazione riguarda gli assistenti sociali che operano in regime libero-professionale, non gli assistenti sociali inquadrati come dipendenti.


80

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

ETICA E RUOLO PROFESSIONALE: NEGOZIARE FUNZIONI E CONFINI* Frank Philippart (Avans University of Applied Science, Breda)

Che cosa vuol dire essere operatore sociale? Un tratto caratteristico della storia del lavoro sociale è che, fino al pieno ventesimo secolo, gran parte degli interventi è stata portata avanti da volontari competenti e ben informati, non retribuiti. La prima scuola di lavoro sociale del mondo fu fondata ad Amsterdam nel 1899; molte altre seguirono velocemente in Europa e Nord America, e tra gli anni Venti e Trenta anche in America del Sud, Africa e Asia (Healy, 2001, pp. 2123). A quel tempo, il lavoro sociale si occupava soprattutto di problemi come la povertà, l’igiene e i comportamenti antisociali. Un po’ alla volta, in molti Paesi occidentali, il lavoro sociale si «professionalizzò», mentre il benessere generale migliorava e i governi erano sempre più consapevoli della necessità di educare i cittadini a comportamenti «sociali», controllare e contenere la crescita dei problemi sociali e introdurre misure di sostegno per controbilanciare gli effetti delle disuguaglianze economiche e materiali. Quando si parla di «professionalizzazione», di solito si pensa all’introduzione dell’insegnamento e della formazione professionale in istituzioni universitarie, alla produzione di letteratura specialistica, allo sviluppo di una pratica professionale codificata, all’adozione di un codice deontologico di categoria. La professionalizzazione è anche un processo che porta un gruppo professionale ad acquisire credibilità e uno status riconosciuto, ed è stata guardata con un certo sospetto da alcune parti della comunità degli operatori, perché è spesso associata a esclusività ed elitarismo (Banks, 2006, pp. 74-77). Il lavoro sociale ha sempre attirato persone con una forte coscienza sociale e predisposte a prestare aiuto e lavorare per un cambiamento sociale, a beneficio dei cittadini più fragili e svantaggiati. Nel lavoro sociale, quindi, ha valore non soltanto la professionalità, ma anche la vocazione (il coinvolgimento o l’inclinazione personale) e l’attivismo sociale dei professionisti. Il Caso 2.1, su un intervento di calamità dopo un terremoto in Cina, rappresenta bene lo scontro sull’idea di «valido aiuto»: in questo contesto, alcuni operatori sociali qualificati osservarono tra i volontari pratiche da loro considerate incompetenti e immorali. Tuttavia, dal momento che in Cina il lavoro sociale, con i suoi valori e principi professionali, non è comunemente consolidato o conosciuto, non sapevano decidere se e come far notare queste carenze. Con l’affermazione della legislazione sociale e dei diritti sociali in gran parte delle società occidentali e non solo, gli operatori sociali professionisti sono entrati a far parte di organizzazioni finanziate direttamente o indirettamente dallo Stato o da enti pubblici ed è quindi stato loro richiesto di lavorare allineandosi a norme e regolamenti ufficiali. Da allora, gli operatori hanno cominciato a percepire il divario tra i loro ideali e il loro impegno sociale, da un lato, e le norme e i regolamenti dell’ente datore di lavoro, * Tratto da Banks S. e Nøhr K. (a cura di) (2012), Practising social work ethics around the world: Cases and commentaries, London, Routledge, trad. it. L’etica in pratica nel servizio sociale, Trento, Erickson, 2014, pp. 57-63.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

81

dall’altro. Per gli operatori è divenuto normale, in quanto parte delle loro responsabilità professionali, ricoprire ruoli molto diversi, che andavano dal prendersi cura dell’utente e dal fargli da portavoce di fronte all’amministrazione, fino allo svolgere invece funzioni di valutazione e di controllo. Dal momento che gli operatori sociali sviluppano spesso una relazione molto stretta con gli utenti e hanno quindi accesso a informazioni personali, questi diversi ruoli possono entrare in conflitto l’uno con l’altro. I professionisti infatti hanno degli obblighi sia nei confronti degli utenti, sia verso le organizzazioni per cui lavorano, che a loro volta hanno obiettivi connessi all’interesse pubblico. Nei casi in cui gli interessi o i valori personali e/o professionali degli operatori sociali sono in conflitto con gli interessi o i valori pubblici delle organizzazioni, gli operatori si trovano in una posizione scomoda. Molti operatori sociali, infatti, trovano difficile stabilire con gli utenti una relazione basata sulla fiducia reciproca, sapendo di dover dire che certi tipi di informazioni ricevute non potranno restare riservate e che saranno stese valutazioni e relazioni che potrebbero avere conseguenze indesiderate. Scegliere e negoziare i ruoli Gli operatori sociali lavorano in molti contesti diversi, dalla libera professione a enti pubblici, privati e non profit. Il tipo di utenti e il tipo di servizio offerto incidono inevitabilmente sui ruoli che svolgono. Quando devono scegliere e muoversi tra i ruoli di aiuto e di controllo, ad esempio, i professionisti sono guidati dal tipo di rapporto professionale che hanno stabilito con gli utenti e che si colloca in un punto di un continuum che va dal rapporto totalmente volontario al rapporto obbligato. In un mondo ideale, tra operatori e utenti si possono stabilire relazioni in cui gli utenti stessi riconoscono e capiscono i loro problemi, i loro bisogni o altre questioni che devono affrontare e sono consapevoli di non poterli risolvere senza chiedere aiuto o senza lavorare assieme a un professionista del sociale; in un mondo ideale, gli utenti sono pronti a parlare dei loro problemi, disposti a tentare diverse soluzioni, a stabilire per primi il contatto. Tuttavia, solo in rari casi i rapporti tra operatori e utenti sono davvero così. In gran parte dei casi, gli utenti sono ambivalenti e, per ottenere dei risultati in termini di benessere degli utenti e di altre persone, gli operatori sociali possono trovarsi a esercitare pressioni o azioni di persuasione. All’altro estremo, utenti in un rapporto obbligato con il professionista potrebbero negare di avere problemi o difficoltà che richiedono un intervento o un qualche tipo di lavoro collaborativo. Possono rifiutarsi di parlare dei loro problemi con un «estraneo» e di considerare modi alternativi di gestire le cose. L’iniziativa del contatto può venire anche da una terza parte. Il rapporto obbligato con un social worker è molto comune nei casi di libertà vigilata, violenza domestica, tutela minorile e salute mentale, quando una persona può rappresentare un pericolo per se stessa o per gli altri. Ne offre un esempio il Caso 2.2, scritto dal punto di vista di una studentessa di lavoro sociale in tirocinio in una stazione di polizia del Botswana.


82

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

In tutti i casi, dagli interventi volontari a quelli di controllo, è fondamentale che l’operatore sociale agisca nel quadro dell’etica professionale, così da garantire un trattamento rispettoso degli utenti, procedimenti equi ed esiti giusti. Questo è ancora più importante nei casi di interventi di controllo, in cui la libertà dell’utente è, per certi aspetti, limitata. Responsabilità e doveri professionali In molti Paesi del mondo in cui è praticato il lavoro sociale, ci sono associazioni di categoria o altre organizzazioni che hanno sviluppato, o si impegnano ad accogliere, dichiarazioni di principi e finalità da perseguire. Molto spesso ci sono codici deontologici che definiscono i principi fondamentali del lavoro sociale e indicano nel dettaglio le responsabilità generali e i compiti specifici degli operatori (Banks, 2006, pp. 77-102). Spesso, queste sono basate, o fanno riferimento, a dichiarazioni internazionali sull’etica nel lavoro sociale (IFSW e IASSW, 2004). Nella maggior parte dei Paesi, gli operatori sociali hanno le responsabilità fondamentali di rispettare i diritti e la dignità degli utenti, e di fornire la più ampia e sicura informazione sugli aspetti giuridici significativi per il rapporto di lavoro. Questo secondo punto è estremamente importante, soprattutto per gli utenti obbligati che devono conoscere i loro diritti e doveri e che cosa è loro permesso o vietato in un particolare quadro giuridico. I dilemmi morali sorgono quando gli interessi personali degli utenti entrano in conflitto con i giudizi professionali ed etici degli operatori, e/o con la necessità di garantire la pubblica sicurezza, e/o l’interesse dell’ente a tenere sotto controllo o limitare comportamenti indesiderati. Molto spesso gli enti si pongono l’obiettivo di lavorare per cambiare il comportamento degli utenti, per renderlo più costruttivo. Molti utenti reagiscono male, quando vengono loro imposte misure rigide, e può succedere che gli operatori sociali si trovino a dover decidere se, in presenza di un comportamento che ritengono scorretto, hanno la responsabilità o un obbligo morale di intervenire. Sono molte le situazioni di questo tipo: quando gli operatori vengono a conoscenza di un possibile danno verso terzi; quando gli utenti violano chiaramente la legge; quando gli utenti rappresentano una minaccia alla pubblica sicurezza; quando gli utenti parlano degli altri in modo irrispettoso o lesivo; quando gli utenti agiscono contro le convinzioni morali dell’operatore; quando gli utenti con un retroterra culturale diverso dall’operatore mostrano comportamenti antisociali. Di solito, i professionisti cercano di lavorare, anche in un contesto di controllo, in cooperazione con gli utenti, ma devono anche decidere quando lavorare contro la loro volontà e senza il loro consenso. Distanza e vicinanza professionale Decidere dove far passare il confine tra la vita professionale e la vita privata mette alla prova molti assistenti sociali, educatori e animatori che lavorano nell’ambiente di vita degli utenti, forniscono loro un’assistenza personale anche molto intima e possono dar


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

83

vita a un rapporto a lungo termine con loro. È l’esempio testimoniato dal Caso 2.4 di una studentessa che lavora in una struttura sociosanitaria: i suoi colleghi ritenevano che la relazione che stava sviluppando con un giovane utente fosse diventata troppo stretta. Per far bene il proprio lavoro, gli operatori sociali devono saper capire e comunicare a livello sociale e psicologico con persone di provenienza sociale e culturale molto diversa; è necessaria quindi una certa abilità nel fissare il grado di vicinanza con gli utenti. Tuttavia, è importante distinguere tra una vicinanza professionale e una vicinanza personale. Un professionista non dovrebbe avere l’esigenza personale di vicinanza a un particolare utente. Un certo grado di vicinanza professionale è però sempre necessario per comunicare con gli utenti e per fidarsi e capirsi a vicenda: la vicinanza professionale comporta l’abilità di essere empatici, di capire nel modo più preciso possibile le situazioni degli utenti, le loro speranze, le paure e i desideri, e di dare loro una risposta partecipata. Questa vicinanza professionale è comunque bilanciata da un certo grado di «distanza professionale», che in questo contesto vuol dire l’introduzione, nel rapporto tra utenti e professionisti, di regole e confini sociali ed etici. È questa distanza professionale che permette agli operatori di intervenire su forme e schemi di comportamento storicamente determinati ma socialmente ed eticamente inaccettabili, e di lavorare per il benessere di tutte le parti coinvolte. Il Caso 2.3, di una studentessa che si chiede se accettare o no un regalo da un utente, è un buon esempio di una professionista consapevole della necessità di stabilire regole e confini, ma incerta su dove fissarli. L’operatore sociale professionista deve saper trovare un equilibrio tra i diversi insiemi di valori e interessi degli utenti, delle loro famiglie, dei vicini e di altre persone. Gli operatori spesso si trovano in situazioni in cui vengono a conoscenza di informazioni private e personali, su circostanze o attività che possono mettere a rischio terze persone, ma che, se rivelate, possono mettere a rischio la fiducia e la vicinanza nella relazione con gli utenti. Prendere una decisione in questi frangenti comporta emettere un giudizio sulla base di regole e principi accettati nella professione. Etica della giustizia ed etica della care La «distanza professionale» e la «vicinanza professionale» che abbiamo appena descritto possono essere associate a due diversi approcci teorici all’etica: l’«etica della giustizia» e l’«etica della care». L’«etica della giustizia» parte da un insieme di principi astratti e universali sul comportamento che gli uomini devono tenere gli uni nei confronti degli altri. L’«etica della care», invece, si concentra sul rapporto, unico e dipendente dalla situazione, tra chi presta e chi riceve cura e assistenza (Gilligan, 1982; Noddings, 1984; Sevenhuijsen, 1998). Nella pratica di lavoro quotidiana, entrambi questi approcci hanno il loro peso nella creazione delle relazioni con le persone e nelle decisioni sulle linee d’azione da tenere. Lohman e Raaf (2001) ritengono che un obiettivo fondamentale per un professionista di lavoro sociale sia cercare di conciliare le differenze tra questi due approcci etici, muovendosi in quello spazio discrezionale in cui egli è libero di decidere come agire in ogni specifico caso.


84

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Nell’«etica della giustizia» si mette l’accento sui principi di uguaglianza, sull’oggettività nel rapporto con gli altri, sul pensiero razionale nel valutare i casi in questione, sul rispetto di valori universali, sul rispetto delle leggi e sull’adempimento dei propri doveri, sul rispetto dell’autonomia e i diritti civili degli utenti, sull’impegno a lavorare a nome dell’utente. Tutti questi valori e principi sono riconosciuti da ogni professionista sul campo; in essi ritroviamo il pensiero etico di John Rawls (1973) e Immanuel Kant (1797/1959), fortemente radicato nelle moderne società occidentali, ma che presenta anche degli svantaggi. Si può notare come esso tenda verso un modello legalistico dei diritti e doveri individuali, per cui si aiutano le persone sulla base di diritti acquisiti tramite un processo di conflitto e lotta tra diversi individui e gruppi di interesse. Come abbiamo già accennato, l’«etica della care» agisce in base a un diverso insieme di valori: valorizzare l’unicità e le differenze, applicare valori relazionali (come l’amore, l’attenzione o la fiducia), comprendere le persone nel loro contesto, partire dal punto di vista di ogni persona, valorizzare la dedizione verso le persone bisognose, riconoscere l’interdipendenza e lavorare con motivazioni altruistiche. Tuttavia, anche questo approccio ha i suoi svantaggi: può favorire la dipendenza o perfino l’istituzionalizzazione, può acuire il pericolo di esclusione sociale (concentrandosi sul singolo individuo), può presentare il rischio di arbitrarietà e poca chiarezza nella natura dell’aiuto offerto (dal momento che dipende da una relazione esclusiva e specifica, più che da principi e regole universali e imparziali). Conclusioni Come mostra questa discussione, né l’etica della care, né l’etica della giustizia sono approcci adeguati, presi singolarmente, per capire le dimensioni etiche della pratica di lavoro e per prendere decisioni nel campo del lavoro sociale. Piuttosto che pensarli come approcci in conflitto, possiamo ritenerli complementari: nel lavoro sociale, e in generale nella vita, dobbiamo valorizzare l’unicità delle relazioni e l’impegno, prestare assistenza e mostrare compassione gli uni verso gli altri, ma allo stesso tempo dobbiamo tenere in considerazione il contesto più generale, per promuovere l’equità e per evitare trattamenti preferenziali (Banks, 2004, pp. 98-105). Una caratteristica dei professionisti è che nel loro lavoro si muovono all’interno di uno spazio discrezionale, in cui godono di un certo grado di libertà quando si tratta di prendere decisioni e di procedere concretamente in relazione a casi particolari. In questo processo, i professionisti spesso si trovano a dover negoziare richieste di assistenza, vicinanza e compassione, tenendo sempre presenti i requisiti di oggettività, distanza ed equa distribuzione del tempo e delle risorse. I Casi 2.2, 2.3 e 2.4 fanno vedere alcune di queste negoziazioni nel concreto. In questi tre casi, gli operatori sono tutti studenti e studentesse che si chiedono dove fissare la linea di confine tra vita personale e vita professionale e cercano di capire quale sia il ruolo giusto che devono assumere nei confronti di specifici utenti. Come mostrano i commenti di studiosi e operatori esperti, sono domande a cui non è facile rispondere, che richiedono una particolare sensibilità


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

85

etica per le sfumature delle specifiche relazioni e degli impegni in gioco, e una chiara comprensione dei principi e delle procedure della professione e degli enti datori di lavoro. Principi e procedure che sono pensati per proteggere gli utenti e per favorire l’equità. Bibliografia Banks S. (2004), Ethics, Accountability and the Social Professions, Basingstoke, Palgrave Macmillan. Banks S. (2006), Ethics and Values in Social Work, 3rd edition, Basingstoke, Palgrave Macmillan, trad. it. Etica e valori nel servizio sociale, Trento, Erickson, 1999. Gilligan C. (1982), In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development, Cambridge, MA, Harvard University Press. Healy L. (2001), International Social Work: Professional Action in an Interdependent World, New York/ Oxford, Oxford University Press. International Federation of Social Workers e International Association of Schools of Social Work (2004), Ethics in Social Work, Statement of Principles, www.ifsw.org, ultimo accesso ottobre 2010. Kant I. (1797/1959), Foundations of the Metaphysics of Morals, translated by L.W. Beck, New York, Liberal Arts Press. Lohman S. e Raaf H. (2001), In de frontlinie tussen hulp en recht [In prima linea tra aiuto e diritto], Bussum, Netherlands, Uitgeverij Coutinho. Noddings N. (1984), Caring: A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, Berkeley/Los Angeles, CA, University of California Press. Rawls J. (1973), A Theory of Justice, Oxford, Oxford University Press. Sevenhuijsen S. (1998), Citizenship and the Ethics of Care: Feminist Considerations on Justice, Morality and Politics, London, Routledge.


86

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

RISPETTARE I DIRITTI* Linda Briskman (Curtin University, Perth) e María Jesús Úriz Pemán (Universidad Pública de Navarra)

Diritti umani e lavoro sociale In questa introduzione ci occuperemo dei diritti umani nel lavoro sociale. Negli ultimi cinquant’anni il discorso sui diritti umani, per quanto sia stato definito in modi diversi, si è conquistato un ruolo di primo piano e ha ottenuto un ampio riconoscimento. Un modo semplice per descrivere i diritti umani li definisce come diritti universali di cui sono titolari tutte le persone in quanto tali, indipendentemente da fattori come Paese d’origine, etnia, cultura, età o genere (Ife, 2001). È un discorso potente, che cerca di superare divisioni e settarismi e di unire persone con diversi percorsi di vita, affermando l’universalità del genere umano (ibidem). Nel corso del tempo la definizione e l’interpretazione dei diritti umani hanno subito spostamenti e aggiustamenti, in risposta ai cambiamenti nella società e ai diversi movimenti sociali. Negli anni, la concezione dei diritti umani è mutata per accogliere in sé i cambiamenti della composizione demografica della società. Eppure, ci sono ancora individui e gruppi di persone ai margini della società, i cui diritti non sono ancora pienamente garantiti o realizzati (Black, 2008). Quando si tratta di calare concretamente i diritti umani negli ambiti della formazione, delle politiche e della pratica professionale, il lavoro sociale deve far fronte a diverse difficoltà. Una prima difficoltà è data dall’idea che il concetto di diritti umani sia soltanto un concetto legale di competenza degli avvocati, riferito in prima istanza alle norme di legge internazionali e interne. Per assicurare un’interpretazione più aperta e più inclusiva dei diritti umani, gli operatori sociali possono estendere l’approccio al di là della sfera legale, tramite una ri-concettualizzazione del modello teorico dei diritti umani, includendo altri ambiti, come la morale, la politica, le pratiche quotidiane. C’è anche un secondo motivo di tensione: il lavoro sociale dovrebbe superare un approccio incentrato su bisogni e prestazioni invece che sui diritti. L’erogazione di servizi alla persona è spesso inserita in un paradigma di welfare assistenziale basato sui bisogni (Briskman, 2007a), che può evidentemente entrare in conflitto con altri paradigmi. Rioux e Zubrow (2001) nel loro lavoro sulla disabilità danno alcune indicazioni per ripensare all’approccio con persone fragili: nel caso dei diritti legati alla disabilità questo approccio richiede di spostarsi da una prospettiva patologizzante o biomedica verso una riformulazione in termini di scelte economiche, sociali e politiche. Non è un cammino facile, perché le organizzazioni assistenziali possono resistere al cambiamento (Briskman, 2007a), soprattutto in un contesto globale dominato dal neoliberismo. Un modo per superare queste tensioni è pensare che il lavoro sociale contribuisca a sviluppare una * Tratto da Banks S. e Nøhr K. (a cura di) (2012), Practising social work ethics around the world: Cases and commentaries, London, Routledge, trad. it. L’etica in pratica nel servizio sociale, Trento, Erickson, 2014, pp. 95-102.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

87

«cultura dei diritti», in cui l’interpretazione dei diritti vada oltre il modello legalistico e in cui il concetto di diritto venga integrato nella società a diversi livelli. In questo modello, i diritti umani sono pensati non come una panacea per risolvere tutte le ingiustizie, ma come uno strumento discorsivo e analitico per promuovere un cambiamento della società (Fiske e Briskman, 2008). Un approccio basato sui diritti umani è uno strumento potente per realizzare un lavoro sociale orientato al cambiamento. Un modello di questo tipo può infatti fornire agli operatori sociali una base etica per il loro lavoro (Ife, 2001). Come introdurre concretamente i diritti umani nelle società è un problema che occupa operatori sociali, docenti, filosofi, giuristi e politici da molto tempo (Reichert, 2003). I diritti umani sono implicitamente al centro del lavoro sociale e i codici deontologici nazionali e internazionali sostengono una loro ampia applicazione. Nonostante i tentativi di alcuni ricercatori e professionisti volti a concepire il lavoro sociale come una professione dei diritti umani, restano alcuni punti di disaccordo, come la contrapposizione tra diritti e doveri o la domanda, che discuteremo più avanti, se il lavoro sociale debba adottare un approccio ai diritti umani di tipo «universalista» o di «relativismo culturale». Dal punto di vista degli operatori, applicare i principi dei diritti umani alla prassi resta un problema controverso, come mostrano i casi presentati in questo capitolo. L’International Federation of Social Workers (IFSW) ha sviluppato una sua politica su lavoro sociale e diritti umani e in collaborazione con l’International Association of Schools of Social Work (IASSW) ha formulato una definizione di lavoro sociale che riconosce esplicitamente la centralità dei principi dei diritti umani. In alcuni Paesi, un impegno per i diritti umani nel lavoro sociale è incluso nel Codice deontologico nazionale. Il documento di IFSE e IASSW sull’etica nel lavoro sociale (Ethics in Social Work: Statement of Principles) mette in primo piano i diritti umani e la dignità dell’uomo: Il lavoro sociale è basato sul rispetto del valore e della dignità di ogni persona e sui diritti che ne derivano. Gli operatori sociali devono sostenere e difendere l’integrità e il benessere fisico, psicologico, emotivo e spirituale di ogni persona. (IFSW e IASSW, 2004, par. 4.1)

Il lavoro sociale è una professione piena di incertezze e contraddizioni. Spesso ha difficoltà nel trovare la sua collocazione rispetto a professioni più prestigiose, come il diritto, la medicina e la psichiatria, e in alcuni ambienti deve lottare per affermare il suo ruolo e la sua identità e affrontare squilibri di potere professionale — un aspetto particolarmente evidente nel Caso 3.1, che descrive un’operatrice sociale in un ospedale psichiatrico. Inoltre, il lavoro sociale viene talvolta pensato nei termini di una dicotomia, diviso tra approcci «conservatori» e approcci «progressisti». Chi lavora al microlivello del lavoro sociale faccia a faccia con gli utenti può essere accusato, forse a torto, di perpetuare sistemi ingiusti e di non costruire giustizia sociale e cambiamento. Dominelli (1998) nota che il ruolo e gli obiettivi del lavoro sociale sono stati messi in discussione fin dai suoi inizi, soprattutto su tre aspetti: aiuto terapeutico, mantenimento, emancipazione. Tuttavia, a quanto sembra, il lavoro sociale, a tutti i livelli e in qualsiasi setting, può dare


88

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

un contributo alla prassi emancipatoria che permette di superare le violazioni dei diritti umani, anche tramite piccoli passi, come dimostrano i casi riportati in questo capitolo. I protagonisti di queste vicende dimostrano tutto il loro coraggio ammettendo di essere sconcertati quando pensano ai diritti umani; è però deplorevole che i tentativi seri di introdurre i diritti umani nel contesto del lavoro sociale siano così pochi. Uno degli ostacoli riguarda la formazione: i docenti si lamentano spesso che in un curriculum troppo fitto, con paradigmi antagonisti in competizione tra loro, non c’è spazio per parlare di diritti umani. Tuttavia, dal contatto con gruppi che lottano per ottenere i loro diritti, gli operatori sociali possono trarre molte indicazioni, a vari livelli. Ad esempio, alcuni gruppi possono lottare per vedere riconosciuti i loro diritti civili e politici (noti anche come «diritti di prima generazione»), mentre ad altri mancano le strutture e i mezzi per la realizzazione dei loro diritti economici, sociali e culturali (diritti di seconda generazione); altri ancora non riescono a ottenere i loro diritti collettivi (diritti di terza generazione). Un’ampia discussione delle tre generazioni di diritti si può leggere in Ife (2008). Se prendiamo in esame i casi presentati in questo capitolo, dobbiamo riconoscere che gli approcci al lavoro sociale basati sui diritti umani sono pienamente coerenti con molti modelli di lavoro sociale. La teoria dei diritti umani si basa su alcuni paradigmi emancipatori, come l’antirazzismo, il femminismo, il postmodernismo critico e il postcolonialismo. Tuttavia, quando si devono calare nella pratica le costruzioni teoriche, non mancano le contraddizioni — ad esempio, la difficoltà nel trovare un equilibrio tra le dimensioni privata, professionale e politica, o la necessità di agire entro confini molto ben definiti (Cemlyn, 2008). Nella maggior parte dei casi di questo capitolo, i professionisti lavorano per enti che possono limitare l’autonomia sia dei loro dipendenti, sia delle persone di cui vogliono rappresentare gli interessi. Terreno contestato È importante che gli operatori sociali conoscano la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (United Nations, 1948), che rappresenta una grande conquista per l’umanità. La Dichiarazione afferma l’esistenza di alcuni principi comuni che si applicano a tutti gli esseri umani, indipendentemente da classe sociale, genere, etnia, età, capacità e religione. Come nota Ife (2008), la Dichiarazione è una fonte di ispirazione che è stata usata in molti modi per appoggiare cause umanitarie di assoluto rilievo. Allo stesso modo, però, gli operatori sociali devono conoscere anche le critiche mosse ai principi internazionali codificati, tra cui la Dichiarazione Universale, e in modo particolare devono essere consapevoli della critica di imperialismo culturale. La questione ruota essenzialmente intorno a un’alternativa: da un lato, c’è l’interpretazione «universale», che ritiene che i diritti umani debbano essere adottati da tutti i popoli e da tutte le culture; dall’altro, c’è l’approccio del «relativismo culturale», che afferma invece che dobbiamo mettere in dubbio la possibilità di stabilire «verità morali» universali, che in realtà non possono essere applicate alle culture non occidentali (Nipperess e Briskman, 2009). Talvolta, le accuse sono rivolte nello specifico al concetto di diritti umani in quanto


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

89

costruzione occidentale; i professionisti dei servizi alla persona che lavorano in contesti non occidentali sono di solito più esperti nel negoziare l’equilibrio tra l’universale e il particolare culturale. Questo è evidente soprattutto nel Caso 3.3: la protagonista è una studentessa olandese che lavora in Vietnam, in un ambiente lontano dalla sua cultura, e che si trova di fronte a norme di condotta diverse da quelle tipiche del lavoro sociale in Occidente. Dilemmi pratici di questo tipo possono presentarsi quando ci si trova lontani dal proprio Paese d’origine, ma non soltanto: i problemi che pone la diversità culturale possono emergere anche in un contesto multiculturale e attento ai diritti umani. La capacità di mettersi nei panni degli altri dovrebbe essere per ogni operatore sociale un principio fondamentale di diritto umano. Per rispondere ai dilemmi etici pratici, gli operatori sociali devono essere aggiornati sul dibattito intorno ai diritti umani e sull’opzione «universalismo»/«relativismo culturale». Elizabeth Reichert (2003) mette in luce le tensioni tra questi due poli. Parlando di universalità, ribadisce che ogni persona ha la facoltà di godere dei diritti umani, che includono ad esempio un’adeguata assistenza sanitaria e cibo per tutti. Tuttavia, fa notare, non tutti i diritti umani sono così chiaramente definiti, come mostrano anche gli esempi di questo capitolo. La nozione di universalità può entrare in conflitto con particolari culture, leggi, politiche, sistemi morali e regimi che non riconoscono i diritti umani in questione. Reichert si chiede allora che cosa dovrebbe prevalere: la norma culturale o quella religiosa, o il diritto umano? Sorgono così delle domande che gli operatori sociali devono porsi quando esprimono un giudizio sui diritti umani e che possono essere applicate anche ai casi presentati in questo capitolo: – Chi definisce un diritto umano? – Chi trae beneficio da questa definizione? – Chi ci rimette? – Quali voci sono state ascoltate per far rispettare i diritti umani? – Chi definisce in che cosa consiste una determinata cultura? – Un governo ha il diritto di dire a un altro governo che le sue politiche violano un diritto umano? Nipperess e Briskman (2009) rispondono ad alcune critiche mosse da entrambe le posizioni, facendo notare che anche se i teorici occidentali hanno chiaramente influenzato gran parte del pensiero sui diritti umani, questo non vuol dire che l’idea di diritti umani non sia rilevante per il resto del mondo. La nozione di diritto umano, in effetti, è stata discussa per millenni e al dialogo hanno contribuito anche culture non occidentali. Si deve quindi distinguere tra l’espressione «diritti umani» e il concetto di diritti umani, nel senso che l’espressione può essere percepita come un’entità modernista, mentre le idee di diritto umano e di umanità condivisa non sono un prodotto della modernità. Nipperess e Briskman prendono in esame anche le critiche mosse da una posizione di relativismo culturale, che ritiene che le violazioni dei diritti umani possono svilupparsi in nome della cultura. I relativisti sono stati criticati per l’idea che le culture siano immutabili e omogenee. Le culture invece sono complesse, variabili e contestate. Come afferma Donnelly (2003), le culture sono «complessi fluidi di pratiche e significati intersoggettivi». Nel Caso


90

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

3.2 sull’anziano vegano che chiede di mangiare carne, il contrasto fra significati appare chiaramente quando si tratta di capire che cosa potrebbe essere contrario a una cultura vegana e come i diversi modi di interpretare l’autonomia di un utente incidono sul modo in cui viene negoziato il suo benessere. Quando affrontiamo la questione dei diritti umani, un aspetto che emerge in primo piano è quello dell’autodeterminazione. Bowles et al. (2006) fondano il diritto del singolo all’autodeterminazione sulla considerazione degli individui come esseri umani liberi in grado di prendere da soli le loro decisioni. Come dimostrano i Casi 3.1 (sul paziente psichiatrico) e 3.2 (sul vegano che vuole mangiare carne), questo diritto non può essere dato per scontato e, come succede in 3.2, può richiedere un intervento ufficiale esterno. Nel Caso 3.1, emergono con chiarezza i limiti dell’autodeterminazione in un ambiente di forte controllo sociale e l’ansia provocata da questi limiti negli operatori sociali che hanno a che fare con i diritti umani. Ci sono situazioni in cui si può mettere da parte il diritto di autodeterminazione? In un ambiente di lavoro ideale la risposta dovrebbe essere un deciso «no». Già negli anni Sessanta, Biestek (1961) parlava dell’autodeterminazione come di uno dei principi più importanti della pratica professionale — un principio che in questi due casi sembra essere violato. Un’altra questione che può presentarsi agli operatori sociali è quella del rapporto diritti/doveri, ma di fronte alle persone in difficoltà vediamo che la questione dei «doveri» può riguardare soprattutto le persone costrette a ricorrere a sussidi economici assistenziali. Con i tagli di bilancio attuati in molti Paesi, apparentemente a causa della «crisi economica mondiale», è probabile che questi problemi aumenteranno di intensità. L’altro punto di vista sui diritti umani che emerge è quello del rispetto — un concetto che è parte integrante della questione dei diritti, come suggerisce il titolo di questo capitolo. A un certo livello, un approccio basato sui diritti umani fa venir meno la nozione stessa di «tolleranza», perché se i diritti umani sono di tutti, allora il rispetto del prossimo permette di andare al di là della «tolleranza delle differenze» e di procedere verso una «affermazione delle differenze». Clark e Asquith (1985, p. 29) collocano il rispetto per i diritti umani al primo posto nell’elenco dei diritti dell’utente che hanno elaborato sulla base della letteratura in materia. Eccone un estratto: – Essere trattato come un fine. – Essere accettato per quello che sono. – Essere trattato come un individuo, nella sua unicità. – Essere trattato in maniera onesta, aperta e senza inganni. – Avere la garanzia che le informazioni trasmesse nel corso dell’intervento siano trattate con riservatezza. Alcuni degli esempi presentati in questo capitolo, e in particolare i Casi 3.1 e 3.2, sottolineano l’unicità di ogni persona e il desiderio di venire accettati per quello che si è. I diritti all’onestà e a non essere ingannati, invece, sono in qualche modo violati negli altri due casi e devono essere letti alla luce della competizione tra principi universali e relativismo culturale. Se usiamo questi diritti per valutare il Caso 3.4, che riguarda la ricerca in India, dobbiamo andare al di là dei principi ufficialmente accettati. Questo


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

91

caso inoltre pone alcune domande scomode, che sorgono in contesti culturali diversi dal nostro: nel nostro ambiente possiamo guardare al lavoro sociale da una prospettiva etica a noi familiare, che non è detto sia valida allo stesso modo in altri contesti. Condividiamo quindi la posizione di Ife (2008), quando afferma che la chiave per affrontare le differenze culturali è la capacità di guardare in modo critico a tutte le tradizioni culturali e di pensare che i diritti umani sono importanti in tutte le nazioni, senza dimenticare che sono contestualizzati in modo diverso. In modo più polemico, Rachels (2003) sostiene che il relativismo ci impedisce di imporre i nostri valori su altri gruppi culturali (come nel Caso 3.3, ambientato in Vietnam), ma potrebbe anche spingerci a non agire di fronte a possibili violazioni dei diritti umani (vedi il Caso 3.4, ambientato in India). Mettere in pratica i diritti umani Tutti i commentatori hanno allargato lo sguardo e hanno cercato di capire come guardando al caso secondo un’ottica di lavoro sociale possono emergere idee e conoscenze di cui servirsi per affrontare la situazione. In tutti i casi, sono messe in primo piano la complessità e le contraddizioni del lavoro sociale e nella maggior parte dei casi le domande sono più delle risposte. Questi casi dimostrano perfettamente che per gli operatori sociali i diritti umani non sono semplicemente un grande progetto utopistico o un’aspirazione irraggiungibile. Assicurare l’applicazione di un modello che unisca diritti umani ed etica a ogni ambito di lavoro può aiutare la nostra professione a superare complessità e contraddizioni. I diritti umani e l’etica di lavoro sociale sono strettamente intrecciati tra loro e collegati al concetto di giustizia sociale. Un modello basato sui diritti umani rappresenta un solido fondamento morale per la professione, perché riflette l’attenzione a far sì che ogni persona possa fruire dei suoi diritti fondamentali. Bibliografia Biestek F. (1961), The casework relationship, London, Allen and Unwin. Black B. (2008), Empowering and rights-based approaches to working with older people. In J. Allan, L. Briskman e B. Pease (a cura di), Critical Social Work: Theories and Practices for a Socially Just World, Sydney, Allen and Unwin. Bowles W., Collingridge M., Curry S. e Valentine B. (2006), Ethical Practice in Social Work: An Applied Approach, Maidenhead, Open University Press/McGraw-Hill. Briskman L. (2007a), Menschenrechte und soziale Arbeit — eine globale Perspektive [Diritti umani e lavoro sociale — una prospettiva globale]. In L.Wagner e R. Lutz (a cura di), Internationale Perspektiven Sozialer Arbeit, Frankfurt am Main, Verlag für Interkulturelle Kommunikation. Briskman L. (2007b), Social Work with Indigenous Communities, Sydney, The Federation Press. Cemlyn S. (2008), Human rights and gypsies and travellers: an exploration of the application of a human rights perspective to social work with a minority community in Britain, «British Journal of Social Work», vol. 38, n. 1, pp. 153-173. Clark C. e Asquith, S. (1985), Social Work and Social Philosophy, London, Routledge and Kegan Paul.


92

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Dewees M. (2005), Contemporary Social Work Practice, Boston, MA, McGraw-Hill. Dominelli L. (1998), Social work research: contested knowledge for practice. In R. Adams, L. Dominelli e M. Payne (a cura di), Social Work Futures: Crossing Boundaries, Transforming Practice, Basingstoke, Palgrave Macmillan. Donnelly J. (2003), Universal Human Rights in Theory and Practice, 2nd edition, New York, Cornell University Press. Fiske L. e Briskman L. (2008), Teaching human rights at university: critical pedagogy in action. In B. Offord e C. Newell (a cura di), Activating Human Rights in Education: Exploration, Innovation and Transformation, Canberra, Australian College of Educators. Ife J. (2001), Human Rights and Social Work: Towards Rights-Based Practice, Cambridge, Cambridge University Press. Ife J. (2008), Human Rights and Social Work: Towards Rights-Based Practice, revised edition, Cambridge, Cambridge University Press. International Federation of Social Workers e International Association of Schools of Social Work (2004), Ethics in Social Work: Statement of Principles, Berne, IFSW and IASSW. Nipperess S. e Briskman L. (2009), Promoting a human rights perspective on critical social work. In J. Allan, L. Briskman e B. Pease (a cura di), Critical Social Work: Theories and Practices for a Socially Just World, Sydney, Allen and Unwin. Rachels J. (2003), The Elements of Moral Philosophy, 4th edition, New York, McGraw-Hill. Reichert E. (2003), Social Work and Human Rights: A Foundation for Policy and Practice, New York, Columbia University Press. Rioux M. e Zubrow E. (2001), Social disability in the public good. In D. Drache (a cura di), The Market or the Public Domain: Global Governance and the Asymmetry of Power, London, Routledge. United Nations (1948), Universal Declaration of Human Rights, www.un.org/en/documents/udhr/ index.shtml, accesso ottobre 2010.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

93

EQUITÀ E LAVORO SOCIALE* Frederic Reamer (Rhode Island College, Providence)

La centralità dell’equità nel lavoro sociale Nel corso della sua storia, il lavoro sociale ha prestato particolare attenzione al tema della equità (fairness), un concetto complesso che è normalmente associato alle qualità di giustizia, imparzialità, correttezza, neutralità e assenza di discriminazione e di pregiudizi. Dal tardo diciannovesimo secolo, quando il lavoro sociale prese ufficialmente il via in Europa e negli Stati Uniti, il concetto di equità è sempre stato in primo piano. Le prime preoccupazioni degli operatori sociali nei confronti dell’equità riguardavano soprattutto il problema dell’aumento della povertà e l’ingiustizia nella distribuzione della ricchezza. Per molti anni, gli operatori sociali dovettero affrontare i problemi degli alloggi inadeguati, dell’assistenza sanitaria e del reddito, e in particolare l’impatto di una costante parzialità nell’allocazione del benessere e delle risorse sociali ed economici. Nel tempo, gli operatori sociali, soprattutto nel Nord del mondo, iniziarono a dedicarsi in modo più mirato alla salute mentale e ai problemi comportamentali posti da singoli utenti e da gruppi familiari, molti dei quali erano una conseguenza sconfortante di discriminazione, oppressione, sfruttamento e altre manifestazioni di ingiustizia nella società (Trattner, 1999). L’interesse duraturo e ammirevole che il lavoro sociale ha sempre mostrato per le questioni dell’equità si manifesta chiaramente nei codici deontologici adottati in tutto il mondo. Ad esempio, la dichiarazione dell’International Federation of Social Workers e dell’International Association of Schools of Social Work (2004), Ethics in Social Work, Statement of Principles, mette in risalto diversi principi direttamente attinenti alle questioni dell’equità, legati in particolare alla necessità di combattere le discriminazioni, di riconoscere il valore della diversità, di distribuire le risorse in modo equo e di sfidare politiche e pratiche ingiuste. Il Codice deontologico della British Association of Social Workers (2002) contiene numerosi riferimenti alle questioni dell’equità, soprattutto in riferimento a una distribuzione equa e razionale delle risorse, all’accesso equo ai servizi e ai sussidi pubblici, all’uguale trattamento e protezione di fronte alla legge, alla non discriminazione. Il Codice deontologico della Canadian Association of Social Workers (2005) afferma che «gli operatori sociali promuovono l’equità sociale e una giusta distribuzione delle risorse», mentre quello della National Association of Social Workers degli Stati Uniti presenta diversi principi legati alla giustizia sociale, alla non discriminazione e all’equità nell’allocazione delle risorse sociali ed economiche. * Tratto da Banks S. e Nøhr K. (a cura di) (2012), Practising social work ethics around the world: Cases and commentaries, London, Routledge, trad. it. L’etica in pratica nel servizio sociale, Trento, Erickson, 2014, pp. 135-141.


94

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Le radici storiche e filosofiche dell’equità I concetti di equità e giustizia hanno antiche origini storiche e filosofiche (Williams, 1993). La Repubblica di Platone si apre con la domanda: «Che cos’è la giustizia?». Nella sua Politica, Aristotele sostiene che la giustizia consiste nel trattare i casi uguali in modo uguale e i casi diversi in modo diverso. Aristotele sottolinea l’importanza di trattare in modo coerente e non arbitrario le persone, sulla base di qualità moralmente rilevanti. Nel XVII secolo, il filosofo inglese John Locke (1690) studiò l’equità e la giustizia sociale nel suo Secondo trattato sul governo; nel XIX secolo, Karl Marx (1848) suscitò un vivace dibattito sulla giustizia distributiva nel suo classico Manifesto del partito comunista, pubblicato con Engels. Anche i filosofi contemporanei hanno fatto molto per mantenere viva l’attenzione sull’equità. Ad esempio, dalla sua pubblicazione, A Theory of Justice di John Rawls (1971) ha dato vita a infinite discussioni sull’equità nella società moderna, così come Anarchy, State and Utopia di Robert Nozick (1974). Importanti riflessioni contemporanee sull’equità si concentrano su una serie di concetti morali fondamentali che possono essere applicati anche alle sfide etiche che si trovano a dover affrontare gli operatori sociali e che sono presentate nei casi di studio di questo capitolo. Scuole di pensiero teoriche Le discussioni classiche dell’etica e della filosofia morale stabiliscono tradizionalmente un confronto e un contrasto tra la prospettiva deontologica e quella teleologica (Rachels, 2002). Queste due opposte scuole di pensiero hanno implicazioni profondamente diverse per le questioni di equità che si manifestano nel lavoro sociale (Dolgoff, Loewenberg e Harrington, 2008; Reamer, 2006; Timms, 1983). Le teorie deontologiche (dal greco deontos, «il dovere») sono quelle che affermano che alcune azioni sono intrinsecamente giuste o sbagliate, buone o cattive, indipendentemente dalle loro conseguenze. Chi si riconosce in questa posizione — che ha tra i suoi più famosi sostenitori Immanuel Kant, il filosofo tedesco del XVIII secolo — potrebbe quindi sostenere che tutti dovrebbero avere uguale accesso alle risorse sociali scarse o limitate, in ragione di una equità intrinseca, anche se una distribuzione diseguale potrebbe portare, sul lungo periodo, a un maggiore benessere sociale ed economico. Secondo Kant (1797), determinati atti sono moralmente giusti o equi se sono coerenti con l’«imperativo categorico»: questo vuol dire che una persona dovrebbe agire in un certo modo soltanto se può, nello stesso tempo, affermare che questo modo di agire potrebbe diventare una regola universale. Secondo i deontologisti, regole, diritti e principi sono inviolabili; la loro idea è che una legge deve essere sempre osservata, indipendentemente dalle conseguenze. In altre parole, i fini non giustificano necessariamente i mezzi, soprattutto se richiedono di violare un diritto intrinseco. Un deontologista, quindi, potrebbe affermare che nel Caso 4.1 l’operatore sociale aveva il dovere fondamentale di rispettare la legge giapponese e la politica della sua organizzazione che proibiscono di


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

95

prestare assistenza pubblica a cittadini stranieri. Con lo stesso ragionamento, potrebbe affermare che il giovane paziente del Caso 4.2 aveva un diritto fondamentale a conoscere la verità sulle sue condizioni di salute e sul fatto che era stato rimosso dalla lista d’attesa per il trapianto; mentire al paziente violerebbe un sacro principio morale e non sarebbe giustificabile come mezzo per ottenere un altro fine (ad esempio, per proteggere il paziente da un danno emotivo). Le teorie teleologiche (dal greco teleios, «condotto al suo fine o scopo») applicano alle scelte etiche un approccio diverso. Da questo punto di vista, la giustezza di ogni scelta morale è determinata dalla bontà delle sue conseguenze. I teleologisti pensano che prendere delle scelte etiche senza soppesarne le possibili conseguenze sia semplicistico; se non si valutano le conseguenze, ci si ritrova in quella che il filosofo morale Smart (1971) definisce «adorazione della regola». Perciò, da questo punto di vista (noto anche come consequenzialismo), la strategia più responsabile consiste nel cercare di prevedere gli esiti di diverse linee d’azione. Ad esempio, quali sono i danni e i benefici che derivano dal mentire o dal nascondere informazioni a un utente, o dall’interferire con il suo diritto all’autodeterminazione, o dall’obbedire a una legge ingiusta? Nel Caso 4.1, ad esempio, l’operatore sociale potrebbe ritenere che il danno provocato dalla violazione della legge giapponese e della politica dell’ente sarebbe controbilanciato dal bene che deriverebbe dal fornire assistenza alla madre e al bambino. Nel Caso 4.3, l’operatore sociale avrebbe bisogno di soppesare i probabili benefici e danni, se decidesse di aiutare la sua giovane utente a realizzare il sogno di continuare a frequentare la scuola, in opposizione alle norme culturali della comunità gitana. La scuola filosofica più conosciuta del pensiero teleologico è l’utilitarismo, che sostiene che un’azione è moralmente giusta se promuove il massimo utile. Secondo l’utilitarismo classico — come formulato dai filosofi inglesi Jeremy Bentham (1789) nel XVIII secolo e John Stuart Mill (1863) nel XIX — quando ci si trova di fronte a doveri in conflitto, si dovrebbe fare ciò che può massimizzare i vantaggi (utilitarismo positivo) o minimizzare i danni (utilitarismo negativo). Nel prendere decisioni in materia di equità, gli operatori sociali dovrebbero impegnarsi in un calcolo che valuti tutti i costi e i benefici attesi. Nel caso 4.4, ad esempio, l’operatrice sociale dovrebbe valutare i possibili benefici e i possibili danni nel caso in cui permetta al suo utente (un uomo gay) di adottare un bambino, in un contesto culturale poco tollerante nei confronti dell’omosessualità. Il calcolo dovrebbe prendere in considerazione l’impatto della decisione sul bambino, sull’utente, sull’operatrice sociale, sull’ente e sulla società in generale. Una forma di utilitarismo particolarmente attinente alla discussione sull’equità è conosciuto come «utilitarismo del benessere aggregato», secondo cui l’atto più equo è quello che favorisce la maggior quantità di benessere complessivo o aggregato. Un’altra teoria è l’«utilitarismo del luogo aggregato», secondo cui l’atto più equo è quello che favorisce il maggior benessere per il maggior numero di persone, considerando non soltanto la quantità totale di beni prodotti ma anche il numero di persone a cui i beni sono distribuiti (Gewirth, 1978). La distinzione tra queste due forme di utilitarismo è importante nel lavoro sociale quando i professionisti devono decidere come ripartire risorse limitate, come i finanziamenti che ottengono dal loro ente, il tempo dei membri dell’équipe, i servizi sociali.


96

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Un’altra distinzione filosofica importante nel lavoro sociale è quella tra utilitarismo dell’atto e utilitarismo della regola. Secondo l’utilitarismo dell’atto, la giustezza di un atto è determinata dalla bontà delle conseguenze in quel caso specifico, o da quel particolare atto. Nel Caso 4.3, ad esempio, l’educatore professionale dovrebbe soppesare i possibili danni e benefici in questo singolo caso che coinvolge la giovane gitana che vuole proseguire la scuola. Quali sarebbero le conseguenze per la ragazza, se lui rispettasse il suo desiderio e l’aiutasse a restare a scuola? Come potrebbe esserne danneggiata? Quali sono i possibili benefici e i possibili danni per la famiglia, la comunità gitana locale, la comunità in generale e l’educatore? Al contrario, l’utilitarismo della regola prende in considerazione le conseguenze a lungo termine che ci si può aspettare se si astrae dal caso particolare e lo si tratta come un precedente. Quali sono i probabili danni e benefici sul lungo periodo, se le azioni che l’operatore sociale intraprende in un caso specifico sono considerate come un precedente per possibili casi futuri, paragonabili a questo? Se tutti gli utenti in condizioni simili sono trattati allo stesso modo, che impatto avrebbe questo atteggiamento sui clienti stessi, sui professionisti e sulla comunità in generale? Ad esempio, nel Caso 4.1 la prospettiva dell’utilitarismo della regola richiederebbe di considerare quali conseguenze a lungo termine potrebbe avere la decisione dell’operatore sociale di violare la legge giapponese e le politiche dell’ente, se tale decisione fosse trattata come un precedente e se il principio generale fosse applicato a tutti i casi paragonabili. Assolutismo e relativismo morali Nei loro sforzi per promuovere l’equità, gli operatori sociali hanno abbracciato queste diverse prospettive, a volte in modo più implicito che esplicito. Alcuni professionisti, aderendo alla prospettiva filosofica conosciuta come cognitivismo, credono che sia possibile stabilire principi universali e criteri oggettivi su cui basare i giudizi etici riguardo all’equità. È un punto di vista noto anche come assolutismo. Ad esempio, sulla base di questa visione, l’operatrice sociale del Caso 4.4 non dovrebbe considerare le norme culturali specifiche della comunità turca come un fattore di cui tener conto nella sua decisione etica; anzi, dovrebbe affermare che esistono principi etici universali, indipendenti dalla cultura locale, che potrebbero essere applicati in questo caso, come il principio universale della non discriminazione. Altri — conosciuti come relativisti o non-cognitivisti — ritengono invece che i principi etici non sono fissi o immutabili, ma anzi dipendono da credenze culturali, ideali politici, norme in vigore e valori morali, e altri fattori di contesto. Secondo il relativismo, nel Caso 4.3 l’operatore sociale dovrebbe prendere in considerazione le convinzioni culturali della comunità gitana relative al ruolo della donna nella società, alla scolarizzazione e alle norme che regolano il matrimonio. L’equità nel lavoro sociale: temi di grande rilievo I casi di questo capitolo dimostrano che problemi legati all’equità sorgono sia nel lavoro sociale sui singoli casi (rivolto a singoli utenti o famiglie), sia nel lavoro sociale che si occupa di interventi di comunità, o a livello di politiche sociali.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

97

Nel lavoro sociale sui singoli casi, questioni stringenti di equità sorgono quando gli operatori sociali devono decidere se essere sempre leali verso i loro utenti o se è loro permesso, moralmente, mentire agli utenti o non dire loro la verità (vedi il Caso 4.2). Gli operatori sociali inoltre devono giudicare l’equità quando decidono se sono moralmente obbligati a rispettare tutte le regole, le leggi e le politiche che interessano i loro utenti (come nel Caso 4.1), e se sia loro permesso discriminare un utente sulla base di etnia, nazionalità, colore, sesso, orientamento sessuale, identità o espressione di genere, età, stato civile, ideali politici, religione, condizione di immigrato, disabilità mentale o fisica (vedi i Casi 4.1, 4.3 e 4.4). Nel lavoro sociale a livello di comunità e di politiche sociali, gli operatori devono esprimere giudizi sulla giusta ed equa ripartizione delle risorse sociali, organizzative ed economiche, soprattutto nel caso in cui queste risorse scarseggino. Ad esempio, i professionisti del Caso 4.2 dovevano stabilire criteri e procedure per orientare la distribuzione dei pochi organi disponibili per i trapianti, proprio come i funzionari amministrativi e i politici devono spesso stabilire un protocollo per ripartire fondi limitati. Inoltre, gli operatori sociali che coprono ruoli dirigenziali devono conoscere i principi dell’equità che intervengono in varie forme di discriminazione, come nel Caso 4.1 sulla donna filippina classificata come immigrata clandestina in Giappone. Promuovere l’equità nel lavoro sociale Una delle virtù principali del lavoro sociale è la sua attenzione costante nei confronti dell’equità. Unici tra i quadri di riferimento etico di varie professioni legate ai servizi alla persona, i principali codici deontologici del lavoro sociale in tutto il mondo sottolineano l’importanza di equità, giustizia, correttezza, imparzialità, neutralità e non discriminazione. Anche se ci possono essere posizioni diverse, e tutte razionali, riguardo ai punti di forza e ai limiti dei diversi approcci teorici all’equità, gli operatori sociali concordano nel ritenere che la ricerca dell’equità è uno degli elementi più affascinanti della mission del lavoro sociale. È grazie a questo straordinario interesse che il lavoro sociale si distingue per essere una nobile professione. Bibliografia Bentham J. (1789) [1948], An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, New York, Hafner. British Association of Social Workers (2002), The Code of Ethics for Social Work, Birmingham, BASW. Canadian Association of Social Workers (CASW) (2005), Code of Ethics, Ottawa, CASW. Dolgoff R., Loewenberg F. e Harrington D. (2008), Ethical Decisions for Social Work Practice, 8th ed., Belmont, CA, Brooks Cole. Gewirth A. (1978), Reason and Morality, Chicago, IL, University of Chicago Press. International Federation of Social Workers e International Association of Schools of Social Work (2004), Ethics in Social Work, Statement of Principles, IFSW and IASSW, Berne (disponibile online su www.ifsw.org).


98

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Kant I. (1797) [1959], Foundations of the Metaphysics of Morals, translated by. L.W. Beck, New York, Liberal Arts Press. Locke J. (1690) [1978], Second Treatise of Civil Government, Grand Rapids, MI, W.B. Eerdsman. Marx K. e Engels F. (1848) [1967], Communist Manifesto, New York, Penguin. Mill J. (1863) [1957], Utilitarianism, Indianapolis, IN, Bobbs-Merrill. National Association of Social Workers (2008), Code of Ethics, Washington, NASW. Nozick R. (1974), Anarchy, State and Utopia, Blackwell, Oxford. Rachels J. (2002), Elements of Moral Philosophy, 4th edition, Boston, IL, McGraw-Hill. Rawls J. (1971), A Theory of Justice, Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press. Reamer F. (2006), Social Work Values and Ethics, 3rd edition, New York, Columbia University Press. Smart J. (1971), Extreme and restricted utilitarianism. In S. Gorovitz (a cura di), Mill: Utilitarianism, Indianapolis, IN, Bobbs-Merrill. Timms N. (1983), Social Work Values: An Enquiry, London, Routledge and Kegan Paul. Trattner W. (1999), From Poor Law to Welfare State, 6th ed., New York, Free Press. Williams B. (1993), Morality: An Introduction to Ethics, Cambridge, Cambridge University Press.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE

99

ETICA E ORGANIZZAZIONI: SFIDARE IL NOSTRO ENTE E FARLO CRESCERE* Donna McAuliffe (Griffith University, Queensland)

In questo capitolo sono presentati alcuni casi che ci mostrano quanto siano complessi i contesti organizzativi del lavoro sociale. In molti Paesi, il settore del welfare e dei servizi alla persona è una specie di «industria» sfaccettata, governata da una gran quantità di leggi, linee politiche e definizioni di competenze, oltre che da valori culturali e morali, che stabiliscono come le persone devono rapportarsi tra loro e definiscono i doveri, le responsabilità e gli obblighi da rispettare. In ambito professionale, ci si aspetta che un professionista che ha una responsabilità pubblica rispetti sia l’etica professionale, sia il codice di condotta del suo ente. Questi principi etici e di condotta possono avere o meno una base legale; a livello internazionale, ci sono nette differenze nella regolamentazione del comportamento e nelle azioni che possono essere intraprese contro i professionisti che violano il Codice deontologico. I casi di questo capitolo mostrano quello che può succedere quando operatori sociali e altri operatori delle professioni d’aiuto devono interpretare scelte del proprio ente che possono essere in contraddizione con il quadro legislativo (come nel Caso 5.2, sull’assicurazione sociale in Perù) e quando devono valutare le conseguenze delle diverse posizioni etiche o del conflitto tra ruoli, nei casi in cui più persone che lavorano insieme non condividano un’unica visione su cosa sia eticamente corretto (Casi 5.1, 5.3 e 5.4). Le domande sollevate da questi casi sono molte. Ad esempio: – Qual è il contesto organizzativo in cui opera il lavoro sociale, e che sfide deve affrontare in termini di ethos e di cultura? – Fino a che punto devono spingersi gli operatori sociali nel chiedere un cambiamento nelle scelte politiche dell’ente in nome della giustizia sociale, all’interno di un contesto organizzativo che potrebbe accogliere con ostilità una critica anche giustificata? – Come si può collaborare in un contesto multiprofessionale e interprofessionale, quando ci sono conflitti di valori o diverse interpretazioni dei principi etici, delle politiche del servizio o delle leggi? – Quali sono le responsabilità e i doveri degli operatori sociali nei confronti dei loro colleghi, e come può essere affrontata una condotta non etica? Il contesto organizzativo del lavoro sociale Il lavoro sociale si svolge di solito nel contesto di strutture organizzative tipiche. Ci sono molti modi per classificare gli enti che gestiscono servizi alla persona: ad esempio, si può distinguere tra enti pubblici, organizzazioni del Terzo settore (come le ONG) e * Tratto da Banks S. e Nøhr K. (a cura di) (2012), Practising social work ethics around the world: Cases and commentaries, London, Routledge, trad. it. L’etica in pratica nel servizio sociale, Trento, Erickson, 2014, pp. 173-178.


100 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

imprese private (Chenoweth e McAuliffe, 2008, p. 181). Molti operatori sociali sono inseriti in strutture amministrative pubbliche con compiti legati a sanità, disabilità e salute mentale, servizi ai minori e alle famiglie, sostegno del reddito, edilizia abitativa o immigrazione; di solito queste strutture sono organizzate su molti livelli gerarchici e richiedono l’assunzione di molte responsabilità. Agli operatori sociali è richiesto di attenersi a politiche e protocolli spesso molto rigidi, pensati per rendere uniforme l’erogazione delle prestazioni e assicurarne così coerenza ed equità. Dal momento che gli enti pubblici sono finanziati con i soldi dei contribuenti, e sottoposti perciò al giudizio della collettività, è normale che, per rendere conto pubblicamente delle loro responsabilità, siano previsti requisiti molto rigidi in materia di valutazione dell’idoneità, giustificazione delle decisioni prese e documentazione del lavoro svolto. Le organizzazioni che compaiono nei Casi 5.1, 5.2 e 5.4 sono tutte parte del settore pubblico. Il Terzo settore comprende organizzazioni non molto grandi, dimensionate in genere a livello locale, non profit, che spesso però ricevono finanziamenti pubblici di cui sono tenute a rendere conto. Gli operatori sociali del Terzo settore possono godere di maggiore autonomia e, proprio perché si trovano una posizione esterna, possono mettere più facilmente in discussione politiche pubbliche oppressive, che portano a una distribuzione iniqua di servizi sanitari, di alloggi, di sussidi economici per le persone svantaggiate. In questa categoria rientrano anche le associazioni confessionali (come quella del servizio di counseling legato a una comunità ecclesiastica del Caso 5.3) e grandi organizzazioni umanitarie internazionali come World Vision e la Croce Rossa. Gli enti privati di mercato (profit) fanno pagare una quota per le prestazioni che erogano e mettono assieme la dimensione dei servizi alla persona con quella dell’impresa commerciale. Si potrebbero includere in questo campo anche gli operatori sociali che lavorano come liberi professionisti o lavorano in base a un contratto di appalto a nome di un’organizzazione (per quanto debbano comunque rispondere a un ente, in virtù di questo accordo contrattuale). Se si pensa ai diversi tipi di struttura organizzativa e se si riflette sui casi presentati in questo capitolo, si vede che gli operatori sociali, a qualsiasi livello gerarchico siano collocati, entrano inevitabilmente a far parte di una cultura organizzativa che può presentare ma anche non presentare valori in linea con quelli riconosciuti dalla professione. Quando la mission dichiarata di un ente di welfare verte chiaramente su giustizia sociale, diritti umani, risposta ai bisogni, riduzione degli svantaggi, promozione dell’inclusione, rispetto della diversità e delle differenze, garanzia di una distribuzione equa ed equilibrata delle risorse, gli operatori sociali troveranno un’etica e una cultura in cui si sentiranno più a loro agio. Se invece il mandato dell’organizzazione verte più su imperativi economici, valutazione del rischio di impresa, strutture dirigenziali, produttività, a spese dei bisogni delle persone, ed è improntato a una distribuzione delle risorse basata sulla concorrenza o sugli adempimenti amministrativi, per gli operatori sociali sarà più difficile trovare un ambiente di lavoro vicino ai loro valori. I professionisti devono essere capaci di riflettere sui loro valori personali e professionali e prendere una saggia decisione sulle possibilità di occupazione sulla base di questa autoconsapevolezza. Se un operatore sociale fa domanda per un lavoro in un reparto di salute mentale, ma ha forti perplessità sull’uso di farmaci psicotropi, potrebbe entrare in conflitto di valori con gli altri membri della sua


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 101

équipe. Se un operatore sociale che fa parte di un’associazione religiosa che considera l’omosessualità come una patologia chiedesse di lavorare a un programma contro l’HIV/ AIDS, in cui molti utenti sono gay, potrebbe incontrare dei problemi. Gli operatori sociali devono quindi saper valutare se e fino a che punto i loro valori, personali ma anche professionali, corrispondono ai valori dell’organizzazione per cui lavorano. A questo proposito, è interessante il Caso 5.3, che descrive un operatore sociale che, seguendo la sua fede religiosa, aveva deciso di lavorare in un’organizzazione confessionale, ma che alla fine vi aveva rinunciato, perché l’etica e la pratica di lavoro dell’organizzazione erano in conflitto con i suoi valori professionali in quanto operatore sociale. Brody (2005) ha studiato l’importanza della cultura organizzativa e la sua influenza sul comportamento delle équipe, e ha individuato sei fattori che incidono sulle tensioni all’interno di un’organizzazione: ambiguità nei ruoli; sovraccarico (o scarsità) di lavoro; aspettative contraddittorie; scarsa pianificazione; atmosfera rilassata; scarsa corrispondenza tra tipo di personale e compiti di lavoro. Alcuni di questi fattori emergono chiaramente nei casi di questo capitolo, non soltanto nel Caso 5.3 sull’operatore sociale in ambito confessionale, ma anche nei Casi 5.1 e 5.2 (in cui sembra che gli operatori di un’istituzione statale iraniana e di un ente peruviano siano stati caricati di attese contraddittorie). Lavorare in contesti multi- e inter-professionali Gli operatori sociali non devono soltanto prendere in considerazione la cultura organizzativa e i suoi significati nella pratica di lavoro, ma devono anche lavorare assieme a molte persone di diversa formazione, che possono appartenere ad ambiti professionali simili o in altri casi sensibilmente diversi. I livelli di collaborazione tra professionisti variano molto, dal lavoro multiprofessionale (cioè la collaborazione di diversi professionisti) al lavoro interprofessionale (cioè l’integrazione e in alcuni casi l’intercambiabilità dei ruoli professionali) (Banks et al., 2010). I problemi che si incontrano in un contesto di lavoro multiprofessionale e le abilità necessarie per un lavoro di squadra efficace in un contesto interprofessionale non vanno sottovalutati. Banks (2004, p. 7) descrive il lavoro interprofessionale come «una tendenza produttiva da parte di membri di diversi gruppi professionali a lavorare insieme in équipe, servizi o unità operative per affrontare problemi particolarmente difficili da gestire, o per sviluppare nuovi servizi». Reel e Hutchings (2007, p. 137) hanno sviluppato il concetto, definendo il lavoro interprofessionale come un’iniziativa di collaborazione in cui le persone coinvolte condividono l’idea di definire obiettivi negoziati reciprocamente, da raggiungere attraverso piani e procedure concordati [...] Perché ciò avvenga, le équipe devono mettere in comune la loro conoscenza e le loro esperienze [...] e prendere decisioni congiunte basate su punti di vista professionali condivisi.

Il concetto di équipe multiprofessionale è molto comune nel campo dei servizi sanitari, in cui gli operatori sociali hanno un posto accanto a medici, infermieri e altro personale medico, come psicologi, terapisti occupazionali, logopedisti, dietisti, farmacisti


102 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

e fisioterapisti. In altri ambiti, come nelle organizzazioni umanitarie internazionali, gli operatori sociali possono trovarsi a lavorare insieme a personale militare, clero, ufficiali di sanità, filantropi, polizia, giornalisti, interpreti, mediatori culturali. Da un punto di vista valoriale, chi lavora nel settore dei servizi alla persona si riconoscerà soprattutto nel mantra «non nuocere» e nei principi etici correlati: autonomia, confidenzialità e riservatezza, integrità professionale, rispetto per tutte le persone, dovere di assistenza. Anche così, ci sarà sempre la possibilità che anche tra professionisti sulla stessa lunghezza d’onda sorgano divergenze d’opinione sui valori a cui dare priorità, soprattutto in presenza di dilemmi etici che interpellano direttamente valori personali. All’interno di una cultura organizzativa dall’etica rigorosa è importante attivare solidi processi eticodecisionali, in modo da prendere in esame tutti i valori e i punti di vista professionali oltre che personali, per raggiungere una posizione reciprocamente concordata (McAuliffe, 2010). Il Caso 5.3 sulla violenza sui minori in Danimarca mette in luce le differenze d’approccio tra insegnanti e operatori sociali in un contesto in cui ci si aspetta che il lavoro multiprofessionale sia la norma. Uno dei problemi del sistema di formazione universitaria è che spesso non si dà agli studenti la possibilità di imparare qualcosa al di fuori del loro limitato ambito disciplinare. Gli studenti di Social Work hanno raramente l’opportunità di fare esperienza di una formazione interprofessionale, ad esempio con studenti di psicologia o infermieristica, anche se è molto probabile che dopo la laurea debbano lavorare con colleghi di discipline molto diverse. Bronstein (2003) ritiene che sia ormai arrivato il momento di provare a sviluppare nuovi modelli e quadri concettuali di lavoro interprofessionale, riconoscendo che non si può creare una cultura collaborativa senza un dialogo intenzionale tra due o più gruppi professionali. Sembra che un certo interesse per la formazione e il lavoro interprofessionali stia maturando soprattutto nel Regno Unito e in una certa misura anche in Australia. Promuovere scelte coraggiose nella vita professionale È sempre stato difficile regolamentare la pratica professionale degli operatori sociali: in molti Paesi sono stati stabiliti complessi accordi su abilitazioni e Albi professionali (ad esempio, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Nuova Zelanda) o strumenti di autodisciplina continua (come si è fatto in Australia). Verosimilmente, gli operatori sociali professionisti assumono la «responsabilità di portare all’attenzione dell’opinione pubblica valori, mentalità, comportamenti, strutture sociali e imperativi economici che sono all’origine dell’oppressione, o contribuiscono a opprimere i diritti umani e il benessere delle persone» (Chenweth e McAuliffe, 2008, p. 13). Perciò, è comune che i codici deontologici promuovano come responsabilità etica il dovere degli operatori sociali di intraprendere azioni appropriate nel caso in cui ritengano che un collega abbia agito in modo non etico. Molti operatori sociali sono testimoni di attività e comportamenti di colleghi che danneggiano utenti fragili, ma spesso c’è il timore che denunciandoli alle autorità competenti si crei scompiglio nel posto di lavoro (Reamer, 2006). È necessaria


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 103

una buona dose di coraggio per decidere di «fare la spia» e denunciare violazioni di cui si è avuto sentore. Anche in questo caso, le culture organizzative che sostengono una condotta etica e danno il loro sostegno alle équipe che rivelano situazioni di condotta non etica sono quelle che più probabilmente agiscono su solidi fondamenti valoriali. Manning (2003), nel suo lavoro sulla leadership etica, distingue tra organizzazioni che alimentano una cultura in cui si è «liberi di commentare» o, all’opposto, una cultura della «spirale del silenzio». Nei posti di lavoro in cui i professionisti si aspettano che gli altri ascoltino i loro punti di vista e rispettino le differenze di opinione, è più probabile che i problemi vengano espressi apertamente. In organizzazioni in cui dominano diffidenza e paura di rappresaglie nel caso in cui qualcuno parli sinceramente, ci sarà una cultura della chiusura, una cultura che schiaccia quei problemi che dovrebbero essere aperti alla discussione. Dal quadro che abbiamo delineato, emerge chiaramente la differenza tra una cultura organizzativa in buona salute e una non così sana. I casi di questo capitolo ci mostrano quello che può succedere quando all’interno di un’organizzazione viene meno la comunicazione, quando tra i suoi membri mancano relazioni di fiducia e quando l’organizzazione è legata a leggi o politiche che non sostengono quelli che sappiamo essere i valori fondamentali del lavoro sociale. Bibliografia Banks S. (2004), Ethics, Accountability and the Social Professions, New York, Palgrave Macmillan. Banks S. et al. (2010), Inter-professional ethics: a developing field. Notes from the Ethics and Social Welfare Conference, Sheffield, UK, May 2010, «Ethics and Social Welfare», vol. 4, n. 3, pp. 280-294. Brody R. (2005), Effectively Managing Human Service Organisations, 3rd edition, Thousand Oaks, CA, Sage. Bronstein L. (2003), A model for interdisciplinary collaboration, «Social Work», vol. 48, n. 1, pp. 297-303. Chenoweth L. e McAuliffe D. (2008), The Road to Social Work and Human Service Practice, 2nd edition, South Melbourne, Cengage. Manning S. (2003), Ethical Leadership in Human Services: A Multidimensional Approach, Boston, MA, Allyn & Bacon. McAuliffe D. (2010), Ethical decision-making. In M. Gray e S. Webb (a cura di), Ethics and Value Perspectives in Social Work, New York, Palgrave Macmillan. Reamer F. (2006), Social Work Values and Ethics, 3rd edition, New York, Columbia University Press. Reel K. e Hutchings S. (2007), Being part of a team: Inter-professional care. In G. Hawley (a cura di), Ethics in Clinical Practice: An Inter-professional Approach, Harlow, Pearson Education.


104 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

ETICA PROFESSIONALE E CONTESTI POLITICI DEL LAVORO SOCIALE* Derek Clifford (Liverpool John Moores University)

In questo capitolo leggeremo alcuni casi esemplari che affrontano problemi etici sollevati, in tutto o in parte, da scelte politiche, leggi o strutture sociali e culturali che incidono sulla vita sia degli operatori sociali, sia degli utenti. Per quanto un problema possa essere personale e legato a ogni singolo individuo, c’è sempre anche un contesto di politiche, leggi, relazioni di potere che rispecchia ampie divisioni e differenze sociali, al cui interno i professionisti hanno il permesso e/o il dovere di intervenire. Questi contesti sempre in movimento richiedono o facilitano alcuni tipi di intervento e ne precludono o scoraggiano altri. Quello che può apparire come un problema personale che richiede un intervento professionale sarà perciò sempre il risultato di molti fattori sociali, culturali ed economici, e sarà direttamente o indirettamente influenzato dalle decisioni del sistema politico o dalle scelte gestionali di enti pubblici e organizzazioni. Sorgono quindi diverse questioni: – Il contesto più ampio, entro cui è collocato un certo caso specifico, modifica le questioni etiche? – Il comportamento etico degli operatori sociali come può e come deve tenere conto delle decisioni della politica, dei fattori strutturali e culturali e delle varie politiche pubbliche che incidono direttamente su un caso? – Fino a che punto l’etica delle professioni sociali dovrebbe concentrarsi sull’orizzonte più stretto delle relazioni interpersonali, mettendo così in secondo piano i sistemi sociali più ampi in cui sono inserite? Il contesto politico del lavoro sociale Per capire il contesto attuale in cui ha luogo il lavoro sociale, dobbiamo avere bene in mente le forze in rapida evoluzione all’interno delle società contemporanee. Molte di queste forze agiscono a livello nazionale e internazionale; le più significative sono il capitalismo globale trionfante e le sue conseguenze sull’erogazione dei servizi di welfare in tutto il mondo. Come fa notare Schutte (2007, p. 172): Alcune politiche che sembrano avere obiettivi soltanto nazionali sono in realtà transnazionali, come la privatizzazione crescente dell’istruzione, prima finanziata pubblicamente, dei servizi sanitari e dei servizi assistenziali [...] [e i conseguenti] effetti di sfruttamento del capitalismo globale sulla vita delle donne del Terzo Mondo.

La concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di pochi privilegiati fa sì che le conseguenze delle crisi finanziarie, cicliche o no, ricadano sulle spalle delle * Tratto da Banks S. e Nøhr K. (a cura di) (2012), Practising social work ethics around the world: Cases and commentaries, London, Routledge, trad. it. L’etica in pratica nel servizio sociale, Trento, Erickson, 2014, pp. 215-222.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 105

persone che meno sono in grado di reggerle, sia nei Paesi occidentali, sia nei Paesi non occidentali. Ai professionisti sociali si chiede sempre di più di intervenire sulla base di decisioni ben definite prese dai politici e dalle politiche pubbliche, orientate a sostenere il sistema politico ed economico, a fornire un contesto minimo d’aiuto e controllo a individui e gruppi ritenuti disfunzionali ed emarginati. Un fattore strettamente legato a questo è l’organizzazione gerarchica degli enti pubblici e privati: le organizzazioni in cui lavorano gli operatori sociali hanno ormai fatto proprio, in grande misura, il modello della gestione aziendale. Una conseguenza di questi sviluppi è che il quadro più generale è influenzato da condizioni rigidamente controllate, che mettono a rischio l’autonomia di giudizio dei professionisti e la loro abilità di stabilire un rapporto con gli utenti, richiedendo allo stesso tempo l’applicazione minuziosa di procedure di rendicontazione per garantire che l’organizzazione funzioni in modo efficace e redditizio (Green, 2009). In molti Paesi, il framing tradizionale dei valori del lavoro sociale e del lavoro di comunità include il riconoscimento che i problemi del singolo, della famiglia e della comunità non possono essere interpretati soltanto nei termini di comportamenti individuali o locali e semplicemente «imputati» ad essi. Il rapporto tra il singolo e l’ambiente che lo circonda è stato oggetto di continui dibattiti; inoltre la diffusione delle imprese transnazionali, da un lato, e dei movimenti ecologisti, con la connessa questione del riscaldamento globale, dall’altro, hanno dato un’ulteriore spinta alle teorie che collocano il lavoro nel contesto dei più vasti sistemi naturali e sociali. Il tema dell’incidenza dei sistemi sociali sugli individui e sulle comunità è stato affrontato da molti punti di vista, a partire da Marx, che dava risalto alle strutture economiche, e Durkheim, che insisteva sull’importanza della cultura come rappresentazione collettiva, fino agli imperativi sociali, informativi e biologici dei paradigmi «scientifici». D’altra parte, le teorie post-strutturaliste contemporanee, che non concepiscono il linguaggio come un mezzo trasparente in grado di metterci direttamente in connessione con una «verità» o con la «realtà», tendono a mettere in discussione tutte queste spiegazioni sociali e politiche, privilegiando invece la fluidità e la frammentazione dei significati. Tuttavia, pur in tale frammentazione, è difficile ignorare l’importanza di alcuni fattori molto ampi. Nel lavoro sociale occidentale, ma anche in altri ambiti, si fa spesso uso della teoria dei sistemi e delle teorie ecologiche (Payne, 1997, pp. 137-156); le interazioni sistemiche globali (come le crisi finanziarie e la recessione economica) e il loro impatto sulla vita dei singoli e delle comunità hanno un’importanza che difficilmente può essere sopravvalutata, e fanno sorgere contemporaneamente anche questioni di rispetto e giustizia sociale, e di responsabilità e connessione sociale (Gould, 2009). Il capitalismo globale richiede, tra l’altro, che i singoli e le organizzazioni siano responsabili delle proprie azioni di fronte alle esigenze di lavoro del mercato e rispetto alla legge: di conseguenza, i singoli devono essere pronti a spostarsi ovunque ci sia offerta di lavoro e devono essere preparati a pagare o ad accettare qualsiasi livello di servizi che il mercato sostiene. A livello di Stati nazionali, quando le attività industriali diminuiscono o quando le multinazionali ricollocano i loro investimenti per massimizzare i profitti, si spezzano in tal modo le relazioni familiari e di comunità. Un fattore trasversale è la variabilità socio-culturale che caratterizza i movimenti sociali associati a gruppi che


106 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

subiscono, spesso in misura sproporzionata, le conseguenze di questa situazione. Le sorti di donne, gruppi etnici e religiosi, persone con disabilità fisiche e mentali, gay e lesbiche, giovani e anziani interagiscono tutte tra loro e con i fattori economici legati alla povertà e alla classe sociale, in situazioni locali specifiche condizionate da forze nazionali e internazionali (Martinez, 2009). Inoltre, i disastri provocati da catastrofi naturali o da fattori umani e i profondi squilibri internazionali nella distribuzione della ricchezza favoriscono la migrazione delle persone nei Paesi in cui pensano di trovare migliori condizioni di sicurezza e migliori opportunità di lavoro, benché i più fragili siano lasciati indietro. Molti Paesi devono affrontare problemi sociali interni strettamente correlati con le esigenze che derivano da povertà globale, bassi livelli di sicurezza, migrazione, oltre che dalle attività delle multinazionali, con conseguenze politiche e legali anche per le professioni sociali. I Paesi occidentali devono far fronte a livelli di welfare più bassi per i gruppi bisognosi; i Paesi più poveri si trovano a dover affrontare l’altro polo di questa disuguaglianza strutturale: da un lato, le privazioni e spesso l’estrema povertà che derivano dall’abilità delle multinazionali nello sfruttare una forza lavoro a basso costo e scarsamente organizzata, tra cui donne e bambini, tanto che si è parlato di «ri-colonizzazione» (Schutte, 2007, p. 165); dall’altro, la perdita di lavoratori qualificati che migrano verso le economie più sviluppate. Conseguenze per l’etica professionale Le posizioni etiche riguardo al ruolo dei professionisti sociali come mediatori tra il singolo e la società nel suo complesso sono molto varie. Si può ad esempio sostenere che a guidare le politiche e le pratiche a livello istituzionale e personale dovrebbe essere l’interesse utilitaristico per il massimo vantaggio, che è alla base dell’interesse dei governi per i «buoni risultati» (Banks, 2004, p. 176). In molti Paesi, le tendenze manageriali sono andate proprio in questa direzione, sostenute dalle potenti spinte alla liberalizzazione delle economie occidentali e giustificate da argomenti morali e politici basati sui diritti del singolo imprenditore e sulla minimizzazione dello Stato (Nozick, 1974). L’utilitarismo classico si fa percepire nell’esigenza di ottenere al meglio gli esiti e gli obiettivi definiti dalle ricerche empiriche, tramite sistemi di controllo e con la compiacenza etica da parte dei professionisti. Tuttavia, non è nuova l’obiezione che i valori non possono essere ridotti all’efficienza tecnica dei mercati o semplicemente alle sole norme morali, soprattutto a quelle che riflettono particolari valori culturali ed economici delle società occidentali. Il Caso 6.3 (dalla Finlandia) fa vedere le conseguenze del liberalismo economico mondiale sull’assistenza a un’anziana. Come può fare chi offre assistenza — professionale o come volontario — a gestire in modo etico il suo lavoro, di fronte a politiche pensate per massimizzare i risultati organizzativi e finanziari, a spese della dignità e del benessere del singolo, e soprattutto a spese di un anziano che ha lavorato per tutta la vita e pagato le tasse pensando che questo gli avrebbe garantito l’assistenza nella vecchiaia? Gli operatori di comunità e gli operatori sociali che affermano i valori dei diritti umani e delle uguali opportunità si trovano spesso in conflitto con le più strette richieste


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 107

utilitaristiche dell’economia; questi loro valori liberali devono molto agli argomenti sulla giustizia avanzati da John Rawls negli anni Settanta (1973) e all’esigenza etica di un dialogo razionale tra uomini proposto da Jürgen Habermas (1984), entrambi attenti, sulla base dell’etica kantiana, alla libertà e alla giustizia sociale per i singoli, ma prendendo in considerazione anche il contesto sociale, economico e politico. Rawls e Habermas cercano di portare argomenti a favore di decisioni sociali ed economiche in grado di favorire sia lo sviluppo delle società nel loro complesso, sia gli individui all’interno di esse. Tuttavia, anche loro sono stati criticati da chi ritiene che rappresentino idee occidentali e maschili, che non tengono conto della posizione globale delle donne lavoratrici sfruttate. L’etica e la filosofia politica di ispirazione femminista (Young, 1990; Held, 2007) spostano l’attenzione sulle interazioni globali e locali tra molte diverse categorie sociali, tra cui quelle basate su genere, classe, «razza», disabilità, sessualità, età, e discutono le conseguenze delle varie forme di oppressione sui valori femministi e democratici sociali, oltre che sul lavoro sociale (ad esempio, Tronto, 2010), sottolineando sia le differenze di potere, sia le differenze nell’assistenza. Le riflessioni di Young (1990), che partono esplicitamente dalle idee dei movimenti sociali del tardo ventesimo secolo, ribadiscono l’importanza di collocare le azioni dei professionisti all’interno del più ampio contesto sociale. Su un altro versante, la riscoperta, da parte di filosofi morali contemporanei e postmoderni, delle antiche teorie dei valori ha posto l’accento sul carattere dell’attore morale e sull’importanza di qualità come il coraggio di fronte a ostacoli sistemici e strutturali (Banks e Gallagher, 2009). Il Caso 6.4 pone ai professionisti domande difficili su come fare a realizzare la giustizia sociale e a garantire il benessere di una giovane donna della Palestina, una regione in cui le leggi e le politiche a tutela dei minori sono ancora in fase di sviluppo, in cui i valori della comunità incidono pesantemente su ciò che si può e che si deve fare, e in cui c’è una situazione politica complessiva di conflitti irrisolti. Fino a che punto i professionisti possono e devono agire con integrità e coraggio, in relazione ai loro valori che dicono di proteggere una giovane donna in condizione di fragilità? E quali compromessi possono essere considerati giustificabili alla luce sia dei valori della comunità, sia dei vincoli politici? Le conseguenze pratiche di una conoscenza del più ampio contesto in cui agiscono i professionisti del sociale non sono necessariamente le stesse se si assumono prospettive diverse sulla giustizia sociale, le differenze sociali, l’idea di assistenza. Tenere conto del contesto L’ampliamento dei contesti al cui interno i professionisti del sociale devono prendere decisioni difficili riconfigura l’interpretazione che si può far valere per ogni proposta di intervento, a diversi livelli. In quanto membro di una particolare società, il professionista è più o meno legato ai valori e alle leggi di quella società, in base a quanto si identifichi con i valori morali che stanno alla base delle decisioni politiche e sociali e in base a quanto li condivida. Se si dà la priorità ai valori locali rispetto ai principi delle altre società, allora possono nascere difficoltà nel giustificare eticamente gli aiuti rivolti


108 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

alla comunità umana nel suo complesso più che ai membri effettivi di un particolare Paese, e nel capire come i singoli e le società devono assumersi le proprie responsabilità nei confronti degli altri, tra cui i poveri del mondo (vedi Pogge, 2006). Nelle società occidentali normalmente si presume che se una legge è stata emanata secondo tutte le procedure, da un partito al governo con un mandato conferitogli dagli elettori in libere elezioni, la società può legittimamente aspettarsi che quella legge e quei valori locali che esprime debbano essere rispettati e che, nel caso contrario, i singoli dovranno affrontare le conseguenze legali. I professionisti non possono permettersi, né eticamente né professionalmente, di ignorare queste considerazioni, nemmeno in quei Paesi in cui è difficile trovare valori condivisi, legittimità o rettitudine dei governi, attenzione per l’umanità nel suo complesso. Fino a che punto i professionisti devono allineare le loro azioni a quei poteri centrali e locali che possono sostenere valori diversi dai loro, e i cui rappresentanti possono avanzare, «legittimamente» o «illegittimamente», richieste discutibili? Questo dilemma etico appare in tutta la sua chiarezza nel Caso 6.2, in cui professionisti pakistani devono valutare fino a che punto possono eticamente compromettere la loro posizione prima di decidere di ritirarsi da un caso, sapendo che gli utenti possono soffrire le conseguenze della loro decisione. Inoltre, i professionisti devono considerare che leggi e politiche emanate secondo le procedure legittime possono essere eticamente inaccettabili, ad esempio perché esprimono il razzismo e la xenofobia che si manifestano in quei Paesi in cui gli immigrati sono trattati, ben che vada, come forza lavoro di seconda categoria. Tuttavia, le società non sono monolitiche e il fatto stesso che ci siano diversi valori religiosi, sociali e morali può dare il via a una riflessione critica sul valore morale delle politiche e delle leggi. Inoltre, in un’epoca di comunicazioni globali, le società sono sempre più intrecciate fra loro: i professionisti, perciò, devono valutare il giudizio etico che delle loro azioni possono dare molti diversi destinatari, che possono affermare di avere un interesse in un intervento proposto, sia all’interno delle loro società, al livello locale delle organizzazioni e della comunità, sia al livello più ampio delle interconnessioni nazionali e internazionali: dimensioni che entrambe possono incidere sempre più da vicino sul processo decisionale locale. L’interesse degli utenti, di chi presta assistenza e delle organizzazioni per le azioni proposte è un insieme essenziale di diritti che deve essere contestualizzato nel loro sfondo. La sfida dei professionisti del sociale Nei casi descritti in questo capitolo troviamo professionisti che cercano di riflettere sulle questioni etiche che incontrano nel loro lavoro e di intraprendere azioni che sembrano rispondere ad alcune delle loro preoccupazioni etiche. Un tratto comune in tutti questi casi è il modo in cui i protagonisti interpretano il contesto in cui si trovano: vale a dire, da un punto di vista molto ampio, che comprende la loro specifica collocazione sociale, ma che non rinuncia a un esame approfondito del quadro più generale. Gli operatori si rendono conto che le loro riflessioni etiche e le azioni che intraprendono di conseguenza assumono inevitabilmente una dimensione politica, in quanto sono


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 109

spinti a scegliere una linea d’azione che altri potrebbero contestare. Questa linea d’azione potrebbe implicare un’opposizione deliberata o una sovversione delle politiche del loro ente e/o delle politiche e delle leggi statali, come nel Caso 6.1, sul lavoro con i rifugiati in Australia. In questo caso, l’operatrice sociale aveva ben chiaro che una linea politica legalmente approvata dal governo era eticamente inaccettabile e doveva essere contrastata. Come possono i professionisti opporsi eticamente a politiche e norme di legge mentre lavorano per un ente incaricato di metterle in pratica? Fino a che punto i professionisti possono mettere a rischio il loro lavoro e preoccuparsi in prima persona di valori e politiche, invece di concentrarsi sui bisogni immediati degli utenti? A volte si può o si deve fare poco nell’immediato, quando si tratta di incidere su un contesto rigidamente strutturato da enti gerarchici e da governi dittatoriali (sia in Occidente, sia altrove). Tuttavia, sono situazioni su cui si deve riflettere a fondo, cercando di conoscere bene quali sono queste strutture, e cercando di pensare a un piano e a una strategia per il futuro, da applicare se i bisogni delle persone fragili non sono soddisfatti. Quello che un professionista considera come un trattamento ingiusto o oppressivo, sia di un gruppo sia di un singolo individuo, è una questione che molti movimenti del ventesimo secolo hanno cominciato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica, cercando di valorizzare i bisogni di diversi gruppi sociali. La diversità di culture, politiche e religioni rende difficile trovare valori condivisi all’interno della società e fra più società: i professionisti hanno un compito impossibile, ma che non possono rifiutarsi di svolgere. Pensare in modo etico al «quadro più generale» vuol dire pensare in modo etico e politico a noi stessi e al mondo in cui viviamo. I casi di questo capitolo sono la prova che, per quanto difficile sia, questo compito può, deve ed è degno di essere svolto. Bibliografia Banks S. (2004), Ethics Accountability and the Social Professions, Basingstoke, Palgrave Macmillan. Banks S. e Gallagher A. (2009), Ethics in Professional Life: Virtues for Health and Social Care, Basingstoke, Palgrave Macmillan. Gould C.C. (2009), Varieties of global responsibility: social connection, human rights and transnational solidarity. In A. Ferguson e N. Mechthild (a cura di), Dancing with Iris: The Philosophy of Iris Marion Young, Oxford, Oxford University Press. Green J. (2009), The deformation of professional formation: managerial targets and the undermining of professional judgement, «Ethics and Social Welfare», vol. 3, n. 2, pp. 115-130. Habermas J. (1984), Theory of Communicative Action, Volume 1: Reason and the Rationalisation of Society, translated by T. McCarthy, London, Heinemann. Held V. (2007), The Ethics of Care: Personal, Political and Global, Oxford, Oxford University Press. Martinez M. (2009), On immigration politics in the context of European societies and the structural inequality model. In A. Ferguson e N. Mechthild (a cura di), Dancing with Iris: The Philosophy of Iris Marion Young, Oxford, Oxford University Press. Nozick R. (1974), Anarchy, State and Utopia, Oxford, Blackwell. Payne M. (1997), Modern Social Work Theory, 2nd edition, Basingstoke, Macmillan. Pogge T. (2006), Migration and poverty. In R.E. Goodin e P. Petit (a cura di), Contemporary Political Philosophy, Oxford, Blackwell.


110 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Rawls J. (1973), A Theory of Justice, Oxford, Oxford University Press. Schutte O. (2007), Postcolonial feminisms: genealogies and recent directions. In L. Alcoff e E. Kittay (a cura di), The Blackwell Guide to Feminist Philosophy, Oxford, Blackwell. Tronto J. (2010), Creating caring institutions: politics, plurality, and purpose, «Ethics and Social Welfare», vol. 4, n. 2, pp. 158-171. Young I.M. (1990), Justice and the Politics of Difference, Princeton, NJ, Princeton University Press.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 111

SCHEDA 2.1 – Il segreto professionale L’obbligo di rispettare il segreto professionale è sancito dall’art. 622 del Codice penale. Questo obbligo si riferisce a: qualsiasi notizia non aperta alla conoscibilità di chiunque (segreto) di cui una persona venga a conoscenza per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione od arte.

Quindi l’obbligo di non rivelare il segreto sussiste non solo per chi esercita una professione, ma anche per altre figure che si trovano in un rapporto fiduciario con gli utenti, ad esempio i volontari. Inoltre l’obbligo di non rivelare il segreto sussiste solo se si viene a conoscenza di tale segreto per il fatto che si esercita una certa professione o per il fatto che si svolge del volontariato. La violazione del segreto professionale è un reato solo se dalla rivelazione deriva o potrebbe ipoteticamente derivare un danno (nocumento) di qualsiasi genere alla/e persona/e con cui si è in un rapporto fiduciario. Contro questo reato si procede solo se la persona offesa sporge querela (entro sei mesi dal momento in cui si viene a conoscenza della rivelazione). La violazione del segreto professionale non costituisce reato se il segreto è rivelato per giusta causa. Per valutare se c’è giusta causa il professionista deve considerare due criteri: 1. Bilanciamento degli interessi: il bene che si ottiene rivelando la notizia deve essere maggiore del bene che si ottiene tacendola. È come se avessi una bilancia e mettessi sui due piatti le domande «Quale bene ottengo rivelando?», «Quale bene ottengo tacendo?». Se il peso maggiore è sul primo piatto, posso rivelare la notizia. 2. Adeguatezza del mezzo rispetto allo scopo: la rivelazione del segreto deve essere correlata e necessaria al raggiungimento del bene considerato («Per ottenere questo bene, è necessario rivelare il segreto?»). Il ragionamento dei due criteri va applicato indipendentemente dalla persona cui si intende dare la notizia: non si deve pensare che, se si tratta di un professionista a sua volta tenuto al segreto, siamo automaticamente liberi di parlare, così come non siamo automaticamente liberi di parlare se si tratta di un parente o perfino di un genitore. L’obbligo di rispettare il segreto entra in conflitto con alcune norme, come di seguito. L’obbligo di denuncia L’art. 331 del Codice di procedura penale obbliga i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio a denunciare entro 48 ore i reati perseguibili d’ufficio di cui vengano a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni. Quindi, se il segreto costituisce una notizia di reato, un assistente sociale che lavora in una struttura pubblica o in rapporto di convenzione con l’ente pubblico (e che è quindi incaricato di pubblico servizio) deve violare il segreto e sporgere denuncia. Fanno eccezione coloro che lavorano nei SerT o in strutture convenzionate con le ASL per il trattamento dei tossicodipendenti (art. 362, comma 2, del Codice penale). L’obbligo di denuncia si assolve anche solo con il riferire la notizia al proprio superiore, a sua volta tenuto alla denuncia. L’obbligo di testimonianza L’obbligo di testimonianza in giudizio è previsto per tutti i cittadini.


112 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Se rispetto al segreto si viene interrogati in un processo, si deve rispondere. Fanno eccezione alcune categorie di persone indicate nell’art. 200 del Codice di procedura penale, tra le quali, a partire dal 2001 (legge 119/2001), sono presenti gli assistenti sociali. Queste categorie invece non comprendono gli educatori, salvo quelli che lavorano con i tossicodipendenti in strutture pubbliche o convenzionate (art. 120, comma 7, del DPR 309/90). Di seguito sono riportate le parti delle leggi che fanno riferimento al segreto professionale e agli obblighi di denuncia e testimonianza. > Art. 622 del Codice penale: rivelazione di segreto professionale Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da € 30 a € 516. Il delitto è punibile a querela della persona offesa. > Art. 331 del Codice di procedura penale: denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio 1. Salvo quanto stabilito dall’art. 347, i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia individuata a persona alla quale il reato è stato attribuito. 2. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria. 3. Quando più persone sono obbligate alla denuncia per il medesimo fatto, esse possono anche redigere e sottoscrivere un unico atto. 4. Se, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, emerge un fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile di ufficio, l’autorità che procede redige e trasmette senza ritardo la denuncia al pubblico ministero. > Art. 362 del Codice penale: omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio L’incaricato di un pubblico servizio che omette o ritarda di denunciare all’autorità indicata nell’articolo precedente (Autorità giudiziaria, o a un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne) un reato del quale abbia avuto notizia nell’esercizio o a causa del servizio, è punito con la multa fino a € 103. Tale disposizione non si applica se si tratta di un reato punibile a querela della persona offesa, né si applica ai responsabili delle comunità terapeutiche socio-riabilitative per fatti commessi da persone tossicodipendenti affidate per l’esecuzione del programma definito da un servizio pubblico. > Art. 364 del Codice di procedura penale: omessa denuncia di reato da parte del cittadino Il cittadino che, avendo avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato, per il quale la legge stabilisce l’ergastolo, non ne fa immediatamente denuncia all’Autorità indicata nell’art. 361, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da € 103 a € 1032. > Art. 200 del Codice di procedura penale: segreto professionale 1. Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno obbligo di riferirne all’Autorità giudiziaria:


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 113

a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano; b) gli avvocati, i procuratori legali, i consulenti tecnici e i notai; c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale. 2. Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga. 3. Le disposizioni previste dal comma 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell’Albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni. > Legge 119/2001, art. 1 1. Gli assistenti sociali iscritti all’Albo professionale istituito con legge 23 marzo 1993, n. 84, hanno l’obbligo del segreto professionale su quanto conosciuto per ragione della loro professione esercitata sia in regime di lavoro dipendente, pubblico o privato, sia in regime di lavoro autonomo libero-professionale. 2. Agli assistenti sociali di cui al comma 1 si applicano le disposizioni di cui agli articoli 249 del Codice di procedura civile e 200 del Codice di procedura penale [...]. > DPR 309/90 – art. 120 comma 7 I dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione della propria professione, né davanti all’Autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità. Agli stessi si applicano le disposizioni dell’articolo 200 del Codice di procedura penale e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’art. 103 del Codice di procedura penale in quanto applicabili. La presente norma si applica anche a coloro che operano presso gli enti, centri, associazioni o gruppi che hanno stipulato le convenzioni di cui all’art. 117.

Esercitazione 1. Stabilisci in quale dei seguenti casi si configura una violazione della riservatezza: a) Un collega del tuo stesso servizio ti chiama per chiederti se sai qualcosa di una persona che stai seguendo. Gli dai le informazioni richieste. b) Il padre di un ragazzo di 22 anni che è assistito dal servizio per cui lavori telefona per sapere come va il ragazzo. Tu glielo dici. c) Un operatore di una comunità terapeutica della zona chiama per chiedere informazioni su un ragazzo da te seguito il mese precedente. Tu fornisci le informazioni richieste. d) Andando in ufficio, incontri sull’ascensore un tuo collega che ti chiede: «A proposito, come sta Maria Rossi? Ho sentito che sta facendo progressi enormi». Anche il tuo collega partecipa al progetto per Maria. e) Lasci un documento riservato sulla tua scrivania mentre ti rechi a pranzo. f) Mentre ti trovi nell’ufficio di un collega ricevi una telefonata in cui parli dei problemi di un utente.


114 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

2. Immagina di essere l’assistente sociale che ha in carico il caso di Tullio, un 55enne con problemi di abuso alcolico e difficoltà nel gestire la casa e nel mantenere un’attività lavorativa stabile. Indica come ti comporteresti nelle seguenti situazioni e per quale motivo: a) Devi organizzare il servizio di assistenza domiciliare per Tullio. Riferisci alla assistente domiciliare che Tullio ha problemi con l’alcol? b) La sorella di Tullio ti telefona per avere informazioni sulla situazione economica del fratello. Tullio le avrebbe detto di non essere in grado di contribuire a pagare le spese per la casa di riposo della madre, ma lei non ci crede. Le dai le informazioni richieste? c) Il volontario che accompagna Tullio al club per gli alcolisti ti riferisce che forse un suo conoscente, che è una persona sensibile, potrebbe chiedere a Tullio di lavorare qualche ora per lui. Il volontario ti chiede se può spiegare a questo conoscente la situazione di Tullio per convincerlo ad assumerlo. Cosa gli rispondi? d) Un’amica della mamma di Tullio viene da te in ufficio per sapere come va con «quel povero ragazzo». Cosa le dici? e) Poco prima della riunione settimanale del servizio domiciliare, l’assistente domiciliare che segue Tullio ti chiede se può discutere con le colleghe di alcuni comportamenti di Tullio che la mettono in imbarazzo: qualche volta allunga le mani e le indirizza spesso battute poco piacevoli. Cosa le rispondi? 3. Immagina di essere l’assistente sociale che ha in carico la situazione di Mario, un anziano vedovo, e di suo figlio Roberto, un giovane disabile con sindrome di Down. Indica come ti comporteresti nelle seguenti situazioni e per quale motivo: a) Devi organizzare il servizio di assistenza domiciliare per il signor Mario. Riferisci alle assistenti domiciliari che Roberto talvolta scappa da casa e passa il pomeriggio al bar del paese? b) Il volontario che esce con Roberto tutti i venerdì sera vorrebbe capire meglio se il suo intervento è veramente necessario: ti chiede di spiegargli qual è la situazione familiare di Roberto e come mai la signora Paola, cognata di Roberto, è così poco disponibile nei confronti del ragazzo. Cosa gli rispondi? c) Una vicina di casa del signor Mario, che era molto amica di sua moglie, ti telefona per chiederti informazioni rispetto alla situazione economica del nucleo: infatti spesso Roberto le chiede dei soldi. Sono piccole cifre, e a lei dispiace rispondere di no, tuttavia si domanda se il signor Mario e Roberto sono così in difficoltà da averne davvero bisogno. Cosa gli rispondi? d) Il signor Mario è da alcuni mesi inserito in casa di riposo. L’assistente sociale che vi lavora ti riferisce che l’anziano è spesso molto agitato e in ansia: sostiene che, quando Roberto lo viene a trovare, si lamenta di essere trattato male dal fratello e dalla cognata, dice che lo lasciano sempre solo e che quando non ubbidisce lo picchiano. Come ti comporti di fronte a questa notizia? e) Ti rechi al Centro diurno per disabili per verificare come sta andando l’inserimento di Roberto, che ha iniziato a frequentarlo da una settimana. Gli educatori ti chiedono informazioni sui motivi per cui lui e suo padre sono venuti ad abitare in città, e sulla situazione familiare del fratello di Roberto. Cosa rispondi? Possibili risposte commentate Esercizio 1 a) Dipende dal rapporto tra l’operatore e la persona: se non hanno alcun tipo di rapporto, non devo dare le informazioni richieste. In caso contrario devo chiedere al collega per


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 115

quali motivi vuole quelle determinate informazioni e fare un bilanciamento degli interessi: fornendo queste informazioni, l’utente trarrà un beneficio? b) Il ragazzo è maggiorenne, quindi violo la riservatezza se fornisco al padre le informazioni richieste, tranne nel caso in cui il ragazzo mi abbia autorizzato esplicitamente. Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, è preferibile chiedere al signore di incontrarsi di persona per parlare della situazione del figlio: quando parliamo con una persona al telefono, non siamo del tutto sicuri della sua identità. c) Come nel primo caso, il verificarsi o meno di una violazione della riservatezza dipende dal rapporto tra l’operatore e l’utente e dall’esito del bilanciamento degli interessi. d) Bisogna sempre fare attenzione a parlare degli utenti in luoghi pubblici: potrebbe accadere che altre persone ascoltino i nostri discorsi e recepiscano quindi informazioni riservate. Se nell’ascensore io e il mio collega siamo soli, non c’è violazione della riservatezza. e) Dipende dalla possibilità che altre persone accedano all’ufficio: se è chiuso a chiave non ci sono problemi, altrimenti c’è violazione del segreto professionale, dal momento che altre persone possono entrare e leggere i documenti. f) Come nella situazione «d», devo fare attenzione a rivelare informazioni riservate in presenza, anche accidentale, di altre persone, soprattutto se il fatto che sappiano determinate cose non comporta un beneficio per l’utente. Esercizio 2 a) Posso riferirglielo, ma dopo aver valutato quale funzione avrà l’assistente domiciliare e in quali tempi avrà accesso alla casa di Tullio. Faccio un bilanciamento degli interessi: se ad esempio so che Tullio, quando beve, diventa aggressivo, avvertirò l’assistente domiciliare, in modo che siano entrambi tutelati. Posso inoltre contattare Tullio prima di parlare con l’assistente domiciliare, in modo da concordare con lui le informazioni da trasmetterle. b) No. Posso suggerirle di parlare direttamente con Tullio, a meno che io non sia a conoscenza dei cattivi rapporti tra i due. c) Gli rispondo che devo parlarne con Tullio: se si dimostra interessato a questa opportunità, posso dire al volontario che parli della situazione di Tullio in termini generali, cioè riferendo che è una persona che si trova momentaneamente in difficoltà e che lo aiuterebbe molto dandogli la possibilità di lavorare. Inoltre il volontario potrebbe chiedere a Tullio se desidera o meno che parli con il conoscente dei suoi problemi con l’alcol o se preferisce farlo direttamente lui in un secondo momento. d) Posso riferire che Tullio sta meglio e suggerirle di andarlo a trovare per scambiare due chiacchiere. e) Le rispondo che è opportuno che ne parli: è nell’interesse dell’utente che la situazione si risolva. Esercizio 3 a) Dipende dalle caratteristiche del servizio delle assistenti domiciliari: se si recano a casa di Mario e Roberto una volta o due la settimana, magari in orari in cui è improbabile che loro siano a casa, non occorre riferire questi episodi. Se invece frequenteranno la casa in momenti diversi o più frequentemente, potrebbe essere utile, nell’interesse degli utenti, che abbiano queste informazioni e possano quindi effettuare un blando monitoraggio della situazione. b) Gli rispondo che il suo intervento è importantissimo: per Roberto è molto difficile trovare nella propria famiglia occasioni per distrarsi e persone che escano con lui per scambiare


116 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

quattro chiacchiere. Per quanto riguarda le informazioni specifiche sulla famiglia, gli suggerisco di parlarne direttamente con Roberto. c) Le dico di parlarne direttamente con Mario, a meno che io non sia a conoscenza di elementi che suggeriscano possibili reazioni violente di Mario nei confronti di Roberto se venisse a sapere di questi episodi. Tranquillizzo inoltre la signora sul fatto che, se Mario e Roberto avessero forti necessità dal punto di vista economico, potrebbero rivolgersi all’assistente sociale per un aiuto. d) Per prima cosa, parlando con Mario e Roberto, mi accerto della gravità della situazione: Roberto viene lasciato a casa da solo per qualche ora al giorno o sistematicamente? Cosa significa che viene picchiato? Cerco di capire il livello di lucidità di Mario, che potrebbe ingigantire la situazione essendo preoccupato per il figlio. Se le notizie sono attendibili ho l’obbligo di denuncia. e) Per prima cosa chiedo loro per quali motivi è necessario che abbiano queste informazioni, poi faccio un bilanciamento degli interessi per valutare se il fatto che loro sappiano determinate cose può aiutare Mario e Roberto. Posso inoltre proporre una riunione tutti insieme, offrendomi di contattare Mario e Roberto, in modo che in prima persona possano raccontare quello che desiderano della propria situazione.


Diversi modelli: 1. Principi classici relativi alla dignità della persona (Biestek, 1961). 2. Responsabilità assistente sociale verso la comunità (social work antioppressivo/femminista). 3. Utente come consumatore di prestazioni (welfare liberale).

Utenti/clienti 1. Garantire che il disagio dell’utente non si trasformi in vantaggio del professionista. 2. Tutelare le persone.

Necessario a causa della potenziale disuguaglianza di potere tra il professionista e il cliente.

Hanno lo scopo di tutelare…

Ordine professionale e Codice deontologico

MAPPA RIASSUNTIVA

Il professionista ha anche una responsabilità nei confronti dell’ente dove esercita le sue funzioni, dovendo garantire il rispetto e l’attuazione dei diritti sociali.

Esame di Stato: serve per accedere all’Albo dell’Ordine e per valutare la preparazione.

Professione Garantisce che il professionista sia adeguatamente preparato e che rispetti i principi e le regole di condotta coerenti con le finalità d’aiuto.

Dilemma etico, richiede un bilanciamento tra le diverse responsabilità.

L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 117


118 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

DOMANDE DI RIPASSO Perché c’è l’Ordine professionale? c’è bisogno dell’Ordine professionale per tutelare l’utente?   1. Perché • Perché l’utente in genere non dispone delle conoscenze necessarie per giudicare da solo se l’assistente sociale che lo segue lavora adeguatamente o meno.

J affermazione adeguata K affermazione discutibile L affermazione scorretta • Perché, nella maggior parte dei casi, l’utente può farsi seguire solo da un determinato assistente sociale: non può sceglierne uno a sua discrezione, e quindi gli deve essere garantito che tutti lavorano adeguatamente.

J K L • Perché l’Ordine professionale può sanzionare l’assistente sociale, nel caso in cui non agisca correttamente.

J K L SOLUZIONE: La risposta più corretta è la prima. La seconda risposta non è sbagliata, ma parziale: la garanzia dell’Ordine professionale serve anche quando l’utente ha la possibilità di scegliere, ma non è però in grado di valutare la competenza tecnica del professionista (pensiamo ad esempio alla scelta del medico). Anche la terza risposta non è sbagliata, ma parziale. Infatti potremmo chiederci: perché serve proprio l’Ordine per sanzionare, e non basta l’Ente, o eventualmente l’Autorità giudiziaria? Perché la competenza del professionista può venire pienamente valutata solo da chi, appartenendo alla sua stessa professione, ha le conoscenze necessarie.

l’istituzione dell’Ordine professionale è stata una «conquista» per la   2. Perché professione dell’assistente sociale? • Perché l’Ordine è un soggetto autorevole che può intervenire per migliorare le condizioni contrattuali e retributive dei suoi iscritti.

J K L • Perché l’Ordine è un soggetto autorevole che può difendere la dignità e l’importanza della professione.

J K L • Perché la presenza dell’Ordine costituisce un riconoscimento che il servizio sociale professionale ha una propria autonomia operativa, e non dipende da un’altra professione sovraordinata.

J K L


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 119

SOLUZIONE: La risposta più adeguata è la terza. La prima risposta confonde le funzioni dell’Ordine con quelle di un sindacato. La seconda risposta riporta un’effettiva funzione dell’Ordine, che però può essere svolta anche da altre Associazioni professionali: non è indispensabile che ci sia l’Ordine, per fare questo.

3. Rispondi Perché per tutelare l’utente e per dare garanzie di professionalità all’ente che

impiega un assistente sociale è necessario l’Ordine professionale?

Completa L’Ordine professionale è necessario perché l’utente, da solo, non può valutare … Ciò avviene per quelle professioni che si basano su un proprio corpo di competenze «esclusive», cioè … L’Ordine professionale costituisce anche una garanzia per l’ente, in quanto … SOLUZIONE: L’Ordine professionale è necessario perché l’utente, da solo, non può valutare se il professionista a cui si rivolge è adeguatamente capace o meno, e se agisce davvero nell’interesse della persona. Ciò avviene per quelle professioni che si basano su un proprio corpo di competenze «esclusive», cioè che richiedono una formazione specifica e di cui solo il professionista è fornito. Quindi, l’azione di un professionista può essere valutata come adeguata o meno solo dagli appartenenti alla sua professione che, in forma organizzata, costituiscono appunto l’Ordine professionale. L’Ordine professionale è anche una garanzia per l’ente, in quanto gli assicura che il professionista di cui si avvale è dotato delle capacità necessarie.

Il Codice deontologico deontologico dell’assistente sociale, in Italia, è…   4. Il• Codice una legge dello Stato, in quanto è contenuto nella L. 84/93.

J K L • un documento approvato dal Ministero della Giustizia.

J K L • un documento approvato dal Consiglio nazionale degli assistenti sociali.

J K L SOLUZIONE: La risposta corretta è la terza. Il fatto che il Codice sia approvato dal Consiglio dell’Ordine, e non da un’autorità esterna alla professione, è una conseguenza dell’autonomia riconosciuta alla professione stessa.


120 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Codice deontologico non prevede responsabilità o obblighi nei confronti della   5. Ilprogrammazione dei servizi socio-assistenziali e dell’organizzazione del lavoro, dato che si tratta di competenze in capo agli enti.

J K L SOLUZIONE: Falso. Vedi in particolare l’art. 45/Titolo VI. Più in generale, il Codice prevede la responsabilità del professionista non solo rispetto alle funzioni di sua stretta competenza, ma anche rispetto alla promozione della giustizia sociale e di politiche sociali efficaci.

un assistente sociale non rispetta il Codice deontologico…   6. Se • può venire denunciato all’Autorità giudiziaria.

J K L • può venire denunciato al Consiglio regionale dell’Ordine, che potrà eventualmente disporre una sanzione disciplinare nei suoi confronti.

J K L • può venire denunciato all’ente per cui lavora, che potrà eventualmente disporre una sanzione disciplinare nei suoi confronti.

J K L SOLUZIONE: L’affermazione corretta è la seconda. La violazione del Codice deontologico può comportare anche una denuncia all’Autorità giudiziaria se l’azione costituisce, nello stesso tempo, un illecito. In maniera analoga, la violazione del Codice può comportare anche una sanzione inflitta all’assistente sociale in quando dipendente da un ente se con quella azione ha violato anche un suo dovere di lavoratore subordinato.

Codice deontologico prevede l’obbligo di trasferire i casi, nell’eventualità di   7. Ilsostituzioni o supplenze, in modo da favorire la continuità del processo di aiuto.

J K L SOLUZIONE: Vero. Vedi art. 19/Titolo I.

il Codice deontologico, che obblighi ha un assistente sociale quando   8. Secondo è presente un tirocinante? • Dovrebbe tutelare l’utente da suoi eventuali errori.

J K L


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 121

• Dovrebbe avere il consenso dell’utente alla sua presenza.

J K L • Dovrebbe aver cura di presentarlo ai colleghi, oltre che agli utenti.

J K L SOLUZIONE: La risposta corretta è la seconda (art. 16/Titolo I).

Codice deontologico non prevede il caso che l’assistente sociale commetta   9. Ilerrori o omissioni, perché questo dovrebbe essere evitato lavorando «secondo scienza e coscienza».

J K L SOLUZIONE: L’art. 15/Titolo I prevede che, in caso di errori o omissioni che possano danneggiare l’utente o la sua famiglia, l’assistente sociale informi gli interessati e faccia il possibile per rimediare.

il Codice deontologico, la responsabilità dell’assistente sociale verso 10. Secondo la società comporta … • contribuire allo sviluppo della consapevolezza negli utenti dei propri diritti e doveri e favorire percorsi di crescita anche collettivi che aiutino singoli e gruppi, soprattutto in situazioni di svantaggio.

J K L • svolgere una funzione di controllo sociale, in modo da contribuire ad assicurare maggiore sicurezza e coesione sociale, ridurre la devianza e contenere fenomeni di protesta e frattura sociale.

J K L • contribuire alle politiche sociali, sottoponendo all’attenzione delle istituzioni le situazioni di deprivazione, di disagio, di iniquità non sufficientemente tutelate.

J K L SOLUZIONE: La prima e la terza affermazione sono corrette: il testo è ripreso quasi letteralmente dagli artt. 33 e 37 del Codice deontologico. La seconda affermazione fa riferimento a una funzione «latente» (cioè di solito non dichiarata esplicitamente) del servizio sociale professionale, funzione che dopo il Sessantotto è stata oggetto di dure contestazioni all’interno della professione.


122 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

il Codice deontologico, la responsabilità verso la propria professione 11. Secondo comporta… • curare la propria formazione continua, per garantire prestazioni qualificate.

J K L • adoperarsi per promuovere l’immagine della comunità professionale.

J K L • l’obbligo di segnalare per iscritto al Consiglio qualsiasi esercizio abusivo della professione e qualsiasi violazione del Codice deontologico di cui si venga a conoscenza.

J K L SOLUZIONE: Le prime due affermazioni sono corrette: sono contenute negli artt. 54 e 56 del Codice. La terza è corretta solo nella prima parte (obbligo di denuncia scritta di esercizio abusivo, vedi art. 55). Rispetto alla seconda parte, il testo del Codice non è così preciso e vincolante (art. 65: «Ogni iscritto è tenuto a riferire al Consiglio fatti di sua conoscenza che richiedano iniziative o interventi dell’Ordine»).

Rispondi 12. Cos’è il Codice deontologico dell’assistente sociale? Delinea i contenuti principali in cui si articola il Codice italiano.

Completa

Il Codice deontologico è l’insieme …

Il Codice deontologico degli assistenti sociali italiani è stato emanato da …

Sono tenuti al rispetto del Codice …

I principi contenuti nel Titolo II del Codice sono …

Le responsabilità dell’assistente sociale nei confronti dell’utenza (Titolo III) sono basate su …

Le responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della società (Titolo VI) si riferiscono al dovere di …

Le responsabilità dell’assistente sociale nei confronti dei colleghi, di altri professionisti e dell’organizzazione (Titolo V e VI) sono incentrate su …

Infine, le responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della professione (Titolo VI) sono finalizzate … SOLUZIONE: Il Codice deontologico è l’insieme dei principi e delle regole che gli assistenti sociali devono osservare nell’esercizio della loro professione.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 123

Il Codice deontologico degli assistenti sociali italiani è stato emanato dal Consiglio nazionale degli assistenti sociali. Il Codice attuale è in vigore dal settembre 2009. Sono tenuti al rispetto del Codice sia gli assistenti sociali (sez. B dell’Albo) sia gli assistenti sociali specialisti (sez. A dell’Albo), sia italiani sia stranieri che esercitino in Italia. I principi fondamentali, contenuti nel Titolo II del Codice, sono: – il principio-base del rispetto della persona, a cui sono collegati: il rispetto dell’autodeterminazione; la promozione dell’autonomia e dell’assunzione di responsabilità delle persone, delle famiglie, dei gruppi e delle comunità; il rispetto dell’unicità della persona nel suo contesto di vita; la non discriminazione; il non giudizio; – l’autonomia professionale dell’assistente sociale. Le responsabilità dell’assistente sociale nei confronti dell’utenza (Titolo III) sono basate anch’esse sul rispetto della persona come soggetto che si autodetermina, con particolare riguardo ai doveri di riservatezza. Le responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della società (Titolo VI) si riferiscono al dovere di contrastare l’emarginazione e porre all’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica le situazioni di deprivazione e di disagio che non trovano risposta. Le responsabilità dell’assistente sociale nei confronti dei colleghi, di altri professionisti e dell’organizzazione (Titolo V e VI) sono incentrate sull’idea che non si debbano accettare condizioni di lavoro o rapporti interprofessionali che non consentano di svolgere la professione in maniera adeguata. Infine, le responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della professione (Titolo VI) sono finalizzate a fare in modo che la professione venga svolta al meglio, nell’interesse degli utenti e della professione di per se stessa.

Il rispetto della persona la persona significa… 13. Rispettare • non giudicare mai negativamente, sul piano morale, le sue scelte e le sue azioni.

J K L • essere sempre discreti e gentili, trattarla con riguardo.

J K L • considerarla come un essere capace di scelte e desideri suoi propri, con come un oggetto o uno strumento per i nostri fini.

J K L SOLUZIONE: L’affermazione più adeguata è la terza. La prima affermazione è molto discutibile perché, se fosse così, per rispettare la persona dovremmo rinunciare alla nostra morale. Possiamo rispettare le scelte di un altro anche se non le condividiamo e le giudichiamo negativamente. La seconda affermazione non è sbagliata, ma indica uno dei modi in cui possiamo superficialmente dimostrare rispetto, non in cosa consiste il rispetto in sé.


124 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

l’autodeterminazione della persona significa… 14. Rispettare • chiedere all’utente cosa preferisce fare, senza farsi influenzare da ciò che vorrebbero i suoi familiari (a meno che non si tratti di un minorenne).

J K L • aiutare la persona a decidere lei per prima come affrontare le sue difficoltà, per quanto possibile assieme ai suoi familiari o alle persone per lei significative.

J K L • prima di agire, spiegare all’utente il nostro piano di intervento e chiedergli il suo consenso.

J K L • dare alla persona e alla sua famiglia la possibilità di decidere a chi rivolgersi per ricevere i servizi necessari, scegliendo ad esempio la cooperativa X o Y, o l’associazione Z, o l’azienda di servizi W, ecc.

J K L SOLUZIONE: La prima e la terza risposta, pur essendo corrette, danno un’idea di rispetto dell’autodeterminazione piuttosto «formale». Nella prima, si dà quasi per scontato che l’utente non voglia tenere conto di quello che pensano le persone vicine a lui, mentre di solito non è così. Nella terza, l’utente sembra avere un ruolo piuttosto passivo: si chiede il suo consenso, ma non partecipa all’elaborazione della decisione. La quarta risposta si rifà a un’idea consumeristica dell’autodeterminazione, concepita come la possibilità di scelta attribuita all’utente/consumatore, che decide da chi preferisce «acquistare» i servizi. L’affermazione maggiormente rappresentativa del principio di autodeterminazione è la seconda.

l’autonomia della persona significa… 15. Promuovere • evitare interventi assistenzialistici, cioè interventi che sostituiscano le perso-

ne in ciò che sarebbero in grado di fare da sole, o con l’aiuto della loro rete familiare e amicale.

J K L • ove possibile, proporre interventi con cui la persona possa apprendere, o ri-apprendere, la capacità di affrontare i suoi problemi senza l’aiuto degli operatori.

J K L • lasciare che sia la persona ad attivarsi per migliorare la propria situazione.

J K L


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 125

SOLUZIONE: Le prime due affermazioni sono condivisibili: propongono due modi complementari con cui promuovere l’autonomia. La terza affermazione non ha senso: lasciare che la persona «si arrangi» vorrebbe dire non svolgere alcuna funzione di aiuto e corrisponderebbe quindi a negare la ragion d’essere del lavoro sociale.

rapporto tra assistente sociale e utente, la fiducia è un aspetto fondamentale, 16. Nel perché… • costruire un rapporto di fiducia tra operatore e utente è la finalità principale dell’intervento di aiuto.

J K L • solo una volta che l’utente ha fiducia in noi potremo convincerlo a seguire le nostre indicazioni.

J K L • solo se noi diamo fiducia nell’utente potremo lavorare assieme per definire il progetto di aiuto e realizzarlo.

J K L SOLUZIONE: La prima affermazione è sbagliata: nel Lavoro sociale (e in tutte le professioni di aiuto) il rapporto di fiducia non è un fine in se stesso, ma è un mezzo per migliorare la situazione di difficoltà. La seconda affermazione, per quanto abbastanza comune, concepisce la fiducia in senso manipolatorio, come uno strumento per convincere l’utente a fare ciò che vogliamo noi: anche se l’intento è per il suo bene, ciò non è rispettoso della persona. L’affermazione più condivisibile è la terza. Potremo aggiungere che, se noi per primi abbiamo fiducia nell’utente, è più facile che tale fiducia sia ricambiata.

Rispondi 17. In cosa consiste il principio del rispetto della persona e quali altri principi fondamentali possono essere ricondotti ad esso?

Completa Il rispetto della persona consiste nel … Da questo principio generale derivano i principi classici del servizio sociale, vale a dire … SOLUZIONE: Il rispetto della persona consiste nell’attribuirle un valore intrinseco, semplicemente perché è una persona, indipendentemente dal fatto che ci piaccia o meno, che ci sia utile o meno, che si sia comportata bene o male nei nostri confronti. Da questo principio generale possiamo far derivare i classici principi operativi del servizio sociale, basati su quelli definiti da Felix Biestek: l’accettazione non giudicante, il rispetto dell’unicità, il diritto all’autodeterminazione, la promozione dell’autonomia, la tutela della riservatezza.


126 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Riservatezza e segreto professionale della riservatezza e del rispetto del segreto professionale è… 18. Il• dovere un obbligo morale fondato sul principio del rispetto della persona.

J K L • un obbligo professionale previsto dal Codice deontologico e un obbligo di legge previsto dal Codice penale.

J K L • un obbligo previsto dalla metodologia professionale, finalizzato a guadagnarsi la fiducia dell’utente.

J K L SOLUZIONE: Le prime due affermazioni sono entrambe corrette. La terza è discutibile, sia perché la metodologia non prevede degli obblighi, ma suggerisce indicazioni operative, sia soprattutto perché la riservatezza è importante di per sé, in quanto corollario del rispetto della persona (rispettare la persona significa non andar contro ciò che desidera, compresa la non divulgazione di notizie private che la riguardano). Anche se non servisse a migliorare il rapporto con l’utente, dovremmo mantenerla lo stesso.

il segreto professionale diviene un dovere quando… 19. Violare • il segreto contiene notizia di un reato perseguibile d’ufficio.

J K L • è necessario per evitare un danno grave all’utente.

J K L • l’assistente sociale è chiamato a deporre in un processo.

J K L SOLUZIONE: La prima affermazione è corretta, a condizione che l’assistente sociale in questione lavori per un ente pubblico o convenzionato, e quindi sia un incaricato di pubblico servizio. Se però lavora in un servizio per le tossicodipendenze non è obbligato alla denuncia. Anche la seconda affermazione è corretta: per essere più precisi, possiamo aggiungere che, se il danno in questione è effettivamente grave, si tratta di un’ipotesi in cui c’è «giusta causa» per la rivelazione del segreto. La terza affermazione invece è scorretta, in quanto l’assistente sociale può chiedere di non deporre su notizie coperte dal segreto professionale.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 127

rapporti tra colleghi, o comunque tra professionisti… 20. Nei • non c’è obbligo al segreto professionale, perché comunque le notizie vengono rivelate a qualcuno che è a sua volta tenuto al segreto.

J K L • l’obbligo al segreto professionale resta immutato.

J K L • c’è l’obbligo al segreto d’ufficio, non al segreto professionale.

J K L SOLUZIONE: L’affermazione più corretta è la seconda: l’obbligo sussiste, con le eccezioni e le valutazioni ad esso collegate. La prima affermazione, presa in senso letterale, è scorretta. Tuttavia, quando si valuta la «giusta causa», il fatto di rivelare la notizia a un altro professionista a sua volta tenuto al segreto rende la rilevazione meno dannosa per l’utente. La terza affermazione è sbagliata, perché l’obbligo riguarda entrambi i tipi di segreto (il segreto d’ufficio è soprattutto a tutela dell’ente e del ruolo ricoperto dal professionista, non a tutela dell’utente).

Rispondi 21. Su quale motivazione si basa il dovere di tutelare la riservatezza degli utenti? Da quali norme è sancito? In quali ipotesi è consentito violarlo?

Completa La tutela della riservatezza dell’utente consiste nel … Questo dovere si basa su una motivazione etica, vale a dire … In quanto dovere etico, il rispetto della riservatezza è sancito da … Inoltre, è un obbligo previsto anche da una legge dello Stato, cioè … Il segreto professionale può essere violato quando sussiste un’ipotesi di «giusta causa», cioè … Inoltre, è obbligatorio violare il segreto se costituisce notizia di … Invece, se l’assistente sociale viene chiamato a deporre in un processo … SOLUZIONE: La tutela della riservatezza dell’utente consiste nel non rendere accessibile a qualcun altro notizie che riguardano l’utente stesso, delle quali siamo venuti a conoscenza nell’ambito della nostra attività professionale. Questo dovere si basa su una motivazione etica: esso infatti deriva dal principio del rispetto della persona, in cui è compreso l’obbligo di non andare contro i suoi desideri, compreso quello di non far sapere a chiunque informazioni su di sé. In quanto dovere etico, il rispetto della riservatezza è sancito dal Codice deontologico, agli articoli dal 23 al 32 (Titolo III/Capo III).


128 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Inoltre, è un obbligo previsto anche da una legge dello Stato, cioè dal Codice penale, in cui, all’art. 622, è previsto il reato di violazione del segreto professionale. La violazione del segreto professionale può quindi portare sia a una sanzione disciplinare da parte dell’Ordine professionale, sia a una condanna da parte del Tribunale ordinario. Il segreto professionale può essere violato (e in alcuni casi violarlo è proprio un dovere) quando sussiste un’ipotesi di «giusta causa», che va valutata volta per volta in base a due criteri: il bilanciamento degli interessi (il bene che ottengo rivelando il segreto deve essere maggiore del bene che ottengo tacendo) e l’adeguatezza del mezzo rispetto allo scopo (per ottenere il bene considerato, rivelare il segreto è proprio necessario). Inoltre, è obbligatorio violare il segreto se costituisce notizia di un reato perseguibile d’ufficio (art. 331 del Codice di procedura penale). Fanno eccezione gli operatori dei servizi che si occupano di tossicodipendenza (DPR 309/90, art. 120, c. 7). Il segreto professionale può invece essere invocato dall’assistente sociale per essere esentato dal deporre davanti al giudice durante un processo (L. 119/2001; art. 249 c.p.c. e art. 200 c.p.p.).

Dilemmi etici giovane donna senza dimora non accetta l’inserimento in una comunità, 22. Una nonostante le sue cattive condizioni di salute. L’assistente sociale si rende conto che questo comporta sicuramente dei rischi per la persona, e si chiede se e quanto sia il caso di insistere. In questo caso…

• si crea un dilemma etico, perché c’è un conflitto tra il diritto dell’utente all’autodeterminazione e l’interesse della società a evitare l’accattonaggio.

J K L • si crea un dilemma etico, perché c’è un conflitto tra il diritto dell’utente all’autodeterminazione e la tutela del benessere dell’utente.

J K L • non si crea un dilemma, perché evidentemente la donna non è in grado di valutare con obiettività il suo interesse e quindi è giusto che l’assistente sociale decida al posto suo.

J K L SOLUZIONE: L’affermazione più condivisibile, nel quadro dei valori del servizio sociale, è la seconda. Riguardo alla prima affermazione, secondo i valori del servizio sociale contemporaneo è assai dubbio che il contrasto all’accattonaggio giustifichi una limitazione della libertà personale. La terza affermazione è scorretta sul piano etico e, comunque, anche se la donna non fosse effettivamente in grado di intendere, l’assistente sociale non potrebbe decidere al posto suo. Se la situazione di rischio fosse molto grave, si dovrebbe richiedere un accertamento sanitario obbligatorio.


L’ETICA PROFESSIONALE: VALORI E PRINCIPI DELL’ASSISTENTE SOCIALE 129

dell’ordine chiedono a un assistente sociale del SerT di trasmettere 23. Leloroforze alcune informazioni riguardo ad attività di spaccio, che l’assistente sociale conosce grazie a ciò che gli raccontano alcuni utenti.

• Per l’assistente sociale non c’è alcun dilemma, dato che la legge esime gli operatori dei SerT dall’obbligo di denuncia, e quindi non è tenuto a fornire le informazioni richieste.

J K L • Per l’assistente sociale si può creare un dilemma etico, se c’è conflitto tra ciò che l’operatore riterrebbe giusto fare (cioè denunciare gli spacciatori) e il diritto degli utenti alla riservatezza.

J K L • Per l’assistente sociale si crea un dilemma etico, perché c’è conflitto tra il diritto degli utenti alla riservatezza e l’interesse collettivo a reprimere lo spaccio di stupefacenti.

J K L SOLUZIONE: Sia la seconda che la terza affermazione possono essere corrette. La prima è discutibile, perché la legge consente agli operatori di non denunciare, non dice che non devono mai farlo: di conseguenza, l’assistente sociale si troverà comunque a dover fare una scelta.

24. Rispondi Cosa si intende con l’espressione «dilemma etico»? Quali conflitti tra principi

generano più spesso dilemmi etici, nel servizio sociale professionale?

Completa I dilemmi etici si creano quando … Nel servizio sociale, i dilemmi etici in genere insorgono per: 1) conflitti tra … e …; 2) conflitti tra … e …; 3) conflitti tra … e … SOLUZIONE: I dilemmi etici si creano quando l’assistente sociale deve scegliere tra due (o più) alternative non compatibili l’una con l’altra. Ciascuna di esse rispetta solo alcuni principi deontologici e al contempo ne viola altri. Si crea così un conflitto tra principi, in cui non è chiaro a quale debba essere data la priorità. Nel servizio sociale, i dilemmi etici in genere insorgono: (1) per un conflitto tra diversi diritti individuali dell’utente; oppure (2) per un conflitto tra i diritti dell’utente e quelli di altre persone o della società; o, infine, (3) per un conflitto tra i giudizi morali dell’assistente sociale come singola persona e i suoi doveri in quanto funzionario di un ente o in quanto professionista.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.